ESTRATTO DA "PIGS! LA CRISI SPIEGATA A TUTTI"
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- Ferdinando Barbato
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1 ESTRATTO DA "PIGS! LA CRISI SPIEGATA A TUTTI" IL TEMPO DI UN PENSIERO AUTONOMO Uscire dalla crisi riducendo drasticamente il debito pubblico? In che modo Giappone,e Gran Bretagna, Stati Uniti finanziano il loro debito? Le rigide norme dei Trattati di Maastricht e di Lisbona CONTRO L AUSTERITÀ Gli effetti delle politiche di austerità Il fiscal compact è un'idrovora che toglie risorse. Il New Deal di Roosevelt Superare la crisi attraverso una radicale "deregulation"? Superare la crisi attraverso una radicale "deregulation"? Speculazione delle banche favorita dalla deregulation finanziaria Uno sguardo ai mercati finanziari. Economia reale ed economia finanziaria. SOCIALISMO O BARBARIE La rivoluzione conservatrice degli anni '70 Fallimento politiche neoliberiste. Un intervento pubblico nell'economia che non sia statalismo integrale IL TEMPO DI UN PENSIERO AUTONOMO C è stato un tempo, in Italia, dice Ferrero, in cui le classi subalterne si opponevano alle classi dominanti da pari a pari, in cui i servi imparavano a leggere, a scrivere e a guardare negli occhi il padrone senza togliersi il cappello. C è stato un tempo in cui è stato possibile elaborare, sulla scia dell insegnamento di uomini come Gramsci e Di Vittorio, un pensiero autonomo dalle classi dirigenti. Il libro di Paolo Ferrero, Pigs! la crisi spiegata a tutti (DeriveApprodi 2012 ), è stato scritto con l esplicito intento di elaborare una differente comprensione della realtà per contribuire allo sviluppo di una condotta collettiva in grado di permetterci di uscire da sinistra alla crisi attuale del regime di accumulazione capitalistica. Il merito principale del libro consiste nel riuscire a spiegare, con estrema chiarezza, da un lato la reale natura della crisi economica adottando il punto di vista che si richiama alla prospettiva marxiana del materialismo storico; dall altro, l agile pamphlet possiede il pregio di riuscire a smontare i luoghi comuni più diffusi sulla crisi provando a mostrarne l infondatezza. Da questo punto di vista il linguaggio chiaro ed elementare del libro ne fa un vero e proprio strumento di battaglia politica, pronto all uso per quanti vogliano dimostrare la strumentale malafede di coloro che pontificano sulla crisi asserendo che essa non sarebbe altro che una imprevista patologia da affrontare e risolvere adottando quelle strategie che, in realtà, l hanno determinata. Uscire dalla crisi riducendo drasticamente il debito pubblico? Cominciamo da questo ultimo aspetto: si sostiene dappertutto che per uscire dal tunnel della crisi occorre ridurre drasticamente il debito pubblico. Eppure, al di fuori dell eurozona, sono numerosi i paesi con un debito ed un deficit, in rapporto al Pil, più elevati di quello italiano. Ad esempio il Giappone, dove il rapporto debito pubblico/pil è del 229% (circa miliardi di euro) e quello deficit/pil è del 7,5%. O ancora USA e Gran Bretagna.
2 E allora com è possibile che queste nazioni non vengano attaccate dalla speculazione? La verità è, risponde Ferrero, che la Banca centrale europea (Bce) è l unica banca centrale al mondo che possa prestare i soldi alle banche private, ossia finanziare il debito privato, ma non possa acquistare direttamente i titoli di Stato, ossia finanziare il debito pubblico. In che modo Giappone,e Gran Bretagna, Stati Uniti finanziano il loro debito? Questo fa sì che mentre l Italia è costretta ad andare «sul mercato» a cercare i soldi con cui finanziare il debito, il Giappone ha la sua banca centrale, la Nippon Ginkō, che compra direttamente i titoli dello Stato giapponese al tasso di interesse ufficiale dello 0,1% (avete letto bene, zero virgola uno per cento) e poi li mette sul mercato se vi sono acquirenti che li comprano a un prezzo congruo. Qualcuno può pensare che sia solo il Giappone a fare così. Niente di più falso: fa così l Inghilterra, fanno così gli Stati Uniti e tutti gli altri paesi del mondo che sono fuori dall euro. E stiamo parlando di paesi che hanno un debito pubblico grande e un debito privato grandissimo. ( ) L insegnamento è chiaro: il debito pubblico non determina problemi particolari, e non diventa oggetto di speculazione, nella misura in cui la banca centrale di quel paese può acquistare direttamente i titoli di Stato. Questo perché quando lo Stato ha bisogno di soldi verifica se vi sono investitori privati disponibili a comprare quei titoli pubblici a un interesse accettabile, e in caso contrario li vende alla sua banca centrale. In questo modo la speculazione non nasce, perché lo Stato non può essere ricattato, avendo la banca centrale come prestatore di «ultima istanza» le banche private sanno che non potranno speculare su quei titoli. Viceversa, il debito pubblico diventa occasione di guadagno per gli speculatori come in Europa se l unica fonte di approvvigionamento di danaro per gli Stati è quella del mercato dei capitali. In quel caso gli speculatori possono agire sugli Stati più deboli e ricattarli, estorcendo tassi di interesse più alti. È lo stesso meccanismo dell usura. (14-15). Le rigide norme dei Trattati di Maastricht e di Lisbona Sono le norme dei Trattati di Maastricht e di Lisbona ad imporre meccanismi di questo genere che impediscono alla Bce di comprare titoli di debito pubblico, se non per il tramite del mercato secondario. D altra parte, la vera svolta della storia del debito pubblico in Italia risale al 1981 quando si consumò in via definitiva il cosiddetto divorzio fra la Banca d Italia e il Ministero del Tesoro. Fino ad allora il deficit statale poteva essere finanziato con emissione di moneta da parte della banca centrale che agiva in tal senso obbligatoriamente. Non è un caso che il rapporto debito/pil fosse nel 1980 al 60%. Ma venuto meno questo vincolo, da quel momento in avanti fu chiaro che il finanziamento del debito pubblico sarebbe dipeso dal settore privato. CONTRO L AUSTERITÀ Altro luogo comune da smentire categoricamente: per uscire dalla crisi il mainstream continua a proporre politiche di austerità che si risolvono in drastici tagli alla spesa pubblica. In realtà, le politiche di austerità, riducendo la massa di denaro spesa dalla Stato e dai cittadini, producono recessione e aggravano la crisi anziché ridurla. (34). Questo è dovuto al fatto che, per un verso, diminuiscono i consumi ( a causa soprattutto dell elevata pressione fiscale sui percettori di redditi medio-bassi ), si crea nuova disoccupazione e diminuisce il gettito fiscale dato che i licenziati pagano meno tasse.
3 Per l altro verso le politiche di austerità si traducono in minori investimenti e, dunque, anche in questo caso, in una sostanziale riduzione dei consumi. Ma se il Pil va giù, peggiora il rapporto col deficit e col debito pubblico. Questo richiede nuove manovre di aggiustamento che non fanno che aggravare ulteriormente la crisi. Il tutto si avvita in una spirale perversa. Ecco cos è l austerità: una politica di destra che aggrava la crisi e le ingiustizie sociali. (34). In questa direzione si muovono, oramai da un trentennio, quanti ritengono che per aumentare l occupazione e far crescere la competitività occorra tagliare i salari. È sotto gli occhi di tutti cosa ha determinato, in termini di aumento della precarietà e delle disuguaglianze sociali, il taglio del costo del lavoro. Gli effetti delle politiche di austerità È il dispiegarsi di questa dinamica che, da tre anni, sta devastando la Grecia. Le politiche basate sui tagli anziché ridurre hanno aumentato il debito pubblico dal 129% al 170%. La stessa dinamica si è innescata in Italia dove le finanziarie di Berlusconi e di Monti hanno determinato dalla fine del 2011 l ingresso in recessione. Sulla stessa lunghezza d onda si situa, d altra parte, la ratifica del fiscal compact, il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance dell Unione economica e monetaria che irrigidisce l applicazione dei parametri fissati dal Trattato di Maastricht. Il fiscal compact è un'idrovora che toglie risorse. Il fiscal compact impone che tutti i paesi dell eurozona in cui il rapporto debito/pil superi il 60%, debbano rientrare in vent anni nei parametri previsti. Vuol dire che in Italia, dove si sfiora il 120%, si dovrà rientrare del 3% l anno. Fatti i conti si tratta di tagliare circa 900 miliardi di euro in vent anni: 47 miliardi l anno di tagli della spesa pubblica che si vanno ad aggiungere agli effetti dell obbligo del pareggio di bilancio, appena votato all unanimità in Parlamento e contrastato, purtroppo da fuori le Camere, solo dalla Federazione della sinistra. Per avere l idea dell effetto del fiscal compact occorre pensare che oltre alle stangate di Berlusconi e Monti, ogni anno, per i prossimi vent anni, si dovrà fare una manovra di tagli di almeno 45 miliardi di euro ( miliardi di vecchie lire). Una stangata pazzesca ogni anno per vent anni destinata a produrre gli effetti di una guerra. Mentono, quando ci dicono che ci stanno salvando. La verità è che ci stanno portando sempre più vicini alla situazione greca. Tenete presente che i 45 miliardi di tagli l anno si sommeranno al pagamento degli interessi sul debito, che oggi ammontano a circa 80 miliardi annuali. Con il fiscal compact lo Stato italiano invece di immettere denaro per far funzionare l economia toglierà alla società oltre un centinaio di miliardi di euro l anno. La recessione è assicurata. Per questo, quando Monti parla di politiche per la crescita mente sapendo di mentire. Se si tolgono 45 miliardi, anche se se ne immettono 4 o 5 di investimenti, ne mancano sempre 40 all appello. Il fiscal compact è un idrovora che toglie risorse all economia italiana e rende materialmente impossibile sottrarsi alla recessione per i prossimi decenni. (38-39). Il New Deal di Roosevelt Può essere utile ricordare che per superare la crisi del 1929 Roosevelt, col New Deal, adottò una politica economica opposta a quella adottata oggi dalla Trojka europea, fondata su un ruolo interventista dello Stato che creava posti di lavoro pubblici che aumentavano le entrate fiscali e
4 innescavano la crescita. Ma l austerità a colpi di tagli di bilancio che determinano recessione non potrà essere a lungo sostenibile. Qui Ferrero pronostica che, a un certo punto, ci faranno credere che occorrerà trovare i soldi in un altro modo, ossia attraverso la svendita del patrimonio pubblico, dalle municipalizzate alle aziende pubbliche, come Finmeccanica, all oro della Banca d Italia. Superare la crisi attraverso una radicale "deregulation"? Un altro dei luoghi comuni più diffusi è stato quello di affermare che per il superamento della crisi sarebbe stata necessaria una radicale deregulation in grado di garantire il libero funzionamento del mercato. Al fondo vi è la convinzione che il mercato possa regolarsi autonomamente, se liberato, come ebbe a dire l allora Governatore della Banca d Italia Guido Carli, dai lacci e laccioli rappresentati dalle leggi dello Stato. Tuttavia, basterebbe vedere cosa ha significato per i mercati finanziari la deregulation per constatare che essa si è tradotta in un vero e proprio far west finanziario. Si pensi, per esempio, all abrogazione della legge Glass-Steagall che impediva la commistione tra banche d affari e banche commerciali che ricevono i risparmi dei cittadini. Sono state scelte politiche consapevoli quelle che hanno, nell ultimo decennio soprattutto, indotto i governi ad eliminare le regole precedentemente istituite per presentare poi le dinamiche economiche come processi neutri che si danno esclusivamente nella forma oggettiva del mercato. Speculazione delle banche favorita dalla deregulation finanziaria Più in generale, la deregulation finanziaria ha consentito alle banche di speculare con i risparmi dei cittadini, facendo circolare titoli dalla natura sempre più lontana dall economia reale e ricorrendo ad una leva finanziaria sempre più lunga. Dal 2008 a oggi gli Stati occidentali hanno impegnato miliardi di dollari per evitare il fallimento delle banche private. Si tratta della più grande operazione di socializzazione delle perdite mai avvenuta al mondo, perché le perdite degli speculatori le hanno pagate i cittadini con la scusa che il fallimento delle banche sarebbe stata una catastrofe per l economia. In questo modo sono stati gonfiati i debiti pubblici degli Stati, e le banche appena salvate hanno individuato un nuovo terreno di guadagno speculando sui debiti pubblici degli Stati. In questo modo, invece di discutere su come frenare la speculazione finanziaria, è stata messa sotto accusa la spesa sociale. Dal punto di vista di chi dirige l orchestra è un operazione geniale. Non c è nulla di casuale, né di «naturale» nella crisi del debito. È una strategia precisa, scientifica. Infatti, se notate nonostante la crisi del 2008 sia stata generata dalla speculazione privata oggi di speculazione privata non se ne parla più. Parliamo solo dei debiti pubblici e della necessità di tagliare le spese sociali per ridurre i debiti. Oltre al danno la beffa! (66-67). " Uno sguardo ai mercati finanziari. Ma cosa sono davvero i mercati finanziari il cui giudizio viene ostentato come oggettivo e incontrovertibile? Nel 1984 le prime dieci banche al mondo controllavano il 26% del totale delle attività finanziarie. Dal 1980 al 2005 si sono verificate circa fusioni, 440 all anno, riducendo in tal modo il numero della banche a meno di Secondo l ufficio del Tesoro americano che si occupa di controllare i movimenti di valuta, al primo trimestre 2011, cinque Sim (Società di intermediazione mobiliare e divisioni bancarie) che rispondono al nome di J.P. Morgan, Bank of Amerika, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche, Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas, hanno raggiunto il controllo di oltre il 90% del
5 totale dei titoli derivati. Queste agenzie finanziarie, a conti fatti, controllano nove decimi di miliardi di dollari di titoli. Si tratta della gran parte dell economia finanziaria, visto che il mercato obbligazionario vale miliardi e le borse mondiali altri Economia reale ed economia finanziaria. Paragonata all economia reale (industria, agricoltura e servizi) il valore dei titoli finanziari è otto volte più grande del Pil mondiale, che nel 2010 è stato di miliardi. Per ogni euro prodotto nell economia reale esistono quindi 8 euro di titoli che in larga parte hanno una funzione unicamente speculativa. ( ) I mercati finanziari sono quindi formati da queste centinaia di migliaia di miliardi di titoli speculativi che sono posseduti al 90% da dieci istituzioni finanziarie. (69-70). I famosi mercati che ci guardano, che ci giudicano e che non bisogna far spaventare sono dunque costituiti da una ristretta cerchia di soggetti, una minoranza di operatori finanziari con un potere oligopolistico niente affatto concorrenziale. I mercati di cui tanto si parla non sono un dato di natura né una misteriosa divinità ma una precisa gerarchia piramidale al cui vertice poche decine di persone possono controllare oltre il 70% dei flussi finanziari globali (72) e alla cui base milioni di piccoli risparmiatori, a partire dai lavoratori che versano i contributi nei fondi pensione, vengono sistematicamente ingannati. Proprio l attuazione di un attività legislativa di deregolamentazione del mercato dei capitali e di liberalizzazione del commercio ha determinato una così elevata concentrazione di potere finanziario. SOCIALISMO O BARBARIE La crisi economica globale contemporanea viene da lontano, almeno dalla fine degli anni 60 e dai primi anni 70, quando con il ciclo di lotte mondiali di quegli anni viene messo in discussione il meccanismo di accumulazione capitalistico basato sull integrazione delle classi subalterne attraverso l aumento dei consumi. Quel modello, che nei paesi occidentali aveva determinato un lungo periodo di sviluppo economico e sociale, non regge più a causa della riduzione del saggio medio di profitto in rapporto al capitale investito in macchinari, materie prime e lavoro vivo ed a causa di un potente movimento di massa che a livello planetario pone nuove istanze di cambiamento sul terreno dell eguaglianza e della libertà. La rivoluzione conservatrice degli anni '70 Di fronte alla crisi, il capitale formula a partire dagli anni 70 una vera e propria rivoluzione conservatrice (136) basata fondamentalmente sulla cessione di sovranità degli Stati nazionali a favore di poteri economici privati. Si inaugura, in estrema sintesi, un nuovo ciclo di accumulazione basato sulla compressione dei salari, del welfare e dei diritti, sull estensione del credito al consumo e sulla speculazione finanziaria. Lungi dall essere una patologica eccezione, infatti, proprio la finanziarizzazione dell economia è stata la risposta predominante che il capitale ha sviluppato per dare una risposta alla crisi di sovrapproduzione ed alla conseguente riduzione del saggio medio di profitto. Tuttavia questa risposta è stata fallimentare perché non ha risolto le precedenti contraddizioni ma le ha, invece, allargate in misura esponenziale: Il fallimento è strutturale perché il capitalismo non ha perso contro un nemico esterno. Non sono state le lotte operaie a far fallire la globalizzazione. La globalizzazione è implosa per contraddizioni interne allo stesso meccanismo che ne aveva permesso lo sviluppo. Ne è testimonianza il fatto che la sua ideologia neoliberista continua a essere egemone, e larga parte delle popolazioni che si lamentano della crisi continuano però a pensare che occorre privatizzare, dare mano libera ai mercati, non disturbare il manovratore e così via. La crisi non è generata da un disturbo «esterno» al capitale, da lotte o proteste. La crisi è il frutto maturo della vittoria, della piena vittoria del capitale. ( ) Per questo la crisi è costituente e non lascerà nulla come prima. Il capitale non può semplicemente tornare indietro. La messa in discussione della libertà delle istituzioni finanziarie private metterebbe radicalmente in discussione gli assetti
6 di potere capitalistici. La messa in discussione della libertà della finanza porrebbe nuovamente il tema dell intervento pubblico in economia e quindi in ultima istanza il nodo della democrazia economica, del socialismo. Ogni azione di regolazione riproporrebbe cioè i nodi che il capitale aveva davanti a sé negli anni Settanta e che con il neoliberismo ha cercato di rimuovere. Viceversa, una pura prosecuzione della finanziarizzazione dell economia come sta largamente avvenendo sin ora è destinata a continuare a produrre crisi e speculazione, aumentando l instabilità sociale. ( ). Fallimento politiche neoliberiste. Quest ultimo è un tema decisivo perché mescola insieme questioni economiche con questioni politiche, ideologiche e di potere. Ammettere il fallimento delle ricette neoliberiste e dei principi del lassez-faire significherebbe tornare a dare credito al tema del controllo democratico e pubblico dell economia, in sostanza al tema del superamento dell attuale modo di produzione per approdare al socialismo. Un intervento pubblico nell'economia che non sia statalismo integrale Ma torniamo alla necessità di un intervento pubblico in grado di porre le condizioni per un differente modello di sviluppo: occorre il controllo pubblico dei più importanti mezzi di produzione e di quelli finanziari. Al di là delle numerose e convincenti proposte, sembra questa la direttrice a partire dalla quale si può pensare un superamento della crisi da sinistra. Tuttavia, Ferrero aggiunge che se il mercato non esprime la necessaria razionalità nell allocazione delle risorse e nella redistribuzione delle ricchezze, non è neanche opportuno correre il rischio di cadere nella logica dello statalismo integrale. Non è utile cioè una gestione statale tutta chiusa su se stessa e sovente dedita a sprechi enormi. Al contrario, la razionalità nella gestione dei servizi pubblici va costruita attraverso una dialettica sistematica tra programmazione statale e controllo pubblico esercitato dagli utenti e dai lavoratori. (182). Si tratta insomma di lavorare ad un processo di socializzazione dello Stato in cui si costruiscano spazi pubblici che possano rispondere efficacemente alla domanda che scaturisce dai bisogni sociali, all interno di un dialettica virtuosa tra Stato e controllo sociale. In questa prospettiva si può aprire la discussione su un New Deal di classe in cui lo Stato sia innanzitutto creatore di occupazione e capace di adottare una forte politica di programmazione industriale. Giovanni Di Benedetto
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