Sent. n. 55 del 17 marzo 1997 (ud. del 13 febbraio 1997) della Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, Sez. VII - Pres. e Rel. Crotti

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1 Sent. n. 55 del 17 marzo 1997 (ud. del 13 febbraio 1997) della Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, Sez. VII - Pres. e Rel. Crotti Fatto - Omessa contabilizzazione di interessi attivi presunti ai sensi dell'art. 76, comma 5, e art. 9, comma 3, del D.P.R. n. 917/1986. Accertamento ad una multinazionale italiana: presunzione di fruttuosità in relazione ad un prestito di notevole importo, infruttifero e concesso dalla multinazionale italiana alla propria controllata (100%) in Lussemburgo. Il prestito viene deliberato, dalla multinazionale, "infruttifero", in sede assembleare. La controllata in Lussemburgo ha utilizzato il finanziamento per acquistare immobilizzazioni; il finanziamento inoltre, rappresenta per la controllata, la principale fonte di finanziamento. Al riguardo, la tesi sostenuta dall'amministrazione finanziaria è quella del recupero di "interessi attivi non dichiarati", per la mancata contabilizzazione degli interessi stessi. Norme violate: art. 56, comma 3, art. 76, comma 5, ed art. 9, comma 3, del D.P.R. n. 917/1986. Ai sensi della citata normativa, in altre parole, la società avrebbe dovuto dichiarare, quale componente positivo del reddito d'impresa, gli interessi maturati in base al valore normale del relativo funzionamento. Nella fattispecie, la parte oppone, fra l'altro, che: a) il prestito concesso dalla società nazionale, contrattualmente, è previsto, come da delibera assembleare della società controllante in sede di concessione del prestito, senza interessi (ed è evidente l'assenza di interessi, dal momento che nella contabilità della collegata lussemburghese, non figura il pagamento, a tale titolo, di oneri passivi); b) i finanziamenti a società controllate nazionali possono legittimamente essere effettuati senza previsioni di interessi; c) il Lussemburgo è membro della Cee. Ne consegue che l'eventuale applicazione del disposto del comma 5, dell'art. 76 del D.P.R. n. 917/1986 anche ai finanziamenti infruttiferi di società nazionale alle proprie controllate estere, ma pur sempre nell'ambito Cee, viola palesemente le norme e gli accordi comunitari, in quanto limita e condiziona i rapporti tra i singoli Paesi della Comunità. L'Amministrazione insiste: la valutazione va effettuata tenendo conto della speciale disciplina del "valore normale", la valutazione in base al valore normale dei ricavi o costi dipendenti dalle operazioni in disamina, con la conseguente ripresa a tassazione di maggiori ricavi e con il riconoscimento di minori costi "è assistita da presunzione assoluta che, come è noto, non ammette la prova contraria"; il Ministero delle finanze, con circolare n. 32/9/2267 del 22 settembre 1980 ha precisato che va osservato il principio del prezzo di libera concorrenza e che, in particolare, per quanto concerne i finanziamenti, il saggio di interesse della transazione va determinato considerando quello pattuito o che sarebbe stato pattuito per un mutuo similare contratto da impresa indipendente. E deve aversi riguardo non solo al tasso esistente sul mercato del mutuante ma anche ad altri fattori che possono, in concreto, influenzarne le condizioni. In particolare: ammontare del prestito; durata; titolo, natura ed oggetto del negozio; posizione finanziaria del mutuante; moneta di computo; rischi di cambio; garanzie prestate in relazione al finanziamento concesso. Tesi conclusiva: il prestito in oggetto è da considerarsi fiscalmente fruttifero; naturale conseguenza: gli interessi, da determinarsi con i criteri illustrati, costituiranno elemento positivo di reddito e saranno,

2 pertanto, oggetto di variazione in aumento nella dichiarazione dei redditi relativa all'anno di riferimento, al tasso del 10%. Diritto - L'art. 76, comma 5, dispone che, le operazioni infragruppo, intercorrenti tra un'impresa residente nello Stato e società non residenti, direttamente o indirettamente, controllante e/o controllata della/dalla stessa, possono originare componenti di reddito la cui quantificazione, se ne deriva un aumento dello stesso, va effettuata non in base ai prezzi e/o corrispettivi contrattuali dei beni compravenduti e/o dei servizi prestati, ma in base al loro valore normale, cioè in base ai prezzi e/o ai corrispettivi mediamente praticati per beni e servizi della stessa specie, o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni e/o i servizi sono stati acquistati o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Calando, ora, la fattispecie giuridica astratta, come sopra delineata, nell'ambito della fattispecie concreta in esame, il quesito può così sostanziarsi: "in condizioni di libera concorrenza, una società residente concederebbe un prestito, finalizzato all'acquisto di immobilizzazione finanziarie, di L. X a titolo gratuito, senza un predeterminato piano di ammortamento e senza garanzie formali, ad una società controllata al 100%, residente nel Lussemburgo e, qualora si ritenesse che, coeteris paribus, la concessione a titolo gratuito non potesse avvenire, quale sarebbe il sarebbe il tasso d'interesse mediamente praticato?". Come appare evidente dalla formulazione del quesito, la chiave per un'esatta soluzione dello stesso, si sostanzia nella puntuale delimitazione del concetto di libera concorrenza. Non fornendo il legislatore, né direttamente né indirettamente, una definizione dello stesso, questo giudice, per pervenire ad una sua individuazione, non può fare a meno di sussumerla da quelle scienze, come quella economica, che ne hanno elaborata una propria. Secondo la scienza economica, dunque, per (libera) concorrenza si intende una forma di mercato caratterizzata dalla presenza di una moltitudine di operatori, nessuno dei quali, singolarmente, è in grado di influire con le proprie decisioni sull'andamento delle contrattazioni,... In prima approssimazione può dunque, dirsi che per libera concorrenza deve intendersi quella forma di mercato, in cui non esistono norme di legge e/o patti contrattuali volti a disciplinare, limitare o escludere l'accesso al mercato delle imprese. Peraltro, poiché non può, la legge, evidentemente, prevedere come ipotizzabile una forma di mercato priva di vincoli legali, la definizione sopra riportata non può essere sussunta nella normativa fiscale, sic et simpliciter, ma va opportunamente adattata e resa compatibile con l'esistenza... necessitata dalla legge stessa; conseguentemente può dirsi che quando l'art. 76, comma 5, richiama, per definire il concetto di valore normale, quello di libera concorrenza, intende riferirsi ad una forma di mercato caratterizzata dalla presenza di una moltitudine di operatori, nessuno dei quali, singolarmente, è in grado di influire con le proprie decisioni, sull'andamento delle contrattazioni e, tra i quali, non esistono vincoli negoziali tesi a disciplinare, limitare, escludere l'accesso al mercato degli stessi. Questo giudice è bene a conoscenza del fatto che la prassi dell'amministrazione finanziaria interpreta il citato concetto di libera concorrenza come se lo stesso si identificasse con il "principio di piena concorrenza" (principie de pleine concorrence) fatto proprio dall'ocse nel proprio modello di convenzione contro le doppie imposizioni; secondo la suddetta prassi, il valore normale viene identificato nel prezzo che sarebbe stato pattuito per transazioni similari da imprese indipendenti. In

3 particolare nel caso di imprese di due diversi Stati contraenti, legate da rapporto "madre-figlia", vincolate da condizioni convenute o imposte, gli utili che, in mancanza di dette condizioni, sarebbero stati realizzati da una delle due imprese (ma che non si sono realizzati a causa di dette condizioni) possono essere recuperati a tassazione. Nel caso di specie, anche il principio di libera concorrenza OCSE diventa inapplicabile, posto che le relazioni finanziarie tra le due società non risultano vincolate da alcuna condizione né convenuta né imposta. La stesura letterale dell'art. 76, comma 5, come unico fine, la regolamentazione del caso di una società madre che imponga ad una società figlia un prezzo e/o un corrispettivo, per un bene e/o un servizio, maggiore di quello che questa avrebbe spuntato se non vi fosse stato il citato rapporto di filiazione: maggior costo = minor reddito. La fattispecie concreta in esame è totalmente diversa da quella ipotizzata dal legislatore; nella fattispecie in esame "la madre" ha evitato un costo alla "figlia" non l'ha aggravata come, invece, vuole evitare il legislatore dell'art. 76, comma 5. In sintesi la volontà del legislatore dell'art. 76, comma 5 è "monofase": solo se dall'operazione contestata ne è derivato un maggior reddito alla controllante italiana scatta l'accertamento fiscale. Se, al contrario, ne deriva un minor reddito, scatta l'accertamento, solo e soltanto se l'operazione è stata posta in essere "... in esecuzione di accordi conclusi con le Autorità competenti degli Stati esteri a seguito di speciali procedure...": e non è il caso che si discute! Art. 56, comma 3. Il Collegio rivisita, quindi, l'art. 56 del Tuir, in particolare il comma 3: "...gli interessi concorrono a formare il reddito per l'ammontare maturato nell'esercizio. Se la misura non è determinata per iscritto gli interessi si computano al saggio legale". La norma impone una prova contraria; il legislatore, puntualmente, pretende il patto scritto. Nel caso che si discute v'è la delibera formale della società controllante il 100%. Quale patto scritto potrebbe mai esservi tra controllata al 100% e sua controllante? Questo Collegio ritiene che se patto scritto vi fosse stato esso patto sarebbe stato volutamente formale, volutamente falso, volutamente ipocrita, volutamente premeditato; insomma davvero teso ad una simulazione successiva, volutamente studiato per fini particolari. La volontà assembleare estrinsecatasi in "quella" semplicissima delibera è la prova provata dell'evidente, trasparente, volontà contrattuale tra controllante e controllata, o, più semplicemente della sola controllante, essendo la volontà della controllante (per ragioni che, definire ovvie è, in questa sede riduttivo), identica alla volontà della controllata. Ci troveremmo nelle stesse condizioni della stessa persona che riveste gli abiti, in un negozio giuridico, di acquirente e venditore. La delibera assembleare ha quindi valore di patto scritto trattandosi di finanziamento ad una controllata al 100%. E, valgano, a tal proposito le sentenze della Suprema Corte n del 28 aprile 1994, n del 3 agosto 1990; ed ancora, centrale n del 13 novembre 1986, 1430 del 13 febbraio 1984, 1157 del 10 giugno 1982, 1138 del 25 febbraio Art. 36 del D.P.R. n. 42/1988. Il legislatore della riforma, in breve, ha stabilito che il contribuente ha sempre la facoltà di scegliere il regime a lui più favorevole tra vecchio codice fiscale (D.P.R. n. 597/1973) e nuovo testo unico. Orbene, nel vecchio regime c'era una norma: nel caso in cui i soci deliberavano di versare nelle casse sociali somme in proporzione alle quote possedute in conto capitale ed il tutto fosse stato consacrato

4 da formale delibera, c'era la presunzione assoluta di infruttuosità. Si è evidenziato "in conto capitale": ebbene la Corte di Cassazione con la sentenza n del 22 settembre 1988, ha stabilito il seguente principio: "... il termine versamento in conto capitale deve essere inteso nel senso più ampio; è sufficiente che i soci versino somme e che tali somme siano deliberate in assemblea; la circostanza che dopo il finanziamento, le somme risultino restituire anche in parte (è il caso del prestito) non significa che sia stato posto in essere un prestito fruttifero; la presunzione di interessi per prestiti del genere deve essere avvalorata da dati che contrastino le attestazioni di tenore formale delle delibere assembleari; in altre parole, "la fruttuosità può essere contestata solo di fronte a fatti certi". La sentenza afferma in modo inequivoco, che la locuzione "versamenti in conto capitale" debba più semplicemente intendersi nel senso di finanziamenti effettuati in favore della società senza con ciò esigere l'ulteriore requisito della destinazione del versamento ad aumento del capitale sociale; in tal senso essi finanziamenti perdono, infatti, la natura di finanziamento per assumere la diversa natura di veri e propri conferimenti o..." prestiti". Conseguentemente la Corte ha ammesso l'inapplicabilità della presunzione di interessi alle operazioni di finanziamento e di prestito che comportino la restituzione del finanziamento medesimo, sempreché non sussistano fatti certi che dimostrino il contrario. Tale sentenza è stata ritenuta di tale importanza da imporre al legislatore del testo unico il recepimento del principio in essa contenuto mediante la riscritturazione degli artt. 43 e 95 del testo unico. E cosa ha scritto il legislatore? Ha sancito nel testo unico del 1986, la presunzione di fruttuosità (art. 42), salvo prova contraria, per tutti i capitali dati a mutuo precisando (art. 43) che le somme versate alle S.n.c. dai loro soci si considerano date a mutuo se dal bilancio allegato alla dichiarazione dei redditi non risulta che il versamento sia stato effettuato ad altro titolo. Ciò vale anche per le società di capitali (e quindi il caso che si discute) in virtù del comma 2 del successivo art. 95. A tal punto è sufficiente la lettura del bilancio e della nota integrativa relativi all'esercizio il cui reddito è contestato. Se dalla lettura di essi traspare con evidenza la gratuità del "prestito", se dalla loro lettura non esiste una posta che indichi gli interessi attivi su prestiti alla controllata, ebbene, sino a prova di falso quel Bilancio, quella Nota valgono quanto vale la presunzione dei militari o quella, semmai dell'ufficio che l'ha fatta propria. E questo per il principio della par condicio delle parti avanti al giudice: per il principio che le presunzioni, ancorché semplici, debbono essere gravi precise concordati. Questo per il principio, più volte sancito dalla Commissione tributaria di Reggio Emilia, secondo il quale, in tanto l'amministrazione può "pretendere" dal contribuente, in quanto essa abbia "provato" la propria pretesa. E maggiore è la consistenza del quantum, maggiormente certa, precisa e concordante deve essere la prova. Un conto è pretendere poche migliaia di lire un conto è pretendere milioni di lire. La motivazione, la prova, l'impegno dell'amministrazione debbono essere giustamente proporzionati. Ma che il ragionamento di scuola derivante da un accertamento del genere, sia del tutto infondato lo si rileva nei fatti, nella sostanza. Il finanziamento, il prestito, il mutuo, la dazione di danaro (si usino le espressioni le più diverse ma la sostanza non cambia) che una società controllante fa ad una controllata al 100%, che lo si voglia o no, in concreto, nella sostanza, altro non è che un conferimento vero e proprio; il porre in dubbio quest'affermazione sarebbe fare pura filosofia; sarebbe prospettare esercizi di scuola come è il

5 presente caso. Nei fatti trattasi di conferimento, solo di conferimento, null'altro che conferimento. E, per conferimento, si intende un'operazione certamente non fruttifera di interessi, per sua stessa natura. E se tale operazione è, di fatto, conferimento, alla luce di un'ulteriore ed ancora più pignola lettura dell'art. 76, comma 5, e dell'art. 9, comma 3, del Tuir, alla luce del concetto di quella "libera concorrenza" pretesa dal Ministero delle finanze (concetto puntigliosamente scritto e sottolineato dalla Direzione del Ministero nella circolare n. 32/9/2266 del 1980), l'unico riferimento, l'unico termine di raffronto, l'unica comparazione, l'unico negozio similare, è un'operazione analoga di conferimento: ed ancora una volta l'impianto accertativo cade, in quanto il conferimento è infruttifero. Il conferimento è un'operazione che non viene effettuata, da parte di un'impresa, ad un'altra qualsiasi, ma solo ad una propria controllata (controllata in tutto o in parte). Fra imprese tra loro indipendenti non sarebbe mai ipotizzabile un conferimento ma un'operazione finanziaria vera e propria. Nel caso di specie non può essere definita finanziaria un'operazione che di fatto, risulta concretizzarsi in puro conferimento. Circolare ministeriale n. 7 del 21 aprile 1993 al punto 3.1., lettera a) n. 2). Ma anche nell'ipotesi, sempre di scuola, in cui l'operazione la si voglia definire "finanziamento", la rilettura della circolare n. 7 del 21 aprile 1993 toglie ogni dubbio sulla legittimità fiscale di quanto illegittimamente contestato ed attratto a reddito. In tale circolare il Ministero afferma testualmente che "non concorrono a formare il patrimonio netto della società... i finanziamenti dei soci che costituiscono debiti per la società anche per essi non sono dovuti interessi". "E' ovvio che l'ipotesi (finanziamento senza interessi) non può che riguardare un comportamento legittimo, perché altrimenti il Ministero non avrebbe potuto fare quest'affermazione. Viene quindi riconosciuta la legittimità dei finanziamenti a tasso zero e vengono fugati i timori di presunzione di interessi prima illustrati. Zero, quindi, è una misura che può essere stabilita. E' altresì ovvio, comunque, che: a) la non debenza di interessi - o, meglio, gli interessi a tasso zero - va stabilita per iscritto, perché altrimenti non si può vincere la presunzione di interessi (in caso di contratto); b) la non debenza di interessi - o meglio, l'interesse a tasso zero - va espressamente deliberata nel caso la società decida di concedere prestiti a mezzo delibera assembleare; c) la non debenza degli interessi la si ricava, di fatto, dalla lettura del Bilancio e della nota integrativa: se non v'è traccia, gli interessi non si possono neppure ipotizzare". Insomma da qualsiasi punto la si osservi, in diritto e nei fatti, il prestito così fiscalmente contestato non può generare interessi di sorta, né per presunzione assoluta né per presunzione relativa. P.Q.M. - la Commissione accoglie il ricorso; sussistono buone ragioni, data la novità della fattispecie sottoposta al giudizio di questo giudice per compensare le spese di lite.

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