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1 1. ECONOMIA E PRODUZIONE L economia si può definire come il campo delle attività umane rivolte all impiego di beni relativamente scarsi per il soddisfacimento dei nostri bisogni. Infatti non tutti gli innumerevoli bisogni che avvertiamo nel corso dell esistenza assumono significato economico, ma solo quelli che vengono soddisfatti da beni disponibili in quantità limitata e che perciò si dicono beni economici. L aria che respiriamo, pur soddisfacendo un bisogno essenziale, non è un bene economico perché la si trova in quantità più che abbondante per tutti: non così il cibo, il vestiario, la casa, ecc. Centrale nell economia è la produzione. Con essa non si «creano» i beni economici (in natura nulla si crea e nulla si distrugge), ma si determina o si accresce la loro utilità, ossia la loro attitudine a soddisfare i bisogni. Qualsiasi attività di produzione rientra in uno dei seguenti settori produttivi: il primario o agricoltura (e attività connesse, come l allevamento); il secondario o industria (vi si include anche l artigianato); il terziario, comprendente il commercio ed i servizi (i quali producono beni economici «immateriali»: i trasporti, le comunicazioni, l insegnamento, le libere professioni, ecc.). Ai giorni nostri, un economia in cui prevalgano le attività agricole è un economia arretrata. Tutte le moderne economie sono fortemente industrializzate. Anzi, le economie più avanzate non si caratterizzano più nemmeno per l ampiezza del settore secondario, bensì per il crescente ruolo del terziario: basti pensare a ciò che è giunta a rappresentare l informatica nella vita economica contemporanea. Con il nome di «economia» (senza aggettivi, o variamente aggettivato: «economia politica», «economia sociale», ecc.) si designa anche la scienza economica, che studia i fenomeni economici in tutti i loro aspetti, ripartendosi in vari rami: politica economica (ha per oggetto l attività economica dello Stato), economia agraria, economia industriale, economia dei trasporti, ecc. 1

2 2. FATTORI PRODUTTIVI, PRODUTTIVITA, IMPRESA Affinché la produzione abbia luogo, è necessario che vi concorrano simultaneamente tre elementi o fattori produttivi (da non confondere con i «settori» produttivi visti sopra): 1) il lavoro, cioè l attività psico-fisica dell uomo intesa a produrre; 2) la natura, cioè il complesso delle forze che il lavoro applica alla produzione (terra, materie prime, energia); 3) il capitale, qualunque prodotto impiegato mediante il lavoro in nuova produzione (sementi, officine, macchine, ecc.). In un certo senso, la natura può essere fatta rientrare nel capitale, inteso come elemento materiale della produzione. Ciascuno dei fattori produttivi è indispensabile. Negli ultimi due secoli il capitale ha raggiunto un peso particolare soprattutto a seguito della diffusione delle macchine e dei progressi della meccanica e della chimica (rivoluzione industriale); si è determinato così il sorgere del capitalismo, sistema produttivo contraddistinto, appunto, dall importanza della disponibilità di capitale. Tuttavia il lavoro resta il fattore basilare della produzione perché ne costituisce il principio intelligente e propulsivo. Il rapporto fra quantità dei beni prodotti e quantità dei fattori produttivi impiegati si chiama produttività. Così, data una certa quantità di prodotto, la produttività sarà tanto maggiore, quanto minore sarà la quantità dei fattori impiegati; e viceversa. Un alta produttività rappresenta, logicamente, un requisito di efficienza della produzione. Per dare luogo ad una produzione efficiente, i fattori produttivi si debbono combinare di volta in volta fra loro nel modo più opportuno. Si rende quindi necessaria un attività che si eserciti nel riunirli, dosarli e dirigerli convenientemente allo scopo produttivo. Sorge allora la figura dell imprenditore: ossia di colui che (come recita l articolo 2082 del codice civile) «esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione». Così facendo, l imprenditore dà vita ad un organismo tipico che si chiama impresa. (Spesso come sinonimo di impresa si usa il termine azienda). L imprenditore non va confuso con il «capitalista». Può ben darsi che un imprenditore conferisca alla propria impresa in tutto o in parte il capitale che le occorre; nondimeno le due funzioni quella di imprenditore e quella di portatore di capitale resteranno ben distinte. Le imprese si distinguono in grandi, medie e piccole a seconda della maggiore o minore incidenza del fattore «capitale» nel loro funzionamento. Le grandi imprese presentano di solito il vantaggio di una organizzazione più perfezionata e più solida. Le medie e piccole imprese contribuiscono però anch esse notevolmente al progresso produttivo: risultano poi utilissime per la crescita dello spirito imprenditoriale, indispensabile in una società dinamica. In ragione della loro appartenenza, le imprese si distinguono in pubbliche e private. Fra le imprese private, hanno rilievo le società per azioni: in esse la proprietà è ripartita in unità frazionarie, dette appunto «azioni», di eguale valore e conferenti ai loro proprietari (soci) diritti proporzionali alla quantità (quota) di azioni possedute. Si noti peraltro che una società per azioni può appartenere anche alla «mano pubblica», quando questa detenga la maggioranza o la totalità delle sue azioni: è tuttora (anno 2000) il caso delle Ferrovie dello Stato. 3. CONSUMO, RISPARMIO, INVESTIMENTO Per soddisfare i bisogni, i beni economici prodotti vanno consumati, cioè effettivamente utilizzati. Si consuma una casa abitandola, un abito indossandolo, un libro leggendolo. La eliminazione del bene può essere inevitabile (non posso consumare cibo senza annientarlo), ma non sempre. 2

3 Ognuno di noi è consumatore nella misura in cui utilizza beni economici (così come è produttore nella misura in cui concorre ad un attività produttiva). Il consumo risponde ad una di queste tre forme caratteristiche di comportamento: destinare beni al soddisfacimento dei bisogni presenti (consumo in senso stretto); mettere beni da parte in vista del soddisfacimento di bisogni futuri (risparmio); impiegare beni per nuova produzione o, come si dice, investirli. La propensione al risparmio esprime la capacità di prevenire imprevisti economici e di fronteggiarli. L attitudine all investimento ispira una condotta mirata alla crescita della produzione: la produzione non aumenta, se non si investe nella misura adeguata. 4. LA CIRCOLAZIONE DEI BENI E IL MERCATO VALORE DEI BENI Difficilmente la produzione di un bene economico è limitata ai bisogni di chi lo produce. D altra parte, nessuno dispone direttamente di tutti i beni capaci di soddisfare tutti i suoi bisogni. Da qui la funzione essenziale dello scambio dei beni economici, cioè del loro passaggio da chi li ha prodotti a chi li cerca per consumarli. La serie delle attività, mediante le quali i beni passano dal produttore al consumatore, si dice circolazione dei beni. Essa trova lo strumento-chiave nell intermediazione fornita dalla struttura commerciale. Il complesso delle persone che scambiano beni economici ed il complesso delle loro attività a ciò mirate costituiscono il mercato. Con lo stesso nome di «mercato», in senso ristretto e concreto, indichiamo i luoghi fissi dove si effettuano in forma sistematica le contrattazioni e si concludono gli affari. Un mercato specializzato in una determinata categoria di beni si dice anche borsa merci (ad esempio, agricole). Nel mercato agiscono due tipi di soggetti: il portatore della domanda ed il portatore dell offerta di un bene economico. La domanda non assume risalto se non è accompagnata da un altro bene da scambiare: il potenziale acquirente deve presentarsi sul mercato con una congrua capacità di acquisto, misurata appunto dal bene che egli accompagna alla propria domanda. Affinché lo scambio abbia luogo, occorre però un ulteriore condizione. Ognuno di noi attribuisce un certo grado d importanza (valore) ad un bene economico a seconda del giudizio che dà circa la sua utilità (cioè, ricordiamo, la sua attitudine a soddisfare un nostro bisogno: 1). Il valore così attribuito a quel bene è il suo valore d uso. Ma si può anche valutare un bene in rapporto ad un altro bene, esprimendone così il valore di scambio. Il valore di scambio presuppone il mercato, giacché implica che io: 1) voglia scambiare un bene B in mio possesso con un altro bene A; 2) incontri un soggetto desideroso del bene B e disposto, per ottenerlo, a cedere il bene A in suo possesso. Lo scambio avverrà se entrambi, rispettivamente, attribuiremo al bene desiderato un valore d uso superiore al valore d uso del bene posseduto. Il valore di scambio dei due beni oggetto della nostra contrattazione sul mercato (perciò il valore di scambio si dice anche valore di mercato) si fisserà in quel punto in cui concorderemo sul rispettivo valore d uso dei beni stessi. 3

4 5. CONDIZIONI DI MERCATO, LIBERTA E REGOLE Sul mercato i soggetti che agiscono sono tantissimi. A contarvi non sono quindi le valutazioni di due soli scambisti, ma ad un tempo quelle di tutti coloro che vi intervengono. Guardando alla pluralità dei soggetti a seconda dello spazio di manovra che essi hanno sul mercato, quest ultimo presenta due condizioni tipiche: - di libera concorrenza; - di monopolio. Si ha libera concorrenza quando chiunque ha facoltà di produrre e vendere i propri beni, e nessuno è in grado di influenzare il mercato da solo. Un economia di libera concorrenza è detta anche economia di mercato, e quel mercato si considera un libero mercato (sotto un certo aspetto, anzi, soltanto se libero un mercato è possibile, talché fuori della libera concorrenza non si dovrebbe propriamente parlare di mercato). Si ha monopolio (che può essere pubblico o privato) quando la produzione e la vendita di uno o più beni sul mercato è riservata di diritto o di fatto ad un solo soggetto, il quale è così in grado di dominare il mercato rispetto a quel bene o a quei beni. Fra la libera concorrenza e il monopolio si danno condizioni di mercato intermedie: la libera concorrenza può trovare delle remore in disposizioni di legge (ad esempio, per la disciplina del commercio internazionale o per la tutela dell ambiente oppure per il controllo sul commercio di prodotti come le medicine o come le armi); mentre, dal canto suo, il monopolio su uno o più beni può essere, anziché totale, parziale (duopolio se i soggetti produttori o venditori sono due; oligopolio, se sono pochi). La libera concorrenza si può considerare la condizione fisiologica dell economia: sollecita la competitività, stimola lo spirito d iniziativa e con ciò promuove energicamente il progresso. Il monopolio talora può generare effetti positivi, come certi monopoli pubblici a scopi sociali (è il caso del monopolio del sale, stabilito in passato per facilitare l acquisto di questo essenziale condimento anche alle famiglie non abbienti). Ma in genere esso non favorisce l attività produttiva, facendole mancare stimoli alle necessarie innovazioni; inoltre pone gravi limiti alle scelte economiche dei singoli soggetti. Una situazione di monopolio pubblico estesa a tutti i beni si può considerare quella dello statalismo integrale tipico dei Paesi comunisti: l implosione di quei sistemi all inizio degli anni 90 ne ha storicamente provata l insostenibilità. Tuttavia, quantunque di gran lunga preferibile, neanche la libera concorrenza evita di per sé inconvenienti. Il mercato è una macchina preziosa per agevolare gli scambi; ma, al pari di ogni altra macchina, non dà più di quello che vi si immette. L esperienza ci fa capire quanto fosse illusorio il convincimento del liberismo teorico del secolo XVIII e XIX circa la capacità del mercato di garantire da solo il massimo dell armonia. In realtà un mercato privo di disciplina o, come si dice «selvaggio», dà àdito all esplosione dei contrasti di interesse, alle sopraffazioni ed all affermarsi di vantaggi ingiustificati di alcuni a danno degli altri. Il mercato non cessa di essere libero se viene inquadrato da regole (ad esempio antimonopolistiche) che ne rispettino il meccanismo evitandone le deviazioni: al contrario, può esplicare al meglio le proprie virtualità positive. 4

5 6. MONETA E PREZZO POTERE D ACQUISTO Fin dall antichità si è cercato di allargare gli scambi dei beni economici oltre la forma elementare e ristretta del baratto (scambio in natura). E nata così la moneta, che permette di scambiare un bene non direttamente con un altro bene, ma con una quantità di essa pari al valore di mercato del bene scambiato. L ammontare della moneta scambiata con il bene acquistato viene in tal modo ad esprimere il valore di scambio del bene stesso, che allora si dice meglio prezzo. Il prezzo di un bene si può dunque considerare il suo valore di scambio espresso in moneta. Per lungo tempo la moneta è stata realizzata in metalli pregiati (oro, argento, rame). Più avanti, con l intensificarsi degli scambi, l uso dei metalli si è rivelato insufficiente e sono state usate monete sussidiarie fatte di metalli meno pregiati (nichelio, acciaio, ecc.), nonché di carta (biglietti di banca «convertibili» in moneta preziosa e, in seguito, carta-moneta, il «danaro» oggi corrente, la cui convertibilità è praticamente esclusa). Nella moneta bisogna distinguere il suo valore legale (o nominale) dal suo valore di scambio. Il primo è il valore attribuito alla moneta dalla legge e che la moneta porta scritto o impresso su una sua superficie («mille lire», «cinquemila lire», «dieci franchi», «un dollaro»; dal 2002 «un euro», «cinque euro» ecc.). Il secondo detto anche potere d acquisto è la quantità di beni che con la moneta si possono acquistare effettivamente (che cosa posso comprare, di fatto, con mille lire, con diecimila lire, con uno, cinque euro ecc.?). Appare chiaro che il valore della moneta che più interessa è il suo valore di scambio. Poco m importa di avere moneta per un valore nominale anziché come ne avevo dieci anni fa, se con le attuali posso acquistare meno di quanto allora potevo con Ma da cosa dipende il valore di scambio della moneta? Essenzialmente da due elementi: 1) dalla quantità dei beni scambiati con essa; 2) dalla quantità e velocità di circolazione della moneta medesima sul mercato. Più beni posso scambiare con la moneta e minore è la sua quantità e velocità di circolazione, più alto è il suo valore di scambio; e inversamente. D altra parte, ricordando (v. sopra) che il prezzo è il valore di scambio di un bene espresso in moneta, se ne ha che il prezzo è una grandezza reciproca del valore di scambio della moneta: cioè varia in ragione inversa di quest ultimo. Più alti sono in media i prezzi, più basso è il valore di scambio o potere d acquisto della moneta; e viceversa. 7. LEGGE DELLA DOMANDA E DELL OFFERTA AUTOMATISMO E VOLONTARISMO Come si forma il prezzo sul mercato? Fra venditore e compratore c è divergenza di interessi: il primo vorrebbe scambiare al prezzo più alto, il secondo al prezzo più basso possibile. Nella realtà, il prezzo verrà a determinarsi laddove si formerà il valore di scambio (essendo il prezzo, ripetiamolo ancora, null altro che il valore di scambio di un bene espresso in moneta). Più precisamente verrà a determinarsi laddove coincideranno: a) la quantità di moneta che il compratore è disposto a versare per acquistare il bene; b) la quantità di moneta che il venditore è disposto a ricevere per cederlo. Ciò accade nella logica della legge economica della domanda e dell offerta, legge che si può enunciare così: il prezzo dei beni economici varia in proporzione diretta della domanda ed in proporzione inversa dell offerta. Infatti il prezzo risulterà tanto più alto quanto maggiore sarà la domanda e quanto minore sarà l offerta (un bene ricercato «vale di più» sul mercato); il contrario avverrà nel caso di una scarsa domanda e di un eccessiva offerta (un bene sovrabbondante sul mercato «vale di meno»). In un mercato di libera concorrenza, la legge della domanda e dell offerta opera in pieno. Tuttavia la libera concorrenza non è mai perfetta come se regnasse un automatismo totale: nella realtà intervengono elementi «volontaristici» ad alterare la domanda e l offerta quali risulterebbero meccanicamente in una situazione ideale, come si dice, «polverizzata», nella quale nessun venditore e nessun compratore fossero in grado di pesare sul mercato più degli altri. Quando poi si arriva al monopolio, il monopolista tende a controllare la domanda ovvero (più solitamente) l offerta di un bene, così da stabilire il prezzo o, che è lo stesso, di fissare la quantità del bene prodotto laddove più gli convenga. 5

6 8. IL CREDITO ED IL SUO RUOLO STRATEGICO Non sempre chi ha bisogno di un bene economico dispone in quel momento del denaro occorrente. Allora possono verificarsi due ipotesi: a) il venditore può consegnargli il bene senza esigere subito il corrispettivo, accontentandosi di una promessa di pagamento, cioè di un pagamento da effettuarsi in una data futura; oppure b) il venditore pretende subito il pagamento e il compratore si procura il danaro necessario presso un terzo (per lo più una banca) sotto forma di prestito, ossia, anche qui, dietro promessa di restituire in una data futura. Questa traslazione di beni economici dietro promessa di pagamento al venditore (caso a), o di danaro dietro promessa di rimborso al prestante (caso b), costituisce il credito. Il quale, pertanto, si può definire come lo scambio di un bene presente (il bene ceduto nella prima ipotesi di cui sopra; il danaro avuto in prestito nella seconda) con un bene futuro (il pagamento nella prima ipotesi; il rimborso nella seconda). In altre parole, il credito non è che uno scambio dilazionato nel tempo. Dopo il baratto e la compravendita, il credito costituisce una terza e più evoluta forma di scambio, che svolge una funzione capitale nella circolazione dei beni economici. Lo sviluppo del credito è stato facilitato a sua volta dalla diffusione dei titoli di credito. Questi sono strumenti autonomi che «rappresentano», appunto, il credito accertandone l esistenza e consentendo non solo di esercitare lo specifico diritto che è in esso menzionato, ma altresì, ove occorra, di trasferirlo. I più importanti titoli di credito sono la cambiale, l assegno bancario (o di conto corrente), l assegno circolare, i buoni del tesoro (emessi dallo Stato o da altri enti pubblici), le obbligazioni (prestiti fatti a società e da non confondere con le azioni, che, ricordiamo, sono titoli di proprietà). La negoziazione di obbligazioni, di azioni e di altri titoli nonché di moneta estera (valori mobiliari) ha luogo regolarmente nelle borse valori. 9. ECONOMIA FINANZIARIA ED ECONOMIA REALE La moneta ed i titoli di credito, nel loro insieme, costituiscono la parte dell economia detta economia finanziaria per distinguerla dall economia della produzione e del consumo, che costituisce invece la parte dell economia detta economia reale. Nello stesso senso, si parla anche di «capitale finanziario» per designare danaro «liquido», titoli di credito, titoli di proprietà, distinguendolo dal «capitale reale», «stock» fisico di beni produttivi. L economia finanziaria gioca un ruolo-chiave nella dinamica economica moderna. Essa resta tuttavia strumentale rispetto all economia reale: è quest ultima che, coinvolgendo direttamente i bisogni e il lavoro umano, va considerata comunque il riferimento primario di tutta la vita economica. 6

7 10. LA DISTRIBUZIONE DEI BENI IL DIRITTO DI PROPRIETA E SUA FUNZIONE SOCIALE Il diritto di proprietà dei beni economici interessa, oltreché il diritto, anche l economia, perché è premessa indispensabile allo scambio e, di conseguenza, base dell attuale distribuzione dei beni. Infatti, soltanto chi ha la proprietà di un bene può non solo usarne (facoltà, questa, riconosciuta anche a soggetti non proprietari, quali inquilini, usufruttuari, ecc.), ma disporne liberamente: vendendolo, permutandolo, donandolo, ovvero trasmettendolo in eredità. Secondo il codice civile (art. 832) la proprietà è «il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l osservanza degli obblighi stabiliti dall ordinamento giuridico». La Costituzione (art. 42) sancisce che la proprietà «è pubblica o privata»; la proprietà privata «è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e renderla accessibile a tutti»; essa, peraltro, può essere, nei casi preveduti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. Come si vede, nella proprietà è comunque presente una componente sociale. Nella proprietà pubblica questa componente è fondamentale. In quella privata la componente fondamentale, invece, ha carattere individuale; mentre la componente sociale ne rappresenta un limite, nel senso che la proprietà privata dei beni economici è sempre ammessa finché non interferisca con un interesse generale riconosciuto e tutelato dalla legge. Siffatto inquadramento della proprietà dei beni economici è lo sbocco di una lunga evoluzione storica che nei tempi passati aveva visto l assolutizzazione della componente individuale (a partire dalla proprietà come «jus utendi et abutendi», diritto di usare ed abusare, presso gli antichi romani). All estremo opposto, la proprietà privata è stata combattuta dai sistemi comunisti; gli esiti, però, si sono dimostrati disastrosi, poiché il diritto di proprietà è un diritto inviolabile della persona ed il suo riconoscimento nel rispetto della sua funzione sociale sostiene potentemente l intraprendenza economica dei singoli favorendo il benessere collettivo. 11. IL REDDITO Oggetto di proprietà è non solo la ricchezza accumulata in passato, ma anche quella che via via si produce. A quanti concorrono alla produzione spetta logicamente in proprietà una quota-parte dei beni prodotti o una corrispondente somma di danaro: l oggetto di tale spettanza costituisce il reddito. In un libero mercato la distribuzione del reddito avviene secondo la legge della domanda e dell offerta. Colui che ha venduto un bene economico e ha ricevuto in cambio un altro bene o, più frequentemente, il prezzo in danaro è di solito l imprenditore. Il ricavo della vendita va dunque a quest ultimo. Ma, per produrre, egli ha dovuto sopportare dei costi (di produzione), cioè ha dovuto compensare coloro che gli hanno fornito i fattori produttivi necessari: i lavoratori, con il compenso rappresentato dal salario (detto anche stipendio o, per gli operai, mercede o paga, mentre per i liberi professionisti si parla di onorario); chi gli ha concesso i fattori naturali, con un compenso che, a proposito della terra, si dice rendita; il privato o la banca che gli prestò il danaro occorrente all acquisto del capitale, con l interesse in senso stretto (la misura dell interesse si dice tasso o saggio e si esprime in un tanto per cento all anno sul danaro prestato: un tasso largamente superiore a quello corrente costituisce usura e configura un grave reato penale). Poiché il salario costituisce, di norma, l unica fonte di sostentamento del lavoratore, la determinazione del salario dovrà ragionevolmente tenere conto di quanto occorre a garantire un esistenza libera e dignitosa per lui e per la sua famiglia. In proposito, la Costituzione italiana (art.36) sancisce, appunto, che il 7

8 lavoratore «ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un esistenza libera e dignitosa». Dedotte le quote di ricavo spettanti a chi ha concorso con lui alla produzione, e dedotte inoltre le spese generali dell impresa e le imposte (inderogabile concorso alla spesa pubblica, distinte dalle tasse, tributi collegati alla richiesta da parte del singolo di una precisa prestazione pubblica), la quota di reddito che rimane all imprenditore costituisce il profitto. Il profitto è la remunerazione dell imprenditore per la sua iniziativa, per la sua capacità di organizzazione nonché per il rischio che egli ha affrontato (il maggior rischio per un imprenditore è il fallimento, che ha pesanti effetti anche a carico dei diritti personali del fallito). Proprio perché strettamente connesso ai risultati dell impresa, il profitto, a differenza degli altri redditi, non è fissato a priori, ma ha carattere aleatorio. Affinché vi sia un profitto, è evidente che la vendita del bene prodotto deve avvenire ad un prezzo superiore al costo di produzione: una vendita a prezzo pari al costo non dà profitto; una vendita sottocosto causa una perdita, il cui prolungarsi può mettere in forse la vita stessa dell impresa. Il profitto è stato contestato dalla teoria marxista, che lo ha ritenuto un «plus-valore» (dei beni prodotti) ingiustamente sottratto ai lavoratori. Questa tesi, però, non regge: un prodotto che abbia richiesto una grande quantità di lavoro non vale nulla sul mercato se non incontra domanda. Il profitto non è l unica molla dell economia; ma senza profitto non c è imprenditore, e senza imprenditore manca all attività produttiva una funzione essenziale. Lo ha provato, con il suo naufragio, l esperienza dei Paesi comunisti, dove solo lo Stato era imprenditore e la guida della produzione era affidata a dei burocrati. 12. CONVERGENZA TRA I FATTORI PRODUTTIVI, RUOLO DEL LAVORO, PARTECIPAZIONE Tra i fattori produttivi può esserci contrasto d interessi su determinate questioni, da risolvere di volta in volta con opportune forme di accordo: così i rapporti fra lavoratori, rappresentati dai sindacati, e le imprese, rappresentate dalle rispettive associazioni datoriali, trovano un quadro di riferimento nei contratti collettivi per settori o per categorie. E tuttavia da escludere la «lotta di classe» senza quartiere predicata dal marxismo e dimostratasi soltanto fonte di danni generali. Si deve, anzi, perseguire la convergenza di tutti i produttori nel procurare di ottenere il migliore risultato comune e per evitare che un esito negativo della produzione provochi perdite per ognuno, dal momento che i prodotti dell impresa (o, meglio, i danari che se ne ricavano vendendoli) costituiscono la fonte di reddito non solo dell imprenditore, ma anche di tutti i fattori produttivi. Non si può distribuire ricchezza che non sia stata prodotta. Va peraltro sottolineata la speciale posizione del lavoro tra i fattori produttivi, riflessa sul terreno politicosociale dalla Costituzione, che, all art. 1, pone il lavoro a base dello Stato («L Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro») e, all art. 4, definisce il lavoro, insieme, diritto e dovere sociale («La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società»). Questa posizione corona un secolare travaglio sindacale e politico per l affermazione del principio: il lavoro non è una merce; e dell altro, conseguenziale: il lavoro è il soggetto dell economia. E suggerisce di guardare oltre il rapporto di lavoro convenzionale. Suggerisce, cioè, di interessare il lavoratore ai risultati produttivi dell impresa mediante una adeguata partecipazione alla medesima. Il che implica che egli vi possa partecipare sia agli utili, venendo il salario integrato con quote del maggior reddito che si riesca a generare, 8

9 sia alla gestione, fermo restando il ruolo di coordinamento proprio dell imprenditore. Recenti esperienze estere, in Germania ad esempio, presentano al riguardo risultati incoraggianti. Né va trascurato che il Consiglio d Europa, fin dal 1992, ha emesso una «raccomandazione» agli Stati membri, intesa a promuovere, appunto, la partecipazione dei lavoratori «ai profitti ed ai risultati dell impresa». D altronde, la Costituzione italiana, all art. 46, riconosce «il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». A tale scopo, il 25 febbraio 1999 è stata presentata alla Camera dei Deputati una proposta di legge di Alleanza nazionale. Nuove opportunità al riguardo si apriranno dopo le elezioni del PROVVIDENZE SOCIALI ED INTERVENTI RIEQUILIBRATORI LA SUSSIDIARIETA Come si è visto dietro (4), un bisogno trova riscontro nell àmbito del mercato soltanto se si accompagna ad una capacità di acquisto adeguata; e ciò indipendentemente dal suo significato vitale e sociale. Se muoio di fame, ma non posso pagarmi il cibo, il mercato non mi prende in considerazione. Viceversa, possedendo quanto occorre, potrò trovare sul mercato di che ampiamente soddisfare tutti i miei bisogni, anche i più voluttuari. Ciò non ci deve sorprendere: infatti abbiamo paragonato il mercato ad una macchina, la quale non può dare più di quello che vi si immette (5). Se ne ricava, semmai, che dal punto di vista umano e sociale il mercato non è tutto. E che elementari ragioni di equità e di solidarietà fermo restando il rispetto della libera iniziativa economica obbligano, se del caso, a prendere idonee misure integrative. Si possono cioè adottare provvidenze sociali ed interventi riequilibratori. Siffatte provvidenze e interventi possono riguardare le diverse categorie di persone che, non per loro colpa, si trovino prive di mezzi di sussistenza (disoccupati involontari, inabili, ecc.) ovvero quei territori (come il nostro Mezzogiorno) dove penalizzazioni storico-geografiche ostacolino la disponibilità di posti di lavoro e quindi di reddito per una parte consistente della popolazione. Per non scadere tuttavia in un diseconomico «assistenzialismo», al di là di particolari situazioni di emergenza occorrerà perseguire anzitutto condizioni di investimento capaci concretamente di promuovere l occupazione, anziché limitarsi ad intervenire a posteriori per compensare gli effetti della sua mancanza. In pratica, si tratta comunque di tutelare i bisogni connessi a diritti essenziali, primo fra i quali quello alla vita. Oggi, con la crisi del cosiddetto «Stato sociale», che si presentava come unico garante di tali bisogni, emerge l importante ruolo di supplenza che accanto ai soggetti pubblici vengono a giocare, per il principio di sussidiarietà, le diverse forme di fornitura di beni e servizi offerte dal settore del «non profit» retto dal volontariato. 9

10 14. LA MACROECONOMIA Parte di quanto si è fin qui visto appartiene prevalentemente a quella sfera che negli ultimi decenni è stata detta microeconomia per distinguerla dalla sfera della macroeconomia. La differenza fra le due sfere economiche verte non tanto sull ampiezza dell oggetto, quanto sulla diversa ottica da cui si guarda a fenomeni che sono in buona parte i medesimi. La microeconomia è l economia studiata dagli economisti «classici» sette ed ottocenteschi, che hanno analizzato i fatti economici «disaggregandoli», cioè riportandoli al livello del comportamento dei singoli soggetti tipici: il consumatore, l imprenditore, ecc. Questi soggetti erano visti in senso atomistico nella cornice della libera concorrenza quale ipotesi necessaria di «equilibrio». Ciò è valso a mettere in luce molti aspetti di fondo della vita economica. Tuttavia, i rapidi ed estesi cambiamenti intervenuti specialmente durante il Novecento nella realtà economicosociale hanno reso manifesta l insufficienza di un simile approccio. Si è constatato il peso che rispetto all astrattezza di un «equilibrio» statico di forze è venuta ad assumere dietro l impulso del progresso scientifico e tecnico la trasformazione delle realtà socio-economiche; trasformazione riassunta nel concetto di sviluppo come crescita della produzione, del reddito e, quindi, aumento del benessere. E così salita via via l importanza del contesto storico e sociale per interpretare i fenomeni economici e si è affermata, accanto ed oltre la trattazione microeconomica, quella macroeconomica. In generale, si fa rientrare nella macroeconomia lo studio dei comportamenti aggregati, ossia relativi all economia come insieme. Vi sono pertanto inclusi i consumi, gli investimenti, i redditi di un intero sistema economico (di una regione o di una nazione), il livello generale dei prezzi, l occupazione, ecc. Da questo punto di vista, assumono un ruolo ben preciso anche i pubblici poteri, deprecati come perturbatori dell «equilibrio» economico dalla scuola «classica» e ormai, invece, normalmente compresi fra i soggetti della vita economica con compiti di controllo, promozione, programmazione. Il che non ha niente da spartire con lo statalismo: un corretto svolgimento di tali compiti non solo non pregiudica il mercato, ma lo rinsalda, fornendo agli operatori economici le necessarie certezze e garanzie giuridiche, nonché, ove occorra, alla produzione incentivi e alla collettività tutta le misure già citate (13) relative alle provvidenze sociali ed agli interventi riequilibratori. Fra le principali nozioni macroeconomiche, si ricordano le seguenti: 1) prodotto netto o valore aggiunto, la differenza fra il valore della produzione nei vari settori produttivi e il valore dei beni consumati dagli stessi nel periodo considerato; 2) prodotto interno lordo (Pil), nella contabilità nazionale l insieme dei beni prodotti entro un Paese in un determinato periodo di tempo; 3) prodotto nazionale lordo, diverso dal Pil perché è il valore complessivo dei beni prodotti dai cittadini di una nazione inclusi quelli che lavorano all estero, ma escluso il prodotto degli stranieri che lavorano nella nazione stessa; 4) sovraproduzione e sottoproduzione, fenomeni di criticità economica consistenti rispettivamente in un eccesso ovvero in una carenza di beni prodotti rispetto ai bisogni; 5) inflazione e deflazione, fenomeni di criticità finanziaria dati da sovrabbondanza la prima e da deficienza la seconda nella quantità e velocità di circolazione del danaro rispetto alla dinamica degli scambi dei beni (in pratica, inflazione significa calo di valore del danaro e quindi rialzo generale dei prezzi, con crescenti difficoltà negli acquisti e disagi avvertiti soprattutto dai percettori di un reddito fisso come i lavoratori, i pensionati, ecc.; deflazione significa, all inverso, aumento di valore del danaro e quindi abbassamento generale dei prezzi, con crescente riduzione dei ricavi, e difficoltà per le imprese a procurarsi capitale ed a mantenersi in attività). 10

11 15. LA GLOBALIZZAZIONE Un fenomeno macroeconomico del tutto nuovo è oggi rappresentato dalla cosiddetta globalizzazione. Con tale termine si può intendere semplicemente la diffusione a livello planetario del capitalismo. In senso più specifico, però, si parla di «globalizzazione» con riferimento al processo di interdipendenza e integrazione dell economia mondiale determinato dall aumento dei flussi finanziari, commerciali e migratori sotto la spinta delle nuove tecnologie dei trasporti e della comunicazione. In questa prospettiva, particolare rilievo assume la globalizzazione finanziaria, misurata dal numero enorme di transazioni di capitale (finanziario) che avvengono mediante «computer» fra i diversi Continenti: nel 1998 si era calcolato che ogni giorno nel mondo tali transazioni raggiungessero ormai la cifra enorme di miliardi di dollari (circa 3 milioni di miliardi di lire). L integrazione economica mondiale costituisce un frutto della libertà di mercato ed in linea di principio, dunque, va vista positivamente. Si deve però osservare che mentre le transazioni relative alle merci ed al lavoro riguardano elementi fisici, e sono perciò in qualche modo controllabili (sia le merci che i lavoratori «passano le frontiere» degli Stati) le transazioni finanziarie consistono ormai in puri impulsi magnetici: hanno, cioè, un carattere virtuale che le sottrae a qualsiasi verifica di legalità. Questa situazione favorisce manovre speculative suscettibili di generare gravi perturbazioni sulle economie reali, con pregiudizio specialmente degli Stati più deboli. Per tutti gli Stati, comunque, il rischio è una progressiva perdita di sovranità a favore di centrali finanziarie anonime e apolidi in grado di determinare sempre più di fatto le condizioni di vita dei popoli. Il tema della globalizzazione merita dunque l attenzione che da più parti vi si porta, anche se nel trattarne conviene mantenere l avvertenza della complessità degli aspetti implicati. 16. LINEAMENTI EVOLUTIVI DEL SISTEMA ECONOMICO ITALIANO Il sistema economico italiano, quale oggi lo conosciamo, è il risultato di una maturazione storica che, semplificando molto, possiamo sintetizzare in tre fasi pluridecennali: 1) la prima ( ) va dall Unità al primo conflitto mondiale. Corrisponde al lento delinearsi di una trasformazione economico-sociale rispetto alla originaria fisionomia del Paese, che tuttavia resta ancora fondamentalmente agricolo: le ferrovie si estendono sul territorio, nascono alcune grandi industrie di base (siderurgiche, meccaniche, chimiche), si costruiscono nuovi porti e cantieri. A cavallo tra l Otto e il Novecento arrivano a incidere nella vita produttiva e nella vita civile alcuni dei più recenti ritrovati della tecnica: l elettricità, il petrolio, il gas, il telefono, l automobile. D altro canto, emergono tensioni legate al crescere della «questione sociale» o «questione operaia». Si può dire che prende forma, seppure in ritardo rispetto agli altri grandi Paesi europei, l ossatura di un sistema che si affaccia sulla soglia della modernità; 2) la seconda ( ) va dal primo conflitto mondiale alla fine del secondo. Dopo la parentesi della «produzione di guerra» e del connesso inevitabile «dirigismo» statalistico ( ), si torna alla precedente prevalenza del capitalismo privato. Ma la crisi economica mondiale del 1929 induce lo Stato, per evitare la chiusura di molte aziende, a rilevarle dai privati e ad assumerne la gestione in forma dichiarata provvisoria, mediante l Iri (Istituto per la ricostruzione industriale): le società così amministrate non vengono «statalizzate» (come invece le aziende nel mondo comunista); restano in forma azionaria e debbono obbedire a criteri imprenditoriali, ma la loro proprietà è in mano pubblica. Si attua così una economia mista, in cui l iniziativa statale in settori ritenuti «strategici» per l interesse della nazione convive con l iniziativa privata in tutto il 11

12 restante terreno produttivo. Si tenta anche una riorganizzazione complessiva del sistema con lo Stato mediatore tra capitale e lavoro (corporativismo). L impostazione politica autoritaria, però, e, a partire da un certo punto, il susseguirsi di difficoltà internazionali ed errori sempre più gravi (chiusura degli sbocchi emigratorî da parte dei principali Paesi di immigrazione, opposti protezionismi esteri e autarchia in Italia, guerra per la conquista dell Etiopia , partecipazione alla guerra di Spagna , partecipazione alla seconda guerra mondiale ) finiscono con il pregiudicare ogni sforzo evolutivo. Ciò non impedisce che l economia italiana intraprenda irreversibilmente la strada della sua modernizzazione; 3) la terza va dalla ricostruzione postbellica ( ) allo sviluppo ( ), e, attraverso vari cicli intermedi (specialmente gravi le ripercussioni della crisi energetica mondiale della prima metà degli anni 70), giunge fino ai nostri giorni. La seconda guerra mondiale ha apportato distruzioni immani, ma la ricostruzione consente di giungere in pochi anni ai dati produttivi prebellici. Segue mentre l Italia entra via via in diverse forme di collaborazione economica internazionale, fra le quali primeggia il Mercato Comune europeo quello che sarà chiamato «miracolo economico», ossia una eccezionale espansione grazie soprattutto all incremento della domanda estera: espansione connotata, oltreché dalla piena industrializzazione del Paese e dalle trasformazioni socio-culturali che ne conseguono, dal diffondersi di un relativo benessere (è il «boom» degli elettrodomestici, a partire della televisione, e delle «utilitarie») peraltro concentrato soprattutto nell Italia settentrionale e centrale e con tutti i disagi di una massiccia trasmigrazione interna, dal Sud al Nord. La presenza dello Stato nell economia non solo rimane (con l Iri), ma viene accresciuta (creazione dell Eni, operante nel settore petrolifero; dell Enel, ente monopolista dell energia elettrica; dell Efim, per le industrie meccaniche). Sino alla fine degli anni 50 prevale una certa stabilità: nel 1959 la lira viene considerata la moneta più forte. A partire dagli anni 60, però, cominciano a registrarsi numerose disfunzioni e tensioni dovute sia agli insufficienti investimenti nei servizi sociali, sia al progressivo ampliarsi e degenerare dello «statalismo». Gli anni 80 vedono una crescita abnorme della spesa pubblica, frutto di una gestione sempre più demagogica e clientelare del potere. Negli anni 90, dopo una dolorosa svalutazione nel 1992, a seguito del crollo del sistema «partitocratico» in campo politico ci si orienta non senza resistenze e contrasti verso una «virtuosità accelerata». In questo indirizzo emerge la tendenza alla privatizzazione, con l avvio della vendita totale o parziale delle quote di proprietà detenute dallo Stato in aziende dei più svariati settori. Oggi l economia italiana è ormai fra le prime del mondo. Con notevoli sacrifici per le famiglie e per le imprese, nel 1998 è riuscita ad entrare nella moneta unica europea (Euro). Restano aperti i problemi dell ancora ingente debito pubblico (prestiti che lo Stato deve restituire ai cittadini: ancora 2 milioni e mezzo di miliardi di lire a fine 2000). A ciò si aggiungono la rigidità della spesa pubblica, legata a sprechi «strutturali» (vale a dire dovuti a modalità intrinseche di assetto e di funzionamento del sistema) di vario genere, e l inefficienza della pubblica amministrazione, appena scalfita da parziali e iniziali riforme, nonché i connessi problemi della elevata disoccupazione (perniciosa nel Mezzogiorno), del pesantissimo carico fiscale (nel 1999, pari al 43,4% del pil) e del costoso e insieme, per diverse categorie, insufficiente meccanismo pensionistico. Urge dunque un inversione di rotta: meno imposte, impulso agli investimenti, riduzione e qualificazione della spesa pubblica, eliminazione dei vincoli e dei controlli non necessari, flessibilità massima compatibile con la solidarietà. Per le privatizzazioni, si impone una linea più decisa e coerente di quella fin qui seguita; anche se si dovrà sia avere riguardo alla delicatezza di quelle relative a settori strategici dell economia nazionale (nei confronti di capitali finanziari stranieri), sia curare la reciprocità nell ingresso di capitale finanziario italiano in altri Paesi. Per opportune misure di difesa da promuovere in sede internazionale, vanno d altronde considerati gli effetti della globalizzazione, specialmente a carico delle attività produttive più esposte a risentire delle fluttuazioni finanziarie sui mercati esteri. In questa prospettiva di ampliamento degli scenari e di accelerazione dei processi economici rientrano le opportunità offerte dalla cosiddetta «New Economy», che a differenza della «Old Economy», basata soprattutto su risorse naturali e fisiche e quindi incentrata sulla grande impresa, fa appello a risorse quali l informazione, la tecnologia, la creatività, il «design». Essa concorre a stimolare, in particolare, la nostra 12

13 economia affinché agisca su quelli che vanno considerati i presupposti di ogni futuro sviluppo, e cioè soprattutto la ricerca, l informatizzazione, l istruzione e la formazione professionale 13

14 SCHEMI 14

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23 INDICE 1. ECONOMIA E PRODUZIONE p FATTORI PRODUTTIVI, PRODUTTIVITA, IMPRESA CONSUMO, RISPARMIO, INVESTIMENTO 2 4. LA CIRCOLAZIONE DEI BENI E IL MERCATO VALORE DEI BENI 3 5. CONDIZIONI DI MERCATO, LIBERTA E REGOLE MONETA E PREZZO POTERE D ACQUISTO LEGGE DELLA DOMANDA E DELL OFFERTA AUTOMATISMO E VOLONTARISMO 5 8. IL CREDITO ED IL SUO RUOLO STRATEGICO ECONOMIA FINANZIARIA ED ECONOMIA REALE LA DISTRIBUZIONE DEI BENI DIRITTO DI PROPRIETA SUA FUNZIONE SOCIALE IL REDDITO CONVERGENZA TRA I FATTORI PRODUTTIVI, RUOLO DEL LAVORO, PARTECIPAZIONE PROVVIDENZE SOCIALI ED INTERVENTI RIEQUILIBRATORI - LA SUSSIDIARIETA LA MACROECONOMIA LA GLOBALIZZAZIONE LINEAMENTI EVOLUTIVI DEL SISTEMA ECONOMICO ITALIANO. 11 SCHEMI

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