REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI TRIESTE SEZIONE CIVILE Il Giudice, dott.ssa Anna L. Fanelli, ha pronunziato la seguente
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1 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI TRIESTE SEZIONE CIVILE Il Giudice, dott.ssa Anna L. Fanelli, ha pronunziato la seguente SENTENZA nel procedimento civile di I grado iscritto al n. R.G. 3417/08 ed iniziato con atto di citazione notificato il 2/10/08 da C.M. con avv. P.P., come da procura a margine dell'atto di citazione e con domicilio eletto presso lo stesso - attrice - contro Comune Di Trieste, in persona del Sindaco in carica con avv. M.R., come da mandato in calce all'atto di citazione notificato, con domicilio eletto presso lo stesso - parte convenuta - avente ad oggetto: risarcimento danni. Sent. Cron. Rep. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE M.C. - premesso di aver riportato gravi lesioni allorquando, in data 19/02/07, alle h , nell'attraversare la soglia della stanza n. 142 sita nel Tribunale di Trieste (ospitante la Cancelleria delle esecuzioni mobiliari), infilava il tacco della scarpa in una fessura tra alcune doghe in legno dello sconnesso pavimento ivi apposto e rovinava a - terra - ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Trieste il Comune di Trieste, al fine di sentir accogliere le conclusioni di cui in epigrafe, in particolare assumendo di aver subito svariati danni, non patrimoniali (biologico, morale, esistenziale) e patrimoniali (per cure future, spese mediche e varie sostenute, perdita premio di produttività). Costituendosi in giudizio, il Comune di Trieste pure ha concluso come in epigrafe, preliminarmente eccependo la nullità dell'atto introduttivo ex art. 164 c.p.c., per omessa indicazione delle ragioni di diritto, e quindi comunque contestando la fondatezza della, domanda attorea, in punto an debeatur - quanto a dinamica del fatto e responsabilità, da ascriversi piuttosto alla stessa attrice - nonché in ordine al quantum, eccessivo e da provare.
2 Richiesti e concessi i termini ex art. 183 VI comma c.p.c., sono state assunte prove per testi ed infine il Giudice, acquisite le definitive conclusioni delle parti ed assegnati i termini di legge per conclusionali e repliche, si è riservato la decisione. La domanda è infondata e, pertanto, va respinta. Non si nega, in effetti, l'astratta configurabilità nella fattispecie della responsabilità dell'amministrazione convenuta, sotto il duplice profilo sia della violazione del generale canone del neminem laedere di cui all'art c.c., sia dell'operatività della speciale presunzione di colpa del custode prevista dall'art c.c., nulla ostando d'altronde, sul piano della ritualità dell'editio ationis, a che vengano esaminati entrambi i detti profili di responsabilità. Infatti, da un verso, al di là della indubbiamente scarna e sibillina esposizione contenuta nell'atto introduttivo, l'avere l'attrice già allora sostanzialmente fatto riferimento anche al potere di custodia del Comune sulle strutture del palazzo di giustizia - quale "proprietario e/o obbligato alla manutenzione" - consente di riqualificare la domanda altresì facendo riferimento all'art c.c., senza incorrere nel divieto di ultrapetita (cfr., in proposito, Cass. civ /99, 19653/04, 490/79 e 4977/79). Dall'altro verso, lo stesso ente convenuto, almeno a partire dalle difese svolte dopo la prima memoria attorea ex art. 183 comma 6 c.p.c. (maggiormente esplicative delle ragioni giuridiche azionate), sembra aver implicitamente accettato il contraddittorio anche in ordine ad una eventuale imputazione di colpa appunto ai sensi della citata norma speciale. Ciò premesso, va ricordato che la disposizione dell'art c.c. postula, da un verso, che il danno sia cagionato da un'anomalia originaria o sopravvenuta nella struttura o nel funzionamento della cosa, occorrendo cioè una "relazione diretta tra la cosa in custodia e l'evento dannoso" (Cass. civ. sez. III 15/02/00 n. 1682, 6121/99), dall'altro verso, che esista un "effettivo potere fisico, che implica il governo e l'uso della cosa ed a cui sono riconducibili l'esigenza e l'onere della vigilanza affinché dalla cosa stessa, per sua natura o per particolari contingenze, non derivino danni ad altri" (cfr. Cass. civ. sez. III 18/02/00 n. 1859). Trattasi, invero, di una speciale forma di responsabilità rispetto a quella più generale di cui all'art c.c., dalla quale non differisce comunque
3 per essenza e natura, salvo essere caratterizzata da un dovere specifico di contenuto positivo, ovvero da un più intenso dovere di vigilanza - comportante anche quello di adottare le misure idonee ad impedire danni a terzi - imposto a carico di chi abbia a qualsiasi titolo un effettivo, non occasionale, "potere fisico" sulla cosa (cfr. Cass. 5885/99, 3129/87, 1897/83, 3134/82, 4124/75). Ne deriva altresì, che la responsabilità ex art c.c. prescinde dal carattere insidioso della cosa dannosa, che perciò il danneggiato non è tenuto a dimostrare, come invece sarebbe necessario se agisse ai sensi dell'art c.c. (cfr. Cass. civ. sez. III 8/04/97 n. 3041). Quanto alla prova liberatoria richiesta dalla citata norma, occorre dimostrare il caso fortuito, ossia un fatto estraneo alla sfera di azione del custode - attribuibile ad un fattore naturale, ovvero alla condotta del terzo o dello stesso danneggiato - tale da determinare da solo, per la sua imprevedibilità ed assoluta eccezionalità, l'evento dannoso, avendo cioè impulso causale autonomo, si da "interrompere il nesso eziologico fra cosa ed evento lesivo" (v. Cass. civ. sez. III 20/05/98 n. 5031, nonché 3/10/97 n. 9658, 4757/99 n. 4757, 4616/99, 4196/97). In punto rilevanza del comportamento del danneggiato, si segnala quindi Cass. civ. sez. III 27/09/99 n , che precisa, tra l'altro, che "le misure di precauzione e salvaguardia imposte al custode del bene devono ritenersi correlate alla ordinaria avvedutezza di una persona e perciò non si estendono alla considerazione di condotte irrazionali, o comunque al di fuori di ogni logica osservanza del primario dovere di diligenza, con la conseguenza che non possono ritenersi prevedibili ed evitabili tutte le condotte dell'utente del bene in altrui custodia, ancorché colpose"; analogamente, recita Cass. civ. sez. III 21/10/98 n : "la volontaria e consapevole esposizione al pericolo da parte del danneggiato, quando esistano agevoli e valide alternative idonee a scongiurare l'eventualità di accadimenti dannosi, comporta l'interruzione del nesso di causalità tra quella situazione e l'evento pregiudizievole che avesse a verificarsi, posto che in tal caso è alla volontà dello stesso danneggiato e alla sua decisione di correre un pericolo da lui conosciuto e facilmente evitabile che l'evento dev'essere ricollegato in nesso eziologico" (cfr. inoltre sez. III 11/06/98 n. 5796, ed ancora, con riferimento al
4 c.d. fortuito incidentale", Cass. civ. 9/02/04 n e 17/01/01 n. 584). Con specifico riferimento poi alla P.A. - fermo restando che la discrezionalità e insindacabilità caratterizzanti l'esercizio dei relativi poteri-doveri concernenti realizzazione, gestione e controllo su beni demaniali o opere pubbliche trovano pur sempre limite nell'obbligo di osservare, a tutela della incolumità dei cittadini e dell'integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e di regolamento, nonché le norme tecniche e quelle di comune diligenza e prudenza, tra cui quella primaria e fondamentale del neminem laedere - anche l'applicabilità dell'art c.c. è principio che si è andato via via consolidando, a scapito dell'orientamento tradizionale, ancorato ai termini di cui all'art c.c. e al noto schema della c.d. "insidia" o "trabocchetto" (cfr. Cass /06, 19653/04, 11446/03, 488/03, 298/03, 11366/02, e innumerevoli altre pronunce). Per altro verso, non può non ricordarsi altresì che l'astratta configurabilità dell'art c.c., così come dell'art. 2043, non esime comunque il danneggiato dall'onere di provare - prima ancora del danno, nonché della prova liberatoria gravante sul danneggiante - il nesso di causalità tra danno medesimo e condotta dell'agente, ovvero cosa in custodia (in relazione ad un'anomalia originaria o sopravvenuta nella struttura o nel funzionamento di questa), ossia il danneggiante deve dimostrare che "l'evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa" (v. Cass. civ. sez. III 13/2/02 n. 2075, 20/10/05 n , 2331/01 cit.). Tutto ciò premesso, venendo all'esame del caso di cui oggi si discute, trattasi di sinistro verificatosi, è vero, all'interno del palazzo di giustizia, pacificamente rientrante nella proprietà, gestione e manutenzione comunale, ma per cui, tuttavia, non può dirsi che l'attrice abbia compiutamente assolto all'onere probatorio sulla stessa gravante. Null'altro è dato evincere, infatti, dal complessivo esame delle risultanze processuali se non che effettivamente la C., addetta all'ufficio, cadde in prossimità della soglia della stanza n. 142, ovvero davanti alla relativa porta dalla parte del corridoio, dove infatti fu rinvenuta già a terra dal teste B., appena uscito dalla vicina stanza n. 140 prospiciente sullo stesso corridoio; non vi è prova chiara e univoca, invece, che la caduta fosse avvenuta proprio in
5 corrispondenza ed a causa della fessura di cui in citazione, o del leggero sollevamento o scollamento del parquet posto sul punto di soglia di cui pure ha parlato il teste; ovvero - in assenza di testi oculari che abbiano realmente assistito alla caduta - è rimasta in definitiva incerta, né altrimenti ricostruibile, nemmeno in via ragionevolmente indiziaria, la stessa intrinseca dinamica del fatto (non si sa neanche, ad es., se l'attrice stesse entrando od uscendo); incertezza del resto aumentata dalla innegabile incongruenza o scarsa linearità delle prospettazioni via via fornite dalla stessa danneggiata, dapprima dichiarando al Pronto Soccorso di essere inciampata accidentalmente su gradino, poi al proprio medico legale di essere inciampata su una parte del parquet mobile ed infine, in citazione, "su una fessura fra alcune doghe in legno dello sconnesso pavimento"; ciò, sia pure con tutti i benefici del dubbio (per essere state le singole dichiarazioni dell'interessata riportate pur sempre col filtro delle parole del medico del P.S., o di quello medico-legale o del proprio difensore), ma comunque non potendo non rilevare la vaghezza ed ambiguità della dinamica riferita (poco compatibile, peraltro, con le stesse risultanze istruttorie, che renderebbero ipotizzabile al più una caduta provocata da un dislivello, più che da una fessura). D'altra parte, sebbene sia pure emerso che il pavimento della stanza n. 142 fosse dissestato - tanto da determinare poi un intervento manutentivo riparatore del Comune - è altresì vero che tale condizione era ben conosciuta anche dall'attrice, come confermato dal teste B. ("era un problema già noto ai componenti dell'ufficio che il pavimento fosse sconnesso nel punto di soglia..."); né risulta che prima vi fossero state segnalazioni, si da rendere dubbia la stessa esigibilità di un comportamento diverso da parte dell'ente custode. Sicché, in definitiva - dando pure per avvenuto il fatto storico della caduta sulla soglia de qua (anche alla luce del riscontro obiettivo derivante dalle lesioni riportate) - in mancanza di prova circa le concrete modalità del fatto (ossia quanto a punto e causa reale della caduta), lo stesso non potrà che imputarsi a caso fortuito, se non alla condotta della stessa danneggiata (ovvero trattasi di semplice caduta causalmente ascrivibile a mera fatalità, se non a imprudenza o disattenzione della stessa danneggiata).
6 Si deve pertanto concludere, alla luce del complessivo contesto sopra evidenziato, che la domanda attorea non può essere accolta, per carenza di idonea prova. Ragioni di equità inducono, tuttavia, a compensare almeno in parte le spese di lite tra le parti, e ciò alla luce di tutte le considerazioni sopra esposte, ossia considerando specialmente la natura delle questioni trattate, l'obiettiva peculiarità della vicenda e le innegabili difficoltà probatorie connesse, oltre che il contegno processuale rispettivamente tenuto. P.Q.M. ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, definitivamente pronunciando, rigetta la domanda attorea. Condanna l'attrice a rifondere 1/3 delle spese processuali di parte convenuta - che si liquidano, per l'intero, nella misura di Euro 1.644,00 per diritti ed Euro 2.300,00 per onorari, oltre spese gen. 12,5% ed IVA e CAP come per legge - compensati i residui 2/3 tra le parti. Così deciso in Trieste il 18 aprile Depositata in Cancelleria il 2 maggio 2011.
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