My son, my son, what have ye done. Matteo Quadrini
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- Eduardo Corti
- 9 anni fa
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1 My son, my son, what have ye done Matteo Quadrini Se il cinema potesse uscire dallo schermo e suggerire una frase allo spettatore che vede un film di Herzog, probabilmente con una didascalia direbbe: da una vita hai aperto gli occhi, ma solo adesso puoi guardare per la prima volta. Quando da qualche parte si proietta un suo film, il cinema smette di costruire pareti, di rinchiudersi in una sala per avvicinare giovani e meno giovani: Herzog non abbandona le storie o la documentazione di storie, ha solo scelto di non muoversi più lungo l orizzonte, perché la sua vocazione gli urlava di sfogare immagini, di sovrapporre l esperienza sensibile alla macchina da presa, e con essa regalare al cinema il cielo. Un movimento verticale quindi, ascensionale, che si aliena dalla tradizione per ricongiungersi alle forze naturali e metafisiche, il quale esaurisce poiché gesto estetico intransigente che esclude il cinema dalle sue leggi, dai codici del mercato e della narrazione, e forse addirittura dell arte. Herzog infatti non si inserisce in nessun tentativo di connessione dialettica tra cinema e arte contemporanea, né tantomeno contamina intellettualmente le sue immagini in funzione di politiche estetiche prestabilite (come spesso il regista ha ripetuto, perfino l inclusione nel Nuovo cinema tedesco sembra un atto di riduttivo e parziale confinamento, frutto di una soluzione accademica di tipo storico-cronologico), e soprattutto non sente la necessità di rispondere con i suoi film alla domanda cosa sarà il cinema? ; eppure questa coerenza assoluta se da un lato sembra estraniare Herzog dall arte del presente ed allontanarlo dal modo convenzionale di pensare il cinema (in particolare quello moderno), d altro canto sembra al contrario ricongiungerlo a qualcosa di più grande secondo una definizione di cinema che supera l arte - i problemi, le logiche dell arte e restituisce al filmare una competenza ignota, che trascende ogni estetica per custodire il sacro, la follia, il meraviglioso, la natura, i legami perduti con il passato e quelli rifiutati con il futuro: un gesto artistico straordinario che dal basso di una concezione artigiana (Herzog ripudia la definizione di artista perché svuotata di senso nel contesto contemporaneo) tende la mano all uomo, risvegliando il suo senso di essere al mondo. Pochi artisti - non solo nella storia della settima arte - hanno osato tanto, anche perché coerentemente con la sua inesauribile, pura ricerca di immagini nuove o dimenticate, Herzog vive in prima persona ogni manufatto, secondo un etica in cui si registra la fusione totale tra opera ed artista, a volte persino pericolosamente; tutto ciò ha delineato tra gli estimatori un cliché legittimo (ma secondo il regista fasullo) che identifica il cinema del cineasta tedesco con l estetica del Romanticismo. Va detto che si tratta di una percezione riduttiva del rapporto tra Herzog e i suoi film, gonfiato soprattutto dalle leggende che alleggiano attorno ad alcune (in realtà molte) pellicole, talmente note nell immaginario collettivo da superare spesso l importanza del testo stesso. Non è certo questa la sede in cui registrare un censimento dei fatti che hanno ostacolato i film di Herzog (ammantandoli innegabilmente di un indubbio fascino), però esaltare sopra ogni altra cosa questo tour de force come clausola indispensabile per identificare il suo cinema scatena un domino superficiale e fine a se stesso: nel corso degli anni sono piovute spesso accuse (infondate) ai danni del film-maker, giudicato come tiranno disposto a tutto pur di realizzare le proprie visioni, persino a ignorare la sua sicurezza e quella della troupe, accecato da quest estasi verso il film in fase di gestazione.
2 Tra mito e verità, Herzog ha costruito sul suo respiro di celluloide lungo quarant anni un work in progress composto da circa sessanta opere, che sta diventando uno dei percorsi più capillari e impenetrabili mai compiuti da un cineasta. E forse il più estatico. Fin qui una pagina in parte già risaputa, ma il Welles di F for fake insegna che non c è da fidarsi dell arte, soprattutto quando coinvolge il cinema. Herzog passerà alla storia della 66ª mostra internazionale d arte cinematografica di Venezia per la presenza di due lungometraggi in competizione, che diventano complessivamente una trilogia veneziana con il cortometraggio La boheme, inserito fuori concorso. Eppure, chiunque abbia visto anche una sola delle tre opere, non potrà fare a meno di sgretolare il discorso svolto in queste righe. Possibile che Herzog sia cambiato così tanto? La Boheme in parte sconvolge per il contrasto tra istantanee dinamiche, pur non nuove ai cortometraggi documentari di Herzog, e il livello testuale di fondo che musicalmente richiama a Puccini solo per legge universale, per una giustapposizione più voluta che sentita. Il cattivo tenente Ultima chiamata New Orleans, invece resterà una mosca impazzita nell itinerario del regista tedesco; arpia algida che, con il volto posticcio dell Herzog hollywoodiano ma il corpo della follia, metaforizza la scissione in due parti e la compresenza di due emisferi cerebrali opposti; da qui l andamento claudicante, schizofrenico della loro somma, un esperimento sghembo che ha il merito di rinnovare il grottesco herzoghiano in una misura spietata e rassegnatissima, antitetica rispetto ai suoi trascorsi, soprattutto pensando a La ballata di Stroszek, matrice complementare che ritorna ossessivamente alla mente nel remake del film di Ferrara (persino attraverso autocitazioni): tanto insopportabile e giustificata era la mortificazione interiore di un immigrato tedesco che, stravolto dall alienazione americana, trova la libertà solo col suicidio, tanto più assurdo è il finale del cattivo tenente: il protagonista ritrova la pace perché rinuncia alla ricerca di un equilibrio; continuerà a vivere perché non si pone consapevolezze, abbandonato al caos. E poi My son, my son, what have ye done, ispirato a un fatto vero (un giovane, dopo un misterioso trauma, si immedesima nell Oreste di Sofocle, e uccide sua madre con l ascia; per evitare l arresto prende degli ostaggi e si chiude in casa, fino a quando la polizia avrà la meglio); il più dimenticato tra i film in concorso, accolto svogliatamente, e rispedito al mittente con freddezza altrettanto celere. Commenti discordanti, ma spesso uniti dalla percezione comune che si tratti di una storia già cantata, onesta ma gracile e maldestra, comunque minore anche se riconoscibile nell itinerario del regista. Non è la prima volta che la critica chiosa l immaginario herzoghiano su una base di studio instabile. E già successo inconcepibilmente con capolavori oggi riconosciuti in primis Aguirre, L enigma di Kaspar Hauser - e in tempi più recenti addirittura all anteprima di Apocalisse nel deserto. My son, my son, what have ye done in verità è un implosione mortifera, che ha partorito il film più importante - forse anche in misura maggiore dei suoi ultimi (meravigliosi) documentari - per capire il prossimo decennio artistico/visivo di Herzog: un film-iceberg, giudicato (da molti) solo nella parte scorgibile, mentre le sue profondità restano inabissate, invisibili a qualsiasi senso. Questo saggio dovrebbe indagare l iceberg vero e proprio, quello che My son, my son non ha voluto neanche sussurrare, e probabilmente racchiude i sintomi di un cinema che ha vissuto una devastante implosione, nascosta nel silenzio. Ma quanto si può riesumare in un espressione così raccolta e nidificata nel ghiaccio? Pochi segni di vita, scolpiti da una mano febbrile, che non può rinunciare a liberare un angoscia terribile, incomprensibile, e tuttavia soffre ad ogni colpo sul marmo, come se scena dopo scena, attorno alla
3 tragedia (greca) motrice della vicenda, un conflitto altrettanto brutale si abbattesse sull artista, originando il vero dramma di My son My son, ossia un tragedia esclusivamente (meta)filmica: la libertà/maledizione cinematografica di comunicare la disintegrazione interna della psiche. Herzog infatti conosce più di chiunque la condizione di Brad McCullum (un grande Michael Shannon) e rispettosamente la fossilizza, trasfondendo la malattia nel film stesso: parlare, mostrare, invetriare sono i colori per specchiare oggettivamente la follia del protagonista, ma diventano arnesi inutili, perché Brad soffre ad ogni parola pronunciata e questo tormento lo rinchiude in un mutismo sempre più ermetico; così la catena della confessione si spezza, irrisolta più di prima. Poi tutto ricomincia, per spegnersi ancora, e viziosamente ripetersi, martoriando volontariamente l andamento del film. Estremismo di maturità straordinaria che armeggia a doppio taglio la natura della pellicola: in primo luogo, creando un analogia tra la personalità di Brad e quella del film, Herzog non può fare a meno di intavolare un legame gemellare tra creazione e creatura umana, cucendo il respiro di My son, my son su una dipendenza schiava dal suo protagonista (pratica già vista nel cinema di Herzog, ma forse mai con così tanto rischio e coerenza), tuttavia ricompensata con un rapporto simbiotico che, nelle rare esternazioni profuse, è ben degno del Cronenberg di Spider e Inseparabili; in secondo luogo, se il suo raggio d azione non può che essere Brad, la limitazione soggettiva potrebbe ridurre il film ad un soliloquio invisibile, ad un viaggio irrappresentabile nei suoi silenzi, così Herzog escogita la narrazione-reportage, tesaurizzando il meccanismo di composizione wellesiana che permette la costituzione di un idea dell uomo attraverso la ricostruzione di più testimonianze, e quindi l introduzione di più personaggi, ciascuno con il suo personale monologo. Quest ultima scelta ha forse destato tra qualche critico la sensazione di un Quarto potere matricida: interpretazione percorribile, ma non senza includere l esigenza teatrale del film, ovvero l ambizione di creare una tragedia greca moderna, imperniata sulla parziale unità di tempo, spazio e azione per mezzo di un improvvisato palcoscenico (la strada americana), prima che flashback costanti non restituiscano al presente il passato, e ricordi filmati sostituiscano modernamente- dionisiaci sfoghi irrazionali. Il cinema di Herzog è sempre stato votato alla ricerca dello sguardo perduto dall uomo, ma in My son my son what have ye done questa necessità non può fare a meno dell altra tendenza che egli solitamente indaga nei film di finzione, cercare lo sguardo di un uomo perduto, proprio perché inventa esteticamente personaggi esclusi e sceglie di osservare e non giudicare l epicentro di un calvario umano. Una scelta artistica che si ripete sistematica e che erroneamente viene spesso percepita come un gesto egoista, o meglio come un meccanismo di auto-protezione che il regista riserva alle sue creature per proteggerle dall incomprensione che potrebbe provare il pubblico: ma è forse sensato delegittimare a tal punto l espressione di Herzog e concepirla come un atto chiuso in se stesso? Un autore non vuole isolarsi dallo spettatore intenzionalmente, ma non può prescindere dall ascoltare i suoi personaggi; e se questo significa scivolare in un silenzioso filmare per rispettare l esistenza di un inferno interiore, non c è dono più grande che il regista può fare alla propria opera d arte. In tale contesto, il protagonista di My son my son what have ye done si inserisce a modo suo tra gli altri antieroi di Herzog. Ha negli occhi la furia umana di Aguirre e il destino intrappolato dell Hias di Cuore di vetro, ma soprattutto la sensibilità-psicosi di Woyzeck e un disagio interiore non dissimile allo Stroszek da cui prende il titolo la ballata degli anni 70. Lo stesso sguardo che sembra mancare al cattivo tenente impersonato da Nicholas Cage, erede lontano, molto lontano (per certi versi estraneo) di questo popolo di reietti.
4 Brad non è soltanto un altro personaggio di Herzog: assume alcune caratteristiche di futuri impediti già narrati dal regista, ma l inspiegabile silenzio compulsivo che racchiude il suo gesto estremo e il mistero di una trasformazione che stravolge la psiche rimandano al più dimenticato cittadino del mondo herzoghiano, il primo, lo Stroszek di Segni di vita. Brad come Stroszek vive un cambiamento improvviso che lo segna irreversibilmente: i rispettivi film narrano questa mutazione dell anima fino all atto finale, quando la follia ha covato a sufficienza i propri demoni ed esplode con una forza tanto disarmante (per lo spettatore) quanto imprevedibile (per i protagonisti). Mentre con il suo lungometraggio d esordio Herzog sceglieva una situazione che si avvicina a Lo straniero di Camus, nonostante la diversità di gesto (Stroszek non si limita all omicidio di uno sconosciuto, ma prende possesso del fortino mettendo in ostaggio l intera isola) e ambientazione storica (Segni di vita si svolge durante il secondo conflitto mondiale), con My son my son il tormento di Brad si connota maggiormente di psicologismo, eredita il terreno della tragedia greca e la narrazione diventa racconto orale, attraverso testimonianze che ricostruiscono la genesi di un gesto folle. In Segni di vita vediamo tutto in presa diretta, con My son my son possiamo fidarci solo delle voci del racconto. Due film estremamente diversi, ma due protagonisti che soffrono nascondendo il tormento del loro trauma, prima che questi divori entrambi ossessivamente, costringendoli ad un atto di cui ormai non possono fare a meno; se quella di Stroszek è un esigenza di prendere il comando del proprio io e contro il resto del mondo che lo ha condotto ad uno stato di afasia non più sopportabile, allora Brad sembra raccogliere il testimone di novello Stroszek e, mosso da un identica conclusione, sceglie di ribellarsi a quell ostacolo che ha generato in lui una precarietà non sostenibile, ovvero la madre. Quella di Stroszek è una rivolta pacifica, consumata a fuochi d artificio; quella di Brad è un azione che di infantile ha solo il finale, il piacere di aver giocato e bluffato con la polizia un ultima volta prima dell arresto, come se fosse una piccola occasione per congedarsi dal mondo libero con l innocenza di un bambino che non vuole fare del male a nessuno, e che ha ucciso la madre solo per tornare a recuperare questa libertà negatagli dalla mente. Forse il massimo comun denominatore che più colpisce tra Stroszek e Brad è la reazione al fatto compiuto: la pacificazione finalmente possibile nel momento in cui hanno raggiunto il momento di non ritorno. Il mondo esterno che prima a fatica li accettava ora non è più disposto a tollerare la loro diversità, finalmente espulsa, pericolosa: non c è rivincita quindi e le creature di Herzog sono troppo fragili per resistere allo sfogo (della legge) che verrà, nate per essere sempre inconciliabili con gli altri uomini. Eppure My son my son, sembra estraneo a Segni di vita: My son my son è il luogo dove tante direzioni del cinema di Herzog si ritrovano, alcune passate certo (il legame fraterno che Brad sembra instaurare appunto con i personaggi dei film di finzione herzoghiani), ma le più importanti sono le forme che quasi nessuno ha colto, quelle dell Herzog attuale e probabilmente del suo cinema che verrà. Soprattutto sul piano espressivo. La scarsa conoscenza degli ultimi lavori del regista non permette ai più un analisi concreta di My son my son, se non una vaga lettura del film come studio sulla cultura americana, del post-noir in particolare. È tuttavia il percorso da seguire per un regista che da sempre ha negato un cinema di generi, che si è sempre allontanato dai confini terreni per seguire un idea di cinema espansa ed universale? Se perfino con La ballata di Stroszek ammise di aver usato l America ma non di aver voluto raccontare l America, perché mai dovrebbe cambiare atteggiamento dopo quarant anni di cinema? In realtà My son my son coglie il mondo statunitense in quanto teatro naturale a cielo aperto, luogo drammatico che non implica un discorso sul disagio del cittadino americano (come invece avrebbe fatto Wenders): l America è semplicemente lo scenario di una cronaca, ma non per cosa rappresenta
5 come nazione, bensì perché paesaggio che più di ogni altro si presta alla poetica della tragedia contemporanea. Una ballata della psiche, che offre allo spettatore un Herzog stravolto: le messe in scena di Coppola e Visconti avrebbero forse creato dei film armonicamente allineati ai moduli della tragedia, coniugando il gusto moderno ad una drammaturgia antica; la volontà del regista tedesco è invece di superare l idea di narrazione, infrangere la linearità, per riprodurre fedelmente attraverso questo effetto di lacerazione interna la frantumazione vissuta da Brad. Herzog accetta un totale controllo della materia tragica, ma la sua adesione emotiva al protagonista è tale da stravolgere la distanza necessaria per padroneggiare il film. Il rapporto autore-personaggio sovrasta il progetto stesso dell opera, originando un film che rifiuta un idea di composizione classica o manierista, ed eredita dal tragico solo l importanza dell elemento dionisiaco. In questo contesto di pericoloso fermento artistico, Herzog pennella con coerenza assoluta l identificazione tra Brad e l Oreste protagonista dell Elettra di Sofocle, unificando le due personalità e con esse l obiettivo di uccidere la madre. Pennellate sempre più violente e meno controllate, mosse dalla compassione e dall esplorazione verso un gesto così estremo e dal trauma che l ha generato. L effetto è straniante, straordinario, imperfetto: il disequilibrio netto tra la parola, che resta l unico valore razionale a cui appigliarsi e conserva ancora la funzione di spiegare, e un immagine impazzita, scissa dalla parola e incapace di ascoltare. Un film che si autodistrugge quindi, per colpa di un immagine che come i suoi ultimi documentari (Grizzly Man e Encounters at the end of the world su tutti) sembra filmare l incomprensibile: cinema che sfida (soprattutto psicologicamente) i propri limiti, limitandosi a sua volta. Un viaggio compiuto e poi mostrato solo in superficie, che custodisce nei suoi silenzi un immagine completamente racchiusa in se stessa. È questa la grandezza di My son my son, ovvero l immagine racchiusa in se stessa che sullo schermo non vediamo, pur sapendo che il regista si è spinto fino alla sommità del vortice per indicarcela. L immagine fa un tale sforzo per restare sotterrata e introversa che sembra di assistere a un film degno delle ultime sculture di Michelangelo, ai suoi non finiti. Una scultura volontariamente non finita, sconvolta (per necessità) nella forma e mossa dalla compassione. Ed è forse il non finito l ultima frontiera del cinema di Herzog: l Icaro della settima arte, bruciato da una vita di immagini, si sta accecando, almeno cinematograficamente, isolato in una creazione che a tratti regala momenti indimenticabili e a volte non può esprimersi, smarrita nell universo dell autore. L eredità lasciata da My son my son non è già sentita (come molti critici hanno pensato), al contrario, ha un ruolo profetico che sembra confermare l importanza del documentario nel futuro artistico del regista e contemporaneamente segna una pietra tombale nei suoi film di finzione: la produzione narrativa e mitopoietica ci consegna un Herzog morente, che si spegne ma nel modo migliore, come una stella cometa di cui vedremo ogni tanto il fulgore, sempre meno, mentre lascia spazio a un oscurità e un disequilibrio che acquistano spazi di onnipresenza. Per questo My son my son è la Pietà Rondanini di Herzog, l inaugurazione di un ultima fase in cui il regista sarà sempre più legato al non finito, all astrazione e di conseguenza al documentario, unica espressione con cui Herzog, liberato da qualsiasi vincolo, può ancora fare poesia (meglio di qualunque regista contemporaneo), regalare nuove pagine alla storia del cinema e restare solo con la macchina da presa, ad accogliere le immagini estatiche di un mondo che ci dimentichiamo di conoscere.
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