Il libro. L autore APROLIBRO.COM

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3 Il libro Los Angeles, Stati Uniti. Il Nord America è spaccato in due parti, la Repubblica e le Colonie, e la guerra sembra destinata a non finire mai. A quindici anni, June è già una promessa della Repubblica. Nata in una famiglia ricca e prestigiosa, oltre a una bella casa, un mucchio di soldi e la possibilità di frequentare le scuole migliori, possiede anche un vero talento nel cacciarsi nei guai e senza l intervento di Metias, il fratello maggiore, probabilmente qualcuna delle sue bravate all accademia militare sarebbe già finita male. Dalla morte dei genitori, Metias è l unico su cui può contare, almeno fino al giorno in cui viene ucciso in circostanze misteriose. Il primo sospettato è Day, un ragazzo della stessa età di June, ma nato e cresciuto nei bassifondi della Repubblica. Ed è anche il criminale più ricercato del paese. Da quel giorno, June ha un unico desiderio: vendicare Metias. Ma per lei e Day il destino ha altri piani. L autore Marie Lu è Art Director di video game e proprietaria del marchio Fuzz Academy. L ispirazione per scrivere Legend è nata guardando I Miserabili e chiedendosi come la relazione fra un famosissimo criminale e un prodigioso detective potesse essere trasferita in una storia moderna. Laureata alla Southern California University, Marie Lu vive a Los Angeles, dove passa il tempo imbottigliata nel traffico. MARIE LU

4 LEGEND Traduzione di Giorgio Salvi

5 A mia madre LOS ANGELES, CALIFORNIA REPUBBLICA D AMERICA POPOLAZIONE

6 PARTE PRIMA IL RAGAZZO CHE CAMMINA NELLA LUCE

7 DAY MIA MADRE MI CREDE MORTO. Ovviamente non sono morto, ma per lei è più sicuro crederlo. Almeno due volte al mese vedo il mio poster da ricercato trasmesso sui jumbo-schermi disseminati per tutto il centro di Los Angeles. Sembra fuori posto, lassù. La maggior parte delle immagini che passano sono quadretti allegri: bambini sorridenti sotto un cielo limpido, turisti in posa sotto le rovine del Golden Gate, spot della Repubblica con colori al neon. C è anche la propaganda anticolonie. Le Colonie vogliono la nostra terra, dichiarano i comunicati. Desiderano ciò che non hanno. Non lasciate che conquistino le vostre case! Appoggiate la causa! Poi compare la mia fedina penale. Illumina i jumbo-schermi in tutta la loro gloria multicolore: RICERCATO DALLA REPUBBLICA FILE N.: DAY RICERCATO PER AGGRESSIONE, INCENDIO DOLOSO, FURTO, DISTRUZIONE DI PROPRIETÀ MILITARE E INTRALCIO ALLO SFORZO BELLICO BANCONOTE DELLA REPUBBLICA PER INFORMAZIONI CHE CONDURRANNO AL SUO ARRESTO. Insieme alla fedina scorre sempre una foto diversa. Una volta era di un ragazzo con gli occhiali e una folta chioma di ricci color rame. Un altra di un ragazzo con gli occhi neri e neanche un capello. A volte sono nero, a volte bianco, altre ancora olivastro o marrone o giallo o rosso o qualunque altro colore venga loro in mente. In altre parole, la Repubblica non ha idea di quale sia il mio vero aspetto. Sembra che non sappiano un granché sul mio conto, tranne che sono giovane e che quando analizzano le mie impronte digitali non trovano nessuna corrispondenza nel loro database. Per questo mi odiano ed è per questo che non sono il criminale più pericoloso del paese, ma il più ricercato. Gli faccio fare brutta figura. È pomeriggio tardi, ma fuori è già buio pesto e si vedono i jumboschermi riflessi nelle pozzanghere della strada. Sono seduto sul davanzale pericolante di una finestra al secondo piano, nascosto alla vista dietro travi arrugginite. Un tempo l edificio era un condominio, ma ormai è in rovina. Il pavimento di questa stanza è ricoperto di lanterne rotte e frammenti di vetro e tutte le pareti hanno la vernice scrostata. In un angolo, un vecchio ritratto dell Elector Primo giace a terra con la faccia rivolta verso l alto. Mi chiedo chi abitasse qui, nessuno è così matto da abbandonare sul pavimento in quel modo il proprio ritratto dell Elector. Ho i capelli ficcati dentro a un vecchio berretto, come al solito, e sto fissando una casetta a un piano dall altro lato della strada. Con le dita do il tormento al ciondolo che ho al collo. Tess si appoggia all altra finestra della stanza e mi guarda attentamente. Stasera sono irrequieto e, come sempre, lei riesce a sentirlo. Il morbo ha colpito duramente il settore Lake. Nel bagliore dei jumbo-schermi Tess e io riusciamo a vedere i soldati in fondo alla strada che ispezionano ogni casa, con i loro mantelli lucenti slacciati per il caldo. Ognuno di loro indossa una maschera antigas. Quando riemergono da un abitazione, ogni

8 tanto, ne contrassegnano la porta dipingendoci sopra una grossa X rossa. Dopodiché nessuno entra o esce più da lì, almeno non alla luce del sole. «Ancora non li vedi?» sussurra Tess. La sua espressione è nascosta dalle ombre. Per cercare di distrarmi, costruisco una fionda di fortuna con vecchi tubi di PVC. «Non hanno cenato. Sono ore che non si siedono al tavolo.» Cambio posizione e mi sgranchisco il ginocchio malandato. «Magari non sono in casa?» Lancio uno sguardo arrabbiato a Tess. Sta tentando di consolarmi, ma non sono dell umore giusto. «C è una lampada accesa. Guarda quelle candele. Mia madre non le sprecherebbe mai se nessuno fosse in casa.» Tess si avvicina. «Dovremmo allontanarci dalla città per un paio di settimane, non credi?» Prova a controllare la voce, ma la paura è lì. «Presto il morbo passerà e potrai tornare a trovarli. Abbiamo soldi più che a sufficienza per due biglietti del treno.» Scuoto la testa. «Una sera a settimana, ricordi? Lasciameli controllare almeno una sera a settimana.» «Certo. Peccato che questa settimana sei venuto tutte le sere.» «Voglio solo assicurarmi che stiano bene.» «E se ti ammali?» «Correrò i miei rischi. E non eri tenuta a venire. Potevi aspettarmi ad Alta.» Tess solleva le spalle. «Qualcuno deve pur tenerti d occhio.» Due anni più piccola di me, eppure a volte sembra grande abbastanza da farmi da balia. Continuiamo a guardare in silenzio i soldati che avanzano verso la casa in cui vive la mia famiglia. Ogni volta che si fermano davanti a una porta, un soldato bussa mentre un altro gli sta a fianco con il fucile spianato. Se nessuno apre nel giro di dieci secondi, il primo soldato la butta giù a calci. Quando fanno irruzione non riesco a vederli, ma conosco la procedura: un soldato preleva un campione di sangue da ogni membro della famiglia, poi lo inserisce in un analizzatore portatile e controlla se hanno il morbo. L intera operazione richiede dieci minuti. Conto le case che separano i soldati dalla mia famiglia. Dovrò aspettare ancora un ora prima di conoscere la loro sorte. Dall altro capo della strada riecheggia un grido. I miei occhi scattano verso il suono e la mia mano verso il coltello che tengo infilato nella cintura. Tess trattiene il respiro. È una vittima del morbo. Deve essersi deteriorata per mesi perché ha la pelle screpolata e sanguinante e mi chiedo come abbiano fatto i soldati a non notarla durante le precedenti ispezioni. Barcolla per un po, disorientata, poi si lancia in avanti, ma solo per inciampare e cadere in ginocchio. Sposto di nuovo lo sguardo sui soldati. Adesso la vedono eccome. Il soldato col fucile spianato si avvicina alla donna, mentre gli altri undici rimangono dove sono e osservano la scena. Una vittima del morbo non costituisce un vero pericolo. Il soldato solleva l arma e prende la mira. Una raffica di scintille travolge la donna infetta, che crolla a terra e rimane immobile. Il soldato si riunisce ai suoi compagni. Mi piacerebbe mettere le mani su una di quelle armi. Un giocattolo come quello non costa molto sul mercato, quattrocentottanta banconote, meno di una stufa. È precisa, come tutte le armi, guidata da magneti e correnti elettriche e può colpire un bersaglio a tre isolati di distanza. Tecnologia rubata alle Colonie, mi disse una volta mio padre, anche se la Repubblica non lo ammetterebbe mai. Tess e io potremmo comprarne cinque se volessimo... Con gli anni abbiamo imparato a mettere via i soldi extra che rubiamo e tenerli da parte per le emergenze. Il vero problema di possedere una pistola non è quanto costa, ma quanto sia facile tracciarla. Ogni arma ha un sensore integrato che trasmette forma

9 della mano, impronte digitali e posizione di chi la utilizza. Abbastanza per farmi beccare. Perciò devo accontentarmi delle mie armi artigianali, fionde di PVC e gingilli simili. «Ne hanno trovata un altra» dice Tess. Strizza gli occhi per mettere meglio a fuoco. Guardo in basso e vedo i soldati che escono da una casa. Uno di loro agita una bomboletta di vernice spray e disegna una gigantesca X sulla porta. Conosco quella casa. La famiglia che abita lì un tempo aveva una figlia della mia età. Quando eravamo più piccoli, mio fratello e io ci giocavamo insieme a guardie e ladri e a hockey da strada con mazze di ferro e palle di carta. Tess prova a distrarmi indicando il fagotto ai miei piedi con un cenno. «Cosa gli hai portato?» Sorrido, poi allungo la mano per slegare il panno. «Un po della roba che abbiamo messo via in settimana. Per festeggiare degnamente appena avranno passato l ispezione.» Rovisto tra il mucchietto di tesori nel fagotto e pesco un paio di occhiali protettivi usati. Li esamino di nuovo per assicurarmi che non ci siano crepe nel vetro. «Per John. Un regalo di compleanno anticipato.» In settimana mio fratello compie diciannove anni. Lavora nelle fornaci della centrale del quartiere, ha turni di quattordici ore e torna sempre a casa con gli occhi arrossati per il fumo. Questi occhiali sono il fortunato bottino di un furto a un carico di rifornimenti militari. Li metto giù e frugo tra il resto della roba. Per lo più sono lattine di carne in scatola e fiocchi di patate che ho rubato dalla mensa di un aeronave. C è anche un paio di scarpe con le suole intatte. Mi piacerebbe poter stare nella stanza con loro quando consegnerò il fagotto. Ma l unico a sapere che sono vivo è John e ha promesso di non dirlo a mamma e a Eden. Eden compie dieci anni tra due mesi, il che significa che tra due mesi dovrà affrontare la Prova. Quando è toccato a me non l ho superata. Per questo mi preoccupo per Eden, perché anche se è di gran lunga il più intelligente di noi tre il suo modo di ragionare somiglia molto al mio. Io ero così sicuro delle mie risposte che non mi sono neanche preoccupato di assistere alla valutazione. Poi però gli addetti mi hanno portato in un angolo dello stadio insieme a un gruppo di altri ragazzini. Hanno impresso un timbro sul mio test e mi hanno stipato su un treno diretto al centro. Non mi hanno fatto portare niente tranne il ciondolo che avevo al collo. Neanche il tempo di dire addio. Dopo la Prova possono succedere varie cose. Votazione perfetta: 1500 punti. Nessuno li ha mai presi, be, tranne un ragazzino qualche anno fa sul quale l esercito ha fatto un mucchio di cerimonie. Chissà cosa capita a qualcuno con una votazione così alta? Di sicuro tanti soldi e potere, come minimo. Votazione tra 1450 e Puoi darti una pacca sulla spalla da solo perché avrai accesso immediato a sei anni di scuola superiore e poi quattro nelle migliori università della Repubblica: Drake, Stanford e Brenan. Vieni assunto dal Congresso e guadagni un sacco di soldi. Seguono gioia e felicità. Almeno stando a quanto dice la Repubblica. Votazione buona, qualcosa tra i 1250 e i 1449 punti. Continui con le superiori e poi vieni assegnato a un università. Non male. Te la cavi per un pelo con un punteggio tra i 1000 e i 1249 punti. Il Congresso ti vieta di andare alle superiori. Ti unisci ai poveri, come la mia famiglia. Hai buone probabilità di finire annegato lavorando alle turbine idrauliche o cotto al vapore nelle centrali elettriche.

10 Non passi. Di solito sono i ragazzini dei bassifondi a non superarla. Se rientri in questa sfortunata categoria, la Repubblica invia degli ufficiali a casa tua. Costringono i tuoi genitori a firmare un contratto con il quale delegano la tua custodia al Governo. Dicono che sei stato trasferito nei campi di lavoro e che la tua famiglia non ti rivedrà mai più. I tuoi genitori devono annuire e acconsentire. Alcuni addirittura festeggiano, perché la Repubblica dà loro mille banconote come dono di condoglianze. Soldi e una bocca in meno da sfamare? Ma che Governo premuroso. A parte il fatto che è tutta una bugia. Un bambino scadente, con geni marci, non serve alla nazione. Se sei fortunato, il Congresso ti lascia morire senza prima spedirti nei laboratori dove ti esaminano per trovare i difetti. Mancano cinque case. Tess vede la preoccupazione nei miei occhi e mi posa una mano sulla fronte. «È in arrivo uno dei tuoi mal di testa?» «No. Sto bene.» Scruto la casa di mia madre attraverso la finestra aperta, poi finalmente vedo di sfuggita una faccia familiare. Eden passa davanti alla finestra, poi guarda furtivamente i soldati in avvicinamento e punta loro contro uno strano congegno di metallo. Quindi torna a nascondersi e scompare alla vista. Alla luce tremolante della lampada i suoi ricci brillano di un biondo platino. Conoscendolo, ha costruito quell aggeggio per misurare a che distanza si trovano le persone, o qualcosa del genere. «Sembra più magro...» mormoro. «È vivo e se ne va in giro» risponde Tess. «Direi che è una cosa buona.» Qualche minuto dopo vediamo John e mia madre sfilare davanti alla finestra, impegnati in una discussione. John e io ci assomigliamo molto, anche se le lunghe giornate alla centrale lo hanno irrobustito. I suoi capelli, come per la maggior parte di quelli che vivono nel nostro settore, sono raccolti in una semplice coda che scende oltre le spalle. Ha la canottiera macchiata di terra rossa. Si capisce che mamma lo sta sgridando per qualcosa, forse per aver permesso a Eden di sbirciare dalla finestra. John allunga una mano, ma lei la scaccia quando le viene un attacco della sua tosse cronica. Mi lascio sfuggire un sospiro. D accordo. Se non altro sono tutti e tre sufficientemente in salute da camminare. Anche se uno di loro è infetto, è ancora abbastanza presto da avere una possibilità di guarigione. Non riesco a smettere di immaginare quello che accadrebbe se i soldati dovessero marcare la porta di mia madre. La mia famiglia rimarrebbe impalata in salotto anche dopo che i soldati se ne fossero andati. Poi mamma tirerebbe fuori la sua espressione coraggiosa, solo per rimanere alzata tutta la notte ad asciugarsi in silenzio le lacrime. La mattina inizierebbero a ricevere piccole razioni di cibo e acqua e aspetterebbero semplicemente di guarire. O morire. La mia mente vaga verso il gruzzolo di soldi rubati che Tess e io abbiamo nascosto. Duemilacinquecento banconote. Abbastanza per sfamarci per mesi... ma non abbastanza per comprare alla mia famiglia fiale di vaccino contro il morbo. I minuti scorrono lentamente. Metto via la fionda e sfido Tess a qualche mano di morra cinese. (Non so perché, ma è un fenomeno a carta, forbice, sasso.) Lancio più volte uno sguardo verso la finestra di mia madre, ma non vedo nessuno. Devono essersi riuniti vicino alla porta, pronti ad aprirla appena sentono il pugno contro il legno.

11 Poi tocca a loro. Mi sporgo dal davanzale così tanto che Tess mi afferra il braccio per assicurarsi che non cada di sotto. I soldati battono sulla porta. Mia madre apre immediatamente, fa entrare i soldati e la richiude. Mi sforzo di sentire delle voci, dei passi, qualunque cosa che provenga da casa mia. Prima questa faccenda finisce, prima posso portare di nascosto i miei regali a John. Il silenzio prosegue. Tess sussurra: «Nessuna nuova, buona nuova. Giusto?». «Molto divertente.» Conto i secondi che passano nella mia testa. Un minuto è andato. Poi due, quattro e, finalmente, dieci minuti. Poi quindici. Venti. Guardo Tess, che alza le spalle. «Magari si è rotto l analizzatore» suggerisce. Passano trenta minuti. Non oso distrarmi. Ho paura che succeda qualcosa così in fretta da perdermela, se sbatto le palpebre. Tamburello con le dita sul manico del coltello. Quaranta minuti. Cinquanta minuti. Un ora. «Qualcosa non va» mormoro. Tess arriccia le labbra. «Non puoi saperlo.» «Sì che lo so. Perché ci mettono così tanto?» Tess apre la bocca per rispondere, ma prima che possa dire una parola i soldati escono da casa mia, in fila, impassibili. L ultimo soldato si chiude la porta alle spalle e prende qualcosa dalla sua cintura. Improvvisamente mi gira la testa. So cosa sta per succedere. Il soldato stende il braccio e disegna una lunga linea rossa diagonale sulla nostra porta. Poi ne disegna un altra, formando una X. Impreco sottovoce e sto per voltarmi, ma poi il soldato fa qualcosa di inaspettato, qualcosa che non ho mai visto prima. Spruzza una terza linea verticale sulla porta di mia madre, tagliando a metà la X.

12 JUNE ORE UNIVERSITÀ DI DRAKE, SETTORE BATALLA. TEMPERATURA INTERNA 22 C. SONO SEDUTA NELL UFFICIO della segretaria del rettore. Di nuovo. Dall altro lato della porta, riesco a vedere un gruppetto di compagni (dell ultimo anno, almeno quattro anni più grandi di me) accalcati contro il vetro smerigliato per cercare di sentire cosa sta succedendo. Molti di loro mi hanno vista mentre venivo trascinata via dall esercitazione pomeridiana (lezione di oggi: come caricare e scaricare un fucile XM-621) da un paio di guardie dall aria minacciosa. Ogni volta che capita, la notizia fa il giro del campus. La ragazzina prodigio più amata della Repubblica si è di nuovo cacciata nei guai. L ufficio è silenzioso, fatta eccezione per il ronzio sordo che viene dal computer della segretaria. Ho memorizzato ogni dettaglio della stanza (pavimenti di marmo tagliato a mano importato dal Dakota, 324 piastrelle di plastica sul soffitto, sei metri di drappi grigi che pendono su entrambi i lati del glorioso ritratto dell Elector appeso al muro posteriore dell ufficio, uno schermo da trenta pollici sulla parete laterale, senza audio, e un titolo che recita: GRUPPO DI PATRIOTI TRADITORI FA ESPLODERE UNA BOMBA IN UNA STAZIONE MILITARE, CINQUE MORTI, seguito da LA REPUBBLICA SCONFIGGE LE COLONIE NELLA BATTAGLIA PER HILLSBORO). Arina Whitaker, la segretaria del rettore in persona, è seduta dietro la sua scrivania e tamburella con le dita sul vetro. Di sicuro sta scrivendo il mio rapporto. Questo trimestre è l ottavo che ricevo. Scommetto che sono l unico studente della Drake che è riuscito a collezionare otto rapporti in un trimestre senza essere espulso. «Si è infortunata la mano ieri, signora Whitaker?» dico dopo un po. Lei smette di scrivere per lanciarmi un occhiataccia. «Cosa glielo fa pensare, signorina Iparis?» «Gli intervalli quando digita i tasti sono lunghi. Sta usando di più la mano sinistra.» Miss Whitaker sospira e si appoggia allo schienale. «Sì, June. Ieri mi sono slogata il polso durante una partita di kivaball.» «Mi dispiace. Dovrebbe provare a ruotare di più il braccio e meno il polso.» Volevo solo darle un consiglio, ma è venuto fuori con il tono di una frecciatina e la signora Whitaker non sembra aver gradito. «Chiariamo una cosa, signorina Iparis,» mi dice «può darsi che lei si creda molto intelligente. Può darsi che lei creda di aver diritto a un trattamento speciale per via dei suoi voti perfetti. Può darsi anche che lei creda di avere degli ammiratori in questa scuola, viste simili assurdità.» Con un gesto indica gli studenti pigiati fuori dalla porta. «Ma io sono incredibilmente stufa di questi nostri incontri nel mio ufficio. E mi creda, quando conseguirà il diploma e verrà assegnata alla destinazione che la nazione sceglierà per lei, le sue buffonate non faranno colpo sui suoi superiori. Mi ha capito?» Annuisco, perché è ciò che si aspetta da me. Però si sbaglia. Io non credo soltanto di essere intelligente. Sono l unica persona in tutta la Repubblica ad aver superato la Prova con il punteggio perfetto di Sono stata assegnata qui, all università migliore del paese, all età di dodici anni, quattro prima del previsto. Poi ho saltato il secondo anno e alla Drake ho ottenuto per tre anni solo

13 voti impeccabili. Io sono intelligente. Ho quelli che la Repubblica definisce geni buoni e, come dicono sempre i miei professori, migliori i geni, migliori i soldati, migliori le possibilità di vittoria contro le Colonie. Perciò, se ho la sensazione che le esercitazioni pomeridiane non m insegnino abbastanza su come arrampicarmi sui muri completamente equipaggiata, allora... be, non è colpa mia se sono stata costretta a scalare la facciata di un edificio di diciannove piani con un fucile XM-621 a tracolla. Si è trattato solo di autoperfezionamento, per il bene della mia nazione. Si dice che una volta Day abbia scalato un palazzo di quattro piani in meno di otto secondi. Se il criminale più ricercato della Repubblica riesce a fare una cosa del genere, come pensiamo di catturarlo se non siamo altrettanto veloci? E se non riusciamo neanche a prenderlo, come pensiamo di vincere la guerra? Qualcosa dalla scrivania della signora Whitaker squilla tre volte. Lei schiaccia un pulsante e lo tiene premuto. «Sì?» «Il capitano Metias Iparis è all ingresso» risponde una voce. «È qui per sua sorella.» «Bene. Fatelo entrare.» Solleva il dito dal pulsante e lo punta verso di me. «Spero che questo suo fratello cominci a badare meglio a lei, perché se questo trimestre la rivedo un altra volta nel mio ufficio...» «Metias si occupa di me meglio dei miei genitori morti» rispondo, forse in modo più brusco di quanto non volessi. Piombiamo in un silenzio imbarazzante. Finalmente, dopo quella che sembra un eternità, sento della confusione in corridoio. Gli studenti accalcati contro il vetro della porta si disperdono di colpo e le loro ombre si spostano di lato per fare spazio a una sagoma. Mio fratello. Mentre Metias apre la porta ed entra, vedo delle ragazze nel corridoio che soffocano delle risatine con le mani. Ma tutta l attenzione di Metias è per me. Abbiamo gli stessi occhi, neri con una punta d oro, le stesse ciglia lunghe e i capelli scurissimi. Le ciglia lunghe fanno più effetto su di lui. Quando la porta si richiude riesco ancora a sentire i mormorii e le risate soffocate che provengono da fuori. Ha l aria di essere venuto dritto al campus dal suo servizio di pattugliamento, agghindato in alta uniforme: cappotto nero da ufficiale con doppia fila di bottoni dorati, guanti (neoprene, fodera di spectra, ricami del grado di capitano), spalline scintillanti, cappello d ordinanza, pantaloni neri, anfibi lucidi. I miei occhi incontrano i suoi. È furioso. La signora Whitaker rivolge a Metias un sorriso smagliante. «Ah, capitano!» esclama. «È un piacere vederla.» Metias la saluta cordialmente toccando il cappello. «Peccato che sia ancora in queste circostanze» risponde lui. «Le porgo le mie scuse.» «Nessun problema, capitano.» La segretaria del rettore minimizza con un gesto della mano. Che lecchina, specialmente dopo quello che mi ha appena detto. «Non è certo colpa sua. Oggi, durante la pausa pranzo, sua sorella è stata sorpresa a scalare un palazzo. Per farlo si è allontanata dal campus di ben due isolati. Come lei sa, per l addestramento fisico agli studenti è permesso utilizzare soltanto le pareti d arrampicata all interno dell università. È proibito abbandonare il campus durante la giornata...» «Sì, ne sono consapevole» la interrompe Metias, guardandomi con la coda dell occhio. «A mezzogiorno ho notato gli elicotteri che sorvolavano la Drake e ho avuto il... sospetto che June

14 potesse essere coinvolta.» Erano arrivati tre elicotteri. Non potevano farmi scendere dalla facciata dell edificio scalandolo a loro volta, così mi hanno tirato giù con una rete. «Grazie per il suo aiuto» dice Metias alla segretaria. Poi schiocca le dita e capisco che devo alzarmi. «Quando June tornerà al campus, le assicuro che si comporterà meglio.» Ignoro il sorriso finto della signora Whitaker e seguo mio fratello fuori dall ufficio e nel corridoio. Subito gli studenti ci sono addosso. «June...» dice un certo Dorian accodandosi a noi. Mi ha invitato (senza successo) al ballo annuale della Drake due volte di fila. «Allora è vero? Quanto sei riuscita a salire?» Metias lo interrompe con un occhiataccia. «June sta andando a casa.» Poi mi piazza una mano sulla spalla e mi allontana da loro. Io riesco a guardarmi dietro e sorrido ai miei compagni. «Quattordici piani» dico. L informazione sembra rimetterli in fermento. Per qualche ragione questo è il massimo dei rapporti che ho con gli altri studenti della Drake. Sono rispettata, discutono e spettegolano di me, ma nessuno parla davvero con me. Questa è la vita di una studentessa quindicenne dell ultimo anno in un università per ragazzi dai sedici anni in su. Metias non dice un altra parola mentre avanziamo per i corridoi, superiamo i prati curati del cortile interno e l imponente statua dell Elector e finalmente attraversiamo una delle palestre coperte. Passiamo accanto alla classe pomeridiana di esercitazioni a cui avrei dovuto partecipare. Guardo i miei compagni correre intorno a una gigantesca pista circondata da uno schermo a trecentosessanta gradi che simula una strada desolata come quelle del fronte. Tengono i fucili sollevati davanti a loro e cercano di caricarli e scaricarli il più velocemente possibile mentre corrono. Nella maggior parte delle altre università non ci sono tanti cadetti, ma qui alla Drake quasi tutti riceveremo un incarico nell esercito della Repubblica. Qualcun altro è destinato alla politica o al Congresso e altri verranno selezionati per rimanere a insegnare. Ma questa è la migliore università della Repubblica e, visto che i migliori vengono sempre assegnati all esercito, la sala delle esercitazioni è piena di studenti. Quando raggiungiamo uno dei viali perimetrali della Drake e salgo sul sedile posteriore della jeep militare che ci sta aspettando, Metias riesce appena a contenere la sua rabbia. «Sospesa per una settimana? Ti dispiacerebbe spiegarmelo?» mi domanda. «Rientro dopo una mattinata passata a fare i conti con i ribelli e cosa mi tocca sentire? Elicotteri a due isolati dalla Drake. Una ragazzina che scala un grattacielo.» Scambio uno sguardo amichevole con Thomas, il soldato alla guida. «Mi dispiace» mormoro. Metias si volta indietro dal sedile del passeggero e mi fissa con gli occhi stretti. «Che diavolo ti è venuto in mente? Ti sei accorta che eri uscita dal campus?» «Sì.» «Ovvio. Hai quindici anni. Ti sei arrampicata per quattordici piani sopra a un...» Metias fa un respiro profondo, chiude gli occhi e si ricompone. «Per una volta, apprezzerei molto se mi lasciassi svolgere i miei incarichi giornalieri senza dovermi preoccupare di quello che stai combinando.» Cerco di incontrare di nuovo lo sguardo di Thomas nello specchietto retrovisore, ma ha gli occhi fissi sulla strada. Ovviamente non dovrei aspettarmi alcun aiuto da parte sua. Sembra più in ordine del solito, con i capelli perfettamente pettinati e la

15 divisa stirata a pennello. Nemmeno un pelo o un filo fuori posto. Nonostante Thomas sia di molti anni più giovane di Metias e un subordinato della sua pattuglia, è la persona più rispettosa delle regole che conosco. A volte vorrei avere anch io tutta quella disciplina. Probabilmente disapprova le mie bravate anche più di Metias. Ci lasciamo il centro di Los Angeles alle spalle e percorriamo l autostrada tortuosa in silenzio. Il paesaggio passa dai grattacieli a cento piani del settore Batalla ai casermoni e ai complessi residenziali per civili, ognuno alto tra i venti e i trenta piani, con le luci guida rosse che lampeggiano sui tetti, quasi tutti con la vernice scrostata a seguito delle tempeste di quest anno. Le travi metalliche di supporto tracciano delle croci sulle loro pareti. Mi auguro che quei supporti vengano rinforzati presto. Negli ultimi tempi la guerra si è intensificata e visto che diversi decenni di fondi destinati alle infrastrutture sono stati trasferiti all approvvigionamento del fronte, non so se questi edifici potrebbero affrontare un altro terremoto. Dopo qualche minuto Metias riprende a parlare in tono più pacato. «Oggi mi hai fatto davvero spaventare» dice. «Ho temuto che ti scambiassero per Day e ti sparassero.» Lo so che il suo non voleva essere un complimento, ma non posso fare a meno di sorridere. Mi piego in avanti per appoggiare il braccio sul suo schienale. «Ehi,» gli dico, tirandogli l orecchio come facevo da piccola «mi dispiace di averti fatto preoccupare.» Lui si lascia sfuggire una risatina sarcastica, ma si capisce che la rabbia sta già sfumando. «Certo. È quello che dici ogni volta, Junbruco. Per caso la Drake non ti tiene la mente abbastanza impegnata? Se è così, non so proprio come aiutarti.» «Sì che lo sai... se solo tu mi portassi con te in qualcuna delle tue missioni contro i Patrioti, probabilmente imparerei molto di più e starei lontana dai guai.» «Bel tentativo. Non vai da nessuna parte finché non ti laurei e non vieni assegnata alla tua pattuglia.» Mi mordo la lingua. L anno scorso, quando tutti gli studenti del terzo anno hanno dovuto affiancare un unità dell esercito a loro assegnata, Metias mi ha scelto per una missione. Il suo comandante lo ha mandato a uccidere un prigioniero di guerra delle Colonie in fuga. Così Metias mi ha portato con lui e insieme abbiamo inseguito il prigioniero di guerra addentrandoci sempre di più nel nostro territorio, lontano dalle barriere divisorie e dalla striscia di terra che va dal Dakota al Texas Occidentale e separa la Repubblica dalle Colonie, lontano dal fronte, dove le aeronavi punteggiano il cielo. Ho seguito le sue tracce fino a un vicolo di Yellowstone City, nel Montana, e Metias gli ha sparato. Durante l inseguimento mi sono rotta tre costole e mi hanno conficcato un coltello nella gamba e adesso Metias si rifiuta di portarmi con lui. Quando finalmente mio fratello si decide a parlare di nuovo, sembra curioso suo malgrado. «Allora, dimmi,» domanda a fil di voce «quanto ci hai messo a scalare quei quattordici piani?» Thomas brontola senza aprire bocca, ma sulla mia faccia si allarga un sorriso soddisfatto. La tempesta è passata. Metias mi vuole di nuovo bene. «Sei minuti» sussurro a mia volta. «E quarantaquattro secondi. Che te ne pare?» «Devi aver stabilito un nuovo tipo di record. Non che, sia ben chiaro, avresti dovuto farlo.» Thomas ferma la jeep a un semaforo rosso e guarda Metias con aria esasperata. «Andiamo, capitano» dice. «June, cioè, la signorina Iparis non imparerà mai niente se continua a lodarla per aver infranto le regole.» «Su con la vita, Thomas.» Metias allunga la mano e gli dà una pacca sulla spalla. «Sono sicuro che

16 infrangere una regola ogni tanto è tollerabile, specialmente se lo fai per aumentare le tue capacità per il bene della Repubblica. Vittoria contro le Colonie. Dico bene?» Il semaforo diventa verde e Thomas riporta gli occhi sulla strada (sembra contare mentalmente fino a tre prima di spingere la jeep in avanti). «D accordo» borbotta. «Però dovrebbe comunque stare attento alle cose che incoraggia la signorina Iparis a fare, soprattutto adesso che i vostri genitori non ci sono più.» La bocca di Metias si stringe in una linea e nei suoi occhi appare uno sguardo familiare, teso. Per quanto il mio intuito sia affilato, per quanto io vada bene all università e ottenga un punteggio perfetto in autodifesa, al poligono di tiro o nel combattimento corpo a corpo, gli occhi di Metias contengono sempre quella paura. Teme che un giorno possa succedermi qualcosa, come l incidente d auto che ci ha strappato i genitori. Quella paura non abbandona mai il suo volto. E Thomas lo sa. Non ho conosciuto i nostri genitori abbastanza a lungo da sentirne la mancanza allo stesso modo di Metias. Ogni volta che piango per la loro perdita, piango perché non ho alcun ricordo che li riguardi. Solo vaghe reminiscenze di gambe lunghe, di adulto, che si muovono per il nostro appartamento e mani che mi sollevano dal seggiolone. Tutto qui. Tutti gli altri ricordi della mia infanzia io che guardo verso il buio della sala mentre ricevo un premio, che sorseggio la minestra preparata per me perché sono malata, che vengo sgridata o messa a letto con le coperte rimboccate sono legati a Metias. Superiamo metà del settore Batalla e attraversiamo alcuni isolati poveri. (Questi mendicanti non potrebbero tenersi un po più a distanza dalla jeep?) Finalmente raggiungiamo gli sfavillanti palazzoni terrazzati di Ruby e siamo a casa. Metias scende per primo. Mentre lo seguo, Thomas accenna un sorriso. «A presto, signorina Iparis» mi dice, dandosi un colpetto al cappello. Ho smesso di provare a convincerlo a chiamarmi June, non cambierà mai. Tutto sommato non è poi tanto male essere chiamata in modo rispettabile. Magari quando cresco e Metias smette di svenire all idea che io possa uscire con qualcuno... «Ciao, Thomas. Grazie per il passaggio.» Ricambio il sorriso prima di scendere dalla jeep. Metias aspetta che la portiera si sia richiusa prima di girarsi verso di me e abbassare la voce. «Stasera farò tardi» mi dice. Di nuovo quella tensione negli occhi. «Non uscire da sola. Secondo le notizie dal fronte, stasera toglieranno la corrente alle abitazioni per risparmiare energia destinata alle basi aeree. Perciò rimani a casa, intesi? Le strade saranno più buie del solito.» Il mio cuore fa un tonfo. Vorrei che la Repubblica si sbrigasse a vincere questa guerra una buona volta, così potremmo avere un mese intero di elettricità continua. «Dove stai andando? Posso venire con te?» «Devo sorvegliare il laboratorio del Central Hospital. Consegneranno delle fiale di un virus mutato, non dovrebbe volerci tutta la notte. E ti ho già detto di no. Nessuna missione.» Metias ha un attimo di esitazione. «Torno prima che posso. Abbiamo un sacco di cose da dirci.» Mi mette le mani sulle spalle, ignora il mio sguardo perplesso e mi dà un bacio veloce sulla fronte. «Ti voglio bene, Junbruco.» È il suo modo di salutarmi. Poi si gira per risalire sulla jeep. «Non ho intenzione di aspettarti alzata» gli urlo dietro, ma è già entrato in macchina e la jeep si sta allontanando con lui dentro. «Stai attento» bisbiglio. Ma è inutile dirglielo adesso.

17 Metias è troppo lontano per sentirmi.

18 DAY QUANDO AVEVO SETTE ANNI, mio padre tornò a casa dal fronte per una settimana di licenza. Il suo lavoro consisteva nel fare pulizia dopo il passaggio dei soldati della Repubblica, perciò era sempre via e a mia madre è toccato tirarci su da sola. Quando quella volta tornò, le pattuglie cittadine effettuarono un controllo di routine in casa nostra e poi trascinarono mio padre alla centrale di polizia di zona per interrogarlo. La polizia ce lo restituì con due braccia rotte e la faccia insanguinata. Molte notti dopo, immersi una palla di ghiaccio tritato in una latta di benzina, aspettai che il petrolio si solidificasse attorno al ghiaccio e gli diedi fuoco. Poi lo lanciai con una fionda dentro la finestra della centrale di polizia di zona. Ricordo ancora le autopompe che arrivarono a sirene spiegate subito dopo e i resti carbonizzati dell ala ovest dell edificio. Non presero mai il colpevole e io non mi feci avanti. Dopotutto, non c era alcuna prova. Avevo commesso il mio primo crimine perfetto. Mia madre sperava che un giorno mi sarei elevato dalle mie umili radici. Che sarei diventato una persona di successo, magari anche famoso. Famoso lo sono eccome, ma non credo che sia quello che mia madre aveva in mente. È di nuovo il tramonto, sono quasi quarantotto ore che i soldati hanno marcato la porta di casa nostra. Aspetto nell ombra di un vicolo a un isolato dal Los Angeles Central Hospital e guardo il personale entrare e uscire dall ingresso principale. È una notte nuvolosa, senza luna, e non riesco neanche a vedere il cartello fatiscente della Bank Tower in cima all edificio. Ogni piano risplende di luci elettriche, un lusso che solo gli edifici governativi e le case dei ricchi possono permettersi. Una colonna di jeep militari attende lungo la strada il permesso di accedere al parcheggio sotterraneo. Qualcuno controlla che i loro documenti siano a posto. Io rimango immobile, con gli occhi fissi sull entrata. Stasera sono proprio una forza. Ai piedi ho le mie scarpe buone, degli anfibi di pelle scura ammorbidita dall usura, con lacci robusti e punte di ferro. Comprati con centocinquanta banconote della nostra riserva. Sotto ciascuna suola ho nascosto un coltello e quando muovo il piede riesco a sentire il metallo freddo a contatto con la pelle. Ho infilato i pantaloni negli anfibi e nelle tasche ho un paio di guanti e un fazzoletto nero. Una camicia scura con le maniche lunghe annodata intorno alla vita. I capelli, di solito biondo platino, sono sciolti sulle spalle. Stavolta mi sono tinto di nero corvino, come se li avessi immersi nel petrolio grezzo. Oggi, nel retro di una cucina, Tess ha barattato cinque banconote con un secchio di sangue di maiale pigmeo che ho usato per imbrattarmi le braccia, la pancia e la faccia. Sulle guance mi sono anche spalmato del fango, tanto per stare sicuro. L ospedale occupa i primi dodici piani del palazzo, ma a me interessa solo quello senza finestre. Il secondo, il laboratorio, dove tengono i campioni di sangue e le medicine. Dall esterno l intero piano è nascosto da elaborate sculture di pietra e bandiere della Repubblica consumate. Oltre la facciata si estende un vasto ambiente privo di corridoi e porte, solo un gigantesco stanzone con dottori e infermiere dietro a mascherine bianche, provette e pipette, incubatrici e barelle. Lo so perché ci sono già stato. Il giorno in cui non ho superato la Prova, il giorno in cui avrei dovuto morire. Esamino la fiancata della torre. A volte riesco a irrompere in un edificio passando dall esterno, se ci

19 sono balconi da cui saltare e davanzali su cui mantenersi in equilibrio. Una volta ho scalato un palazzo di tre piani in meno di cinque secondi. Questo però è troppo liscio, senza punti d appoggio. Dovrò raggiungere il laboratorio dall interno. Rabbrividisco nonostante il caldo e vorrei aver chiesto a Tess di accompagnarmi, ma due intrusi sono più facili da prendere di uno. E poi non è la sua famiglia che ha bisogno di cure. Controllo di aver infilato il ciondolo sotto la maglietta. Un veicolo medico solitario accosta dietro le jeep militari. Diversi soldati scendono e salutano le infermiere mentre altri scaricano delle scatole dal furgone. Al comando del gruppo c è un giovane ufficiale con i capelli scuri vestito tutto di nero, a eccezione di due file di bottoni d argento sulla giacca. Aguzzo l udito per sentire cosa sta dicendo a una delle infermiere. «...dalla sponda del lago.» L uomo si tira i guanti. Intravedo la pistola infilata nella cintura. «Stanotte i miei uomini sorveglieranno le entrate.» «Va bene, capitano» risponde l infermiera. L uomo la saluta toccandosi il cappello. «Mi chiamo Metias. Se ha delle domande, venga pure da me.» Attendo che i soldati si siano sparpagliati intorno al perimetro dell ospedale e l ufficiale di nome Metias sia impegnato in una conversazione con due dei suoi uomini. Molti altri mezzi di soccorso vanno e vengono e scaricano soldati, alcuni con fratture agli arti, altri con lesioni alla testa e ferite alle gambe. Faccio un respiro profondo e poi esco dall ombra e barcollo verso l entrata dell ospedale. È un infermiera a notarmi per prima, appena fuori dalle porte d ingresso. Il suo sguardo cade subito sul sangue che ho sulle braccia e in faccia. «Posso entrare, cugina?» le chiedo. Faccio una smorfia di dolore immaginario. «C è ancora posto stanotte? Posso pagare.» Mi guarda senza alcuna pietà prima di rimettersi a scrivere sul suo blocchetto. Forse non ha gradito l appellativo affettuoso. Ha un cartellino di riconoscimento appeso al collo. «Cosa ti è successo?» mi domanda. Quando la raggiungo mi piego in due e mi accascio sulle ginocchia. «Una rissa» dico ansimando. «Credo che mi abbiano accoltellato.» L infermiera non mi degna di un altro sguardo. Finisce di scrivere e fa un cenno con la testa a una delle guardie. «Perquisiscilo.» Rimango dove sono mentre due soldati controllano che non abbia armi addosso. Quando mi toccano le braccia e la pancia grido al momento giusto. Non trovano i coltelli che nascondo negli anfibi, però intascano il sacchetto di banconote che tengo legato alla cinta: il dazio per accedere all ospedale. Naturale. Se fossi stato un ragazzo di qualche settore ricco, mi avrebbero ammesso senza chiedermi soldi. Oppure mi avrebbero mandato un dottore gratis direttamente a casa. Quando i soldati fanno segno all infermiera che sono a posto, lei mi indirizza verso l entrata. «La sala d attesa è a sinistra. Trovati un posto.» La ringrazio e mi trascino verso le porte scorrevoli. Mentre passo, l ufficiale di nome Metias mi osserva. Sta ascoltando con attenzione uno dei suoi soldati, ma lo vedo che studia la mia faccia come per abitudine. Anch io memorizzo la sua. L interno dell ospedale è di un bianco spettrale. Vedo la sala d aspetto alla mia sinistra, proprio come ha detto l infermiera, uno spazio enorme pieno zeppo di persone con ferite di entità e dimensione variabile. Molti gemono per il dolore, uno addirittura giace a terra immobile. Non voglio neanche immaginare da quanto tempo sono parcheggiati lì, o quanto hanno dovuto sborsare per

20 entrare. Prendo nota della posizione di ogni soldato due davanti allo sportello della segretaria, due in fondo accanto alla porta del dottore, molti vicino agli ascensori, tutti con un tesserino di riconoscimento e poi abbasso lo sguardo sul pavimento. Trascino i piedi fino al sedile più vicino e mi siedo. Per una volta il mio ginocchio malandato serve a qualcosa. Tengo comunque le mani premute sul fianco, per precauzione. Conto a mente dieci minuti, abbastanza perché nella sala d aspetto siano arrivati altri pazienti e i soldati siano meno interessati a me. Quindi mi alzo, faccio finta di barcollare e sbando verso il soldato più vicino. Lui porta istintivamente la mano alla pistola. «Rimettiti seduto» mi ordina. Inciampo e gli cado addosso. «Mi serve il bagno» sussurro, con la voce rauca. Mi aggrappo al suo mantello nero con le mani tremanti per riprendere l equilibrio. Il soldato mi guarda disgustato, mentre i suoi compagni sghignazzano. Vedo le sue dita scivolare verso il grilletto della pistola, ma uno degli altri soldati scuote la testa. Niente sparatorie all interno dell ospedale. Il soldato mi spinge via e indica con la pistola la fine del corridoio. «Laggiù» dice in tono brusco. «Vedi di toglierti quella schifezza dalla faccia. E se mi tocchi ancora ti riempio di piombo.» Mollo la presa e quasi cado in ginocchio. Poi mi giro e m incammino con passo malfermo verso la toilette, gli anfibi di pelle scricchiolano sulle mattonelle del pavimento. Mentre entro nel bagno e chiudo a chiave la porta, mi sento addosso gli occhi dei soldati. Non importa. Tra un paio di minuti si saranno dimenticati di me. E ci vorranno molti altri minuti prima che quello al quale mi sono aggrappato si accorga che gli manca il tesserino. Appena sono nel bagno la smetto con il numero del malato. Mi sciacquo la faccia e strofino finché il grosso del sangue non è venuto via. Apro la cerniera degli anfibi e tolgo le solette interne per prendere i coltelli, che inserisco nella cinta. Mi rimetto gli anfibi. Poi mi slego la camicia nera dalla vita e la indosso, abbottonandola fin sopra al colletto e allacciandoci sopra le bretelle. Lego stretti i capelli e infilo la coda nella camicia in modo che aderisca alla schiena. Per ultimo, metto i guanti e mi annodo un fazzoletto nero intorno alla bocca e al naso. Se qualcuno dovesse beccarmi adesso, sarei comunque costretto a scappare. Tanto vale coprirsi il volto. Quando ho finito, uso la punta di uno dei coltelli per svitare la grata del condotto di aerazione. Poi tiro fuori il tesserino di riconoscimento del soldato, lo aggancio alla collanina e mi infilo nel cunicolo. L aria nel condotto ha un odore strano e sono contento per il fazzoletto intorno alla faccia. Mi trascino in avanti più velocemente che posso. Il condotto è largo non più di sessanta centimetri e ogni volta che avanzo devo chiudere gli occhi e ricordare a me stesso di respirare, che le pareti di metallo che mi circondano non si stanno restringendo. Non devo fare molta strada, nessuno di questi condotti porta al secondo piano. Devo solo allontanarmi quanto basta per sbucare in una delle trombe delle scale dell ospedale, lontano dalle guardie del primo piano. Continuo ad avanzare. Penso alla faccia di Eden, alle medicine che serviranno a lui, a John e a mia madre, e all insolita X con la linea in mezzo. Dopo diversi minuti il condotto diventa un vicolo cieco. Sbircio dalla grata e i fasci di luce mi mostrano i segmenti di una scala circolare. Il pavimento è di un bianco immacolato, quasi stupendo e,

21 cosa più importante, sgombro. Conto fino a tre, poi tiro indietro le braccia e colpisco la griglia del condotto con tutta la forza che ho. La grata vola via e riesco a vedere meglio le scale, una grossa camera cilindrica con pareti alte e lisce intervallate da piccole finestrelle. Un enorme spirale di gradini. Adesso mi muovo con la massima velocità e nessuna copertura. Presto! Esco a fatica dal condotto e mi precipito su per la rampa. A metà della salita mi aggrappo alla balaustra e mi do lo slancio per raggiungere la curva successiva. Le telecamere di sorveglianza devono essere tutte su di me. Da un minuto all altro scatterà l allarme. Primo piano, secondo piano. Sta per scadere il tempo. Mentre mi avvicino alla porta del secondo piano, mi strappo il tesserino dal collo e mi fermo quanto basta per passarlo sul lettore. Le telecamere di sicurezza non hanno fatto partire l allarme in tempo per isolare il pozzo delle scale. La maniglia scatta: sono dentro. Spalanco la porta. Mi ritrovo in un enorme stanza piena di barelle allineate e prodotti chimici che sobbollono sotto cappe di metallo. Dottori e soldati mi fissano allibiti. Afferro la prima persona che mi capita a tiro, un giovane medico in piedi vicino alla porta. Prima che uno dei soldati abbia il tempo di puntarmi contro una pistola, estraggo alla svelta uno dei coltelli e lo punto alla gola dell uomo. Gli altri dottori e le infermiere si bloccano di colpo. Molti di loro gridano. «Se sparate, colpirete lui» urlo ai soldati da dietro il fazzoletto. Mi tengono sotto tiro e il dottore mi trema tra le mani. Premo di più il coltello, stando attento a non tagliarlo. «Non ti faccio niente» gli bisbiglio all orecchio. «Dimmi dove trovo le cure per il morbo.» Lui emette un mugolio strozzato e mi accorgo che sta sudando. Fa un gesto verso i frigoriferi. I soldati sono ancora titubanti, ma uno di loro mi strilla un ordine. «Libera il dottore!» mi grida. «Metti le mani in alto.» Ho voglia di ridere. Il soldato deve essere una recluta. Attraverso la stanza insieme al dottore e mi fermo davanti ai frigoriferi. «Indicameli.» Il mio ostaggio solleva una mano tremolante e tira la porta del frigorifero. Una ventata di aria gelida ci investe. Mi domando se il dottore riesca a sentire quanto mi batte forte il cuore. «Eccoli» sussurra. Distolgo lo sguardo dai soldati il tempo che basta per vedere il dottore che punta il ripiano più in alto. Metà delle fiale è contrassegnata dalla X a tre linee: VIRUS FILOVIRIDAE MUTATI. L altra metà è etichettata VACCINO Ma le fiale sono tutte vuote. Hanno finito le scorte. Impreco a denti stretti. Passo in rassegna gli altri ripiani: solo soppressori del morbo e antidolorifici. Impreco di nuovo. Troppo tardi per fare marcia indietro. «Adesso ti lascio» bisbiglio al dottore. «Stai giù.» Allento la presa e lo spingo così forte da farlo cadere in ginocchio. I soldati aprono il fuoco, ma io sono pronto. Mi riparo dietro la porta aperta del frigorifero mentre i proiettili le rimbalzano contro. Afferro diverse manciate di boccette di soppressori e me le infilo nella camicia. Mi lancio verso l uscita. Un colpo vagante mi prende di striscio e un dolore lancinante mi infiamma il braccio. Sono quasi fuori. Nell istante in cui attraverso la porta s innesca un allarme. Segue un coro di scatti metallici e tutte le porte delle scale si chiudono dall interno. Sono in trappola. I soldati possono ancora accedere da

22 qualsiasi porta, mentre io non posso uscire. Nel laboratorio echeggiano urla e rumore di passi. Una voce grida: «L abbiamo colpito!». I miei occhi corrono verso le minuscole finestrelle sulle pareti in cartongesso. Sono troppo distanti perché io possa raggiungerle dai gradini. Stringo i denti e tiro fuori il secondo coltello, così adesso ne ho uno per mano. Prego che i pannelli siano abbastanza morbidi, poi spicco un balzo e mi lancio contro il muro. Un coltello affonda completamente. Dal braccio ferito zampilla sangue e non riesco a trattenere un grido di dolore. Sono sospeso a metà strada tra le scale e la finestra più vicina. Mi dondolo avanti e indietro più che posso. Il pannello sta per cedere. Sento la porta del laboratorio spalancarsi alle mie spalle e i soldati che si riversano giù per le scale. Tutt intorno sibilano i proiettili. Mi giro verso la finestra e mollo la presa sul coltello conficcato nel muro. La finestra va in frantumi e di colpo sono di nuovo fuori nel buio della notte e sto cadendo, cadendo, cadendo giù come una stella. Strappo i bottoni della camicia e la lascio gonfiare dietro di me mentre i pensieri mi attraversano la testa. Ginocchia piegate. Prima i piedi. Rilassa i muscoli. Atterra sulle punte. Rotola. Il terreno corre verso di me. Mi preparo all impatto. L urto mi toglie il respiro. Rotolo quattro volte prima di schiantarmi contro il muro dall altra parte della strada. Per un attimo rimango lì, accecato, completamente impotente. Sopra di me, dalla finestra del secondo piano, sento le voci concitate dei soldati che hanno capito di dover tornare al laboratorio per disattivare l allarme. Riacquisto gradualmente i sensi, adesso sono perfettamente consapevole del dolore al fianco e al braccio. Uso il braccio buono per tirarmi su e ho un fremito. Mi pulsa il petto, credo di essermi rotto una costola. Quando provo a rialzarmi mi accorgo di essermi anche slogato una caviglia. Non so dire se sia l adrenalina a impedirmi di accusare altri effetti della caduta. Da dietro l angolo del palazzo arrivano delle grida. Mi sforzo di pensare. Adesso sono sul retro dell edificio e da qui si diramano diverse stradine che si perdono nell oscurità. Avanzo zoppicando finché non sono al buio. Quando mi guardo indietro, vedo un gruppetto di soldati che si precipita nel punto in cui sono caduto e indica il vetro rotto e il sangue. Uno di loro è il capitano che ho visto prima, il giovane uomo di nome Metias. È lui a ordinare agli uomini di sparpagliarsi. Affretto il passo e cerco di ignorare il dolore. Curvo le spalle in modo che il nero dei vestiti e dei capelli mi aiuti a fondermi con le ombre. Mantengo gli occhi bassi. Devo trovare un tombino. I margini del mio campo visivo iniziano a sfocarsi. Mi premo una mano sull orecchio per sentire se c è sangue. Per adesso niente, buon segno. Qualche attimo dopo intravedo un tombino al centro della strada. Sospiro, mi sistemo il fazzoletto che mi copre la faccia e mi piego per sollevare il coperchio. «Fermo. Rimani dove sei.» Mi giro di scatto e mi trovo di fronte Metias, il giovane capitano. Ha una pistola puntata dritta al mio petto, ma con mio grande stupore non preme il grilletto. Stringo la presa sull unico coltello che mi rimane. Qualcosa nel suo sguardo cambia e capisco che ha riconosciuto in me il ragazzo che aveva finto di arrancare dentro all ospedale. Mi viene da sorridere,

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