Il fascismo. in Italia. Riferimenti storiografici. unità 5. Sommario

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1 unità 5 Il fascismo in Italia Riferimenti storiografici 1 Nel riquadro una donna espone un cartello antisemita fuori dal suo negozio, fotografia degli anni Trenta del Novecento. Sommario La svolta ideologica e politica di Mussolini nel 1918 I socialisti italiani e la vittoria del fascismo Il partito unico, alla conquista della nazione e dello Stato Gli anni del consenso ( ) Corporativismo e gestione della vita economica nell ideologia fascista Nazionalismo e masse popolari in Enrico Corradini La liturgia politica di D Annunzio a Fiume Donne e lavoro nell Italia fascista

2 1 La svolta ideologica e politica di Mussolini nel IL FASCISMO IN ITALIA Nell ultimo anno di guerra, Mussolini completò il processo di mutamento ideologico avviato dopo la decisione di aderire allo schieramento interventista, nel L abbandono del socialismo si fece sempre più chiaro; la ricerca di una personale linea politica alternativa, invece, fu più complessa e confusa, nel tentativo di fondere idee di matrice nazionalista con altre posizioni, più disponibili a recepire le esigenze dei ceti popolari. [Nell ultimo anno di guerra] si colloca il voltafaccia più clamoroso di Mussolini, il suo superamento del socialismo. Il primo chiaro accenno a questo superamento era stato fatto da Mussolini in un articolo del 15 dicembre 1917, intitolato sintomaticamente Trincerocrazia. I trinceristi aveva scritto sono l aristocrazia di domani: «I miopi e gli idioti non la vedono. Eppure, questa aristocrazia muove già i primi passi. Rivendica già la sua parte di mondo. Delinea già con sufficiente precisione i suoi tentativi di presa di possesso delle posizioni sociali L Italia va verso due grandi partiti: quelli che ci sono stati e quelli che non ci sono stati; quelli che hanno combattuto e quelli che non hanno combattuto; quelli che hanno lavorato e i parassiti... I partiti vecchi, gli uomini vecchi che si accingono, come se niente fosse, all exploitation [sfruttamento, n.d.r.] dell Italia politica di domani saranno travolti. La musica di domani avrà un altro tempo È questa previsione che ci conduce a guardare con un certo dispregio tutto ciò che si dice e si fa dagli otri vecchi, ripieni di presunzione, di sacre formule e di imbecillità senile». Da questa constatazione egli aveva, come diceva in quello stesso articolo, ricavato la convinzione che i termini di repubblica, di democrazia, di radicalismo, di liberalismo e perfino di socialismo non avevano più senso: «Ne avranno uno domani, ma sarà quello che daranno loro i milioni di ritornati. E potrà essere tutt altra cosa Potrà essere un socialismo anti-marxista, ad esempio, e nazionale. I milioni di lavoratori che torneranno al solco dei campi, dopo essere stati nei solchi delle trincee, realizzeranno la sintesi dell antitesi: classe e nazione». A questa prima presa di posizione erano seguite, durante le settimane successive, varie altre, più o meno esplicite, ma tutte nello stesso senso e via via sempre più caratterizzate nel senso di un produttivismo, attraverso il quale il proletariato doveva qualificarsi qualitativamente e cooperare ad una nuova organizzazione dello Stato per assicurare il maggior benessere individuale e collettivo. [ ] Solo dopo aver preparato tutte le sue pedine, il 1 o agosto [1918, n.d.r.] Mussolini si sentì pronto a riassumere i fili del discorso che, come abbiamo visto, era venuto svolgendo dalla metà del dicembre 1917 in poi, e a trarne le conseguenze. Il 1 o agosto dalla testata del Popolo d Italia scomparve il sottotitolo quotidiano socialista e al suo posto comparve quello di quotidiano dei combattenti e dei produttori. Nello stesso numero, un breve fondo di Mussolini (Novità ) spiegava le ragioni del cambiamento: «Oggi, dopo quattro anni, dalla testata di questo giornale scompare il sottotitolo di socialista. Un altro lo sostituisce che mi piace di più e che i lettori io credo apprezzeranno di più. D ora innanzi questo giornale sarà il giornale dei combattenti e dei produttori Quel socialista che figurava in testa del giornale aveva senso nel 1914 e voleva dire che nel 1914 si poteva essere socialisti nel vecchio senso della parola e nello stesso tempo favorevoli alla guerra. Ma in seguito la parola socialista era diventata anacronistica. Non mi diceva più niente. Offriva, anzi, tutti gli inconvenienti della possibile confusione cogli altri [ ] Combattenti e produttori. Mi propongo di sostenere i diritti e gli interessi degli uni e degli altri. Combattenti e produttori, il che è fondamentalmente diverso dal dire operai e soldati. Non tutti i soldati sono combattenti e non tutti i combattenti sono soldati. I combattenti vanno da Diaz all ultimo fantaccino [soldato semplice di fanteria, n.d.r.]. Produttori, cioè quelli che producono, che lavorano, ma non soltanto colle braccia Difendere i produttori vuol dire combattere i parassiti. I parassiti del sangue, fra i quali tengono il posto in prima fila i socialisti, e i parassiti del lavoro che possono essere borghesi e socialisti Difendere i produttori significa permettere alla borghesia di compiere la sua funzione storica ci sono ancora due continenti quasi intatti che attendono di essere travolti nel turbine della civiltà moderna capitalistica e significa anche agevolare agli operai il conseguimento del maggior benessere per il maggior numero e lo sviluppo di quelle capacità che possono a un dato momento sprigionare dalla massa lavoratrice le nuove aristocrazie dirigenti delle nazioni. Nel sindacalismo operaio, quando sia rimasto immune dall infezione del socialismo politico, nel sindacalismo che combatte e lavora, c è un elemento e una ragione profonda di vita». [ ] [Il 18 agosto 1918, Mussolini] si accinse a spiegare chi fossero per lui i produttori e perché egli guardasse ora ad essi e non più solo al proletariato. I produttori, scrisse in questa occasione, «non sono tutti necessariamente borghesi, non sono tutti necessariamente proletari». L ingegnere, il meccanico, l operaio spiegò sono tutti produttori. Tra i produttori esistono delle gerarchie, frutto dell esperienza, dello studio, delle responsabilità, che devono essere rispettate; tra essi non esistono però dissidi: «C è tra di loro una necessaria e logica divisione del lavoro. Si completano a vicenda». R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario , Einaudi, Torino 1965, pp Quali sono i due grandi partiti che Mussolini prevede per il dopoguerra? Quale eloquente segnale, nell estate 1918, mette in evidenza il distacco di Mussolini dal socialismo?

3 2 I socialisti italiani e la vittoria del fascismo Il trionfo del fascismo fu determinato da una serie di fattori che si rafforzarono a vicenda. Al primo posto dobbiamo ricordare la disponibilità delle autorità e delle forze dell ordine a tollerare le violenze degli squadristi, nei confronti dei sovversivi rossi. I socialisti, da parte loro, commisero numerosi errori: soprattutto, nel , non seppero opporre un fronte comune, all offensiva fascista, decisa a spazzarli via con metodi militari e violenti. Il movimento socialista si arrese quasi senza combattere. Ogni tanto qualche squadrista veniva aggredito, provocando sanguinose rappresaglie, ma gli appelli comunisti alla violenza in risposta alla violenza caddero nel vuoto. Le vittime delle squadre non erano, per la maggior parte, bolscevichi rivoluzionari, ma pacifici riformisti, con una visione municipale delle cose, che non si rendevano conto di che cosa stesse loro accadendo. «Restate nelle vostre case; non rispondete alle provocazioni. Anche il silenzio, anche la viltà sono talvolta eroici», era il consiglio di uno dei loro dirigenti, Giacomo Matteotti. I socialisti avevano parlato per anni di rivoluzione, ma quando si trovarono di fronte ad avversari che agivano invece di parlare si dimostrarono impreparati e impotenti: come disse Turati, era «una rivoluzione di sangue contro una rivoluzione di parole». L ambizione di molti socialisti, particolarmente in Emilia, era stata di «costruire il socialismo in una sola provincia» (A. Tasca), ma ora appariva evidente che «lo stato socialista entro lo stato» era costruito sulla sabbia. L impotenza al livello locale fu enormemente aggravata dai crescenti contrasti in seno al partito. Dopo aver aderito nell ottobre 1919 alla Terza Internazionale, il Partito socialista si trovò di fronte ai 21 punti con cui Lenin fissava le condizioni per continuare a far parte dell Internazionale: i più duri da inghiottire erano l articolo 17, che esigeva l assunzione da parte del partito del nome di comunista, e l articolo 7, che chiedeva l espulsione immediata dei riformisti, complici della borghesia, e citava esplicitamente Turati e Modigliani tra gli opportunisti notori. Su questo, persino i massimalisti più entusiasti erano poco disposti ad obbedire a Mosca: Serrati, per esempio, che era direttore dell Avanti!, provava un senso di solidarietà nazionale persino con un socialdemocratico impenitente come Turati, e tentò di far comprendere a Lenin la differenza esistente fra l Italia e la Russia. Ma molti erano favorevoli ad una accettazione senza riserve delle condizioni dell Internazionale e tra questi erano Bordiga, Gramsci e la Federazione giovanile socialista. Nel settembre del 1920, la direzione del partito accettò i 21 punti con 7 voti contro 5, ma decise di deferire il problema delle espulsioni a un congresso straordinario, che si riunì a Livorno nel gennaio Fu discusso un solo problema: l unità del partito. I due delegati dell Internazionale, l ungherese Rákosi e il bulgaro Kabakciev, misero in ridicolo l idea stessa dell unità, «unità tra comunisti e nemici del comunismo», mentre Serrati la difese. Due terzi dei delegati votarono per l accettazione con riserva dei 21 punti: un terzo votò per l accettazione incondizionata, e quindi abbandonò il congresso e fondò il Partito comunista italiano. Bordiga ne divenne il primo segretario, e l Ordine nuovo di Gramsci ne fu il primo quotidiano. Il punto fondamentale del programma del nuovo partito era l ostilità intransigente alla socialdemocrazia, considerata il nemico principale. [ ] Questi contrasti interni, tanto estranei alla specifica crisi italiana, demoralizzarono il movimento operaio proprio nel momento in cui le forze reazionarie stavano acquistando una forza schiacciante. Mussolini affermò sempre che il fascismo, nel , aveva salvato l Italia dal bolscevismo, e negli anni seguenti questa vanteria divenne uno dei temi favoriti della propaganda fascista: in realtà, il contributo fascista alla sconfitta della rivoluzione fu marginale. Il movimento fascista si affermò soltanto quando il bolscevismo era ormai in pieno declino e incapace di condurre un azione rivoluzionaria. All epoca, lo stesso Mussolini, del resto, lo aveva riconosciuto, e infatti nel dicembre del 1920 aveva parlato del «bolscevismo italiano, che rantola ormai per terra, colpito a morte» e del profondo cambiamento psicologico intervenuto nella classe operaia dopo l occupazione delle fabbriche. Nel luglio del 1921 scrisse ancora: «Dire che un pericolo bolscevico esiste ancora in Italia significa scambiare per realtà certe ambigue paure. Il bolscevismo è vinto». Ma in politica la paura è spesso più potente della realtà: il fascismo continuò a prosperare sulla paura del bolscevismo anche molti anni dopo che il pericolo era scomparso. Il movimento fascista non avrebbe potuto espandersi tanto rapidamente senza avere almeno la tolleranza delle autorità statali. Molti prefetti, commissari di polizia e comandanti militari non si limitavano alla tolleranza: nella Venezia Giulia le squadre fasciste avevano quasi una posizione ufficiale, e altrove, particolarmente in Toscana, erano rifornite di autocarri e di armi; molti ufficiali in servizio si iscrissero ai Fasci con l autorizzazione dei superiori; a volte soldati e carabinieri scortavano le squadre nelle loro spedizioni punitive, completamente armati e in uniforme. Poliziotti e funzionari dello stato, insofferenti dei lunghi anni di sottomissione forzata ai capi socialisti locali, non nascosero il loro compiacimento per il rovesciamento della situazione. [ ] Per i prefetti era sempre più difficile ottenere obbedienza ai loro ordini: poliziotti e ufficiali dell esercito rifiutavano di considerare il fascismo un organizzazione sovversiva e ne giustificavano l illegalismo e le violenze con gli scopi patriottici che esso si proponeva. Lo stesso Giolitti, del resto, condivideva in parte questo atteggiamento: egli non drammatizzava gli eccessi fascisti più di quanto avesse fatto a proposito degli eccessi socialisti del , convinto che essi avrebbero potuto essere eliminati con i suoi vecchi metodi di governo. Come quasi tutti i dirigenti liberali, molti dei quali assai più giovani di lui, egli non comprese che la violenza costituiva l essenza stessa del fascismo, né si rese conto che il movimento fascista già mirava a distruggere lo stato liberale. Il suo atteggiamento tollerante verso il fascismo non aveva una base ideologica, ma era piuttosto «come di padre verso il figlio scapestrato»: era convinto 3 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI

4 di poter tenere a bada il fascismo, che il tempo e il logorio avrebbero spostato su posizioni più moderate; una volta addomesticati, portati in parlamento e forse a condividere le responsabilità del potere, i fascisti avrebbero potuto diventare alleati utili nella battaglia per la restaurazione della normalità. Gli eventi si incaricarono ben presto di dimostrare che questo fu un fatale errore di calcolo. C. SETON-WATSON, L Italia dal liberalismo al fascismo , Laterza, Bari 1973, pp , trad. it. L. TREVISANI A parte i bolscevichi rivoluzionari, quali furono le altre vittime dello squadrismo? Spiega l affermazione secondo cui «il contributo fascista alla sconfitta della rivoluzione fu marginale». Quale atteggiamento tennero le autorità e le forze dell ordine, nei confronti dello squadrismo? 4 IL FASCISMO IN ITALIA

5 3 Il partito unico, alla conquista della nazione e dello Stato Fin dal 1922, il fascismo cercò di imporre come nazionali ricorrenze e simboli che, invece, erano solamente suoi. Un partito, in sostanza, si appropriava dello Stato, si identificava con la nazione e negava alle altre forze politiche il diritto di considerarsi nazionali o persino italiane. L obiettivo era la completa identificazione tra Italia e fascismo. Giunto al potere, il fascismo accelerò la simbiosi tra la religione nazionale e la religione fascista, avviata dallo squadrismo, e per rendere percepibile immediatamente, per simboli, il significato irrevocabile e rivoluzionario del cambiamento di governo avvenuto con la marcia su Roma. [ ] Con un regio decreto legge del 21 gennaio [1923, n.d.r.], fu quindi disposta l emissione di 100 milioni di lire in pezzi di nichelio puro del valore nominale di lire una e di lire due, recanti da un lato l effigie del re e dall altra il fascio littorio. [ ] L adozione del fascio nelle monete non rimase un episodio isolato, dovuto all iniziativa occasionale di qualche zelante collaboratore del duce. Lo stesso Mussolini, secondo quanto scriveva Il Popolo d Italia del 14 novembre 1922, aveva voluto far incidere il simbolo del fascio nel sigillo di ministro degli Esteri. Pochi mesi dopo, i giornali annunciarono l emissione di una serie speciale di francobolli recanti il simbolo del littorio, dedicati alla commemorazione dell «ascesa del Governo nazionale». E il 21 ottobre [1923, n.d.r.] la Gazzetta ufficiale pubblicò il decreto con cui venivano «istituite monete nazionali d oro commemorative della marcia fascista per l instaurazione del Governo nazionale», nei tagli di Lire 100 e di Lire 20, con l effigie del re da un lato, e dall altro il fascio littorio «recante la scure completa a destra ornata di una testa di ariete». Il fascio littorio venne così introdotto ufficialmente nell iconografia dello Stato italiano, e non bastava certo il richiamo alla romanità per attenuare il carattere prettamente di partito che l emblema del littorio aveva assunto con il fascismo. [ ] Esso era soprattutto il simbolo della rivoluzione fascista e della resurrezione della patria per opera del duce, preannunciata dalla riapparizione del fascio littorio: «Nei tempi fortunosi, turbolenti e vili, che straziarono la nostra patria dopo l ultima immane guerra d indipendenza, più che da un servaggio politico, dal servaggio spirituale scrisse un pregiato archeologo dell epoca [Pericle Ducati, nel 1927, n.d.r.] il fascio littorio fu impugnato eroicamente da un Duce. E con questo simbolo e con questo Duce l Italia è risorta». Come simbolo della rivoluzione fascista, l immagine del fascio littorio dilagò ovunque, fin dal 1923, per esaltare l era nuova iniziata con l avvento del fascismo al potere, secondo un espressione che entrò subito in voga. [ ] A coronamento di questa ascesa, il governo stabilì, l 11 aprile 1929, la foggia del nuovo stemma dello Stato, sostituendo con due fasci i leoni di sostegno allo scudo Savoia, come era nello stemma in vigore dal L ascesa del fascio littorio fra i simboli dello Stato accompagnò la contemporanea ascesa, nella liturgia, di riti che celebravano l avvento del fascismo al potere come una rivoluzione che segnava l inizio di una nuova era. Lo stesso termine regime fascista, entrato nel linguaggio politico dei fascisti come degli antifascisti all indomani della marcia su Roma, era sintomo chiaro che il governo presieduto dal duce del fascismo non era un governo come i precedenti. L orientamento totalitario della religione fascista, implicito nel suo dinamismo missionario e integralista, non si espresse soltanto attraverso la monopolizzazione dei riti patriottici, mettendo al bando qualsiasi altro tipo di liturgia di partito contraria al fascismo, ma si concretizzò soprattutto con la istituzione di riti nazionali fascisti, come l anniversario della fondazione dei Fasci e l anniversario della marcia su Roma. Accanto alla patria, sugli altari il rituale fascista collocava e adorava il fascismo stesso e il suo duce assumendo col tempo una dimensione tale che finì col confondersi con il culto della patria, se non addirittura col sostituirsi ad esso. Attorno all evento della marcia su Roma era subito fiorita una varietà di iniziative che ne volevano esaltare il carattere di grande evento storico, avviandolo già verso una trasfigurazione epica. [ ] Lo stesso Mussolini deliberò di celebrare il primo anno dal suo avvento al governo in forma solenne e spettacolare. Nulla, ovviamente, vietava ai fascisti di festeggiare l ascesa al potere del loro duce. Il partito predispose una serie di iniziative per l occasione, come la coniazione di una medaglia commemorativa, con relativo brevetto firmato da Mussolini, e l edizione di un manifesto ufficiale, opera del pittore Galimberti, che avrebbe dovuto essere posseduto da ogni iscritto al PNF [Partito nazionale fascista, n.d.r.] e «conservato nelle case, nelle officine, negli uffici, nelle scuole e nelle caserme». E carattere di partito aveva l organizzazione delle manifestazioni, affidata ad un apposita commissione del Gran Consiglio nella seduta del 31 luglio. Ma, fatto senza precedenti nella storia dei governi dell Italia unita, queste celebrazioni assunsero il carattere di una festa nazionale, con la partecipazione del governo e delle autorità civili e militari. [ ] La festa [la celebrazione ufficiale della marcia su Roma] consacrava formalmente le pretese del partito fascista alla diversità privilegiata nei confronti del sistema dei partiti e sigillava l unione indissolubile fra fascismo e Stato nazionale, trasformando una commemorazione di partito in una festa di Stato. La straordinaria gravità dell avvenimento, nel mescolare Stato e partito, non era sfuggita a un acuto osservatore come Giovanni Amendola, che considerò la commemorazione della marcia su Roma il sintomo di un nascente Stato di partito e la conferma dello spirito totalitario del fascismo, deciso ad imporre agli italiani il credo della sua religione: «Veramente la caratteristica più saliente del moto fascista rimarrà, per coloro che lo studieranno in futuro, lo spirito totalitario; il quale non consente all avvenire di avere albe che non saranno salutate col gesto romano, come non consente al presente di nutrire anime che non 5 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI

6 siano piegate nella confessione credo. Questa singolare guerra di religione che da oltre un anno imperversa in Italia non vi offre una fede (che a voler chiamare fede quella nell Italia, possiamo rispondere che noi l avevamo già da tempo quando molti dei suoi attuali banditori non l avevano ancora scoperta!) ma in compenso vi nega il diritto di avere una coscienza la vostra e non l altrui e vi preclude con una plumbea ipoteca l avvenire». E. GENTILE, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1994, pp Si può dire che la venerazione del Duce, cioè il culto della figura di Mussolini, compaia subito nella simbologia nazionale? E come? Per quale motivo si può affermare che l ascesa del fascio littorio tra i simboli dello Stato costituisce il segnale della nascita della dittatura? Spiega l espressione «orientamento totalitario della religione fascista, implicito nel suo dinamismo missionario e integralista». 6 IL FASCISMO IN ITALIA

7 4 Gli anni del consenso ( ) Nella sua monumentale biografia di Mussolini, Renzo De Felice sostenne che, negli anni Trenta, il fascismo godeva di un ampio consenso, nell opinione pubblica italiana. Solo le sofferenze della guerra mondiale e le gravi disfatte subite dall Italia avrebbero infine spinto un numero crescente di italiani a perdere ogni fiducia in Mussolini e nel regime. [Le agitazioni operaie e contadine provocate dalla crisi negli anni della sua maggiore intensità] furono determinate da motivazioni squisitamente economiche, ovvero da forme elementari di esasperazione e di stanchezza per una situazione economica sempre più pesante, ed ebbero per la grandissima maggioranza dei loro partecipanti solo fini economici e di generica protesta, senza assumere mai un carattere, un significato politico definito antifascista cioè, anche se in alcuni casi (pochi e in genere più frequenti tra le agitazioni messe in atto da lavoratori occupati nell industria, che non tra quelle condotte da lavoratori agricoli tra le quali l unica eccezione di rilievo fu probabilmente costituita dalle agitazioni, nel giugno 1931, delle mondine delle zone di Novara e Vercelli e da disoccupati) è riscontrabile la presenza tra i lavoratori in agitazione di elementi politicizzati, soprattutto comunisti, che, per altro, non riuscirono mai a imprimere alle agitazioni alle quali partecipavano e che, in qualche caso, riuscivano a dirigere, un effettivo e durevole significato politico. Non è certo privo di significato che, in campagna, alcune agitazioni, contro proprietari o amministratori locali, fossero condotte al grido «viva Mussolini». E ancora più significativo è che neppure le agitazioni di disoccupati e di donne che ebbero luogo a Torino alla fine del novembre 1930 tra tutte forse quelle che, sul momento, preoccuparono più il regime e che più avrebbero potuto assumere un carattere politico, data la città, la meno fascistizzata d Italia, le tradizioni della classe operaia torinese e la presenza di gruppi antifascisti attivi vennero sostanzialmente meno al carattere comune a questo tipo di agitazioni in quegli anni. Secondo alcuni giornali stranieri, persino a Torino molte donne che, bambini in braccio, manifestavano con i loro uomini per le vie del centro avrebbero gridato «Viva il duce! Ma noi vogliamo mangiare!». Né questa è solo la nostra opinione. Dello stesso avviso erano anche le autorità, centrali e periferiche, di polizia e della MVSN [la Milizia fascista, n.d.r.] del tempo. Per averne la prova basta scorrere i vari rapporti sulle singole agitazioni, gli «appunti» mensili della direzione generale della PS [Pubblica sicurezza, n.d.r.] al ministro dell Interno e le relazioni di Bocchini al «duce». In queste ultime, per esempio, non solo la parte dedicata all attività antifascista era sempre sintomaticamente tenuta nettamente distinta da quella dedicata all ordine pubblico (nell ambito della quale era trattato l andamento delle «agitazioni» e delle «dimostrazioni di carattere collettivo»), ma il giudizio complessivo sul significato non politico delle agitazioni era netto ed esplicito. Nella relazione annuale per il 1930 si legge: «Non sono mancate, anche in tale periodo, agitazioni di carattere popolare: occorre però subito avvertire che nessuna di esse, se se ne eccettui quella di Martina Franca (Taranto) può dirsi degna di rilievo. Comunque nessuna di esse è stata determinata da motivi politici, ma soltanto da ragioni economiche, come per il pagamento di tasse comunali (quella di Martina Franca per l imposta sul consumo di vino) e ciò anche in dipendenza della situazione del mercato del lavoro... In ogni caso tali agitazioni sono state immediatamente sedate senza ulteriori ripercussioni nella vita locale». [...] Le difficoltà nelle quali durante gli anni della «grande crisi» si vennero a trovare tutte le componenti della società italiana [non ebbero] tra i ceti medi e tra la grande borghesia ripercussioni politiche più accentuate in senso antifascista di quelle che come si è visto esse ebbero tra le masse lavoratrici. Dare al disagio, alle preoccupazioni, ai malumori che serpeggiavano in quegli anni anche negli strati intermedi e superiori della società italiana un significato politico sarebbe infatti profondamente errato. Salvo casi particolari, quantitativamente irrilevanti e sostanzialmente circoscritti ad alcuni settori intellettuali estranei al fascismo, la «grande crisi» o non influì affatto sull atteggiamento politico di questa parte della società italiana o, se influì, fu nel senso che contribuì a serrare vieppiù intorno al regime quella parte della borghesia, ed era la grandissima maggioranza, che negli anni precedenti aveva aderito ad esso o ad esso si era già avvicinata o l aveva, più o meno passivamente, subito. Sotto questo profilo, chi, allora, colse meglio la realtà italiana non fu l emigrazione democratica antifascista classica, i gruppi che avevano dato vita alla Concentrazione di Parigi, che più di una volta basandosi, appunto, sugli echi di questo disagio, di queste preoccupazioni e di questi malumori credettero nella possibilità che il consenso borghese alla politica del regime e al fascismo stesse incrinandosi e potesse entrare addirittura in crisi, ma furono i comunisti, che già nel 1931, per bocca di Giorgio Amendola affermarono senza mezzi termini che «la borghesia» era tutta stretta attorno al fascismo, e Giustizia e Libertà. [...] Assai significativo, per esempio, è quanto scriveva sui «Quaderni» [di Giustizia e Libertà, n.d.r.] (dicembre 1932) Augusto Monti (Venturio): «A sostegno del fascismo sta tutta la borghesia, ha detto Tirreno nel suo articolo Orientamenti sul Quaderno del giugno Verissimo. Gli argomenti addotti da Tirreno sono assolutamente persuasivi; più persuasivo di tutti questo: che anche là dove non agisce il terrore fascista, cioè all estero, i borghesi italiani sono col fascismo. Io amplio l argomento e dico: che anche all interno, senza l azione del terrore, la borghesia, tutta la borghesia, è di fatto col fascismo. Il fascismo il terrore non l ha esercitato con i ceti borghesi, ma solo con i ceti umili... Che poi questi borghesi, e magari tutti i borghesi, a quattrocchi parlando, vi dican male del fascismo, questa è un altra situazione loro particolare e generale. E poiché ho parlato di borghesi antifascisti voglio dire di costoro una buona volta tutta la verità. C è una cosa che il borghese italiano antifascista odia sopratutto, ed è il fascismo; ma c è un altra cosa che il borghese antifascista in Italia teme sopratutto, ed è la caduta del fascismo. Sistematicamente, dal 1924 a ieri, tutte le volte che il regime fascista è stato, o è parso, in pericolo, sem- 7 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI

8 8 pre costoro, posti nell alternativa di scegliere tra il fascismo e il suo antagonista, sempre, dentro di sé o anche fuori di sé, hanno scelto il fascismo: piuttosto il fascismo che l Aventino dissero nel 1924, piuttosto il fascismo che i cattolici dissero nel 31; quando più nulla di imminente minaccia il loro odiosamato signore, allora hanno sempre il rifugio e la consolazione di dire: meglio il fascismo che il comunismo». Né, del resto, la fondatezza di queste valutazioni può, a ben vedere, destare meraviglia. A parte il fatto che oggi noi sappiamo che negli anni della «grande crisi» in tutta l Europa centro-occidentale si verificò un rafforzamento delle tendenze conservatrici e autoritarie, è infatti difficile pensare che la borghesia italiana potesse perdere fiducia nel fascismo o sentirsi addirittura spinta ad allontanarsi da esso proprio nel momento in cui per dirla con H. Stuart Hughes «le grandi democrazie dell Europa occidentale apparivano ammalate e nessuno sapeva quale farmaco le avrebbe potute curare», l avvenire si presentava oscuro ed incerto e la gravità della crisi poteva far temere torbidi e tensioni sociali, che, in realtà, furono ovunque minori di quelli temuti, ma che certamente co stituivano un decisivo deterrente allo stesso solo prospettarsi della possibilità di un mutamento politico in quel momento. E inoltre, poi, anche a prescindere dalle paure suscitate dalla crisi, dal desiderio, sempre più vivo in quei frangenti, di ordine e di stabilità interna e dal bisogno di aiuti dal governo, persino tra coloro che personalmente avrebbero visto volentieri un ritorno non rivoluzionario ad un regime di libertà era diffusa la convinzione che «quando un regime si è affermato per dieci anni, è inutile illudersi di poterlo scuotere e travolgere». E lo stesso discorso vale anche per i ceti medi che, oltre tutto, rappresentavano pur sempre la parte della società italiana più fascistizzata o, almeno, più condizionata dalla propaganda di massa del regime (tutta tesa a prospettare la situazione italiana come, nonostante tutto, assai migliore di quella degli altri paesi, ad esaltare i provvedimenti e i «successi» del fascismo e a sbandierare i «riconoscimenti» che ad esso venivano dall estero, anche da autorevoli esponenti dei paesi democratici) e più facilmente portava a trovare alle difficoltà del momento compensazioni e rivalse individuali e collettive di ordine psicologico. Significativo, a quest ultimo proposito, è, per esempio, l entusiasmo, più che sportivo nazionalistico, che suscitarono i successi individuali e collettivi dello sport e della tecnica italiani di questi anni ed in particolare quelli di essi più immediatamente legati al regime, quali le grandi trasvolate atlantiche di Italo Balbo. R. DE FELICE, Mussolini. Il duce ( ), I. Gli anni del consenso ( ), Einaudi, Torino 1974, pp , Per quali motivi non è possibile sostenere che le manifestazioni contro la grave situazione economica dei primi anni Trenta erano dei moti antifascisti? Per quale motivo molti borghesi (pur non amando il fascismo) ne temevano la caduta e, quindi, non si opposero attivamente al regime? Qual era il gruppo sociale che più attivamente sosteneva il regime fascista? IL FASCISMO IN ITALIA

9 5 Corporativismo e gestione della vita economica nell ideologia fascista La costruzione dello Stato corporativo suscitò un vasto dibattito, all interno del fascismo, in quanto sembrava che il regime avesse trovato il sistema di comporre i divergenti interessi di capitale e lavoro, ponendo fine alla lotta di classe. In realtà, il corporativismo non approdò a nulla di diverso dalla regolazione dall alto, da parte dello Stato, di alcuni problemi economici, mentre i lavoratori erano stati privati di ogni vera capacità di contrattazione. [Secondo gli intellettuali fascisti, nell economia liberista,] ogni componente andava per conto proprio e in essa la molteplicità delle forme non riusciva a celare, ad onta di tutte le belle fiabe narranti di mani invisibili una magmatica e incomposta realtà di fatto. L unità economica di cui parlava Mussolini; l idea ordinatrice; lo Stato unitario dell economia: erano varie le formule di cui si rivestiva lo stesso concetto e la stessa intenzione di legare i gruppi sociali. Dare un senso definito, imprimere una direzione costante al moto dell economia: ridotta all osso, l economia corporativa era tutta qui (ma non era poca cosa). Si trattava però non di un ordine qualunque, bensì dell ordine nazionale, perché l inquadratura di tutti gli elementi dell economia poneva i fattori della produzione al servizio di quello che si diceva il benessere e la potenza della comunità nazionale. Questo fine unico su cui si dovevano sintonizzare gli elementi produttivi era davvero il toccasana delle economie. Dove prima era stato l urto tra gli opposti interessi (per solito venivano chiamati egoismi); dove aveva imperversato il trionfo del disordine; là dove un tempo si era situato il campo di realizzazione degli istinti e degli impulsi ferini, dell odio e dell autodifesa di classe, ora, con il distendersi sulla società economica della trama nazionalcorporativa, si sarebbe giunti all instaurazione del regno della giustizia, dell ordine, della solidarietà. [ ] Nell idea di nazione del fascismo si concentrava una tale quantità di energia da far passare in secondo piano ogni altro elemento. Anche se si affermava che il produrre di più avrebbe consentito di distribuire di più, è difficile sottrarsi alla sensazione di accidentalità che questi temi lasciano trapelare rispetto alla centralità del fattore primario rappresentato dall interesse nazionale. Del resto, al centro di quello che potremmo chiamare il comune senso corporativo stava la convinzione che il rapporto nazione/economia avrebbe necessariamente dovuto assumere la forma di un intervento dall alto. Quel sistema di doveri e non di diritti si sarebbe certo desiderato che non si risolvesse in un oppressivo controllo burocratico, ma non ci sono margini di dubbio circa il fatto che la causa prima della costruzione corporativa si situava fuori dai confini della società economica. Il corporativismo, infatti, non assumeva solo la funzione di freno alla libertà economica e neppure rappresentava solo un insieme di argini entro i quali era contenuta l immensa fiumana delle forze economiche. Ben al di là di quanto queste raffigurazioni sembrassero suggerire, nell idea corporativa era racchiusa una vigorosissima idea di autorità, ossia di predeterminazione e di sovradeterminazione [orientamento e direzione dall alto, n.d.r.] delle attività economiche. La definizione degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro va fatta dall alto, la realtà nazionale è superiore agli individui e alle classi. Cosa si fosse destinati a trovare quando ci si fosse arrampicati lungo quel filo che scendeva dall alto lo vedremo più avanti, ma possiamo sin d ora affermare che si trattava della potenza indiscussa dello stato e di null altro. In effetti, nel mezzo di una economia che era da sempre segnata da chi fa e disfà e strafà a proprio capriccio si intendeva far calare il moderatore supremo, il grande amministratore di giustizia sociale, l arbitro. In una parola il dominus che signoreggia. Dalla benefica discesa in terra dello stato (dopo la secolare esperienza dell agnosticismo liberale) sarebbe derivata la nascita di una economia regolata, controllata, sorvegliata. Lo stato corporativo che avrebbe assunto nella sua sfera tutta la vita sociale avrebbe dato ad ognuno il suo posto conseguendo, da ultimo, la fusione perfetta tra regime e popolo. Niente più contrasti tanto dannosi per la compagine sociale, niente più prevaricazioni dei forti sui deboli; ma niente più, anche, tirannia dei lavoratori organizzati. Sarebbe caduta la distinzione tra borghesi e proletari, i capitalisti sarebbero scesi dallo scanno padronale, mentre i lavoratori sarebbero stati liberati dalle pastoie della servitù radicando, una volta per tutte, il sistema sociale italiano sul terreno della giustizia sociale, ma soprattutto di una marmorea unità di fondo. Com è noto, tra il tutto del corporativismo integrale e il poco di una certa capacità regolamentatrice, ci si ridusse al nulla di una economia che sotto la dittatura vide sì delinearsi una straordinaria novità, indubbiamente eccentrica rispetto al tradizionale assetto privatistico dell economia italiana. Ma la sorte volle che quell unico e pur rilevante mutamento avvenisse seguendo ipotesi, metodi e principi che non solo non avevano nulla a che fare con il baraccone corporativo, ma che anche, sotto più di un riguardo, ne rappresentavano una radicale negazione. P.G. ZUNINO, L ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, il Mulino, Bologna 1995, pp RIFERIMENTI STORIOGRAFICI Qual era la principale critica mossa dai fascisti al liberismo economico? Spiega l espressione «agnosticismo liberale». Qual era il vero obiettivo del sistema corporativo?

10 6 Nazionalismo e masse popolari in Enrico Corradini 10 IL FASCISMO IN ITALIA Patria lontana, di Enrico Corradini, fu pubblicato dall editore Treves nel Si tratta di un testo poco noto, a causa della sua oggettiva debolezza letteraria. Tuttavia, è una sorta di manifesto programmatico: in forma didattica, Corradini spiegava che il nazionalismo del nuovo secolo non poteva prescindere dalle masse. La vicenda si volge in Argentina, in ambiente di emigrati italiani, e idealmente continua, anche attraverso il protagonista, La guerra lontana: il romanzo del colonialismo, ambientato a Roma ai tempi di Adua e della caduta di Crispi, che appare però un anno dopo, nel Ruota attorno a Pietro Buondelmonti nazionalista, Giacomo Rummo sindacalista-rivoluzionario e Axerio borghese liberale e progressista. Il piano ideologico-politico risulta prevalente nella struttura narrativa; ed è su una certa intuitiva capacità di presa politica sugli avvenimenti e di prefigurazione ideologica che si fonda il carattere emblematico del lavoro. Due lotte parallele si conducono fra i tre personaggi-chiave: la lotta del nazionalista e del sindacalistarivoluzionario, oggettivamente alleati contro il professor Axerio, perché emarginati e sovversivi rispetto alla realtà presente dell alleanza riformista giolittiana tra oligarchie borghesi e operaie, da lui allusa nel romanzo; e la lotta l uno contro l altro degli stessi Buondelmonti e Rummo, dalle scarne dichiarazioni di considerazione reciproca per la comune anche se distinta lotta antiborghese, all inizio, fino alle appassionate discussioni e alla non facile convergenza, che è la guerra a far precipitare, nel finale. Il libro è la storia e la proposta politica, che troverà non piccolo riscontro nella realtà di questo convergere del nazionalista e del sindacalista rivoluzionario su un comune terreno d azione, partendo da punti di vista originariamente opposti: corrisponde cioè all ipotesi di una reintegrazione nell ordine in un ordine rinnovato ed ampliato delle componenti dall una e dall altra banda eversive. [ ] Più che mai ora, agli occhi di Corradini, una classe dirigente cosciente della propria funzione deve imparare a sinistra come si conduce la lotta di classe e come ci si rende degni di guadagnare o di conservare il potere. «La colpa è della borghesia. Noi socialisti abbiamo un solo dovere: fare la lotta di classe. Non altro! Toccava alla borghesia che ha il dominio della nazione, a fare una politica nazionale resistendoci e magari schiacciandoci. Noi gridavamo contro gli armamenti? Ma che s armasse! Non ne ha avuto il coraggio. Ha avuto quel mezzo coraggio che è figliuolo della necessità e della paura: spendere quella quantità di milioni che bastava a far gridare i socialisti, non per mettere la nazione in buono stato di difesa. Cioè far sì che le cosiddette spese improduttive fossero veramente spese e improduttive insieme. La colpa non è nostra. Stia pur certo che noi saremmo capaci di dare all Italia una classe dominante più coraggiosa, più gagliarda, più intelligente». Quest analisi del Rummo incontra lo scandalo dei benpensanti, e l approvazione invece del Buondelmonti. «Non dubito davvero dichiara questi che loro socialisti sarebbero capaci di dare all Italia una classe dominante più intelligente e più coraggiosa». Qui Corradini [ ] affronta uno dei problemi più dibattuti nel primo Novecento, quello della classe dominante, della sua crisi storica e del suo necessario rinnovamento. [ ] La lezione non è a senso unico, l insegnamento è reciproco, la dialettica dei due personaggi mira alla convergenza delle loro logiche anche sul piano costruttivo. Che cosa possa offrire il nazionalista al rivoluzionario è chiaro, data la personalità dell autore: il criterio della nazione in sostituzione di quello della classe; il blocco corporativo interclassista invece dell uguaglianza; la proiezione della lotta dall interno all esterno del paese, dal quadro economico-sociale a quello internazionale e militare; il benessere attraverso la conquista e l espansione all estero invece che con la ridistribuzione del potere delle spese e dei profitti all interno. [ ] Buondelmonti ha intuito, e si va via via convincendo attraverso la frequentazione di Rummo, che il suo programma radicale non può essere affidato ad una borghesia astrattamente riconquistata e persuasa ad una capacità di comando e di egemonia [ ]; e che esso invece può trovare attuazione solo in quanto l egemonia dei gruppi dirigenti trovi la sua forza in una vasta base popolare, in un consenso di massa: un consenso strumentato e garantito in forme organiche e stabili sia dalla proletarizzazione e irreggimentazione del lavoro di fabbrica, di cui Rummo parla come del luogo tipico dell organizzazione sociale moderna; sia dai sindacati di mestiere, di cui lo stesso Rummo si fa informatore e maestro, facendo riferimento alla nuova scuola sindacalista francese, ad un Buondelmonti divenuto per l occasione ascoltatore e lettore appassionato. Cosicché, all inizio il nazionalista aveva dovuto discolparsi dall accusa [ ] di essere istituzionalmente legato agli interessi borghesi: «No davvero! ribatté l altro. No davvero! Io non ho spezzato mai una lancia per la borghesia e per gli interessi borghesi; ho spezzato tutte le mie lance per la nazione e per gli interessi nazionali; e se è apparso diversamente, è stato perché un certo tempo, in buona fede, ho creduto che nella borghesia prima che altrove si potesse risvegliare una coscienza nazionale». Ma ad una svolta decisiva della vicenda si giunge quando Rummo, al colmo del suo sforzo di conversione, conclude: «Bisogna credere nell ascensione dei lavoratori! Credi, Piero, credi! Sono i migliori nostri fratelli, i più forti e i più generosi. Tu stesso per le tue idee nazionali, se avrai bisogno della forza, troverai in loro la forza, se avrai bisogno della generosità, troverai in loro la generosità. Bisogna credere nell ascensione dei lavoratori. Credi, Piero, credi! E renditi conto che le cose grandi si possono fare con una sola classe e con una sola età: il popolo e la gioventù. Piero gli gettò le

11 braccia al collo esclamando: Tu mi apri gli occhi!». A questo punto Rummo ha dato a Buondelmonti tutto quello che poteva dare: l insegnamento di violenza della sua logica sovversiva per la scomposizione del blocco di potere moderato-riformista; una dimensione demagogico-populista a cui appoggiarsi nella lotta per il ricambio dell élite; propensioni implicitamente industrialiste; tecniche di mobilitazione, di organizzazione e di controllo della classe operaia. M. ISNENGHI, Il mito della grande grezza. Da Marinetti a Malaparte, Laterza, Bari 1970, pp Spiega l espressione «alleanza riformista giolittiana tra oligarchie borghesi e operaie». Che cosa apprende il nazionalista dal sindacalista rivoluzionario? Su quale terreno comune riescono infine a convergere il nazionalista e il sindacalista rivoluzionario? 11 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI

12 7 La liturgia politica di D Annunzio a Fiume 12 IL FASCISMO IN ITALIA Fascismo e nazionalsocialismo si distinsero da altre forme di dittatura per il fatto di tenere le masse popolari in una situazione di mobilitazione. Molti dei rituali di massa adottati dal regime fascista vennero elaborati da Gabriele D Annunzio nel periodo dell occupazione della città di Fiume. Il dialogo con la folla divenne parte essenziale dei suoi discorsi. L accorgimento più importante era costituito dalle domande retoriche: «Annessione! Non è questa la vostra volontà? Non è quella di tutti? Oggi non stiamo tentennando come il vento? Come una bandiera che sventola?». Le masse rispondevano dal basso. Le risposte della folla potevano essere affermative, o a volte esprimersi, quando aveva posto la domanda diversamente, con un profondo mormorio. Oppure, poteva darsi che la gente sotto il balcone ripetesse una delle frasi di D Annunzio in ritmo quasi poetico, mentre gli Arditi di tanto in tanto rispondevano fungendo da coro, espediente importante nel cerimoniale di massa: «Qualunque cosa il Comandante voglia, ovunque la voglia, uno per tutti e tutti per uno, uno contro uno e uno contro tutti, tutti contro tutti, in massa!». Uno stretto collaboratore del Comandante a Fiume, Léon Kochnitzki, commentò il potere ipnotico della prosa di D Annunzio. Una volta, quando D Annunzio ebbe tenuto un discorso ai suoi legionari, giovani soldati e ufficiali resero spontaneamente le loro confessioni di fede esprimendosi nel particolare stile lirico del poeta. In questo caso, a un diverso livello, la stessa prosa di D Annunzio fornì il legame con il suo uditorio, la cosiddetta «prosa dannunziana» che con i suoi ritmi e le sue esagerate ampollosità dominò la coscienza di legionari incalliti e semi-analfabeti. Ma quale che fosse la reazione ai discorsi di D Annunzio, tutti i presenti erano portati a parteciparvi. D Annunzio governò Fiume non solo con i proclami ma anche con discorsi tenuti quasi quotidianamente dal balcone, discorsi che a loro volta erano integrati con altri avvenimenti rituali. D Annunzio fu fecondo nell inventare miti a pretesto di feste nazionali; come molti altri scrittori di fine secolo, ebbe un senso sviluppatissimo della loro importanza. Gli uomini ambivano a sottrarsi alla banalità della esistenza quotidiana, il che aveva già dato impulso alle feste pubbliche nella maggior parte delle nazioni europee in accompagnamento all autocoscienza nazionale. [...] Sul piano dell allestimento e della partecipazione di massa, il dramma politico doveva essere accompagnato da frasi e da vigorosi slogan facili a ricordarsi. D Annunzio li adoperò con efficacia rivolgendo le sue domande retoriche alla folla. Ma essi erano necessari, anche indipendentemente da domande simili. I discorsi del poeta erano molto drammatici ma semplici. A parere di D Annunzio, le parole rivolte alla moltitudine non dovevano avere altra mira se non l azione, perfino l azione violenta se necessario. Le parole come tali non bastavano perché, come disse nel 1919 alla folla, le parole sono di genere femminile, i fatti di genere maschile. Le parole debbono far appello all azione e opporsi alla remissività. Ricorreva a certi slogan preparati. Alla gente comune gridava: «Me ne frego»; ai più raffinati: «Semper audeamus!». Tutti i discorsi terminavano al grido di Eia, eia, eia, alalà!, uno slogan che per primo aveva evocato per incitare i suoi soldati a combattere durante la guerra e che divenne il segno caratteristico del suo stile politico. G.L. MOSSE, L uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, trad. di P. NEGRI, Laterza, Bari 1988, pp Che tipo di relazione esisteva tra il leader e le masse, nella liturgia politica inventata da D Annunzio a Fiume? Quale effetto provocavano le liturgie di massa organizzate da D Annunzio in coloro che partecipavano ai grandi raduni?

13 8 Donne e lavoro nell Italia fascista In linea di principio, secondo il fascismo, le donne dovevano rimanere entro le mura domestiche. Tuttavia, la politica di bassi salari concordata dal regime con la grande borghesia obbligò ugualmente molte donne a cercare un lavoro per sostenere la propria famiglia. «Duce, vuoi tu vedere accrescere il numero dei suicidi, delle meretrici [= prostitute n.d.r.], delle espatriazioni?» scriveva disperata una torinese all «amato duce», supplicandolo di mitigare il decreto legge del 5 settembre Il regime aveva ordinato agli uffici pubblici e privati di ridurre il personale femminile al 10 per cento delle maestranze [= l insieme dei lavoratori n.d.r.], e Pierina B. così chiameremo l autrice della lettera aveva perso il lavoro nonostante i suoi vent anni di anzianità [di servizio n.d.r.]. Era comprensibilmente «angosciata» perché, rimasta nubile, rappresentava l unico sostegno degli anziani genitori. Aiutava inoltre due nipotini, la cui famiglia si trovava in «strettezze per rovesci di fortuna». Senza il suo stipendio, sarebbe stata costretta a «far ritirare in un ospizio» i vecchi, e ad «abbandonare al loro destino» i piccoli. La protesta di Pierina non era che una tra le tante. Come poteva il duce pretendere che le donne quarantenni si mettessero a fare le infermiere, le sarte o le assistenti sociali [= abbandonassero tutti i lavori «maschili» per dedicarsi ad occupazioni considerate tipicamente «femminili» n.d.r.]? E se i mariti che avrebbero dovuto mantenerle non c erano mai stati, o non c erano più? Ma quale uomo, in ogni caso, si sarebbe accontentato di farsi assumere al loro posto, con le paghe da miseria che prendevano? Le più ardite, un gruppo di impiegate romane, gridavano al tradimento: quando il duce aveva chiesto sacrifici per la guerra d Etiopia [nel dicembre del 1935, quando le spose furono invitate ad offrire alla Patria la propria fede nuziale e gli altri gioielli d oro n.d.r.], le donne italiane avevano risposto «con slancio». Adesso la nazione «le mette non solo ad un livello d inferiorità, ma le (sic) vieta il pane per vivere». Pierina B. e le altre affermavano di scrivere a nome di «centinaia» di donne. In realtà, erano centinaia di migliaia le italiane che condividevano le loro preoccupazioni. Negli anni trenta, più di un quarto della forza lavoro in Italia era femminile, e una donna su quattro, tra i quattordici e i sessantacinque anni, risultava attiva. In almeno un milione e mezzo di famiglie il 16 per cento del totale nel 1931 le donne fungevano da principale sostegno. In milioni di altre, contribuivano al reddito familiare. Le donne lavoratrici, anche quelle le cui occupazioni non erano in pericolo, furono ovunque scosse dalla drastica decisione del regime. Il tanto decantato sistema corporativo le aveva gettate in un limbo costituzionale: la cittadinanza era riconosciuta agli uomini in quanto produttori e soldati, alle donne solo in quanto riproduttrici della specie. [...] Il decreto legge del 5 settembre 1938 non era che il culmine di una vasta e complessa politica di discriminazione sessuale, condotta per un quindicennio da una dittatura che si trovava di fronte a un fondamentale dilemma. Da un lato, tollerava alti tassi di disoccupazione maschile e bassi salari, in quanto rispondenti all alleanza col grande capitale, e a strategie di costruzione dell economia italiana che richiedevano lo sfruttamento del lavoro più a buon mercato, quello femminile e minorile. Dall altro lato, voleva garantire la posizione dei maschi capifamiglia, per non mettere a rischio l autostima degli uomini senza lavoro, e con essa la sanità della razza e la crescita demografica. [...] Richiamandosi a vecchi pregiudizi contro le donne che lavoravano fuori casa, la propaganda e le politiche del regime puntarono a modificare l immagine pubblica del lavoro femminile, presso le famiglie, le aziende, nella collettività nazionale, e tra le donne stesse. Il fascismo lottò soprattutto contro l idea, particolarmente pericolosa, che il lavoro fosse un diritto universale tanto degli uomini che delle donne e che a queste ultime aprisse la porta all emancipazione sociale. Naturalmente il lavoro era considerato necessario all identità dell uomo, come ribadiva la propaganda. Ma per le donne, sentenziava Mussolini, «ove non è diretto impedimento, distrae dalla generazione, fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche e morali contrarie al parto». Lavorando, «la donna salva molto spesso una famiglia sbandata o addirittura se stessa, ma il suo lavoro è, nel quadro generale, fonte di amarezze politiche e morali. Il salvataggio di pochi individui è pagato con il sangue di una moltitudine». La cinica conclusione del duce era che «non vi è vittoria senza i suoi morti». Incapace di espellere completamente la manodopera femminile dal lavoro, la dittatura cercò di impedire che le donne lo considerassero una pietra miliare sulla via della propria liberazione. Se avevano un occupazione, ciò doveva avvenire o per imprescindibili necessità familiari, o perché nessun uomo avrebbe accettato un posto come quello. V. DE GRAZIA, Le donne nel regime fascista, trad. di S. MUSSO, Marsilio, Venezia 1993, pp Le espressioni di Mussolini tra virgolette sono tratte da un discorso del 31 agosto RIFERIMENTI STORIOGRAFICI Secondo il tuo giudizio, quale atteggiamento teneva Pierina B. nei confronti del fascismo? Per quale motivo le impiegate romane accusarono Mussolini di tradimento? In che senso il regime corporativo gettava le donne in un limbo costituzionale? Che giudizio esprime Mussolini sul lavoro femminile?

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