APPUNTI DI ECONOMIA POLITICA

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1 APPUNTI DI ECONOMIA POLITICA Appunti delle lezioni di Fondamenti di Economia politica di Emiliano Brancaccio Facoltà di Scienze economiche e aziendali Università del Sannio QUARTA VERSIONE Marzo 203

2 2 Questi Appunti rappresentano sbobinamenti e stralci dalle lezioni di Fondamenti di Economia politica del prof. Emiliano Brancaccio, coadiuvato dal dott. Domenico Suppa. Gli Appunti potrebbero contenere alcuni refusi e imprecisioni. Tali Appunti integrano ma non sostituiscono i manuali di riferimento Scoprire la macroeconomia e Anti-Blanchard. Ai fini dell esame, è opportuno rispettare questa sequenza nell apprendimento: in primo luogo studiare i capitoli, 2 e 3 degli Appunti di Economia politica; quindi studiare il manuale Scoprire la macroeconomia, affiancato dal capitolo 4 di questi Appunti e dal manuale Anti-Blanchard.

3 3 INDICE. CENNI DI STORIA DELL ECONOMIA POLITICA. Un approccio critico alla economia politica.2 Gli economisti classici.3 Karl Marx.4 L approccio neoclassico-marginalista.5 La Grande Crisi e Keynes.6 La Sintesi neoclassica e il nuovo mainstream.7 Per una critica della teoria economica mainstream 2. ELEMENTI DI TEORIA CLASSICA E MARXIANA 2. Il teorema della mano invisibile di Smith 2.2 Il teorema dei vantaggi comparati di Ricardo 2.3 La condizione di riproducibilità nei classici e in Marx 3. MICROECONOMIA E MACROECONOMIA NEOCLASSICA 3. La teoria neoclassica della scelta razionale individuale: il caso del consumatore 3.2 Il vincolo di bilancio del consumatore 3.3 Utilità, ordinamento delle preferenze e curve di indifferenza 3.4 La scelta del consumatore 3.5 La curva di domanda individuale 3.6 Il surplus del consumatore 3.7 La variazione della domanda individuale rispetto al reddito 3.8 Dalla curva di domanda individuale alla curva di domanda di mercato 3.9 La teoria neoclassica dell'impresa 3.0 La massimizzazione del profitto dell'impresa 3. L'impresa in concorrenza perfetta 3.2 Rappresentazione grafica dell'equilibrio ottimale dell'impresa 3.3 Domanda, offerta ed equilibrio del mercato di concorrenza perfetta 3.4 L'elasticità della domanda rispetto al prezzo 3.5 Monopolio e oligopolio

4 4 3.6 Dalla microeconomia alla macroeconomia neoclassica 3.7 La domanda di lavoro 3.8 L offerta di lavoro 3.9 L equilibrio del mercato del lavoro 3.20 Dal mercato del lavoro al mercato dei beni 3.2 La teoria quantitativa della moneta 3.22 Il sistema di equazioni del modello macroeconomico neoclassico 3.23 La crisi di fiducia secondo i neoclassici 4. DISPENSE INTEGRATIVE DEL MANUALE DI BLANCHARD 4. Una specificazione del modello di determinazione della produzione 4.2 Il paradosso del risparmio 4.3 Spesa pubblica, tassazione e teorema di Haavelmo 4.4 Il finanziamento del disavanzo pubblico e il Trattato di Maastricht 4.5 La politica monetaria e il Trattato di Maastricht 4.6 Politica monetaria e speculazione 4.7 Politica monetaria, movimenti di capitale e Tobin tax 4.8 Lo spread, questo sconosciuto

5 5 I CENNI DI STORIA DELL ECONOMIA POLITICA. Un approccio critico alla economia politica Perché alcuni paesi hanno visto crescere il loro reddito più rapidamente di altri? Per quale motivo negli ultimi trent anni abbiamo assistito a una caduta della quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori salariati? E vero che la diffusione dei contratti precari ha contribuito a ridurre la disoccupazione? Quali sono le cause della crisi economica mondiale esplosa nel 2008? Perché la crisi ha colpito in misura particolarmente accentuata i paesi della cosiddetta zona euro? Per uscire dalla crisi occorre affidarsi alle forze spontanee del mercato o c è bisogno di un maggiore intervento dello Stato nell economia? L economia politica prova a rispondere a queste e a molte altre domande. Si tratta di questioni cruciali, che riguardano il vissuto quotidiano della stragrande maggioranza della popolazione, e dalle quali in larga misura scaturiscono le condizioni del benessere collettivo. A questo tipo di domande si risponde spesso con dei luoghi comuni. Per esempio, è un convincimento diffuso che gli Stati Uniti rappresentino il paese del sogno americano, dove anche la persona più umile, se sufficientemente abile e volenterosa, può raggiungere le più alte vette della scala sociale. Ma le cose stanno davvero così? Il grafico posto qui di seguito mostra i tassi di immobilità sociale calcolati dall OCSE per alcuni paesi. La misura rappresenta in un certo senso un indice della probabilità che può avere un individuo di situarsi in una posizione sociale analoga a quella della famiglia di origine. Essa cioè misura il peso della classe sociale di provenienza sui destini di ciascun individuo. Più alto è l indice, più è probabile che un figlio, al di là dei meriti individuali, si ritrovi nella stessa posizione sociale dei genitori: il figlio di operai diventa operaio, il figlio di professionisti diventa professionista. Ebbene, contrariamente ai luoghi comuni sul sogno americano, si può notare che gli Stati Uniti si caratterizzano per un

6 elevato tasso di immobilità sociale. Peggio degli USA fanno soltanto il Regno Unito e, purtroppo, l Italia. 6 Un altro tipico luogo comune è quello secondo cui il Nord Europa è più produttivo perché si lavora di più, mentre nel Sud Europa mancherebbe una cultura del lavoro. Abbiamo più volte ascoltato questa opinione nei dibattiti sulla crisi dell Unione monetaria europea. Ma quali sono i dati effettivi? Il grafico seguente riporta i dati OCSE 2008 sul numero medio annuo di ore di lavoro procapite in vari paesi. Ebbene, è interessante notare che mentre un lavoratore tedesco eroga in media 430 ore annue, un lavoratore italiano ne fa registrare 802, e un greco arriva addirittura a 220 ore annue. Evidentemente, quindi, le divergenze economiche tra i paesi del Nord e i paesi del Sud Europa che si sono verificate in questi anni, non si spiegano con il maggiore o minore carico annuo di ore erogate dai rispettivi lavoratori.

7 Sempre riguardo alla crisi che l Europa sta attraversando, si dice spesso che essa è dipesa dal fatto che per lungo tempo alcuni paesi hanno fatto registrare deficit pubblici annuali eccessivi rispetto alla produzione nazionale, e quindi hanno accumulato debiti pubblici troppo elevati. Il riferimento è ai paesi che oggi si trovano più in difficoltà: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna (i famigerati P.I.I.G.S., secondo una poco lusinghiera definizione di Business Week). In realtà, se guardiamo i dati riportati nella seguente tabella, questi paesi non presentano affatto delle similitudini dal punto di vista dei deficit e dei debiti pubblici. Nel 2007, prima che la crisi scoppiasse, la situazione dei loro bilanci pubblici era molto diversificata. E vero, per esempio, che la Grecia presentava un alto deficit e un alto debito pubblico. Ma è altrettanto vero che Spagna e Irlanda facevano registrare addirittura un surplus annuale di bilancio pubblico e che il debito pubblico che avevano accumulato era molto basso. L Italia, dal canto suo, presentava sì un alto debito pubblico ma faceva anche registrare un deficit pubblico annuale relativamente contenuto. Evidentemente, la crisi in cui questi cinque paesi versano non si può imputare a un problema di deficit e debiti pubblici alti. Si potrebbe obiettare che nel 200 tutti i paesi considerati presentavano alti deficit pubblici e debiti pubblici in rapida crescita, ma questo fenomeno può esser considerato una conseguenza della crisi, non una causa. Quale può essere allora un elemento di fragilità che accomunava tali nazioni prima della crisi? Ebbene, se guardiamo nuovamente i dati, possiamo notare che tutti questi paesi presentavano nel 2007 una tendenza ad importare più merci di quante ne esportassero, e quindi ad accumulare deficit verso l estero. Ma il deficit estero corrisponde ai debiti, non solo pubblici ma anche privati, che ogni anno un paese contrae verso il resto del mondo per importare beni e servizi eccedenti rispetto a quelli esportati. Si tratta di una cosa molto diversa dal deficit pubblico, che corrisponde invece all eccesso di spesa del settore pubblico rispetto alle entrate fiscali. 7

8 8 Un'altra idea piuttosto diffusa è che le difficoltà dell Italia dipenderebbero da una eccessiva presenza del settore pubblico all interno dell economia. Troppi dipendenti pubblici, troppa spesa sanitaria pubblica, e così via. In base a questa opinione, vi è chi propone di ridurre le assunzioni pubbliche e di privatizzare il settore sanitario ed altri servizi attualmente erogati dallo Stato. In realtà, come spesso accade, i dati rivelano una situazione più controversa. E pur vero che in alcuni settori e in alcune zone i servizi pubblici nazionali risultano scarsamente efficienti e con personale eccedente. Ma è altrettanto vero che in molti altri settori dello Stato il problema è esattamente opposto: pochi finanziamenti e poco personale rispetto alle esigenze del servizio. Le difficoltà dunque sembrano derivare da una errata allocazione delle risorse, non da un eccesso di risorse erogate. Del resto, sul piano quantitativo, se messa a confronto con altri paesi avanzati, l Italia si caratterizza per un numero non particolarmente elevato di dipendenti pubblici in rapporto alla popolazione attiva e per una bassa spesa sanitaria in rapporto alla produzione nazionale. Si vedano in tal senso i seguenti grafici: Occupati sett. pubbl./pop. attiva (fonte: ILO media ) Spesa sanitaria in rapporto al PIL (OCSE 2009) USA FRA GER SVE GB OCSE ITA Un altra idea ricorrente in questi anni è stata quella secondo cui rendere più facili i licenziamenti indurrebbe le imprese ad assumere più lavoratori e quindi contribuirebbe a ridurre la disoccupazione. I dati OCSE tuttavia non confermano questa opinione. Il grafico seguente riporta sulle ascisse il grado di tutele dei lavoratori, incluse le tutele contro i licenziamenti, e sulle ordinate il tasso di disoccupazione. Ogni punto corrisponde a un paese OCSE. Si vede chiaramente che non c è correlazione statistica tra minori tutele e minore disoccupazione:

9 diversi paesi registrano alte tutele e bassa disoccupazione, e diversi altri basse tutele e alta disoccupazione. 9 Ed ancora, in Italia negli ultimi anni si è sviluppato un intenso dibattito sulla disponibilità o meno dei giovani a cercare lavoro. Alcuni economisti, nel ruolo di ministri della Repubblica, hanno varie volte rimarcato la scarsa disponibilità degli italiani, specialmente dei più giovani, ad entrare nel mercato del lavoro. Il ministro dell Economia Tommaso Padoa Schioppa parlò in questo senso di bamboccioni. La ministra del Lavoro Elsa Fornero, più di recente, ha utilizzato l appellativo di choosy, che in inglese sta per schizzinosi. I due ministri, in termini più o meno espliciti, suggerivano in sostanza che l elevata disoccupazione che si registra in Italia sia in misura significativa da imputare a una scarsa disponibilità ad accettare un lavoro, soprattutto da parte dei più giovani. Ora, che alcuni individui possano meritarsi simili giudizi è facile da ammettere. Il problema, tuttavia, è capire se tali valutazioni riescano a cogliere un comportamento quantitativamente rilevante. In effetti i dati sembrano sollevare dei dubbi sul grado di generalità delle valutazioni dei due ministri. Consideriamo il tasso di posti di lavoro vacanti, calcolato periodicamente dall ISTAT con riferimento alle imprese industriali e di servizi con almeno 0 dipendenti. Questo tasso indica il numero di posti di lavoro disponibili diviso per il totale dei posti di lavoro, sia disponibili che già occupati. Alla fine del 202, per esempio, il tasso di posti vacanti era pari allo 0,5%. Sapendo che il numero totale di posti esistenti nelle imprese considerate è pari a circa 7,5 milioni di unità, si può calcolare il numero di posti vacanti disponibili: (0,5%)x = posti vacanti disponibili nelle imprese dell industria e dei servizi con più di dieci dipendenti. Per provare a trarre un dato più generale, facciamo ora l ipotesi semplificatrice

10 che il tasso di posti vacanti nelle imprese industriali e di servizi con almeno 0 dipendenti possa valere a grandi linee per l intera economia. Considerato che il numero dei posti totali esistenti si aggira intorno a 23 milioni di unità, possiamo effettuare una semplice proporzione ( :37.500= :x) e supporre che i posti vacanti totali in Italia siano circa Consideriamo adesso il totale dei disoccupati italiani: alla fine del 202 erano 2 milioni 875 mila. Tra questi, i giovani disoccupati nella fascia di età tra 5 e 24 anni erano Possiamo quindi affermare che alla fine del 202 il numero di posti di lavoro vacanti, in Italia, non doveva esser molto più del 4% del totale dei disoccupati e del 9% del totale dei giovani disoccupati. Dunque, anche ammettendo che i disoccupati avessero le qualifiche necessarie per svolgere le mansioni richieste, è evidente che i posti disponibili erano di gran lunga inferiori al numero di persone in cerca di lavoro. I dati evidenziano insomma che il problema della disoccupazione è in primo luogo un problema di pochi posti disponibili. Imputarlo a una scarsa disponibilità a lavorare da parte degli italiani, in particolare dei più giovani, è quantomeno riduttivo. Del resto, l idea che i giovani italiani siano choosy entra in contrasto anche con altre evidenze. La Banca d Italia, per esempio, ha recentemente rilevato che i giovani laureati italiani tra 24 e 35 anni che hanno accettato lavori a bassa qualifica rispetto ai titoli di studio conseguiti, sono il 40% del totale, contro appena il 8% in Germania. Gli esempi di luoghi comuni messi in discussione dalle analisi dei dati sono innumerevoli e potremmo proseguire a lungo. I casi menzionati sono comunque già sufficienti per chiarire che, attraverso la raccolta dei dati e la loro corretta interpretazione, l economia politica può contribuire a valutare criticamente certe semplificazioni, a sfatare dei miti, e può aiutarci a comprendere meglio le caratteristiche della complessa realtà sociale che ci circonda. E bene chiarire che lo sforzo di superamento dei luoghi comuni in campo economico non è giustificato solo dalla necessità di esaminare correttamente l andamento delle variabili di stretta pertinenza economica. L economia politica ricade infatti su moltissimi altri aspetti della vita sociale. Le variabili economiche possono esercitare un influenza sui più svariati comportamenti umani. Basti pensare alle correlazioni esistenti tra disoccupazione e suicidio, tra povertà e criminalità, tra partecipazione delle donne al lavoro ed emancipazione socioculturale di un paese, tra disuguaglianza sociale e rigidità delle norme morali, e così via. 0

11 La rilevanza della economia politica è dunque evidente. Ma quale potrebbe essere una definizione rigorosa di questa disciplina? In termini del tutto preliminari, possiamo affermare che l economia politica indaga sui modi in cui una società si organizza per affrontare le seguenti quattro questioni fondamentali: come produrre, cosa produrre, quanto produrre e come distribuire ciò che si è prodotto. Tale definizione è molto generica, e in questi termini risulta compatibile con qualsiasi indagine economica. Tuttavia nel corso di queste lezioni avremo modo di approfondire il suo significato e scopriremo che ogni scuola di pensiero economico tende a interpretarla in modo particolare. A questo proposito è importante comprendere che esistono diversi modi di concepire l economia. E quindi esistono anche diversi tipi di manuali attraverso i quali l economia viene insegnata. I manuali oggigiorno più diffusi sono quelli realizzati da alcuni noti economisti americani. Basti citare, per esempio, i testi di Paul Samuelson, Gregory Mankiw, Joseph Stiglitz, Olivier Blanchard, tra gli altri. Si tratta di libri indubbiamente molto apprezzati, sia per la ricchezza di contenuti che per la immediatezza del linguaggio. Tuttavia questi testi presentano un limite: troppo spesso essi danno agli studenti la sensazione che esista una sola rappresentazione possibile della realtà economica, vale a dire una sola teoria, un solo modello universalmente accettato dalla comunità degli studiosi. Ma l idea che per ogni fenomeno della realtà esista un solo modello interpretativo è contraddetta dal fatto che, in tutti i campi di ricerca, ingenti risorse umane e materiali vengono dedicate alla continua verifica dei diversi modelli esistenti, al fine di valutare quale di essi sia maggiormente in grado di interpretare i fatti concreti. Questo è vero in fisica, in chimica, in biologia, ma lo è ancora di più nell ambito dell economia politica, dove i contrasti tra i ricercatori sulla teoria da preferire sono particolarmente accentuati. Lo studente deve pertanto comprendere che il più delle volte l economia si presenta come un luogo concettuale di contesa tra interpretazioni alternative della realtà che ci circonda. In questo senso, come vedremo, per tutto il corso della trattazione verranno messi a confronto due indirizzi alternativi di ricerca. Da un lato analizzeremo le versioni passate e presenti del cosiddetto approccio mainstream, cioè dell approccio attualmente dominante. Il manuale Scoprire la macroeconomia, di Olivier Blanchard, costituisce appunto un esempio di questo approccio. Dall altro lato studieremo il cosiddetto approccio critico, che prende spunto dalle opere di Karl Marx, John Maynard Keynes, Piero Sraffa ed altri per criticare l impianto concettuale dell approccio dominante e per indicare una diversa interpretazione dei fatti economici e sociali.

12 2 I due indirizzi di ricerca menzionati forniscono, come vedremo, diverse interpretazioni del funzionamento di un economia capitalistica. Per esempio, essi suggeriscono due diverse chiavi di lettura della grave crisi economica mondiale che è esplosa nel 2008 e che in molti paesi non è stata ancora superata. L approccio mainstream, come vedremo, si sofferma soprattutto su una interpretazione della crisi di tipo finanziario: le banche avrebbero erogato troppi prestiti a soggetti che non erano in grado di onorare i debiti. L approccio critico, pur ammettendo l esistenza di problemi di natura finanziaria, ritiene che la crisi sia stata provocata da una serie più complessa di fattori, tra cui anche una trentennale riduzione della quota di reddito nazionale spettante ai salari. Durante questo corso approfondiremo i temi dell economia politica cercando sempre di confrontare i punti di vista delle diverse scuole di pensiero. Adotteremo a questo scopo un approccio allo studio della materia di tipo storico-critico, ossia basato sull analisi della evoluzione storica del pensiero economico e delle relative controversie tra gli economisti. Cominceremo in tal senso dallo studio degli economisti classici e di Marx. Quindi passeremo allo studio della teoria microeconomica e macroeconomica neoclassica. In seguito esamineremo la grande crisi e il pensiero di Keynes. Giungeremo così alla cosiddetta sintesi neoclassica e al mainstream di Blanchard, la teoria economica oggi dominante. Infine, nell Anti-Blanchard, sottoporremo a critica il mainstream..2 Gli economisti classici In genere si ritiene che la nascita di una vera e propria scienza economica sia avvenuta tra il 760 e il 830, ossia a cavallo di quella prima Rivoluzione industriale che in Inghilterra e in altri paesi creò le basi per il superamento definitivo del vecchio modo di produzione feudale e per la piena affermazione del nuovo modo di produzione capitalistico: vale a dire, di quel sistema in cui la classe dei capitalisti detiene il controllo dei mezzi di produzione, mentre la classe dei lavoratori si presenta sul mercato offrendo ai capitalisti la propria forza lavoro in cambio di un salario. Durante la prima Rivoluzione industriale si assiste a un grande processo di innovazione tecnologica, di allargamento dei mercati, di concentrazione dei capitali, di trasformazione di larghe masse di lavoratori in operai salariati e di aumento generalizzato della scala della produzione e della circolazione delle merci. Tali trasformazioni economiche sono accompagnate anche da importanti

13 cambiamenti negli assetti sociali e politici. In questa fase si registra infatti il relativo declino politico della classe aristocratica dei proprietari terrieri e prende avvio l ascesa sociale e politica di una nuova classe di soggetti, quella dei capitalisti proprietari delle moderne imprese agricole e industriali. Il successo dei capitalisti porta a una nuova concezione dello Stato: non più espressione degli interessi del sovrano e dell aristocrazia fondiaria, l autorità statale viene chiamata a favorire lo sviluppo del capitale. Nuovo scopo del potere politico è dunque di salvaguardare gli interessi della nuova classe capitalista emergente, in contrapposizione alle istanze provenienti dalla classe dei proprietari terrieri. E esattamente in questi scenari che avviene la pubblicazione delle fondamentali opere di due studiosi considerati i padri fondatori della scienza economica moderna: lo scozzese Adam Smith, autore della Ricchezza delle nazioni del 776; e l inglese David Ricardo, autore dei Principi di economia politica e della tassazione del 87. Smith e Ricardo sono considerati i massimi esponenti della cosiddetta economia classica. Gli economisti classici risultano in larga parte sostenitori del cosiddetto liberismo, o laissez-faire. A grandi linee il liberismo è quella dottrina politica basata sull idea che per favorire lo sviluppo economico e la crescita del benessere di tutti si debbano liberare le forze del mercato dai lacci dell autorità statale, cioè si debba lasciar fare ai capitalisti privati. Sia pure seguendo ragionamenti molto articolati e con diversi accenti e sfumature, Smith e Ricardo in definitiva sostengono le tesi liberiste. Essi infatti ritengono che ci si dovrebbe affidare prevalentemente alle forze spontanee del mercato e della concorrenza tra le imprese private, senza inutili vincoli o intromissioni da parte dello Stato. A questo proposito, Smith elabora il cosiddetto teorema della mano invisibile. Secondo questo teorema gli individui agiscono nel libero mercato guidati dal loro egoismo personale, ma proprio seguendo i loro interessi particolari essi inconsapevolmente contribuiscono allo sviluppo economico complessivo, e quindi finiscono per servire l interesse di tutti. Scrive Smith che «ciascuno è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non era parte delle proprie intenzioni». Le forze del mercato rappresentano cioè una mano invisibile che guida i singoli individui egoisti a compiere il bene comune dello sviluppo economico. In questo senso egli aggiunge che «non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci dobbiamo aspettare la cena, ma dal fatto che essi perseguono il proprio interesse». Il motivo per cui secondo Smith il teorema funziona è che i capitalisti proprietari delle imprese, in concorrenza tra loro, cercheranno di prevalere gli uni sugli altri producendo esattamente le merci che i consumatori desiderano. Inoltre, i capitalisti cercheranno di adottare i metodi produttivi più efficienti al fine di ridurre al minimo i costi, ed essere quindi più competitivi rispetto ai diretti concorrenti. La riduzione dei costi farà sì che le merci siano vendute ai prezzi più bassi possibili, il che garantirà sviluppo e benessere diffuso. A grandi linee, sono questi i motivi 3

14 per cui secondo Smith è bene lasciare che le forze del mercato e della concorrenza siano tendenzialmente lasciate libere di operare. La visione liberista verrà poi applicata da David Ricardo anche al caso dei rapporti internazionali. Per Ricardo occorre infatti salvaguardare le libertà di mercato non soltanto quando si considerino i singoli capitalisti in concorrenza tra loro, ma anche quando si tratti di nazioni che competono negli scambi commerciali. Ricardo quindi era non soltanto un fautore del liberismo ma anche del liberoscambismo. Egli cioè non era semplicemente un sostenitore della libera competizione tra le imprese e tra i singoli individui, ma sosteneva anche il libero scambio tra paesi. Egli elaborò in questo senso il famoso teorema dei vantaggi comparati. Questo teorema ci dice che il libero scambio di merci tra paesi è sempre vantaggioso per tutti. In quest ottica, anche se un paese fosse il più efficiente di tutti nella produzione di qualsiasi merce, gli converrebbe comunque concentrarsi nella produzione delle merci in cui sia relativamente più efficiente, mentre dovrebbe lasciare la produzione delle restanti merci agli altri paesi. In questo senso Ricardo sostenne che l Inghilterra avrebbe dovuto specializzarsi nella produzione e nella esportazione di manufatti industriali, mentre avrebbe dovuto importare grano dagli altri paesi. Il consiglio che Ricardo dava all Inghilterra era quindi di abbandonare il protezionismo commerciale, cioè di rinunciare ai dazi con i quali il paese cercava di proteggere l agricoltura nazionale dalla importazione di grano proveniente dall estero. I dazi erano sostenuti dai proprietari fondiari inglesi, che guadagnavano dalla produzione di grano sui loro terreni. Ma per Ricardo la classe dei proprietari terrieri rappresentava un ostacolo allo sviluppo economico. Il paese doveva quindi abbandonare le protezioni, specializzarsi nella manifattura e aprirsi agli scambi internazionali. Gli economisti classici offrivano quindi una interpretazione sostanzialmente positiva del capitalismo e delle leggi della concorrenza che lo governavano. Essi talvolta definivano l equilibrio concorrenziale determinato dalle forze del mercato con l appellativo di equilibrio naturale. In tal modo sembravano voler dare l idea che il capitalismo si sviluppasse secondo leggi naturali, ossia in un certo senso armoniche ed eterne. I classici tuttavia non nascondevano gli elementi di conflitto insiti nella società capitalista. Non a caso Smith e Ricardo ritenevano che la società fosse divisa in classi: i proprietari terrieri, i capitalisti e i lavoratori. In varie circostanze essi riconobbero che le classi sociali hanno interessi irriducibilmente contrapposti tra loro. Ricardo, in particolare, riteneva che i salari fossero dati dagli usi e costumi vigenti presso una data popolazione in un dato periodo storico. Dati i salari, egli costruì una teoria secondo cui il profitto spettante ai capitalisti va concepito come un residuo, come un surplus che si ottiene una volta che da una data produzione totale siano state sottratte le merci spettanti spettanti ai lavoratori sotto 4

15 forma di salari (e anche quelle spettanti ai proprietari terrieri a titolo di rendite). Ma allora, se viene inteso un residuo, ciò significa che il profitto è tanto maggiore quanto minori siano le rendite e i salari, il che mette chiaramente in luce i motivi di contrasto tra le classi sociali nella ripartizione della produzione. 5.3 Karl Marx Proprio sulla concezione del profitto come residuo, e più in generale sugli elementi di conflitto sociale riconosciuti dagli economisti classici, farà leva Karl Marx per criticare la loro concezione positiva del capitalismo. Con la pubblicazione del Capitale nel 867 Marx si propone esplicitamente il compito di elaborare una compiuta critica dell economia politica che era stata elaborata dagli economisti classici. In questo senso sferra un attacco poderoso al teorema della mano invisibile. Egli infatti descrive un sistema tutt altro che armonico ed eterno. Per Marx il capitalismo è in realtà afflitto da perenne instabilità e da crisi ricorrenti. La teoria delle crisi di Marx è molto complessa e tuttora oggetto di varie interpretazioni. Qui possiamo affermare che nella visione di Marx si intersecano due spiegazioni della crisi: da un lato la tendenza alla caduta del saggio di profitto, dall altro la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e consumi ristretti delle masse lavoratrici. Sulla tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto, in questa sede possiamo limitarci ad affermare che per Marx sussisterebbero forze che tendono nel tempo a ridurre il saggio di profitto medio del sistema economico. La tesi di partenza di Marx è che i capitalisti estraggono il profitto dal lavoro vivo degli operai, cioè dal lavoro di coloro i quali sono direttamente impiegati nella produzione e non dal lavoro già erogato, incorporato nei mezzi di produzione già prodotti. Egli poi nota che le continue innovazioni tecniche spingono i capitalisti ad accrescere l impiego di mezzi di produzione rispetto ai lavoratori direttamente impiegati nel processo produttivo. Ma se il rapporto tra lavoratori e mezzi di produzione si riduce, e se si accetta l idea di Marx secondo cui il profitto deriva dal lavoro vivo degli operai direttamente impiegati nella produzione, allora si deve giungere alla conclusione che si ridurrà anche il saggio di profitto, cioè del profitto totale in rapporto al capitale impiegato per l acquisto dei mezzi di produzione e per il pagamento dei lavoratori. Una progressiva caduta del saggio di profitto determina tuttavia una crisi generale del modo di produzione capitalistico. Per Marx, infatti, il saggio di profitto rappresenta non solo la remunerazione del capitalista ma anche il motore dell accumulazione. Una sua precipitazione verso lo zero renderà a un certo punto impossibile la riproduzione del sistema capitalistico e aprirà quindi la via ad un epoca di rivoluzione sociale.

16 Tra le cause che secondo Marx determinano crisi ripetute vi è però anche il fatto che la spietata concorrenza tra le imprese conduce a una continua serie di rivoluzioni tecniche e organizzative che aumentano al massimo la produttività di ogni singolo lavoratore e al tempo stesso riducono il suo salario. Ciò tuttavia implica un divario crescente tra la capacità produttiva dei lavoratori e la capacità di spesa degli stessi lavoratori. Sotto date condizioni questo divario può determinare un problema di sbocchi per le merci prodotte. La conseguenza è che il processo di accumulazione dei capitali si blocca e le imprese sono indotte a licenziare i lavoratori. Ma ciò allarga ulteriormente il divario tra capacità produttiva e capacità di spesa, per cui il sistema rischia di avvitarsi su sé stesso fino al tracollo. Al riguardo Marx scrive: «La causa ultima di tutte le crisi rimane sempre la povertà ed il consumo ristretto delle masse, di fronte alla tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive» (Capitale, vol. III). Le due tesi descritte si affiancano poi a un altra tendenza registrata da Marx, quella verso la scomparsa dei capitali più piccoli o la loro acquisizione da parte dei capitali più grandi, la cui proprietà e il cui controllo tenderebbero a concentrarsi in sempre meno mani: nel linguaggio marxiano, si parla di tendenza verso la centralizzazione dei capitali a livello internazionale. La letteratura marxista ha derivato da questa tendenza varie implicazioni, tra cui due contraddizioni: una concorrenza capitalistica che spinge sempre più verso la monopolizzazione dei mercati da parte dei pochi capitali vincenti, e una radicalizzazione del conflitto di classe tra una cerchia ristretta di proprietari e una massa crescente di diseredati. Alla luce delle tendenze descritte Marx contesta dunque l idea classica di un capitalismo naturale e quindi eterno, sostenendo invece la tesi della sua instabilità, della sua contraddittorietà e quindi anche della sua storicità, vale a dire della sua finitezza. Per Marx, l elemento di maggior contraddizione del capitalismo è che la feroce competizione tra capitali da un lato sviluppa nuove tecniche e nuove forze produttive, ma dall altro scatena le crisi e quindi genera tensioni nei rapporti di produzione tra le classi sociali. In particolare, la classe lavoratrice si ritrova ad essere l artefice in ultima istanza dello sviluppo delle forze produttive, poiché quello sviluppo avviene soprattutto in base allo sfruttamento imposto dal comando del capitale sul lavoro. Al tempo stesso, la classe lavoratrice risulta anche la prima vittima della disoccupazione e degli immiserimenti causati dalle ricorrenti crisi del capitalismo. Le contraddizioni del capitalismo ricadono dunque principalmente sui lavoratori salariati, artefici e vittime del sistema. A causa di queste contraddizioni, Marx giudicava il capitalismo un sistema potente ma caotico, anarchico, destinato prima o poi ad entrare in una crisi irreversibile e ad esser quindi sostituito da un diverso sistema di organizzazione dei rapporti economici e sociali. L analisi marxiana potrebbe in 6

17 questo senso essere considerata una indagine sulle condizioni di riproducibilità del modo di produzione capitalistico, e sulle circostanze che possono pregiudicare quelle stesse condizioni. Quando si dice che in Marx è fondamentale il concetto di storicità, si intende appunto che egli sottolinea il fatto che i sistemi economici non sono affatto eterni ma risultano storicamente determinati, nel senso che cambiano nel tempo. Ad esempio, è noto che la Rivoluzione francese ha effettivamente sancito il passaggio dall Antico regime feudale (basato sul potere dei proprietari terrieri) al regime di produzione capitalista (in cui il potere è nelle mani dei capitalisti proprietari dei mezzi di produzione, cioè delle imprese). Allo stesso modo, è possibile che il capitalismo a un certo punto imploda nelle sue contraddizioni e ceda il passo a una nuova e diversa modalità di organizzazione dei rapporti sociali. Marx si attendeva in tal senso una svolta rivoluzionaria guidata dalla classe lavoratrice, a seguito della quale potesse sorgere un sistema di tipo socialista: vale a dire un sistema non più basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sul lavoratore salariato posto sotto il comando del capitalista, né basato sulla competizione tra capitali e tra lavoratori, ma fondato invece sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e sulla pianificazione sociale del lavoro. In una prima fase il sistema socialista si sarebbe per forza di cose basato sul controllo statale sui mezzi di produzione, sulla divisione del lavoro e sulle retribuzioni. Ma più in prospettiva, a seguito dello sviluppo delle forze produttive e della ricchezza sociale, Marx preconizzava un futuro comunista, nel quale il potere coercitivo dello Stato, la divisione del lavoro e lo stesso concetto di salario sarebbero diventati superflui. Nella Critica al programma di Gotha del 875, egli definì il comunismo in questi termini: «In una fase più avanzata della società comunista, dopo la scomparsa della subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche del contrasto tra lavoro intellettuale e fisico [ ] dopo che con lo sviluppo completo degli individui sono aumentate anche le loro forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze collettive scorrono in abbondanza; soltanto allora la società può scrivere sulle sue bandiere: da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni». 7 E interessante notare che Marx riteneva tanto più probabile una svolta rivoluzionaria quanto più le contraddizioni del capitalismo fossero state portate alle estreme conseguenze. Per questo nel 848, in un celebre Discorso sul libero scambio, egli dichiarò di ritenere preferibile il liberoscambismo internazionale al protezionismo. L apertura dei vari paesi agli scambi internazionali, a suo avviso, avrebbe accelerato i processi di centralizzazione dei capitali, i divari tra sviluppo delle forze produttive e consumi ristretti delle masse e la caduta tendenziale del saggio di profitto. L instabilità e le contraddizioni sarebbero quindi giunte a tal punto da rendere inesorabile una svolta rivoluzionaria. Anche il giovane Marx dunque era liberoscambista, ma per motivi decisamente diversi rispetto a Ricardo.

18 8 Naturalmente Marx non fu il primo comunista della Storia. Molti prima di lui avevano sostenuto l ideale superiorità di un sistema fondato sulla cooperazione sociale anziché sulla competizione individuale, e sulla proprietà collettiva anziché privata dei mezzi di produzione. E in passato non erano nemmeno mancate esperienze di comunismo concreto, come ad esempio quello delle comunità cristiane primitive. Marx tuttavia differiva dai suoi predecessori per un motivo: egli intendeva poggiare la sua visione politica non su basi etico-morali e utopiche, ma su una analisi scientifica delle contraddizioni del capitalismo e della sua fragilità intrinseca. In verità, si potrebbe obiettare che in fondo anche le premonizioni di Marx sull avvento del socialismo e poi del comunismo fossero implicitamente guidate da un istanza utopica. Il dibattito, su questo fronte, resta aperto. Resta tuttavia il fatto che l indagine marxiana ha effettivamente contribuito a porre in evidenza le contraddizioni e l instabilità del capitalismo, e ha quindi fornito una base analitica alla tesi della sua storicità, ossia del suo non essere necessariamente eterno. In ciò risiede la rilevanza scientifica di Marx, che lo distingue nettamente dai comunisti del passato. Ovviamente, una tesi può dirsi in quanto tale scientifica solo se può essere verificata o smentita sulla base delle analisi teoriche ed empiriche. A tale riguardo, i marxisti e i loro critici tuttora dibattono. Se si volesse comunque provare a trarre dai dati degli indizi sulla erroneità o meno delle previsioni marxiane, qualche considerazione in effetti la si potrebbe trarre, sia pure molto parziale. Si osservino in tal senso i seguenti grafici. Il primo grafico descrive l andamento di lungo periodo del saggio di profitto negli Stati Uniti. La dinamica in effetti è controversa: dal 944 si registra una tendenza alla caduta del saggio di profitto, come preconizzato da Marx, ma se si prende un arco di tempo più lungo l andamento è più difficile da interpretare; inoltre, guardando alla crisi recente, esplosa nel 2008, essa sembra esser stata preceduta per circa un ventennio da un ascesa anziché da una caduta del saggio di profitto (il grafico è tratto da uno studio di Gerard Dumenil e Dominique Lévy del 200).

19 9 La contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e consumi ristretti delle masse lavoratrici sembrerebbe invece trovare un riscontro, almeno per quanto riguarda l ultimo trentennio. Il grafico seguente mostra l andamento, in vari paesi, della quota di reddito nazionale spettante al salari. La tendenza al declino è piuttosto evidente (il grafico, tratto dall Anti-Blanchard, riporta dati Ameco Eurostat). Anche la tendenza alla centralizzazione dei capitali appare confermata. Il grafico seguente (tratto da un peculiare studio di Vitali, Glattfelder, Battison del 20) descrive il grado di concentrazione delle quote proprietarie e di controllo dei principali gruppi multinazionali a livello mondiale. I dati rivelano in effetti un

20 processo di centralizzazione dei capitali estremamente accentuato, specialmente nell ultimo trentennio. 20 Ad ogni modo, se è vero che ancora oggi ci si interroga sul piano scientifico sulla capacità o meno di Marx di cogliere alcune tendenze di fondo dello sviluppo capitalistico, è altrettanto vero che un fenomeno di ben più ampia portata si verificò verso la fine dell Ottocento, quando le tesi marxiane divennero il punto di riferimento del movimento operaio, cioè delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori che in quel periodo andavano sviluppandosi e consolidandosi in molti paesi. Probabilmente, il motivo principale per cui l analisi di Marx aveva all epoca un tale successo risiedeva nel fatto che quegli elementi di contraddizione, di instabilità e quindi di storicità che egli ravvisava nel capitalismo venivano precipitosamente tradotti in un preciso messaggio politico: comunicare ai lavoratori che con le loro lotte di emancipazione stavano contribuendo a smuovere la Storia, accelerando la crisi del sistema capitalistico e creando le condizioni per una nuova e superiore organizzazione della società. Chiaramente, per molti queste tesi risultavano scomode, pericolose. Rimarcando l instabilità e la storicità del modo di produzione capitalistico, l analisi di Marx rappresentava uno sprone per i movimenti rivoluzionari, e una oggettiva minaccia per i proprietari del capitale, principali detentori del potere economico e politico. Che Marx avesse ragione o meno, che avesse o meno saputo afferrare la meccanica profonda e i destini del capitalismo, le sue tesi erano diventate una potenziale leva per il sovvertimento dell ordine costituito.

21 2.4 L approccio neoclassico-marginalista Per scongiurare le tesi di Marx occorreva dunque sfidarlo sul terreno dell analisi scientifica dell economia. Occorreva cioè proporre una chiave di lettura della realtà che fosse alternativa a quella marxiana. Ma per far questo non si poteva tornare al pensiero dei classici. Infatti, benché Smith e Ricardo esprimessero nella sostanza un giudizio positivo sul modo capitalistico di produzione, le loro teorie mettevano apertamente in evidenza gli elementi di conflitto insiti nei rapporti tra le classi sociali, e quindi somigliavano troppo all analisi di Marx per potersi dire del tutto estranee e alternative ad essa. Si pose dunque il problema di elaborare una nuova teoria, che non si concentrasse sul carattere conflittuale e instabile del modo di produzione capitalistico ma che al contrario fornisse una convincente rappresentazione armonica del sistema economico. In effetti, proprio intorno al 870 nasceva una nuova visione, detta teoria neoclassica o marginalista. Jevons, Menger e Walras furono tra i fondatori di questo approccio, seguiti poi da Marshall, Pigou, Wicksell, Pareto, Robbins e molti altri. Del tutto indipendentemente dagli intenti dei suoi ideatori, questa nuova scuola di pensiero registrò ampi consensi nelle università e nei circoli finanziari. La nuova impostazione viene definita neo-classica, ma in effetti essa porta con sé ben poco della precedente economia classica e marxiana. I classici e Marx indagavano sui meccanismi di funzionamento del capitalismo, sulle cause della sua capacità di sviluppo ma anche sulla sua tendenza alla crisi, sulle contraddizioni che lo caratterizzano e sui conflitti tra le classi sociali che quelle contraddizioni scatenano. Marx, in particolare, sottolineava la storicità del capitalismo e puntava a una indagine scientifica sulle condizioni di riproduzione o di crisi del modo di produzione capitalistico. Ed ancora, sia i classici che Marx facevano partire le loro analisi direttamente dallo studio delle classi sociali. Completamente diverso è invece l oggetto di indagine degli economisti neoclassici-marginalisti. I teorici neoclassici rifiutano una analisi della società basata sulla divisione tra le classi. Ad essa contrappongono il cosiddetto individualismo metodologico. Questo metodo si basa sulla idea che qualsiasi aggregato sociale, inclusa la classe, è in realtà costituito da singoli individui. Stando quindi all approccio neoclassico, l analisi scientifica della società deve sempre partire dall analisi del comportamento del singolo. Inoltre, i neoclassici rifiutano l idea di doversi occupare di uno specifico modo di produzione, e in particolare del capitalismo. Essi si propongono di elaborare una teoria molto più astratta e generale, che valga per ogni sistema di organizzazione dei rapporti sociali e per ogni periodo storico, e che valga anche per ogni individuo (indipendentemente dalla ricchezza che possiede o dalla funzione

22 economica che svolge). In questo senso i neoclassici ritengono che il problema economico fondamentale di ogni individuo e di ogni società sia quello di impiegare al meglio i mezzi scarsi di cui dispone al fine di accrescere più che può il proprio benessere. Questo problema secondo i neoclassici è così importante che definisce in quanto tale l oggetto stesso della scienza economica. Infatti, nel Saggio sulla natura e sul significato della scienza economica del 932, lo studioso neoclassico Lionel Robbins definì l economia come quella scienza «che studia il comportamento umano come una relazione fra scopi classificabili in ordine d importanza e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi». Pochi anni dopo un altro economista neoclassico fornì una descrizione ancor più sintetica della disciplina: nel suo celebre Fondamenti di analisi economica del 947, Paul Samuelson definì il nucleo di ogni problema economico come «una funzione matematica da massimizzare sotto vincoli», dove i vincoli rappresentano le risorse scarse disponibili e la funzione da massimizzare in genere rappresenta il benessere individuale. Come vedremo, secondo i neoclassici tale benessere può esser misurato attraverso l utilità, un concetto che essi adoperano molto spesso nelle loro analisi. Per comprendere meglio il significato di queste definizioni, consideriamo il seguente esempio. Per i neoclassici una tipica risorsa scarsa è il tempo, ossia le ore del giorno. Supponiamo allora che un individuo debba decidere come impiegare le sue ore. Tra i possibili usi alternativi egli potrà scegliere di lavorare e ottenere così un reddito che gli darà modo di consumare merci, oppure potrà scegliere di riposare e dedicarsi al tempo libero. Ora, sia il riposo che il consumo di merci accrescono l utilità dell individuo, cioè aumentano il suo benessere. Come si fa a decidere quante ore dedicare al riposo e quante ore dedicare al lavoro necessario per ottenere un reddito e consumare? Quale sarà cioè la quantità ottimale di ore da dedicare al lavoro, e quale la quantità ottimale di ore da dedicare al riposo, al fine di massimizzare l utilità dell individuo? La risposta dei neoclassici verte sul cosiddetto calcolo marginale, cioè su un calcolo effettuato su incrementi piccoli, appunto marginali, delle variabili considerate. Questo calcolo si basa sul principio che al crescere del consumo di un qualsiasi bene, l utilità dell individuo tende ad aumentare ma con incrementi sempre più piccoli. Il motivo è che mentre le dosi iniziali del bene sono particolarmente gradite all individuo, le dosi successive lo condurranno verso la sazietà e quindi risulteranno meno utili. Tale principio è detto legge della utilità marginale decrescente, ed è alla base di molte analisi neoclassiche. Dunque, nel caso dell individuo considerato, si tratterà di distribuire le ore del giorno tra lavoro (e conseguente consumo di merci) e tempo libero. La scelta dell individuo avverrà sapendo che all inizio il consumo di merci è assolutamente necessario, e quindi conferisce una utilità molto alta; ma al crescere delle ore di lavoro e del consumo, e al conseguente ridursi delle ore di tempo libero, l individuo tenderà ad essere 22

23 sempre più sazio di merci ma anche sempre più stanco, per cui l utilità marginale del consumo tenderà a ridursi rispetto all utilità marginale del tempo libero. Pertanto, se vuole massimizzare l utilità, l individuo dovrà seguire questa regola: aumentare il tempo di lavoro fino a quando l utilità marginale del consumo è maggiore della utilità marginale del tempo libero, cioè fino a quando l aumento di utilità derivante dal consumo di merci reso possibile dal reddito ottenuto tramite un incremento marginale di tempo di lavoro sia maggiore o al limite uguale alla perdita di utilità causata dalla rinuncia al tempo libero che consegue a quello stesso incremento marginale di tempo di lavoro. Nel momento in cui la utilità marginale del consumo eguaglia l utilità marginale del tempo libero, l individuo starà lavorando proprio il numero ottimale di ore. Infatti, se l individuo aumentasse ulteriormente il tempo di lavoro, la perdita di utilità dovuta alla rinuncia al riposo eccederebbe l aumento di utilità derivante dal consumo di merci, e quindi egli incorrerebbe in una riduzione netta del suo benessere. Questo tipo di calcolo, effettuato per l appunto su variazioni marginali ossia molto piccole - delle grandezze considerate, è alla base della teoria neoclassica, che proprio per questo motivo viene anche detta teoria marginalista. E bene precisare che questo tipo di calcolo può indifferentemente applicarsi non solo ai lavoratori ma anche ai capitalisti, o a qualsiasi altro soggetto. Ad esempio, il possessore di ingenti ricchezze deve decidere se consumare subito tali ricchezze oppure prestarle ad altri, guadagnando così un tasso d interesse e potendo quindi consumare maggiori quantità di ricchezza in futuro. Anche in tal caso, dicono i neoclassici, si applica il calcolo marginale: il soggetto distribuirà infatti le sue ricchezze tra consumo immediato e consumo futuro in base al confronto tra le utilità marginali della prima e della seconda opzione. Anche per questo motivo, secondo i neoclassici, l analisi basata sulla esistenza delle classi sociali è inutile e per certi versi fuorviante, visto che il comportamento di ogni individuo, indipendentemente dalla classe di appartenenza, può essere esaminato come un problema di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse di cui egli dispone, e più specificamente come un problema risolvibile con il calcolo marginale. Inoltre, gli economisti neoclassici ritengono che il principio di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse possa essere applicato a qualsiasi epoca storica e a qualsiasi società, semplice o complessa che sia. L oggetto di indagine potrà essere una economia elementare, magari basata su un unico individuo, come ad esempio quella del naufrago Robinson Crusoe raccontata nel famoso romanzo di Defoe. Oppure potrà trattarsi di una economia capitalistica altamente sviluppata, costituita da tanti operatori e da una complessa rete di scambi. In ogni caso entrambe le economie affronteranno problemi analoghi, basati sul principio di massimo vincolato e risolvibili tramite il calcolo marginale. 23

24 Discutere quindi di uno specifico modo di produzione storicamente determinato, come facevano i classici e soprattutto Marx, è da ritenersi errato. Ma al di là del nuovo metodo di analisi adottato, quali furono le conclusioni politiche alle quali i neoclassici giunsero attraverso di esso? Indubbiamente, nella maggioranza dei casi, la nuova teoria perveniva a risultati più rassicuranti per i proprietari del capitale rispetto a quelli esposti dai classici e da Marx. Dall analisi neoclassica può infatti scaturire l idea che in condizioni di perfetta concorrenza una economia capitalistica di mercato sia in grado di garantire il pieno utilizzo delle risorse scarse disponibili ed anche una remunerazione delle risorse conforme al contributo di queste alla produzione. In particolare, riguardo alle fondamentali questioni della disoccupazione e dei salari, i neoclassici applicavano ancora una volta il calcolo marginalista. In primo luogo, essi ritenevano che per ogni data quantità di mezzi di produzione disponibili, i lavoratori via via assunti dalle imprese avrebbero fatto registrare una produttività sempre minore: è la legge della produttività marginale decrescente di un fattore produttivo, quando gli altri fattori siano considerati fissi. In base a questa legge, i neoclassici sostenevano che le imprese avrebbero assunto nuovi lavoratori solo se la loro produttività marginale fosse stata maggiore o al limite uguale al costo marginale dell assunzione, che corrisponde al salario reale (ossia al salario espresso in termini di potere d acquisto effettivo). Pertanto, se i lavoratori avessero accettato un salario conforme alla loro produttività, sarebbero stati certamente assunti dalle imprese. Vista quindi in quest ottica, la disoccupazione può dipendere solo dalla libera scelta del lavoratore, che magari si dichiara indisponibile ad accettare un salario equivalente alla sua produttività; oppure la disoccupazione può dipendere dall azione dei sindacati dei lavoratori, che impediscono di ridurre i salari al livello della produttività marginale, e quindi rendono impossibile l assunzione di ulteriori lavoratori da parte delle imprese. Se dunque si eliminano le distorsioni causate dai sindacati e si lascia fare alle forze del mercato, si giungerà alla piena occupazione dei lavoratori disposti ad accettare un salario equivalente alla loro produttività. In definitiva, il libero gioco delle forze del mercato conduce a un equilibrio complessivo efficiente e in un certo senso giusto : un equilibrio che alcuni teorici neoclassici definiscono equilibrio naturale. La teoria neoclassica permetteva in tal modo di elaborare una sorta di nuovo teorema della mano invisibile. Da essa si può infatti derivare l idea che l economia capitalistica non sia né instabile né conflittuale. In assenza di distorsioni causate dalla politica o dall azione sindacale, le forze spontanee del mercato condurranno il sistema economico verso un equilibrio naturale, in cui tutti coloro i quali siano disposti a lavorare al salario vigente troveranno certamente un occupazione. La nuova teoria pertanto riafferma i principi cardine del liberismo in termini più netti rispetto a quanto sostenuto dai classici. Essa infatti si fonda su una concezione non più conflittuale ma armonica 24

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