COMMENTO SOMMARIO: 1. PROFILI GENERALI. 2. LE MODALITÀ DI ESECUZIONE DELLA PRESTAZIONE: 2.1 DILIGEN- Art. 2104

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1 Art Art Diligenza del prestatore di lavoro. Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall interesse dell impresa e da quello superiore della produzione nazionale (1176). Deve inoltre osservare le disposizioni per l esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall imprenditore (2086) e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende (2094, 2106). COMMENTO SOMMARIO: 1. PROFILI GENERALI. 2. LE MODALITÀ DI ESECUZIONE DELLA PRESTAZIONE: 2.1 DILIGEN- ZA; 2.2 OBBEDIENZA; 2.3 INSUBORDINAZIONE. 3. LA VIOLAZIONE DELLA NORMA E LE SUE CONSEGUEN- ZE: 3.1 LA RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE; 3.2 LA RESPONSABILITÀ RISARCITORIA; 3.3 CASISTICA. 1. Profili generali. Il contenuto dell art c.c. viene normalmente riferito alle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, individuata in una prestazione di facere resa in regime di subordinazione nell interesse dell impresa (cfr. Ghera, Diritto del lavoro, Cacucci, Bari, 1996); viene, cioè, imposto al dipendente di operare usando la diligenza richiesta per la prestazione stessa e in adempimento dell obbligo di obbedienza, secondo le indicazioni impartite dal datore di lavoro. Generalmente si considera il concetto di mansioni del lavoratore, che si ritiene appartengano al profilo professionale per cui questi è stato assunto e che sottendono la qualità dell attività dovuta, nonché all osservanza di tutti gli obblighi accessori che possano assicurare una gestione dal Supremo Collegio definita professionalmente corretta (Cass., 27 settembre 2000, n , in Giust. civ. mass. 2000, 2006 e Cass., 19 agosto 2000, n , in Orientamenti giur. lav. 2000, n. 3, 746). In particolare si ritiene che debba essere fatto riferimento all attività concreta svolta dal lavoratore (vedi, per tutti, Mancini, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Giuffrè, Milano, 1957), sia essa intellettuale, che manuale. Il Supremo Collegio ha specificato (cfr. Cass., 28 marzo 1992, n. 3845, in Giust. civ. mass. 1992, f. 3) che il lavoratore è tenuto non solo alla c.d. diligenza in senso tecnico ovvero all esecuzione della prestazione lavorativa secondo la natura della stessa, ma anche a tutti quei comportamenti integrativi che consentono al datore di lavoro la piena utilizzazione della prestazione; l unico limite è costituito dal fatto che i comportamenti c.d. accessori non debbono consistere in prestazioni lavorative richieste ad altri dipendenti (Cass., 28 marzo 1992, n. 3845, in Giust. civ. mass. 1992, f. 3 e in dottrina, tra molti, v. Persiani, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, Padova, 1966).Poiché l obbligazione lavorativa è un obbligazione di mezzi e non un obbligazione di risultato, il Supremo Collegio ha ritenuto (si veda, ad esempio, Cass., 30 luglio 1987, n. 6616, in Giust. civ. mass. 1987, f. 7) che il mancato raggiungimento di un risultato possa essere addebitato al lavoratore solo se deriva da negligenza o imperizia dell adempimento dei propri doveri, in relazione alle indicazioni impartite dal datore di lavoro, poiché detta conseguenza potrebbe derivare anche da fattori concreti, quali 220

2 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 Art l incidenza dell organizzazione dell impresa e da fattori socio-ambientali (Cass., 10 ottobre 2000, n , in Giust. civ. mass. 2000, 2297 a proposito del c.d. scarso rendimento; cfr. anche, Cass., 2 febbraio 2002, n. 1365, in Giust. civ. mass. 2002, 183). 2. Le modalità di esecuzione della prestazione. 2.1 Diligenza. Generalmente si ritiene che la diligenza di cui al primo comma dell art c.c., così come l obbedienza di cui al secondo comma, non costituiscano doveri autonomi ma comportamenti integrativi, collegati funzionalmente all adempimento dell obbligazione lavorativa principale, incidenti sul profilo qualitativo della prestazione stessa (C. Cester, in G. Suppiej e altri, Diritto del lavoro. Il rapporto individuale, Cedam, Padova, 1998). La diligenza, cioè, concorrerebbe a determinare qualitativamente la prestazione, al fine di soddisfare la richiesta del datore di lavoro, diversamente dagli obblighi di correttezza, di cui all art c.c. e buona fede, di cui all art c.c. che operano in «relazione al contenuto del rapporto obbligatorio già completamente individuato nella sua precisa estensione» (cfr. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano 1969). La giurisprudenza non ha espresso un orientamento univoco sul punto; a fronte di pronunce che riconducono al dovere di diligenza ex art. 2104, primo comma, c.c. tutte le operazioni complementari, accessorie rispetto a quelle che connotano la prestazione lavorativa (cfr. Pret. Cagliari, 25 settembre 1995, in Dir. lav. 1996, 2, pag. 45; v. anche Cass., 28 marzo 1992, n. 3845, in Dir. prat. lav. 1992, 1633), ve ne sono altre che riconducono gli obblighi c.d. accessori ai doveri generali di collaborazione, diligenza e correttezza nell adempimento dell obbligazione di lavoro (Pret. Roma, 26 ottobre 1984, in Nuova giur. lav. 1985, 504; sull aspetto della collaborazione, v. in dottrina ad es. Trioni, L obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1982). Ciò su cui, invece, vi è sostanziale accordo è la rilevanza della natura della prestazione per commisurare il grado di diligenza richiesto; si ritorna, cioè, alla necessità di prendere a riferimento le mansioni affidate al lavoratore ai sensi dell art c.c. (cfr. Carinci, De Luca Tamajo, Tosi e Treu, Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, IV edizione, Utet, Torino, 1998); relativamente a mansioni e profili professionali, in giurisprudenza si veda Cass., 27 settembre 2000, n , in Giust. civ. mass. 2000, 2006 e, nel merito, Trib. Milano, 6 luglio 1996, in Lav. giur. 1996, 12, 1032; con riferimento alla diligenza prevista nell esercizio di un attività professionale v. ad es. Cass., 21 ottobre 1991, n , in Giust. civ. mass. 1991, f. 10. In dottrina c è chi ha ritenuto identificabile il concetto di diligenza con quello di perizia (ad es. Ghezzi, Romagnoli, Il rapporto di lavoro, Zanichelli, Bologna, 1995); chi ha distinto la negligenza dall imperizia, non imputabile al lavoratore (es. l età) (cfr. Mazziotti, Diritto del lavoro, Liguori, Napoli, 1998) con la conseguenza di attribuire o meno rilievo all osservanza delle regole tecniche nell adempimento della pre- 221

3 Art stazione lavorativa oltre alla professionalità del lavoratore intesa quale esperienza personale (sul punto cfr. ad es. Ghera, Diritto del lav., cit.). Il criterio di valutazione della diligenza può comunque essere integrato da altri parametri (cfr. ad esempio Ghera, Diritto del lav., cit.) perché a parità di mansioni il grado di diligenza richiesto potrebbe variare se si tiene, ad esempio conto, dei particolari materiali utilizzati nell esecuzione del lavoro. La lettera della norma impone, altresì, di tener conto anche dell «interesse dell impresa» e di quello «superiore della produzione nazionale». È generalmente concorde l orientamento ai sensi del quale è irrilevante questo secondo riferimento, in quanto retaggio dell ordinamento corporativo, ormai superato (per tutti Carinci, De Luca Tamajo, Tosi e Treu, Diritto del lav., cit.). Quanto al c.d. «interesse dell impresa» la dottrina giuslavoristica, tra ritenere sussistente, da un lato, un interesse dell impresa in sé (oggettivo) diverso da quello dell imprenditore e, dall altro, il solo l interesse dell imprenditore-creditore, ha in prevalenza preferito la seconda soluzione, facendo rilevare che le disposizioni sull interesse dell impresa sono necessariamente da ricondursi all interesse del soggetto che ha posto in essere l organizzazione imprenditoriale, volta al conseguimento di determinati obiettivi, con l effetto di condurre ad una valutazione della diligenza che non tenga conto solamente dell esatto adempimento ma del significato della prestazione stessa nell ambito dell organizzazione imprenditoriale (ad es. F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, Utet, Torino, 1994). 2.2 Obbedienza. Il secondo comma dell art c.c. prevede l obbligo di obbedienza che si ritiene essere un elemento essenziale della prestazione lavorativa, derivante dalla subordinazione del dipendente al datore di lavoro e, quindi, riconducibile al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro di cui all art c.c.; si confronti anche Cass., 12 agosto 1998, n. 7933, in Giust. civ. mass. 1998, 1697 relativamente al potere del datore di lavoro di controllare l esatto adempimento della prestazione lavorativa. Come per la diligenza, l obbedienza non configura un autonomo dovere del dipendente, bensì un dovere connesso all adempimento della prestazione lavorativa e quindi un modo di essere della subordinazione (cfr. ad es. Ghera, Diritto del lav., cit.). Naturalmente l obbligo di obbedienza da parte del prestatore di lavoro non è privo di limiti (il Supremo Collegio è più volte intervenuto in tema, vedi, ex plurimis, Cass., 18 febbraio 2000, n. 1892, in Not. giur. lav. 2000, 477), che ha ribadito il limite del potere dell imprenditore di imporre l osservanza di norme interne di regolamentazione attinente all organizzazione tecnica e disciplinare del lavoro, riconducendo detto potere alla sola previsione di disposizioni che siano effettivamente funzionali alle esigenze tecniche, organizzative e produttive dell azienda. Configura una ipotesi di osservanza del dovere di obbedienza ex art c.c. l esecuzione della prestazione lavorativa, in luogo diverso dalla normale sede di lavo- 222

4 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 Art ro, o presso terzi, a seguito di «distacco» o «comando» da parte del datore di lavoro (Cass., 7 novembre 2000, n , in Giust. civ. mass. 2000, 2268). In quest ottica si pone anche la controversa questione relativa alla disponibilità del datore di lavoro di imporre determinate regole relative all aspetto personale del lavoratore, quale ed esempio gli abiti da indossare sul luogo di lavoro. Sul punto la casistica è ampia: a fronte di sentenze che hanno riconosciuto legittimo vietare un abbigliamento che denotava il mancato rispetto delle più elementari regole di dignità e decoro (nella fattispecie il dipendente si era presentato in banca in canottiera vedi Cass., 21 dicembre 1992, n , in Giust. civ. 1993, I, 3083) o che rischiava di compromettere la disciplina in azienda, ponendo in ridicolo la società datrice di lavoro (la fattispecie si riferisce ad un dipendente che si presentava al lavoro con cappello alla messicana e stella da sceriffo vedi Trib. Latina, 19 settembre 1989, in Riv. it. dir. lav. 1990, 2, 248), è stato ribadito che comunque la regolamentazione dell aspetto personale non può essere lesiva della dignità riservatezza e integrità della persona (Pret. Milano, 12 gennaio 1995, in Giur. civ. 1995, I, 2267, con nota di Pera); il datore di lavoro non può prescrivere a ciascun dipendente di conformare il proprio abbigliamento a quello degli altri, né lo legittima a rifiutare per questo la prestazione lavorativa (Cass., 9 aprile 1993, n. 4307, in Dir. prat. lav. 1993, 1341). Il limite più esplicito al potere del datore di lavoro di pretendere l obbedienza del lavoratore è comunque riferito alla liceità dell ordine imposto, tanto che una recente pronuncia del Supremo Collegio (Cass., 8 giugno 1999, n. 5643, in Giust. civ. 2000, I, 1095) ha ritenuto legittimo il principio in base al quale il lavoratore ha il diritto di rifiutare la prestazione che ritiene illegittima assumendosi, comunque, il rischio di un successivo accertamento giudiziale della legittimità dell ordine disatteso; il datore di lavoro non può imporre direttive che abbiano ad oggetto comportamenti contra legem (Cass., 22 febbraio 1990, in Mass. giur. lav. 1990, 470; Trib. Roma, 5 marzo 2002, in Guida al lav. n. 17/2002). Con riferimento alle norme interne, con efficacia vincolante, che possono essere predisposte anche unilateralmente dall imprenditore, il Supremo Collegio ha ribadito che il limite è costituito dalle esigenze organizzative e produttive dell azienda (Cass., 18 febbraio 2000, n. 1892, in D & G Dir. e giur. 2000, f. 7, 28). La giurisprudenza di merito si è occupata di ipotesi quali il legittimo rifiuto di ottemperare ad un trasferimento palesemente illegittimo (Pret. Monza, 28 giugno 1989, in Lavoro , pag. 1042; v. anche Cass., 8 febbraio 1999, n. 1074, in Giust. civ. mass. 1999, 288 e Cass., 20 dicembre 2002, n , in Giust. civ. mass. 2002, 2229); il rifiuto, parimenti ritenuto legittimo, di prestare mansioni inferiori a quelle convenute e comunque inferiori al profilo professionale acquisito dal lavoratore (ad es. Pret. Milano, 4 novembre 1983, in Lavoro , 235); o ancora il rifiuto di seguire direttive che possano arrecare danno al dipendente per il mancato rispetto da parte del datore di lavoro degli obblighi di sicurezza di cui all art c.c. (ad es. Pret. Milano, 4 ottobre 1983, in Lavoro , 232). 223

5 Art Insubordinazione. Al dovere di obbedienza imposto dall art. 2104, secondo comma, c.c. si ricollega anche la problematica della c.d. insubordinazione del dipendente, che può costituire un comportamento disciplinarmente rilevante. Il Supremo Collegio ritiene che sia da considerarsi insubordinazione una disobbedienza pervicace, che sia indice di una contestazione, aperta e volontaria, dei poteri imprenditoriali (così, Cass., 3 marzo 1992, n. 2573, in Riv. it. dir. lav. 1993, II, 233). Nella nozione di insubordinazione è quindi ricompreso ogni comportamento che incida sull esecuzione e sul corretto svolgimento delle disposizioni e degli ordini impartiti dall imprenditore o dai superiori gerarchici e ciò senza che sia necessario che tale comportamento abbia arrecato un pregiudizio all azienda; è stato, ad esempio, ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente addetto ad un posto di sorveglianza che lo abbia abbandonato (cfr. Cass., 10 gennaio 1986, n. 88, in Giust. civ. mass. 1986, f. 1) e, analogamente, di un addetto al controllo notturno delle apparecchiature che aveva abbandonato il posto di lavoro (v. Trib. Roma, 10 luglio 1985, in Temi rom. 1985, 718). Sempre con riferimento all insubordinazione (v. di recente Cass., 16 febbraio 2000, n. 1752, in Giust. civ. mass. 2000, 359), il Supremo Collegio ha ritenuto causa tale da legittimare il licenziamento del lavoratore, per contrasto con il divieto di cui all art. 2104, secondo comma, c.c. la violazione di direttive aziendali, accompagnata dalla pubblica contestazione del potere direttivo dell imprenditore. È stata ravvisata una grave e rilevante forma di insubordinazione nel comportamento del dipendente che, benché più volte richiamato, si sia rifiutato di indossare la divisa da lavoro appena giunto in azienda (Cass., 18 novembre 1997, n , in Orientamenti giur. lav. 1998, 89). Alla nozione di insubordinazione viene, generalmente, ricollegato anche il comportamento del lavoratore che, richiamato alla corretta esecuzione della prestazione, rivolga al superiore gerarchico una reazione oltraggiosa, che giunga a completarsi nell uso di frasi offensive e di minacce (Cass., 25 ottobre 1990, n , in Notiz. giur. lav. 1990, 847; si veda anche Pret. Brescia, 7 giugno 1984, in Orientamenti giur. lav. 1984, pag. 1189). Non è invece da considerarsi riconducibile alla nozione di insubordinazione il comportamento di un lavoratore che reagisca ad atti del superiore gerarchico estranei al rapporto di lavoro e palesemente arbitrari, benché la reazione sia stata espressa in modo qualificabile come illegittimo (cfr. Cass., 19 dicembre 1998, n , in Giust. civ. mass. 1998, 2624). Il Supremo Collegio ha, così, confermato un precedente orientamento della giurisprudenza di merito che aveva ritenuto illegittimo un licenziamento, nell ipotesi in cui fosse ravvisabile da parte del datore di lavoro o di un superiore gerarchico la provocazione (cfr. Pret. Milano, 30 giugno 1981, in Lavoro , 794). Il Supremo Collegio ha (Cass., 25 febbraio 2000, n. 2179, in Giust. civ. mass. 2000, 483) ritenuto giusta causa di licenziamento la reiterata insubordinazione della lavoratrice che, nonostante l espresso divieto imposto con ordine di servizio, aveva ripetutamente sottoscritto atti destinati a clienti stranieri; così facendo ha provocato la totale perdita di fiducia del datore di lavoro e ha reso legittimo il licenziamento in tronco. 224

6 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 Art La violazione della norma e le sue conseguenze. La violazione degli obblighi di diligenza e obbedienza imposti dalla norma in esame comporta, anzitutto, una responsabilità per il lavoratore di carattere disciplinare; a ciò si aggiungono conseguenze di carattere risarcitorio, cumulabili con le prime; per la cumulabilità dei due rimedi cfr. Pret. Novara, 14 ottobre 1993, in Notiz. giur. lav. 1993, pag La responsabilità disciplinare. L applicazione di sanzioni disciplinari conservative nel caso di violazione degli obblighi di diligenza e obbedienza, trova il suo fondamento nell art c.c., cui si rinvia, e nell art. 7 Statuto dei Lavoratori. Il licenziamento è ammissibile, benché la fattispecie non sia espressamente prevista dal codice disciplinare, poiché trova la sua fonte direttamente nella legge, art c.c.; artt. 1 e 3, legge 15 luglio 1966, n. 604 (v. Cass., 10 novembre 2000, n , in Giust. civ. mass. 2000, 2297); in senso conforme Cass., 25 febbraio 2000, n. 2179, in Giust. civ. mass. 2000, 438 e Cass., 19 agosto 2000, n , in Orientamenti giur. lav. 2000, I, 747 e Cass., 8 giugno 2002, n. 7819, in Giust. civ. mass. 2001, Relativamente all irrilevanza del pregiudizio economico per l imprenditore, quale condizione per l applicazione della sanzione disciplinare cfr. Cass., 9 settembre 1995, n. 9534, in Giust. civ. mass. 1995, La responsabilità risarcitoria. Il Supremo Collegio (Cass., 3 febbraio 1999, n. 950, in Giust. civ. mass. 1999, 254) ha ritenuto che l obbligazione risarcitoria sia connessa alla responsabilità contrattuale del lavoratore dipendente e che la domanda di risarcimento non sia condizionata alla preventiva contestazione ai sensi dell art. 7 Statuto dei Lavoratori, che riguarderebbe unicamente l esercizio del potere disciplinare. Trattandosi di responsabilità contrattuale, l obbligo del risarcimento del danno deriva anche nell ipotesi della colpa lieve: al datore di lavoro spetta la prova dell inadempimento del lavoratore, mentre al lavoratore la prova liberatoria ai sensi dell art c.c., ovvero della non imputabilità del danno per caso fortuito o forza maggiore (cfr. Cass., 22 maggio 2000, n. 6664, in Giust. civ. mass. 2000, 1085); al datore di lavoro spetta naturalmente anche la prova del nesso causale tra il comportamento del lavoratore ed il danno (tra le molte, Pret. Trieste, 18 maggio 1989, in Notiz. giurispr. lav. 1990, pag. 49); in particolare, che l evento dannoso sia casualmente ricollegabile alla violazione del dovere di diligenza (cfr. Cass., 24 settembre 1996, n. 8435, in Dir. prat. lav. 1997, 344). La giurisprudenza di legittimità ha confermato la necessità da parte del datore di lavoro di provare la condotta colposa del lavoratore, l evento e il nesso causale (vedi Cass., 11 dicembre 1999, n , in Notiz. giur. lav. 2000, 337) e, ancora, che l accertamento del nesso di causalità tra comportamento negligente e danno deve essere valutato anche in riferimento alla qualifica mansioni e posizione lavorativa in generale del prestatore di lavoro, oltre che in riferimento alla situazione ambientale aziendale in cui si svolge la prestazione (cfr. Cass., 29 novembre 1989, n. 5250, in Giust. civ. mass. 1989, f. 11). 225

7 Art Di recente, peraltro, il Supremo Collegio ha ritenuto che, in tema di licenziamento per scarso rendimento, la negligenza possa essere provata anche solo attraverso presunzioni (Cass., 3 maggio 2003, in Lav. e prev. oggi 6/2003). Una recente pronuncia del Supremo Collegio (Cass., 26 giugno 2000, n. 8702, in Giust. civ. mass. 2000, 1409) ha confermato che la prova spettante al datore di lavoro non può essere genericamente superata con la deduzione del venir meno del vincolo di fiducia, poiché l accertamento del Giudice è volto all esistenza o meno della violazione degli obblighi di diligenza e la prova del danno deve essere esaminata nei limiti della prevedibilità. Per una pronuncia relativa all onere della prova in materia di danneggiamento per violazione dei doveri di cui all art c.c. si veda Cass., 20 marzo 2000, n. 3287, in Giust. civ. mass. 2000, 201. In materia di responsabilità contrattuale per inosservanza del dovere di diligenza, è stata ritenuta legittima la clausola collettiva che subordina la possibilità del datore di lavoro di proporre l azione risarcitoria alla preventiva adozione di un provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore inadempiente (Cass., 21 marzo 2002, n. 4083, in Giust. civ. mass. 2002, 496). È pacifico che la domanda del datore di lavoro, diretta ad ottenere il risarcimento del danno per violazione dei doveri previsto dall art c.c., sia di competenza del Giudice del Lavoro, trattandosi di obblighi derivanti dal rapporto di lavoro (Cass., 11 giugno 1987, n. 5122, in Giust. civ. mass. 1987, f. 6). 3.3 Casistica. a) La giurisprudenza ha più volte affrontato la problematica della diligenza del prestatore di lavoro in riferimento agli obblighi di custodia in capo al lavoratore dipendente; ha generalmente ritenuto che detti obblighi non siano della medesima entità di quelli riconducibili al depositario, ai sensi dell art c.c., tanto che non grava sul commesso del negozio il rischio di sottrazione di merce in vendita (cfr. Cass., 13 dicembre 1995, n , in Nuova giur. civ. comm. 1997, I, 420); analogamente il dovere di custodia degli strumenti di lavoro affidati dall imprenditore al dipendente per l esecuzione della prestazione deve essere valutata nell ambito dell art c.c. e non con riferimento alla responsabilità del depositario (Cass., 21 ottobre 1991, n , in Giust. civ. mass. 1991, f. 10). Il Supremo Collegio (Cass., 11 dicembre 1999, n , in Dir. lav. 2001, II, 15) ha confermato quanto sopra detto, in riferimento ad un ipotesi di danneggiamento di un bene avuto in consegna dal datore di lavoro per l esecuzione della prestazione e ha specificato che il datore di lavoro ha l onere di fornire la prova dell evento dannoso; della condotta colposa del lavoratore in violazione degli obblighi di diligenza e del nesso causale tra la condotta e l evento. b) Anche in ipotesi di lavoratori tenuti ad un obbligo di custodia di somme di denaro, la valutazione è da farsi in riferimento al principio fissato dall art c.c., in modo tale che, in caso di ammanco di cassa, al lavoratore è consentita la prova liberatoria, dimostrando quale sia stata la causa dell impossibilità di eseguire la prestazione (cfr. Cass., 25 maggio 1998, n. 5208, in Giust. civ. mass. 1998, 1132). Più 226

8 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 Art grave è l ipotesi di appropriazione di somme di denaro da parte del dipendente nell esercizio delle sue funzioni che integra sia gli estremi dell illecito contrattuale per violazione del dovere di diligenza, ai sensi dell art c.c., nonché delle più generali regole di correttezza ex art c.c., sia quelli dell illecito extracontrattuale, poiché lede l integrità del patrimonio del datore di lavoro con la conseguenza che quest ultimo può agire per il risarcimento del danno sia in via contrattuale, che extracontrattuale, tenendo conto delle differenze tra le due fattispecie collegate all onere della prova e alla durata della prescrizione (cfr. Cass., 16 maggio 2000, n. 6356, in Giust. civ. mass. 2000, 1038). In un caso il Supremo Collegio (Cass., 7 aprile 1998, n. 3591, in Riv. it. dir. lav. 1999, II, 136) ha escluso la responsabilità del funzionario di banca nei confronti del datore di lavoro relativamente ad operazioni che hanno dato esito negativo, dopo che l accertamento di merito aveva concluso per l uso da parte del dipendente di una diligenza media, nell ambito della discrezionalità riconosciutagli nello svolgimento di determinate mansioni (il caso di specie presentava, però, dei profili particolari perché, in ordine all operazione posta in essere dal dipendente, non erano mai state impartite direttive generali e univoche da parte della banca); in un altro (Cass., 5 febbraio 2000, n. 1305, in Giust. civ. mass. 2000, 250) è stato dichiarato legittimo il licenziamento del funzionario di banca che aveva violato i propri doveri relativamente a direttive impartite dalla direzione dell istituto in tema di concessione di fidi ai clienti. c) Si noti che non ogni errore professionale, una volta ammessa una certa flessibilità all interno delle istruzioni ricevute dal datore di lavoro, è fonte di responsabilità disciplinare per violazione del vincolo fiduciario (Cass., 5 settembre 1989, n. 3875, in Dir. prat. lav. 1990, 52). d) È stato deciso che l accertamento del fatto contestato al lavoratore per violazione dei doveri di diligenza, possa provenire, oltre che dall imprenditore, anche da un superiore gerarchico del lavoratore designato dall imprenditore senza che con ciò vi sia lesione dei diritti di libertà e dignità del lavoratore (Cass., 12 agosto 1998, n. 7933, in Giust. civ. mass. 1998, 1697); viceversa è stato ritenuto che rientri nel dovere di diligenza (oltre che di fedeltà) di un dipendente dotato di particolari responsabilità nella scala gerarchica allertare il datore di lavoro sulle gravi irregolarità commesse dal suo immediato superiore gerarchico (Cass., 14 luglio 2001, n. 9576, in Lavoro nella giur. (II) 2002, 237). e) Affinché possa dirsi legittimo un licenziamento per giustificato motivo soggettivo, in ipotesi di cosiddetto scarso rendimento, è necessario che il datore di lavoro dia prova della comprovata negligenza e incapacità nell esecuzione da parte del dipendente e offra tutti gli elementi idonei a verificare i risultati ottenuti dai dipendenti che operano in analoghe condizioni, per valutare se lo scarso rendimento sia da attribuirsi ad effettiva imperizia o negligenza o, piuttosto, ad altre facoltà di carattere oggettivo ambientale (cfr. Cass., 23 febbraio 1996, n. 1421, in Riv. it. dir. lav. 1997, II, 189 e Cass., 19 agosto 2000, n , in Dir. lav. 2001, I, n. 4, 200 e, nel merito, ad es. Trib. Milano, 3 aprile 1992, in Orientamenti giur. lav. 1992, 354). In materia di 227

9 Art scarso rendimento, rileva in particolare il lavoro retribuito secondo il sistema del cottimo, poiché in detta ipotesi il risultato viene a coincidere ed a identificarsi con la prestazione lavorativa e spetta al lavoratore la prova liberatoria (cfr. Pret. Milano, 20 febbraio 1985, in Orientamenti giur. lav. 1985, n. 554); la Suprema Corte ha confermato che il mancato raggiungimento del minimo del cottimo può essere valutato quale inadempimento dovuto a negligenza (cfr. Cass., 8 luglio 1988, n. 4524, in Riv. giur. lav. 1989, II, 80) trattandosi di inesatto adempimento dell obbligazione lavorativa. f) Si è ritenuto necessario che la prestazione lavorativa venga svolta secondo un certo ritmo imposto dalla produzione; si veda in dottrina ad es. Mazziotti, Il diritto del lav., cit. e tra le pronunce di merito Trib. Milano, 3 aprile 1992, in Orientamenti giur. lav. 1992, pag. 354 che ha considerato giustificato motivo soggettivo di licenziamento per l inadempimento degli obblighi di cui all art c.c. l ipotesi di lavoro svolto con una «voluta lentezza». Parte della dottrina (per tutti, Mancini, La responsabilità del prestatore di lavoro, Giuffrè, Milano, 1957), ha ritenuto che il livello di rendimento prescinda dalla bontà della prestazione e pertanto possa essere reso operante solo se vi è un apposita pattuizione, in mancanza della quale il mancato livello di rendimento assuma rilevanza solo se coincidente con un effettivo inadempimento del lavoratore; la c.d. clausola di rendimento è stata ritenuta compatibile con la struttura del rapporto di lavoro subordinato quando l attività del prestatore di lavoro sia caratterizzata da particolare autonomia operativa (Cass., 30 marzo 1987, n. 3062, in Notiz. giur. lav. 1987, 473). g) Altro aspetto ricollegabile alle previsioni di cui all art c.c., relativamente alle modalità di esecuzione della prestazione è la responsabilità c.d. per imperizia, intesa con significato proprio e distinto dal più generale obbligo di diligenza; il relativo giudizio potrà formarsi in tal caso secondo i canoni previsti nel periodo di prova (ad es. Mengoni, Il contratto di lavoro nel diritto italiano, in AA.VV., Il contratto di lavoro nel diritto dei paesi membri della C.E.C.A., Giuffrè, Milano, 1965). Si è segnalato che la mancanza di perizia sarebbe sempre da considerarsi una mancanza di diligenza nell esecuzione della prestazione, ma anche che l accertamento debba essere condotto confrontando le mansioni per cui è stato assunto il lavoratore alle sue capacità professionali e ad eventuali altre circostanze ambientali (Cass., 26 ottobre 1987, n. 7861, in Giust. civ. mass. 1987, f. 10). h) È stato giudicato perseguibile sul piano disciplinare quale violazione dell obbligo di diligenza ex art c.c. anche il rifiuto del dipendente di intraprendere qualsiasi attività teorico-pratica durante lo svolgimento di un corso di formazione professionale (Trib. Napoli, 5 marzo 2001, in Guida al lav. 2001, 26, 23). Art Obbligo di fedeltà. Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l imprenditore, né divulgare notizie attinenti all organizzazione e ai metodi di produzione dell impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio (2125). 228

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