«Romanizing» o assisiate?

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1 «Romanizing» o assisiate? Il richiamo del Meiss alla «general historical plausibility» non manca di presentarsi come una critica a quell aspetto della lettura giottesca proposta dall Offner che è il suo porsi come una purissima distillazione stilistica, astratta dalle connessioni con la realtà storica circostante. Infatti, non appena i separatisti devono fare i conti con la storia, sorgono problemi enormi. Il primo e più grave viene, come abbiamo visto a proposito delle Stimmate del Louvre, dal non aver tenuto in nessun conto le tre opere firmate da Giotto che sono arrivate fino a noi. C è, poi, l importante testimonianza di Riccobaldo Ferrarese, un contemporaneo di Giotto, che nel 1313 asserisce che il pittore fiorentino aveva dipinto nelle chiese francescane di Assisi, di Rimini e di Padova e nella chiesa padovana dell Arena, dove questa successione ha tutta l aria di avere un significato cronologico 1. Inoltre, il rifiuto dell attribuzione a Giotto del Crocifisso di Santa Maria Novella, conseguente al rifiuto delle Storie di san Francesco ad Assisi, va contro una ben nota testimonianza documentaria del 1312 che in quella chiesa fiorentina esisteva un Crocifisso dipinto da Giotto; e va contro l evidenza che quell opera, già ricopiata nel 1301 da Deodato Orlandi, rappresenta un innovazione totale nella tipologia della croce dipinta italiana, che la pone come capostipite di tutta la serie trecentesca 2. Ma il rifiuto di riconoscere negli affreschi di Assisi una testimonianza dell attività giovanile di Giotto pone enormi problemi anche in rapporto ad una visione d insieme della pittura italiana tra la fine del Due e gli inizi del Trecento. Il più evidente è che agli inizi del Trecento lo stile assisiate è molto più diffuso dello

2 104 La pecora di Giotto stile giottesco quale si manifesta a Padova. I separatisti hanno visto una soluzione a questo problema nel Cavallini e nella scuola romana. Il Garrison pone molto chiaramente la questione in questi termini: «è certo che il movimento verso un nuovo naturalismo fu notevolmente affrettato dal Cavallini a Roma e da Giotto a Firenze, e, qualunque fossero i rapporti tra questi due spiriti guida, è ugualmente certo che, nelle fasi evolute della loro opera e nell opera dei loro immediati seguaci, furono sviluppate due diverse maniere» 3. Queste due maniere parallele, che fanno capo a due artisti, Cavallini e Giotto, vengono fatte coincidere con le maniere di due centri diversi, rispettivamente Roma e Firenze, insomma con due «scuole» artistiche: «lo stile romano appare con chiarezza indiscussa negli affreschi del Cavallini a Santa Cecilia a Roma e nei mosaici di Santa Maria in Trastevere, negli affreschi di Santa Maria Donnaregina a Napoli, dei suoi seguaci, e nei più tardi degli affreschi di Vescovio. Ugualmente romani, anche se meno cavalliniani, sono affreschi variamente attribuiti nella Chiesa Superiore di San Francesco ad Assisi, compresi quelli del cosiddetto Maestro d Isacco [...]. Per contro è fiorentino lo stile degli affreschi nella cappella dell Arena a Padova, del 1305 circa, e nelle cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce a Firenze [...], della Madonna di Ognissanti, tutti di Giotto, così come alcuni affreschi della sua cerchia immediata nella Basilica Inferiore di Assisi, ivi compresa la cappella della Maddalena» 4. Che cosa distingue queste due maniere diverse e parallele? Ambedue, risponde il Garrison, «affermano una volontà di rappresentare le esperienze visive del periodo, così da abbattere quelle meramente tradizionali nella pittura precedente. Tra le altre cose, ciò comprendeva la sostituzione di linee, luci e ombre schematiche con un chiaroscuro evocativo [...] per produrre l apparenza di massa e peso. Ma i romani sono interessati all aneddoto, a ciò che è reale e perfino momentaneo e questo porta ad un urgenza di rappresentare non solo le forme naturali ma anche ad un naturalismo totale di relazioni e azioni. I fiorentini invece cercano in ogni tema il significato trascendentale e duraturo, per razionalizzare e sintetizzare, e, mentre modellano grosso modo in

3 «Romanizing» o assisiate? 105 maniera simile, immobilizzano le figure in pose simbolicamente espressive, che, tuttavia, hanno poco di ieratico e di rigido» 5. Ribaltate su due «scuole», le differenze tra romani e fiorentini sono in sostanza quelle enucleate dal Rintelen e dall Offner tra gli affreschi di Assisi e quelli della cappella Scrovegni. Il sospetto che si tratti di un circolo vizioso aumenta di gran lunga considerando che, per far coincidere le due maniere parallele e diverse con due «scuole», si compie un operazione semplificatrice che a sua volta apre dei grossi problemi. La scuola romana non si esaurisce affatto con la tendenza che fa capo al Cavallini, anzi essa ha un altro grande e ben diverso rappresentante nel Torriti, l artista che almeno fino al 1295 circa riceve le commissioni più prestigiose nella città papale. D altra parte, Firenze, la città di Giotto, presenta agli inizi del Trecento una fitta produzione che non fa ancora pensare allo stile che caratterizza l attività giottesca dalla cappella Scrovegni in avanti, ma piuttosto a quello degli affreschi di Assisi. Una tendenza romana nella pittura fiorentina? Non mi risulta che i separatisti si siano posti il primo di questi problemi. Hanno invece dovuto tener conto del secondo e lo hanno risolto individuando una tendenza romana nella pittura fiorentina. Così, secondo l Offner, il Maestro della Santa Cecilia è un antigiottesco e si è formato soprattutto in rapporto col Cavallini. Sia l Offner che il Garrison si appoggiano molto alla dubbia affermazione del Vasari, presente soltanto nella seconda edizione delle Vite, che il Cavallini sarebbe venuto a lavorare a Firenze 6. «Il Vasari parla della visita del Cavallini a Firenze e di numerose opere eseguite da lui in San Marco e in San Basilio e di altre a lui attribuite nella città. Per quante riserve si possano fare sulla credibilità di questo scrittore, la presenza dei seguaci del Cavallini a Firenze è attestata dagli affreschi sopravvissuti nella cappella Velluti in Santa Croce e da altri staccati, ora nel refettorio della chiesa; perché, nonostante che gli storici moderni abbiano oscillato

4 106 La pecora di Giotto nel definirli cimabueschi e giotteschi - ma nei termini più esitanti - essi sono romani in ogni loro aspetto» 7. Seguendo questo criterio, tuttavia, finiremmo probabilmente per scoprire che la produzione dei fiorentini «romanizing» è molto più cospicua di quella dei romani stessi. Ma c è un altra obiezione fondamentale. Chi voglia controllare nel suo insieme la situazione della pittura fiorentina avrà subito il sospetto che tutto ciò che in essa i separatisti chiamano «romanizing» rappresenti in realtà una fase di sviluppo più antica rispetto a tutto ciò che essi vorrebbero etichettare come fiorentino. Prima del circa, a Firenze non si ha niente che possa far pensare allo stadio stilistico rappresentato dagli affreschi Scrovegni, che sembra avere un affermazione solo più tardi, con l intermezzo di una fase interlocutoria, nel secondo decennio del secolo, prima della piena affermazione, dal in avanti, con Taddeo Gaddi, Maso di Banco, Bernardo Daddi, ecc. In confronto a questi artisti, l arte del Maestro della Santa Cecilia rappresenta la cultura di una generazione più antica e non una maniera parallela a quella «giottesca». Infatti, mentre essi sono attivi molto più tardi e di nessuno di essi conosciamo opere che precedono il terzo decennio del Trecento, il Maestro della Santa Cecilia operava già nel primo decennio. Per la tavola eponima degli Uffizi esiste il punto di riferimento cronologico del 1304, data dell incendio della chiesa di Santa Cecilia (per cui fu dipinto), subito ricostruita 8, mentre il San Pietro in trono di San Simone, che anche se non sarà da attribuire allo stesso pittore rappresenta una cultura molto simile alla sua, è datato Va poi notato che la cultura artistica dei pittori fiorentini che i separatisti chiamano «romanizing» segue immediatamente quella cimabuesca, si direbbe senza soluzione di continuità. Il caso che ci da più informazioni in questo senso è quello del cosiddetto Maestro di San Gaggio (figg. 114, 115). Quattro delle sue opere sono proprio quelle presentate dal Garrison nel suo saggio sui fiorentini «romanizing». Nello specifico, per non sbagliarsi, egli preferisce distinguerle tra un primo, un secondo, un terzo e un quarto «florentine romanizing master», ma le analogie sono tali che è

5 «Romanizing» o assisiate? 107 difficile non trovarsi d accordo con chi le ha riunite nell opera di un solo pittore, collegandole in maniera ineccepibile - mi pare (si vedano i confronti fotografici proposti dal Longhi e dal Previtali) 10 - con un dossale di cultura cimabuesca, anzi attribuito a Cimabue stesso. Che il Maestro di San Gaggio avesse incominciato molto presto la sua attività sta a dimostrarlo anche il fatto che il dossale di collezione privata newyorkese presentato dal Garrison (ora alla Putnam Foundation di San Diego) reca al centro una Madonna col Bambino dipinta da un pittore nato forse anche prima di Cimabue, il Maestro della Maddalena. Tuttavia, già nelle scenette che si svolgono ai lati di questo dossale, il Maestro di San Gaggio denuncia un adeguamento alle tendenze innovatrici. Inoltre, in un trittico che faceva parte della collezione del conte di Crawford and Balcarres, egli esegue, al centro, una Tebaide, seguendo evidentemente un esempio bizantino, al punto che in un primo momento viene da pensare che si tratti di un opera diversa dai laterali, ben più personali e caratteristici di questo maestro 11. Egli si esprime qui ancora in stile cimabuesco, sia pure con un linguaggio un po riduttivo, che rimpiccolisce l umanità di quel grande artista. Nelle scenette eseguite ai lati della Madonna del Maestro della Maddalena e nel dossale degli Staatliche Museen di Berlino Est (fig. 113), il Maestro di San Gaggio denuncia già, invece, un adeguamento alle idee innovatrici ancora più evidente che nel tabernacolo diviso tra la collezione Sessa e la Christ Church di Oxford, dove, nonostante i primi accenni a un chiaroscuro più intenso e creatore di volume, la rappresentazione degli ambienti e delle architetture rimane fedele alla tradizione bizantina. Che esso sia un opera molto più antica della data intorno al 1320 che gli attribuisce il Garrison lo fa sospettare anche il rapporto, notato dallo stesso Garrison, con tre Madonne ancora pienamente duecentesche come quella già Sirén, quella Kress e quella Kingsley Porter. Il motivo del Bambino che lascia intravedere le gambe attraverso la veste aperta sul davanti compare in un altra opera del Maestro di San Gaggio, la Madonna in trono della Galleria dell Accademia di Firenze, dalla testa completamente ridipinta, che deve essere più tarda delle altre perché il tro-

6 108 La pecora di Giotto no è risolto ormai come un vistoso pezzo di architettura in marmo, decorato alla cosmatesca. Inoltre, le figure dei santini ai lati, ancora irrazionalmente sospesi nel vuoto come nel Maestro della Maddalena, hanno una struttura più controllata, una maggiore compostezza e convinzione. L opera più avanzata di questo Maestro è, a mio avviso, un piccolo trittico - Madonna col Bambino e due santi, santo vescovo e donatore inginocchiato, Crocifissione - che nei cataloghi Kress è attribuito a un seguace di Duccio, ma in cui ho l impressione che l aspetto duccesco della parte centrale sia opera di un astuto restauratore, mentre nei laterali sono troppo evidenti la puntigliosità figurativa, le piccole espressioni acute e grifagne, di ricordo ancora cimabuesco, caratteristiche di questo pittore 12. La sua vicenda artistica ci dice con molta chiarezza che a Firenze la cultura che segue immediatamente quella cimabuesca è la maniera che i separatisti chiamano «romanizing». Ma se subito dopo Cimabue e i cimabueschi vengono i cosiddetti «romanizing», mentre lo stile che i separatisti chiamano fiorentino e che fa capo agli affreschi Scrovegni di Giotto si sviluppa solo più tardi, quale era stato il ruolo di Giotto nella sua città prima degli affreschi Scrovegni? Dante dice che, dopo Cimabue, «ora ha Giotto il grido» 13 : «ora», cioè quando? Come è ben noto, il mistico viaggio dantesco è collocato nell anno 1300 e questo punto di riferimento cronologico è rigorosamente rispettato in tutta la Divina Commedia. Se Dante dice «ora», vuol dire nell anno Sulla base di queste considerazioni, continuare a credere alla spiegazione «romanizing» dei separatisti equivarrebbe a negare valore alla testimonianza di un contemporaneo di Giotto del livello intellettuale di Dante 14 e andare contro ogni «general historical plausibility». Nella città di Giotto, le grandi novità che i separatisti considerano parallele a quelle giottesche, nate al momento in cui decade l interesse per i modelli di Cimabue, bisogna credere che siano di fonte giottesca. Questa è la spiegazione più logica e naturale. Una spiegazione diversa dovrebbe essere sostenuta con argomenti troppo più convincenti di considerazioni che non partono da dati concreti, ma sono una

7 «Romanizing» o assisiate? 109 tautologia, in quanto conseguenza - piuttosto che riprova - dell ipotesi che gli affreschi assisiati sarebbero di scuola romana. La scuola romana prima del rinnovamento: il Torriti. Il concetto di scuola romana elaborato dai separatisti è estremamente semplicistico e presenta aspetti di una eccessiva disinvoltura filologica. Innanzitutto ci si dimentica - come abbiamo accennato - che, lungi dall identificarsi con l opera del Cavallini, la pittura di fine Duecento ha a Roma un altro grande e diverso protagonista in Jacopo Torriti. Anzi, a giudicare da ciò che sappiamo dalle opere che sono arrivate fino a noi, sembra essere stato lui la figura di maggiore spicco, almeno fino alla metà degli anni novanta. È a lui che toccano, tra il 1288 e il 1295, le commissioni più prestigiose, quali le decorazioni musive delle absidi di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore, affidategli dal papa stesso, Niccolò IV. Tutto lascia credere che anche la sua partecipazione alla decorazione della Basilica Superiore di Assisi sia da mettere in rapporto con l alta considerazione di cui godeva presso la corte pontificia 15. Che proprio questi affreschi siano le parti più sicuramente romane di tutta la decorazione assisiate e che da essi non possa prescindere chi voglia studiare la pittura romana di fine Duecento 16 è un po un ironia della storia, perché non sono affatto romani nell accezione dell Offner e del Garrison e non mostrano specifiche affinità col Cavallini, del quale il Torriti viene considerato un contemporaneo. Il linguaggio solenne e paludato vi è sorretto da una grande sapienza e disinvoltura figurativa, restando comunque all interno di una tradizione sostanzialmente bizantina. Il riferimento all arte tardoantica rimane nel sottofondo, ma i vivaci accostamenti di macchie cromatiche della pittura «compendiaria» sono come attutiti e ovattati da una matassa di sottilissimi filamenti lanosi tracciati con grande diligenza e con effetti di pittura a corpo, che sembra modellare i volti e le carni per via di protuberanze (figg. 143, 144). Nel grande mosaico absidale di Santa Maria Maggiore (figg. 4, 118), il Torriti raggiunge ri-

8 110 La pecora di Giotto sultati di aulico sussiego e insieme di grande delicatezza. Il Toesca ne apprezzò molto anche la personalissima gamma cromatica: «ha un colorito di gradazioni così tenui, così velato di luci perlacee, ch esso sembrerebbe sorgere da un suo proprio modo di vedere, se non vi fossero chiare, soprattutto nelle lumeggiature, le formule bizantine attenuate da interpretazioni personali, ma non rimosse» 17. Le raffigurazioni di animali e di vegetali sono indice di vivi interessi naturalistici - come hanno sottolineato il Bertelli 18 e il Gardner 19 - che già ad Assisi avevano trovato, soprattutto negli uccelli figurati nella Creazione, degli esiti così straordinari da impressionare lo stesso Giotto. Jacopo Torriti fu un artista molto importante 20. Per far risaltare la figura mitica del Cavallini lo si è relegato in secondo piano, ma egli rimane una grande e originale personalità, la cui presenza ha lasciato un segno molto più profondo di quanto si creda di solito nel panorama della pittura romana di fine Duecento. Della sua presumibile operosità ho già trattato nel corso di un intervento al convegno Roma anno 1300, tenutosi nel Mi si consenta di riportare in questa sede il brano relativo, che si potrà qui avvalere di un numero maggiore di illustrazioni 21. «Raramente i testi sulla pittura romana della fine del Duecento, quando trattano del Torriti, vanno oltre il mosaico absidale di Santa Maria Maggiore; tuttavia, quest opera grandiosa e capitale non esaurisce certo il discorso sull artista; né lo esaurisce la parte che gli spetta della decorazione della Basilica Superiore di Assisi. A parte il mosaico absidale di San Giovanni in Laterano, commissionato da Niccolò IV e finito nel , che si giudica male a causa del radicale rifacimento che lo ha sfigurato in occasione del trasporto eseguito nel 1878, vi sono altre opere romane che stanno a dimostrare il ruolo importante che l artista ebbe nella città papale. Mi sembra doveroso riprendere la traccia indicata dal Toesca in proposito e lasciata cadere troppo sbadatamente dagli studiosi di pittura romana, ove si escludano il Bertelli e, a suo modo, Irene Hueck 23. Le opere messe dal Toesca in rapporto più o meno diretto col Torriti sono la Vergine advocata di Santa Maria Maggiore a Tivoli, le tre Vergini sagge sulla sinistra del mosaico

9 «Romanizing» o assisiate? 111 di facciata di Santa Maria in Trastevere, i tre affreschi della chiesa di San Saba, la Madonna di Santa Maria del Popolo, la lunetta a mosaico sopra la porta laterale di Santa Maria in Aracoeli, il mosaico del monumento Capocci nella stessa chiesa e i due frammenti vaticani con i santi Pietro e Paolo. Il Toesca cita ancora qualche altra cosa che non ho potuto controllare direttamente 24. Un breve esame di queste opere credo sarà sufficiente a convincerci della loro sostanziale unità stilistica. Abbiamo fatto caso al modo di tratteggiare del Torriti. Il modo di condurre le pennellate come una ragnatela di sottili e grassi filamenti in curva che si vedono nella Madonna della volta della terza campata di Assisi - per fare un esempio - ricompare identico nel volto della Vergine advocata di Santa Maria Maggiore a Tivoli (figg. 116, 117). Le due immagini sono somigliantissime anche nell impostazione, nei giri delle pieghe della veste, nelle mani la cui compassata rigidità è intenerita dalla materia grassa e morbida, come formicolante. Nel tondo di Assisi è una più espansa e matronale imponenza, nel rettangolo di Tivoli una più allampanata eleganza; ma per il resto le due immagini sono quasi sovrapponibili. Assai vicine nel tempo sembrano le tre Vergini sulla sinistra del mosaico di facciata di Santa Maria in Trastevere (fig. 119), evidentemente le tres Imagines musaycas virginum che fece eseguire il canonico de Malpiliis, secondo la notizia del Necrologio della basilica resa nota dal Cecchelli 25. Che si tratti di un intervento torritiano non mi pare dubbio: le tre figure sono ben più floride della smunta vergine più antica che le accompagna sulla destra e che si differenzia nettamente anche per le tessere musive più grosse e più rigidamente disposte. Il rutilante splendore del fondo d oro, le fitte cascate del panneggio gonfiante e molti particolari accomunano queste tre figure ai mosaici absidali di Santa Maria Maggiore (fig. 118) e anche agli affreschi di Assisi. Più tardi di Assisi e di Santa Maria Maggiore dovrebbe cadere invece un gruppo di opere comprendenti quelle raggruppate dal Garrison sotto il fittizio Maestro di San Saba 26 e gli affreschi dell abbazia delle Tre Fontane pubblicati dal Bertelli con l ascrizione al Torriti 27, appunto. In particolare, sembrano accostabili

10 112 La pecora di Giotto tra loro l Incoronazione della Vergine delle Tre Fontane e la Mani donna di Santa Maria del Popolo (fig. 121), di una pittura fattasi più magra e sottile, che punta su una maggiore accentuazione dei segni di contorno. Negli affreschi di San Saba, la lunetta con la Vergine in trono fra due santi è ben confrontabile con certe scene nell abside di Santa Maria Maggiore (figg. 123, 124); si veda, ad esempio, il trono ormai architettonico accanto a quello dell Annunziata. Anche le vistose inquadrature architettoniche si legano bene ai tentativi assisiati evidenti nello stesso trono dell Annunziata o nei tre oggetti architettonici della Presentazione al Tempio. Ugualmente del Torriti, in un momento di meditazione su Giotto stesso (penso soprattutto alla Madonna della controfacciata di Assisi) deve essere la lunetta a mosaico della porta laterale di Santa Maria in Aracoeli 28 (fig. 122): forse l immagine più concentrata e solenne che ci abbia lasciato l artista romano. Anche cromaticamente questo mosaico è straordinario; il blu del fondo è intenso, ma dentro il clipeo è di un azzurro ben più chiaro per far risaltare il profondo blu con riflessi violacei del velo di cui la Vergine è tutta ammantata; i colori azzurrino e grigio rosato delle vesti degli angeli e del Bambino hanno quelle tonalità perlacee tanto ammirate dal Toesca nel mosaico di Santa Maria Maggiore, mentre tutto è sottolineato dal luccichio dell oro che brilla in una ragnatela di striature e perfino nella sclerotica degli occhi degli angeli. Ancora più avanzato nel tempo deve essere il mosaico del monumento Capocci nella stessa chiesa dell Aracoeli, già inserito nel gruppo del Maestro di San Saba del Garrison e della cui paternità torritiana fa la spia soprattutto il san Giovanni Battista, parente un po più povero dell immagine dello stesso santo nel mosaico absidale di Santa Maria Maggiore e nella volta della terza campata di Assisi 29 (figg. 125, 126). L evidente semplificazione di sapore ormai trecentesco sembra indicare che quest opera è la più tarda del gruppo che fa capo al Torriti. Si noti anche il san Francesco senza barba. Ed è importante rilevare che solo ora la testa della Madonna e quella del Bambino, così attondate e sfumate, mostrano qualche riflesso cavalliniano 30. Ciò sembra indicare che, quanto al rapporto generazionale, nella situazione romana il Torriti sta al

11 «Romanizing» o assisiate? 113 Cavallini come nella situazione fiorentina Cimabue sta a Giotto. Un intervento della Hueck 31 è molto significativo in questo senso, se si fa un passo oltre la cautela con cui la studiosa tedesca presenta i due frammenti vaticani con le teste di san Pietro e di san Paolo, resti di un ciclo di affreschi che decorava l atrio dell antico San Pietro. Ad essi la Hueck accosta un settore della parte più antica della decorazione della Basilica Superiore di Assisi e alcune delle opere messe in rapporto col Torriti dal Toesca, di cui abbiamo riferito sopra. La studiosa tedesca preferisce parlare di un pittore romano anonimo che del Torriti sarebbe stato il maestro, resa guardinga dalla precocità del ciclo dell atrio di San Pietro, che dovrebbe risalire al tempo di Urbano IV, papa dal 1261 al Ma gli evidenti rapporti col gruppo Torriti fanno sì che l articolo della Hueck diventi in realtà un contributo notevole al problema del pittore romano, in ordine alla chiarificazione della sua cronologia, che, per ragioni stilistiche, sembrerebbe più alta di almeno una generazione rispetto a quella del Cavallini». Della presunzione che il Cavallini sia un contemporaneo del Torriti e che l inizio della sua attività vada collocato negli anni settanta del Duecento mi pare faccia giustizia sommaria un solenne dipinto da riferire anch esso, io credo, a Jacopo Torriti, o almeno al suo stretto ambito. Si tratta di una tavola di notevoli dimensioni, già nella chiesa di Santa Lucia in Selci a Roma e ora nel Museo di Grenoble, raffigurante Santa Lucia (fig. 120). In piedi e perfettamente frontale, essa è vestita come una basilissa bizantina. La grande e sontuosa corona con le pendulae, la profusione sfarzosa dei gioielli e delle perle rimandano invincibilmente alla Madonna incoronata nell abside di Santa Maria Maggiore (fig. 118) e alle Vergini della facciata di Santa Maria in Trastevere (figg. 119). Nella fattura della testa e delle mani si scoprono rapporti anche con gli affreschi di Assisi e con altre opere che abbiamo incluso nel catalogo del Torriti. Nel pubblicare la Santa Lucia di Grenoble, anche la Coor-Achenbach 32 la metteva in rapporto con molte di queste opere, pur lasciando il dipinto nell anonimato. Ma la cosa più interessante è la presenza in basso a sinistra di una minuscola donatrice inginocchiata: ANGILA UXOR ODONIS CER-

12 114 La pecora di Giotto RONIS. Una signora di casa Cerroni, dunque. Questa nobile famiglia, sulla quale esiste uno studio di un erudito del Seicento, Domenico Mita 33, si componeva di un ramo emiliano, di un ramo romagnolo e di un ramo romano. I Cerroni di Roma furono molto attivi nel Due e Trecento. Oddone doveva essere un nome di famiglia, perché compare in un documento romano del Ma il marito della signora Angela era evidentemente un Cerroni di più antica data, più vicino nel tempo a due altri personaggi della stessa famiglia ricordati come testimoni in un atto notarile del 1273: Bartolomeo di Giovanni e «Petrus dictus Cavallinus de Cerronibus». Come si ricorderà, quest ultimo è stato spesso identificato con Pietro Cavallini 34, nonostante che nel documento manchi l appellativo di pittore o quello più generico di maestro. Chi ha avuto il buon senso di non accettare questa allegra identificazione 35, trova nel dipinto di Grenoble un argomento in più per rifiutarla. La signora Angela Cerroni ha in famiglia il Cavallini e commissiona un dipinto importante ad un altro pittore? Che sbadataggine, signora Cerroni! La scuola romana rinnovata e la cronologia del Cavallini. L identificazione con il «Petrus dictus Cavallinus de Cerronibus» del documento del 1273 è solo uno dei punti deboli su cui è fondato il mito del Cavallini, nato dopo la scoperta dei suoi affreschi di Santa Cecilia in Trastevere e nutrito dalla disinvoltura filologica più allegra e spensierata 36. Chi si ammanta di rigore critico nei confronti dell opera di Giotto e delle notizie sui suoi dipinti si spoglia improvvisamente di ogni severità filologica a proposito del Cavallini, arrivando fino a dar credito al Vasari - come abbiamo visto - quando parla di una presenza e di un attività del pittore romano a Firenze. Se questa notizia avesse un minimo di attendibilità, sarebbe difficile spiegare il silenzio assoluto a questo riguardo da parte di un fiorentino come il Ghiberti, molto bene informato sull attività del Cavallini e molto più vicino del Vasari ai tempi del pittore romano.

13 «Romanizing» o assisiate? 115 Anche le date 1291 per i mosaici di Santa Maria in Trastevere e 1293 per gli affreschi di Santa Cecilia, che pure sono diventate un luogo comune da manuale, hanno fondamenti labilissimi. La prima si basa su una strana cifra non più esistente, ma letta e trascritta dal Barbet de Jouy, che la interpretava come Il De Rossi, invece, interpretò la cifra trascritta dal Barbet de Jouy come 1291 e da allora questa data è stata considerata come sicura per i mosaici di Santa Maria in Trastevere 37. Solo recentemente sono sorti in proposito numerosi dubbi 38, che tuttavia non hanno alterato la sostanza della figura del Cavallini cara ai separatisti. Anche la data 1293 riferita agli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere ha fondamenti ben poco sicuri. Si basa, infatti, soltanto sull ipotesi che il tabernacolo di Arnolfo di Cambio, recante quella data, e la decorazione ad affresco della chiesa fossero stati eseguiti contemporaneamente. Questa ipotesi fu formulata con la dovuta cautela dall Hermanin 39 e fu poi accettata con una generalità di consensi che dimostra soltanto come nella storia dell arte si formino delle tradizioni di generale acquiescenza su alcuni argomenti, mentre su altri nascono risse continue e ci si accanisce a spaccare il capello in quattro, dimenticando ogni criterio di normale buonsenso. Nemmeno gli affreschi del Vecchio Testamento visti dal Ghiberti in San Paolo fuori le Mura valgono a testimonianza sicura di un attività precoce del Cavallini. Purtroppo, non esistono più e ogni tentativo di interpretarli attraverso le copie grafiche cinqueseicentesche lascia notevolmente scettici. Qualche informazione più precisa viene dalla veduta del Pannini del 1741 alla Leonard Koetser Gallery di Londra, ma sfortunatamente ce li presenta troppo scorciati 40. Comunque sia, se dobbiamo credere che furono eseguiti al tempo dell abate Bartolomeo (ma mi pare che i dati raccolti non ci diano alcuna sicurezza nemmeno su questo punto), bisogna ricordare che questi era in carica fino al 1297, come precisa P. Hetherington 41, e non fino al 1285, come si legge di solito. La conclusione è che niente ci assicura di una nascita precoce

14 116 La pecora di Giotto del Cavallini e di una sua attività precedente alla metà dell ultimo decennio del Duecento, quando molte cose lasciano credere che sia stato eseguito l affresco absidale di San Giorgio in Velabro 42. Questo, con la sua arcana severità e una certa lucentezza metallica che ancora caratterizza la superficie dipinta in confronto alla maggiore morbidezza, al chiaroscuro più sfumato del Giudizio Finale di Santa Cecilia in Trastevere, sembra l opera più antica del Cavallini fra quelle arrivate fino a noi. Una simile posizione cronologica del grande pittore romano verrebbe ad integrarsi molto bene con quella del Torriti, che proprio fino a verso la metà del nono decennio sembra il pittore di maggior spicco nella Roma di fine Duecento, legato ancora agli ideali artistici della generazione che precede il rinnovamento della pittura italiana in direzione trecentesca. L incongruità della cronologia attribuita finora al Cavallini sarebbe saltata agli occhi anche solo riflettendo un momento sulla posizione che egli verrebbe ad assumere in confronto a Duccio di Buoninsegna. Nel classificarli, etichettarli e anche solo disporne il materiale relativo alle nostre librerie e fototeche, il pittore romano lo consideriamo un duecentesco, mentre il grande pittore senese lo collochiamo nel settore trecentesco. Eppure, Duccio, già attivo nel 1278, ha eseguito nel 1285 un dipinto come la Madonna Rucellai, capolavoro ancora tutto duecentesco, che non ha paralleli nella produzione del Cavallini, tutta orientata nella nuova direzione 43. La scuola romana rinnovata: Filippo Rusuti. Bisogna, poi, notare che il rinnovamento romano non è espresso soltanto dalla grande figura del Cavallini. Lavora, infatti, a Roma alla fine del Duecento un altro pittore importante, Filippo Rusuti 44, anch egli sacrificato ad una concezione della pittura romana rimasta allo stato di etichetta, o quanto meno di idea, e non di realtà storica. La commissione al Rusuti del mosaico di facciata di Santa Maria Maggiore (figg. 28, 33) offre qualche argomento

15 «Romanizing» o assisiate 117 di meditazione. Abbiamo già notato che tra i donatori non vi compare, come accade invece nell abside, il papa Niccolò IV, ma solo i due cardinali Colonna. Si direbbe, allora, che i lavori non cominciarono prima del 1292, anno della morte di quel papa. Tuttavia, la decisione deve essere stata presa abbastanza per tempo, altrimenti si sarebbe aspettato - vien da pensare - che il Torriti avesse compiuto l abside per poi affidargli la facciata. Invece i due lavori dovettero svolgersi quasi in parallelo: quello del Torriti finito nel 1296 e quello del Rusuti entro il 1297, anni in cui i due cardinali Colonna caddero in disgrazia 45. Come il Torriti, anche il Rusuti appose orgogliosamente la propria firma sul mosaico da lui eseguito. Ma con il Torriti impegnato nell abside, perché la scelta è caduta sul Rusuti e non sul Cavallini? Forse perché quest ultimo era ancora troppo immaturo per un lavoro così impegnativo? Non so se questa sia effettivamente la risposta giusta, ma l interrogativo va posto e, per chi voglia affrontare seriamente una ricostruzione della storia della pittura romana di fine Duecento, andrà meditato contestualmente ai dubbi che suscita la cronologia attribuita tradizionalmente al Cavallini. La figura del Rusuti emerge anch essa, insieme con quella del Cavallini, con notevole risalto nell ambito della rinnovata pittura romana di fine Duecento e della generazione post-torritiana. Al di là del mosaico di facciata di Santa Maria Maggiore, altre opere prestigiose fanno capo a lui. Una di esse è il mosaico absidale di San Crisogono, con la Madonna in trono fra i santi Crisogono e Jacopo (fig. 127), ancora passabilmente leggibile nonostante le non buone condizioni e i rifacimenti. Attribuito spesso al Cavallini o al suo ambito 46, ha ricevuto l apprezzamento più alto dal Bologna, che lo considera un «autentico capolavoro», ispirato «alle composizioni moderne di Cimabue» 47. E tuttavia nessuna delle opere di Cimabue arrivate fino a noi allude ad un trono così palesemente architettonico, rivestito di marmo, arricchito di decorazioni cosmatesche e fornito perfino di due colonne tortili. C è, in esso, tutto il senso di oggettualità che caratterizza le architetture nelle Storie della fondazione di Santa Maria Maggiore (fig. 28) e non vi manca nemmeno qualche curiosa

16 118 La pecora di Giotto distrazione, in linea con quelle che abbiamo notato nella rappresentazione dello spazio dei mosaici liberiani. Così, se le punte del cuscino su cui siede la Madonna si infilano, con una ingegnosa trovata, nel vano dei due archetti che traforano i fianchi del trono, sulla sinistra le cose funzionano bene, ma sulla destra il mosaicista è incorso in un errore, perché l archetto avrebbe dovuto essere interrotto dal cuscino e non viceversa. Ma in confronto a questo tipo di affinità, che qualcuno potrà trovare generiche, ve ne sono altre che legano strettamente il mosaico di San Crisogono con quelli della facciata di Santa Maria Maggiore. La severità della Madonna, l intensità dello sguardo trovano termini di confronto nelle due mezze figure di Cristo e di Maria che compaiono nell alto del Miracolo della neve, o con la Vergine che affianca il Cristo in trono nel riquadro maggiore del mosaico liberiano (fig. 128). In questa figura, sono in tutto simili la bellissima curva cupoliforme della spalla, la rotondita del mento, le pieghe del velo che ricadono sulla fronte dal sommo della testa con una verticalità un po innaturale e semplificatrice, che elude la sfericità del capo. La testa del san Crisogono (fig. 127) trova una corrispondenza quasi letterale con alcuni dignitari che stanno alle spalle del papa Liberio nella Fondazione di Santa Maria Maggiore (fig. 30), e in particolare col patrizio Giovanni. Il san Giacomo, poi, è gemello della figura dello stesso santo in piedi ai lati del Cristo in trono di Santa Maria Maggiore (fig. 129): la fisionomia, la mano destra sollevata, le pieghe dei panni sulla gamba destra si corrispondono puntualmente. È vero che esiste una certa differenza di concezione tra le figure più amplificate e monumentali di Santa Maria Maggiore e la verticalità di quelle del mosaico di San Crisogono, ma si deve anche pensare ad una possibile evoluzione dell artista verso una figurazione più gotica. Una direzione simile mostra quella che io credo un altra impresa del Rusuti: il restauro e il rifacimento degli affreschi dell abbazia di Grottaferrata. Anch essi sono stati messi in rapporto col Cavallini dal Matthiae 48, che ha proposto di riconoscervi la sua attività giovanile. Ma, a mio avviso, ha avuto ragione il Bertelli 49 a collegarli con le due tavole della stessa abbazia, che, dipinte davanti e dietro, raffigurano l Angelo annunziante, la Ver-

17 «Romanizing» o assisiate? 119 gine annunciata e i Santi Nilo e Bartolomeo da Rossano 50. Questo giusto collegamento significa una datazione più tarda per le pitture in questione e il Bertelli le mette in rapporto con i tempi di Bonifacio VIII e con un momento di grande interesse da parte di questo papa per l abbazia di Grottaferrata. Gli ultimi restauri hanno dimostrato che gli affreschi sono il risultato di un rifacimento, o meglio, di una ridipintura di un ciclo più antico, presumibilmente di metà Duecento. L entità delle ridipinture varia nella consistenza, «più densa quando occorreva ricoprire interamente, più sottile, quasi fosse un ritocco, là dove con poche pennellate era possibile adeguare alla nuova visione quanto preesisteva». «Nella nuova stesura possono trovare posto anche brani dell antica, intatti o circoscritti». I nuovi interventi sono come «una mezza tempera, di consistenza opaca e farinosa, di intonazione fredda, con prevalenza di verdini, di azzurri e di grigi, in opposizione al tono caldo dello strato sottostante» 51. Le osservazioni del Matthiae sulla «intonazione fredda con prevalenza di ombre verdine» si possono estendere anche alle due tavole e l accostamento del Bertelli 52 tra l Angelo annunziante e il Mosè nell affresco con la Vocazione parla da solo. Non si può negare nel pittore di Grottaferrata una certa aria di famiglia col Cavallini, ma i risultati sono assai diversi. La linea di contorno ha una tensione maggiore, il modellato è più trasparente, le tinte più fredde; il panneggio, più metallico e setoso, tende a rimanere piatto nonostante le accurate sfumature e l articolarsi in incisioni taglienti o in lunghe pieghe tubolari. Come sagome di un tiro a segno, le figure sono profilate da lunghe curve, sulla cui linearità non hanno effetto le articolazioni del panneggio (fig. 133). Nonostante che i passaggi dalla luce all ombra avvengano attraverso accurate gradazioni, i corpi non arrivano a diventare dei volumi. E come se il chiaroscuro avesse anch esso una funzione decorativa, invece che strutturale e servisse ad impreziosire ulteriormente, con degli effetti serici, la superficie dipinta. Anche il panneggio tende a rimanere piatto, ad articolarsi soltanto in parallelo con la superficie, come se la materia preziosa e ve-

18 120 La pecora di Giotto trina non permettesse altro che scalfitture, incisioni e tagli poco profondi. Il mosaico di Santa Maria Maggiore è ricco di effetti simili, soprattutto nella parte alta: si veda, per esempio, l angelo in alto a destra ai lati della mandorla del Redentore. Notevole è anche l affinità tra la tunica del Mosè davanti al roveto ardente (fig. 131) e certi episodi del panneggio della Madonna di San Crisogono (fig. 127), a taglienti sottosquadri, quasi arnolfiani, ma in cui le pieghe rimangono un po rigide e fanno fatica a superare la fase di una formulazione bidimensionale e a suggerire anche lo scorcio in profondità. Nei volti, gli occhi grandi, a fior di pelle, incastonati dalla mezza luna della palpebra inferiore, il naso dalla punta smussata, la guancia piena, il mento grosso e tondeggiante, da far pensare ad un uovo sodo sgusciato (figg. 133, 136), trovano molti riscontri nei mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore (figg. 130, 131), dove è anche un modo simile di atteggiare le teste e di guardare lateralmente. Se gli affreschi di Grottaferrata, costretti a ricalcare una stesura più antica, ci dicono ben poco su come il pittore affrontava la rappresentazione dello spazio, ce ne possiamo fare un idea dalla tavola con la Vergine annunciata, dove il trono marmoreo, ricco di decorazioni cosmatesche, si lega molto bene con il mosaico di San Crisogono e con le Storie della fondazione di Santa Maria Maggiore. Un altra opera ben nota potrebbe collegarsi con il Rusuti, anche se in questo caso la proposta si fa più cauta ed esitante. Si tratta dei resti della decorazione ad affresco del transetto sinistro della stessa basilica di Santa Maria Maggiore. I celebri «clipei» con i busti di Profeti, o più probabilmente di Apostoli, sono un opera capitale nell ambito della pittura romana e i loro rapporti con gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi sono tali che è stata ventilata perfino un attribuzione a Giotto 53. Questa decorazione, condotta di conserva con il mosaico absidale del Torriti, rimase probabilmente interrotta 54. Nell insieme, che comprende anche vasti e bellissimi tratti ornamentali, colpisce, intanto, quella gamma cromatica particolare, che raggiunge gli effetti più straordinari negli accostamenti deli-

19 «Romanizing» o assisiate? 121 cati e freddi di azzurro e di verde, come avevamo visto anche a Grottaferrata. Ma consideriamo più da vicino i busti degli Apostoli a cominciare da quello più giovane, dal volto simile a Cristo, probabilmente da identificare, perciò, con san Giacomo. Nella concentrazione dello sguardo, nell incisiva scalpellatura del naso, nell andamento dei capelli, nel rapporto molto calcolato fra la testa, il collo e le spalle, esso è ben confrontabile col Cristo che compare nel cielo del Miracolo della neve sulla facciata stessa della basilica e anche con la testa del Cristo in trono nella parte alta. Questa è stata spesso messa in relazione con l Eterno nell affresco con la Creazione della navata di Assisi 55, che mi pare invece esclusivamente torritiano e quasi sovrapponibile al Cristo nella Volta dei Santi (figg. 143, 144), lì accanto (si vedano, soprattutto, i lustri sulla canna nasale). Anche il panneggio del probabile San Jacopo e quello, più ampio e meglio giudicabile, dell apostolo che ha le caratteristiche di un san Pietro (fig. 132) mostra forti affinità con il Rusuti nel non interferire sulle profilature formate da un unico tratto, nel creare delle zone piatte scalfite da lunghe e sottili pieghe a taglienti sottosquadri, nel loro rimanere sostanzialmente delle superfici senza diventare volumi, nonostante i forti contrasti chiaroscurali. Certo, il probabile San Pietro, con la sua corporatura espansa e monumentale, con le ciocche dei capelli e della barba fortemente scalpellate, sembra più difficile da confrontare con i mosaici del Rusuti e con gli affreschi di Grottaferrata. Tuttavia, è innegabile una forte affinità con il san Pietro a mosaico, non solo nella tipologia ma - soprattutto - nel collo taurino, potentemente modellato dalle corde e dai muscoli. Qualcosa di molto simile si trova anche a Grottaferrata, soprattutto nell Angelo annunziante dal collo erculeo, quasi spropositato. Ma anche la sua testa gentile non manca di sorprendenti affinità col possibile San Pietro liberiano, nello sguardo, nelle sottili «borse» sotto gli occhi, nel naso dalla punta arrotondata, profilato da una linea che si chiude su se stessa subito sopra le labbra, con un occhiello calligrafico. Affinità sorprendenti si riscontrano anche in aspetti più minuti, come la forma degli orecchi. Lo faccio notare non perché creda

20 122 La pecora di Giotto in questo tipo di confronti «morelliani», ma perché in questo caso gli orecchi sono di una fattura veramente singolare: hanno infatti il risvolto del padiglione molto largo, segnato all estremità interna da una forte lumeggiatura che forma un unica linea curva, subito prima che si apra la cavità formata da un ombra intera che la fa sembrare solo vuota e senza articolazioni interne. Ed è una caratteristica che si ritrova anche a Grottaferrata, soprattutto nelle varie figure di Mosè (figg. 132, 133). Anche certe particolarità del modellato, come le forti e raffinate lumeggiature che sembrano far lustrare le parti in rilievo accomunano gli affreschi di Grottaferrata a quelli di Santa Maria Maggiore. Si vedano, ad esempio, le mani sollevate del Mosè con la verga e quelle dell apostolo con la barba lunga di Santa Maria Maggiore (fig. 134). Di questa figura colpisce anche la somiglianza perfino fisionomica col San Nilo in preghiera in una delle tavole di Grottaferrata (fig. 135). Tutte queste opere che, più o meno direttamente, fanno capo al Rusuti ne coinvolgono anche altre, come il bellissimo e purtroppo malconcio Crocifisso di San Tommaso de Cenci, reso noto da Ilaria Toesca, nel quale sono pure evidenti i rapporti con Assisi e soprattutto con il Compianto sul Cristo morto 56. Oppure, l angelo in una delle volte del monastero di Santa Scolastica a Subiaco (fig. 138), così prossimo all Angelo annunziante di Grottaferrata e straordinario nell idea di quella cornice circolare a motivi marmorei in aggetto, prospetticamente complicati come in un Paolo Uccello avanti lettera. Ma non è forse il caso di discuterne più che tanto in questa fase ancora sperimentale di ricostruzione della personalità del Rusuti che, con un corpus come quello qui proposto, non manca di porre dei problemi, soprattutto cronologici. Con le opere di cui abbiamo parlato sopra, la personalità del Rusuti acquista un grande rilievo e se si potranno confermare a lui i clipei di Santa Maria Maggiore e il Crocifisso di San Tommaso de Cenci la sua posizione nell ambito della pittura romana tra la fine del Due e gli inizi del Trecento non risulterà inferiore a quella del Cavallini. Né i destini dei due pittori sono molto diversi. Dopo l esodo della corte papale verso Avignone, come il Cavallini (che va a lavorare a Napoli), anche il Rusuti si allontana da

21 «Romanizing» o assisiate? 123 Roma e lo si ritrova in Francia, dove è documentato nel 1308, nel 1309 e nel 1317 al servizio del re, insieme ad altri pittori romani. E io sono perfettamente convinto che siano da riferire al Rusuti gli angeli della chiesa di Saint-Nazaire a Béziers (figg. 137, 139), affrescati nella cappella dello Spirito Santo che nel 1307 era appena costruita 57. Essi furono malamente sfregiati durante le guerre di religione del secondo Cinquecento e oggi li vediamo completamente privi dei tratti del volto. Ma quel che resta sembra andare ben d accordo con gli aspetti che abbiamo notato nel Rusuti. Così, il chiaroscuro delle vesti ha quello stesso carattere velleitario e decorativo - come nei cangianti di una morbida seta - che abbiamo già riscontrato soprattutto negli affreschi e nelle tavole di Grottaferrata. Le ali degli angeli si aprono, distanziando l una dall altra le piume più lunghe, in una caratteristica profilatura quasi spinosa (fig. 137), come accade nel mosaico di facciata di Santa Maria Maggiore, soprattutto nei simboli degli evangelisti o negli angeli che attorniano la Madonna (per quanto ci lasciano intravedere gli interventi di restauro) nella parte alta del Sogno di papa Liberio (fig. 136). Anche le mani si prestano a precisi confronti, che potranno sembrare brutalmente «morelliani» ma che si rendono necessari dati i pochi elementi di giudizio che ci permettono gli Angeli di Béziers. Uno di essi sporge di lato la destra, ripiegando in dentro le falangi delle dita in un modo molto particolare, che, in controparte, è quello stesso della sinistra dell Angelo annunziante di una delle tavole di Grottaferrata. La mano sollevata di un altro Angelo di Béziers (fig. 137) ha una struttura così singolare da costituire quasi una firma, dal momento che è pressoché identica alla destra benedicente del Cristo sulla facciata di Santa Maria Maggiore (fig. 28) e, più ancora, alla mano alzata del Patrizio Giovanni davanti a papa Liberio. Tre indizi: il trono, il tratteggio, la «diadema». Da questa revisione dell opera e della cronologia del Torriti, del Cavallini e del Rusuti mi pare risulti già abbastanza evidente che la pittura romana degli ultimi decenni del Duecento e degli

22 124 La pecora di Giotto inizi del Trecento presenta delle articolazioni molto complesse, in confronto alle quali l interpretazione «romanizing», basata esclusivamente sulle opere del Cavallini, appare un indebita semplificazione. E si ritorce su di essa l accusa che l Offner rivolgeva ai sostenitori dell autografia giottesca degli affreschi di Assisi: «urged on by the irrelevant force of usage or patriotism, have been taking too much for granted» 58. Ciò vale, infatti, tanto di più per i promotori del mito del Cavallini, basato su dati cronologici che gli sono stati attribuiti con troppo entusiasmo e che sono stati poi «taken too much for granted». Il grande interrogativo rimarrà per molti quello dei rapporti tra la pittura romana e gli affreschi di Assisi dalle Storie di Isacco in avanti. Ma la datazione delle Storie di san Francesco agli inizi degli anni novanta del Duecento avvia questo problema ad una soluzione. Per chi considerasse ancora fermo ad uno stadio congetturale il discorso sulla direzione degli scambi, varrà la pena di prendere in esame alcuni aspetti figurativi ai quali non si è fatto molto caso. Essi ci forniscono degli indizi rivelatori. Cominciamo pure da opere di importanza più modesta e perfino mal leggibili, com è un affresco che si trova nella chiesa di San Niccolò a Sangemini, in Umbria, firmato da Rogerio da Todi 59 e datato 1295 (fig. 140). A quest epoca, il non eccelso pittore umbro fa già sedere la sua Madonna su un trono architettonico con decorazioni cosmatesche, che è una delle novità caratterizzanti della rivoluzione pittorica di fine Duecento, in quanto si contrappone al più arcaico trono ligneo, ricco di torniture e decorazioni, che veniva da una secolare tradizione tardoantica e bizantina e che aveva avuto elaborazioni stupende in Cimabue, nel Maestro di San Martino e nel giovane Duccio. Qualche tempo dopo, il marmoraro romano Giovanni di Cosma esegue in Santa Maria sopra Minerva il monumento funebre di Guillaume Durand, vescovo di Mende, morto nel ; nel fondo è figurato un mosaico (fig. 141) in cui la Madonna sta seduta su un trono che mantiene ancora moltissimi elementi del tipo di tradizione bizantina (come accade anche nel mosaico absidale del Torriti in Santa Maria Maggiore, finito nel 1296, e nella parte alta del mosaico di faccia-

23 «Romanizing» o assisiate? 125 ta della stessa basilica, eseguito dal Rusuti pressoché contemporaneamente); e benché responsabile del monumento Durand sia uno della famiglia dei Cosmati, non vi compare nemmeno un motivo cosmatesco. È solo qualche anno più tardi che nel mosaico di un altro monumento sepolcrale, quello del vescovo Consalvo (morto nel 1299) in Santa Maria Maggiore, eseguito dallo stesso Giovanni di Cosma 61, compare un trono architettonico con dei motivi cosmateschi, sia pure molto sobrii (fig. 142). Così, tre figurazioni omogenee come livello di qualità artistica, esaminate contestualmente, sembrano indicare che uno dei motivi della pittura rinnovata di fine Duecento, il trono architettonico rivestito di marmo e ornato di decorazioni cosmatesche, era noto in Umbria prima che a Roma. Trovandolo a Sangemini, nell opera di un oscuro pittore di Todi, bisogna anche pensare che nel 1295 questo motivo fosse diffuso già assai capillarmente, quando a Roma ancora non esisteva. Questo sembra indicare che la direzione degli scambi Assisi-Roma fosse dalla città umbra alla città papale, e non viceversa. Se poi guardiamo ad un altro aspetto, dobbiamo arrivare alle stesse conclusioni. Abbiamo accennato al modo di dipingere ad affresco del Torriti ad Assisi, a quanto la sua diligenza di esecuzione attutisca gli effetti brillanti, per macchie accostate, della pittura compendiaria tardoantica, cui l artista romano si ispira, in parallelo con la tradizione bizantina. A guardare da vicino la testa della Luce e dell Eterno nella Creazione o la testa del Redentore nella Volta dei Santi 62 (figg. 143, 144), ad esempio, si vedrà come le ombre del chiaroscuro non siano macchie di colore ma quasi una ragnatela di sottili filamenti scuri, accostati fittamente; allo stesso modo, la luce sulla punta del naso, anche se lustra, non ha il risalto che avrebbe attinto nella pittura compendiaria tardoantica, perché rimane come irretita dai continui ritorni del pennello. Cosi, l effetto finale del modellato è quello di forme definite come da gibbosità. In questo, non mancano affinità con quanto accadeva a Firenze, al tempo di Coppo di Marcovaldo. Penso soprattutto al Crocifisso di San Gimignano. Ma con Cimabue si va molto oltre questa concezione

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