L India e il Centre for Studies in Social Sciences di Kolkata (CSSSC)

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1 L India e il Centre for Studies in Social Sciences di Kolkata (CSSSC) Le interviste seguenti ad alcuni ricercatori del CSSSC sono state realizzate presso i locali del Centro nel dicembre 2006; le interviste a Shahid Amin e Shayl Marayam, invece, sono state realizzate nello stesso periodo a Nuova Delhi. Intervista a Partha Chatterjee Jean-Loup Amselle: In un intervista concessa al «SEPHIS e-magazine» nel 2004 lei ha dichiarato: Ormai sono consapevole che il fatto di vivere in India renda più urgente l analisi dei problemi legati alla società e alla politica, che vanno considerati con maggiore attenzione. Eppure, almeno una parte dell anno, lei insegna alla Columbia University di New York. Come risolve questa contraddizione? E come spiega il fatto che quasi tutti i membri del gruppo dei Subaltern Studies compreso il mentore e padre fondatore Ranajit Guha vivano fuori dall India? Partha Chatterjee: Ranajit Guha ha sempre vissuto fuori dall India, dato che ha lasciato il paese nel Guha era membro del Partito comunista indiano, ed è emigrato a Parigi dove ha vissuto dal 1946 al 1951 espletando l incarico di rappresentante indiano della Youth League [la Federazione internazionale dei giovani comunisti]; fu co-segretario di questa organizzazione assieme a Enrico Berlinguer. Tornò in India nel 1951 per insegnare presso un università ma in realtà continuava a essere membro permanente, e a pieno titolo, del Partito comunista indiano. Lasciò il Partito nel 1956, dopo l invasione dell Ungheria da parte delle truppe sovietiche; fece ritorno a Parigi, e nel 1958 si recò in Inghilterra. Guha insomma ha vissuto quasi sempre all estero, ma la stessa cosa è accaduta anche agli altri membri del gruppo originario dei Subaltern Studies del quale fu il mentore e il leader intellettuale. Eppure Guha apparteneva a una generazione di molto precedente la nostra, posto che aveva venticinque o trent anni più degli altri ricercatori del gruppo i quali erano tutti in procinto di completare il loro dottorato, o lo stavano ancora svolgendo. Molti dei giovani furono influenzati dalle idee di E. P. Thompson ed Eric Hobsbawm, mentre Guha subì l influsso della scuola degli «Annales» di cui conosceva molti membri. J.-L.A.: E Lévi-Strauss? P.C.: Guha subì anche l influsso dello strutturalismo di Lévi-Strauss. L ambiente che frequentava, tuttavia, era comunista e marxista; questa fu senza dubbio una delle ragioni che lo indussero a interessarsi al problema dell universo contadino indiano. Voleva scrivere un libro su Gandhi, e trascorse un anno in India per scrivere questo libro proprio nel periodo in cui scoppiò la sommossa maoista. In quell occasione incontrò alcuni studenti che in seguito sarebbero partiti alla volta dell Inghilterra entrando a far parte del gruppo dei Subaltern Studies. Molti di loro studiavano a Delhi, e nel corso degli anni Settanta furono profondamente influenzati dalle idee maoiste. Guha ci diceva spesso di aver abbandonato il progetto di scrivere un libro su Gandhi perché a suo giudizio, prima ancora di cercare di capire Gandhi, era più importante scrivere della violenza contadina e riuscire a comprenderne la natura. In seguito avrebbe sviluppato queste riflessioni nel suo saggio dedicato alla prosa della contro-insurrezione [Chatterjee si riferisce al saggio The Prose of Counter-Insurgency, in Guha, R., a cura, Subaltern Studies II, Delhi, Oxford University Press, 1983, pp. 1-42].

2 Quanto a noi, tutti appartenenti alla generazione degli storici nati dopo l Indipendenza, diventammo suoi discepoli. All inizio non si era affatto pensato di realizzare un intera collana di libri dedicata ai Subaltern Studies: credevamo che si sarebbe trattato di un unico volume. Ma quel testo diede vita a tali dibattiti, controversie e discussioni che presto avvertimmo il bisogno di continuare a scrivere, e questo diede origine alla collana. J.-L.A.: Vorrei tornare alla mia domanda iniziale. Non ritiene vi sia una contraddizione fra il punto di vista indiano da voi sviluppato e l esistenza di una diaspora di ricercatori indiani all estero? P.C.: La vera e propria diaspora dei ricercatori indiani è un fenomeno prodottosi molto tempo dopo. All inizio ci fu il caso dei due David David Arnold e David Hardiman, entrambi strettamente legati a Guha. Arnold è sempre rimasto in Inghilterra mentre Hardiman, che pure è di nazionalità britannica, ha fatto ritorno in India negli anni Ottanta trascorrendo sei anni in Gujarat, presso il Surat Institute. In seguito, però, il governo indiano rifiutò di rinnovargli il visto, e fu costretto e rientrare in Inghilterra; in realtà il governo non ha mai favorito il soggiorno prolungato di ricercatori stranieri nel paese. Quanti svolsero il dottorato in Inghilterra, tuttavia, fecero ritorno in India, e per tutto il periodo in cui i Subaltern Studies furono pubblicati con regolarità tutti noi lavoravamo in India. I primi espatri di membri del gruppo alla volta degli Stati Uniti, come quelli di Pandey e di Chakrabarty, risalgono agli anni Ottanta. Prakash non era un membro originario dei Subaltern Studies, ed entrò a far parte del gruppo soltanto in seguito. Alla fine il gruppo iniziale, nella forma in cui si era costituito verso la fine degli anni Novanta, scomparve perché i suoi membri iniziarono a interessarsi di altre tematiche. La questione davvero interessante consiste nel chiedersi se oggi esista di fatto un nuovo gruppo, in grado di recuperare quel progetto e portarlo avanti. Ormai il volume XII della collana è già uscito da tempo, e cresce il numero di contributi prodotti da giovani ricercatori che hanno conosciuto i Subaltern Studies quando erano ancora studenti. Riceviamo molti saggi che non abbiamo commissionato né richiesto e questo a mio giudizio è prova di un perdurante successo del nostro progetto. Credo insomma che il gruppo dei Subaltern Studies in un certo senso si stia riproducendo, ma fra le nuove generazioni: molti giovani ricercatori hanno fatto uso delle problematiche portate avanti dal gruppo nelle loro ricerche, laddove la squadra originaria ha forse perduto il dinamismo delle origini. J.-L.A.: La mia penultima domanda verte su alcune sue affermazioni nell intervista al «SEPHIS e- magazine» che ho già citato, relative al capitalismo e alle versioni differenti di quest ultimo in Occidente, in India e in Cina. In particolare lei sostiene: vi sono somiglianze abbastanza pronunciate da indurci ad ammettere che in tutti e tre i casi siamo in presenza di capitalismo. Eppure, sebbene anche per l India e la Cina si tratti di capitalismo, esso ha un altra natura. La sua ipotesi, insomma, è che le caratteristiche del capitalismo in India e Cina siano diverse da quelle del capitalismo occidentale. A suo avviso queste differenze sono dovute a caratteristiche empiriche o a tratti culturali? In altri termini se la sentirebbe di utilizzare la nozione di capitalismo culturale per dar conto di tale diversità? P.C.: No, non parlerei di capitalismo culturale. Se in India e in Cina il capitalismo cresce a un ritmo così elevato in questo periodo storico è solo perché non è mai possibile che una stessa partitura sia suonata in modo identico. Perciò non possiamo sostenere che la rivoluzione industriale avvenuta in Europa nel XIX secolo si sia semplicemente riprodotta telle quelle in India e in Cina: quando eravamo giovani, ci veniva detto che le condizioni dello sviluppo del capitalismo in India erano incomplete o inadeguate, e sarebbe stato necessario attraversare una rivoluzione industriale di tipo inglese o francese. Tutta l analisi della società indiana era concepita a partire da questa assenza. Ma oggi è ormai chiaro che è possibile avere un capitalismo dinamico privo di qualunque

3 somiglianza con la rivoluzione industriale europea posto che i bisogni in termini di tecnologie e risorse umane sono completamente diversi. Perciò ritengo sia possibile una crescita capitalista rapida senza migrazioni di massa in direzione delle città, al contrario di ciò che è avvenuto in Europa; inoltre deve anche essere possibile riuscire a mantenere in vita una coesistenza tra forme di produzione domestica e modi di circolazione del valore e della moneta tipicamente capitalisti: è il caso, ad esempio, dei vestiti fabbricati presso case rurali del Bangladesh ma rivenduti nei lussuosi negozi di Parigi o New York. Fenomeni come questo, naturalmente, hanno una serie di ripercussioni sulla struttura sociale, le strutture familiari, la divisione e specializzazione professionale e naturalmente sulla cultura. Tuttavia le differenti forme di capitalismo non sono legate all esistenza di forme differenti di cultura. J.-L.A.: Un ultima domanda, relativa all avvenire dei Subaltern Studies. In che modo i Subaltern Studies possono adattarsi allo sviluppo del capitalismo in India e alla crescita della classe media, cui si accompagna un aumento progressivo del fossato che separa le classi medie dai poveri? In tale contesto la nozione di subalterni si rivela ancora adatta a descrivere questi ultimi? La problematica del pensiero della subalternità, insomma, nella misura in cui è legata al marxismo (sia pure nella sua variante gramsciana) rivela essa stessa una natura teleologica. Poiché tuttavia il modello marxista ha fallito ci si può legittimamente chiedere i subalterni siano ancora una classe potenzialmente rivoluzionaria, o non si tratti piuttosto di un aggregato di individui dal quale alcuni riescono a emergere mentre altri sono condannati a restare dei miserabili P.C.: Si tratta di una domanda legittima: Gramsci, infatti, riteneva che la classe subalterna fosse davvero rivoluzionaria ed è logico chiedersi se oggi questo sia sempre vero. Tuttavia lo stesso Gramsci aveva colto la natura contraddittoria del mondo contadino: sosteneva infatti che i contadini potevano bensì essere dei rivoluzionari, ma a differenza di molti altri marxisti era perfettamente conscio della natura limitata del loro potenziale rivoluzionario. La cultura e la religiosità caratteristiche dei contadini, a suo avviso, facevano sì che questi fossero di fatto sempre dominati da altri gruppi. Si tratta di un osservazione che continua a essere vera, e proprio per questo l opera di Gramsci appare ancora ricca di insegnamenti allorché si tratti di analizzare ciò che sta accadendo nell India rurale. Da un altro punto di vista, però ed è indubbiamente giusto da parte sua metterlo in evidenza la vecchia analisi marxista del capitale è ormai diventata obsoleta dinanzi al progressivo affermarsi di una forma di capitalismo estremamente flessibile. Un simile processo conduce alla scomparsa delle antiche forme di produzione industriale tipiche del capitalismo su grande scala, cui viene ad aggiungersi un incredibile flessibilità ed efficacia delle forme di governo. Proprio in tale contesto, a mio parere, è opportuno citare l influsso determinante che le idee di Foucault hanno avuto sui Subaltern Studies in particolare per ciò che attiene all analisi foucaultiana della governamentalità. Anche se Foucault non si è mai interessato alle società del Sud del mondo, è proprio in questa regione del pianeta che ritroviamo le applicazioni più degne di nota delle sue osservazioni circa le forme di governamentalità del potere. In India, ad esempio, sebbene gran parte della popolazione rurale pratichi ancora forme tradizionali di piccola produzione contadina quest ultima si rivela comunque legata a filo doppio al mercato, al governo, allo Stato e al voto. Il mio interesse verte in particolare sul modo in cui il mondo contadino entra in rapporto con lo Stato; da questo punto di vista, quel che si scriveva nel corso degli anni Settanta ed Ottanta circa la coscienza contadina e la sua estraneità rispetto allo Stato non ha più ragion d essere. Oggi ampi strati del mondo contadino esercitano un controllo diretto sullo Stato, anche se non siamo in presenza di forme politiche occidentali posto che vengono inventate localmente ma neppure di forme tradizionali. Il pensiero della subalternità deve dunque saper aprirsi a nuove prospettive di ricerca, posto che emergono nuove divisioni e nuove gerarchie. L aspetto essenziale, in un simile contesto, è il

4 problema della cittadinanza: in un certo senso tutti sono cittadini, ma in realtà non tutti sono trattati come tali è ciò che avviene, in particolare, nel caso dei dalits (gli intoccabili). Anche le agenzie governative distinguono fra i veri cittadini e tutti gli altri, che non sono elettori. Attualmente un gran numero di abitanti delle città del Sud dell India vive in realtà una condizione di marginalità urbana: si tratta per lo più di occupanti illegali, ad esempio persone che utilizzano i trasporti pubblici e l elettricità senza pagarli. Il governo, a dire il vero, non li esclude del tutto, tenta di negoziare con loro; ma in ogni caso li tratta in modo diverso creando così il presupposto per l instaurarsi di una nuova distinzione fra l élite e i subalterni.

5 Intervista a Lakhsmi Subramanian Lakhsmi Subramanian, nata nel 1955, è ricercatrice in storia presso il CSSSC. Nel dicembre 2006, quando l ho intervistata, era anche corrispondente del programma SEPHIS per l India nell ambito del Centro di Kolkata. Dedita inizialmente a studi classici di storia economica, Lakhsmi ormai ha orientato le proprie ricerche sulla storia della musica indiana. J.-L.A.: Quale potrebbe essere un possibile bilancio dei Subaltern Studies oggi, nel 2006? Lakhsmi Subramanian: Quando eravamo ancora studenti, ci veniva proposto uno schema d analisi molto convenzionale come quello del nazionalismo indiano, insistendo molto sull idea di una identità nazionale centralizzata e unitaria. Siamo cresciuti all interno di un preciso modello politico lo Stato-nazione, e la narrazione del nazionalismo ha fortemente influenzato il nostro modo di concepire la storia dell India, soprattutto in età moderna. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, tuttavia, ci si è resi conto che tale storia poteva essere considerata in un ottica diversa: era ormai possibile vederla come una storia più frammentata e complessa. Da quel momento in poi ci si sbarazzò dell idea che si trattasse di un racconto semplice, in grado di armonizzare i diversi interessi in conflitto; l impulso più netto e decisivo in tale direzione, comunque, fu proprio quello che giunse dai Subaltern Studies e questo è il primo, fondamentale aspetto in un ipotetico bilancio del movimento. Il secondo aspetto, invece, va ricondotto al fatto che nell analisi storica è in genere molto difficile scoprire la voce di gruppi diversi e molteplici visto che in realtà molti testi appaiono esclusiva espressione dei gruppi dominanti. Si era perciò fatta strada l idea che si potessero leggere le fonti in modo diverso non soltanto ripercorrendole a ritroso, cioè e che gli archivi non potessero restituire la voce dei ribelli e dei subalterni. Per poter avere accesso alla vera voce dei subalterni, insomma, bisognava occuparsi della prosa della controinsurrezione ovvero del linguaggio di chi si opponeva alla repressione; da questo punto di vista il progetto era al tempo stesso accattivante e liberatorio, tanto più che venne formulato proprio in un periodo durante il quale in molti manifestarono profonda disillusione nei confronti dello Statonazione. Molti progetti unitari erano falliti, erano sorti numerosi movimenti secessionisti nel sud dell India come pure in altre regioni; la supremazia della narrazione nazionalista ormai veniva apertamente rimessa in discussione. C è un altra cosa importante che vorrei aggiungere, però: per la prima volta ci si trovava dinanzi a degli storici che scrivevano davvero molto, molto bene. Il successo dei Subaltern Studies era legato anche alla qualità della prosa e allo stile dei testi; ritengo assai probabile, del resto, che quando ci si cominciò ad abituare a tale stile l incantesimo iniziale in un certo senso si ruppe. Me ne sono resa conto quando, molti anni dopo, ho cominciato a leggere testi di antropologia: è stato allora che ho capito sino a che punto lo stile potesse influire sul successo di una scuola di pensiero o di una disciplina. Bisogna essere consapevoli, insomma, che è possibile essere in un certo senso tratti in inganno da una prosa attraente e dal modo in cui la lingua viene usata per raccontare la storia. La maggior parte degli studiosi che hanno fatto parte del gruppo dei Subaltern Studies hanno uno stile eccellente stile che tuttavia si è in parte guastato allorché quegli stessi ricercatori hanno cominciato a volgere la loro attenzione alla critica letteraria e all analisi del testo. Proprio per questo io, che ho ricevuto una formazione da storica empirica, me ne sono allontanata: la sola idea di poter utilizzare il linguaggio del postcolonialismo, della decostruzione e del postmodernismo mi ha indotto a prendere le distanze. Usare forme espressive de-centrate e disseminate, a mio avviso, significava perdere una volta per tutte l unità disciplinare cui ero da tempo abituata. Perciò se i primi cinque volumi della collana mi erano molto piaciuti i successivi non sono riusciti ad affascinarmi più di tanto. A dire la verità devo mitigare questo giudizio un po troppo severo: molto tempo dopo, infatti, quando ho iniziato a interessarmi alla storia della musica mentre le mie prime ricerche, molto tradizionali, erano di storia economica e quando ho cominciato ad affrontare l ambito della storia culturale devo ammettere di aver tratto immensi benefici dall apporto sia dei

6 Cultural Studies che degli studi relativi alle rappresentazioni. Ciononostante, continuo a valutare questo genere di approcci con estrema prudenza. J.-L.A.: Dunque a suo giudizio il postmodernismo, la decostruzione e l analisi testuale hanno influenzato i ricercatori indiani L.S.: Sì, e a due livelli. A un primo livello c è stato un fortissimo influsso sui ricercatori indiani recatisi negli Stati Uniti, i quali fra l altro hanno creato stretti rapporti fra le università americane e le università indiane. Espressosi sotto forma di tendenza o di sviluppo secondario, tale influsso ha riguardato soprattutto l analisi e la teoria letteraria. A un diverso livello, però, molti giovani ricercatori sono stati davvero colpiti da queste teorie e hanno cominciato a utilizzare il gergo postmoderno e postcoloniale come un semplice linguaggio, senza riuscire a comprendere davvero la complessità filosofica di questo apparato teorico. Costoro vogliono solo decostruire, ma non capiscono che cosa realmente significhi. J.-L.A.: Lasciando per un istante da parte i ricercatori membri a pieno titolo del gruppo dei Subaltern Studies, cosa ne pensa ad esempio di personalità come Homi Bhabha e Arjun Appadurai? L.S.: Quasi tutti questi autori sono di difficile lettura. Personalmente fatico tantissimo a comprendere Homi Bhabha; quanto ad Appadurai, è interessante soprattutto per le sue idee sulla modernità : si tratta senza dubbio di un periodo importante nello sviluppo della società indiana, e il merido di Appadurai sta nell essersi sforzato di capire cosa potesse voler dire davvero sentirsi moderni. D altro canto, però, ritengo che il suo approccio al tema della modernità e della postmodernità sia alquanto ripetitivo, se non addirittura assurdo: certo, la sua idea che non si debba confondere l americanizzazione con l omogeneizzazione si rivela logica e plausibile, come pure degna di nota è quella che invita a tenere conto degli adattamenti locali della modernizzazione eppure si tratta di idee senza dubbio sovrastimate. All approccio di Appadurai manca un vero radicamento storico, temporale. J.-L.A.: Questo è vero, anche se Bhabha e Appadurai non sono degli storici L.S.: Ma nelle loro ricerche adottano un punto di vista decentrato che io non condivido. J.-L.A.: Da un altro punto di vista credo che neppure Ranajit Guha o Dipesh Chakrabarty possano essere descritti come veri e propri storici; si tratta piuttosto di filosofi. L.S.: Sì, non c è dubbio. Tuttavia la posizione assunta dai ricercatori membri del gruppo dei Subaltern Studies su temi quali l internazionalismo e la politica indiana durante il periodo coloniale e nazionalista viene considerata un contributo storiografico di primo piano alla storia indiana e ai programmi universitari che affrontano quest ambito di studi: insomma, tutti studiano i volumi della collana Subaltern Studies e prima della svolta letteraria che ha ormai assunto un importanza notevole il gruppo ha esercitato un enorme influsso. J.-L.A.: In che periodo la cosiddetta svolta letteraria ha iniziato a influenzare le ricerche del gruppo? L.S.: Non saprei indicare una data precisa. Se Can the subaltern speak? di Gayatry Spivak è stato a mio avviso un testo davvero fondamentale, in seguito si è sviluppato un approccio testuale o interstestuale che ha fatto perdere ai Subaltern Studies gran parte della forza critica e del tono tagliente. Direi comunque che questo processo è iniziato dopo l uscita del sesto volume della collana.

7 Intervista a Manas Ray Manas Ray è ricercatore in studi culturali presso il CSSSC. Il suo ambito privilegiato di ricerca è la sociologia dei media, ma si dedica anche allo studio dei rifugiati. J.-L.A.: In che modo ha partecipato alla vita di questo Centro di ricerca? Manas Ray: Sono entrato al Centre for Studies in Social Sciences nel 1993, come ricercatore. Mi occupavo di una tematica definita fondamenti sociali della cultura un compromesso fra Cultural Studies propriamente detti e una specie di critica marxista a quegli stessi studi culturali. Nel corso degli anni Settanta e all inizio degli anni Ottanta, presso il Centro si è formato il gruppo dei Subaltern Studies e ciò lo ha reso celebre; al suo interno, tuttavia, erano presenti anche personalità che oggi potremmo definire veterani del marxismo, in particolare studiosi di storia economica, tutti molto onorati e rispettati. Io non provavo alcuna ostilità nei loro confronti, anche se bisogna ammettere che fra le due generazioni quella dei marxisti e quella dei membri dei Subaltern Studies, quest ultima rappresentata in particolare da personalità come Partha Chatterjee e Dipesh Chakrabarty e assai sensibile all influsso delle idee di Foucault esisteva un vero e proprio baratro. Il solo comun denominatore fra le due generazioni era Gramsci, la cui opera aveva fin dall inizio suscitato l interesse di alcuni veterani del marxismo tra cui Asok Sen. Quando sono giunto al Centro, dunque, i Subaltern Studies erano già alla moda e Partha Chatterjee era diventato una celebrità a livello internazionale. Dipesh Chakrabarty, che aveva anche lui fatto parte del Centro, lo lasciò poco dopo il mio arrivo; attualmente insegna a Chicago, ma è comunque rimasto legato al Centro presso il quale fa spesso ritorno nelle vesti di professore invitato. Sono stato assunto per svolgere il mio lavoro di ricerca nell ambito della sociologia dei media (in particolare la televisione). Mi sono quindi recato in Australia per svolgervi la mia ricerca di dottorato, e vi ho fatto ritorno di nuovo nel 1996 per realizzare una ricerca sul terreno dedicata agli indiani delle isole Fiji rifugiatisi in Australia dopo il colpo di Stato del Il mio intento era riuscire a portare alla luce la loro soggettività culturale, incentrando l analisi sul personaggio mitico di Rāmāyana; più in particolare, cercavo di valutare quale fosse l impatto che questa figura mitica aveva avuto sugli indigeni delle Fiji nel periodo dei contratti [indentures, i contratti di lavoro che vincolavano i lavoratori indiani condotti dai colonizzatori britannici nelle Fiji tra il 1879 ed il 1916 per lavorare presso le piantagioni di canna da zucchero] ma anche, molti anni dopo, su Bollywood. Mi chiedevo infatti in che modo gli indiani di casta superiore residenti in Australia potessero percepire la situazione di quegli ex lavoratori non qualificati e cercavo di analizzare la particolare posizione degli indiani provenienti dalle Fiji, stretti fra gli australiani bianchi e gli indiani di casta superiore tutt altro che privi idi pregiudizi nei loro riguardi. In questo contesto Bollywood giocava il ruolo di un entità disincarnata e deterritorializzata che non riconduceva affatto all India: si trattava, al contrario, di un immagine globale. In seguito mi sono interessato ai rifugiati del Bangladesh residenti a Kolkata. Era un tema di ricerca che mi riguardava direttamente, dato che i miei genitori sono rifugiati provenienti dal Bangladesh e anch io sono cresciuto in un campo di rifugiati nei pressi di Kolkata. Ho scritto così un autobiografia che tenta di coniugare l approccio tipico delle scienze sociali a una prospettiva letteraria. Spero che in seguito riuscirò a scrivere un vero e proprio romanzo autobiografico, ma anche a riperdere le mie ricerche sulla diaspora indiana. In questo periodo, tuttavia, le mie indagini si concentrano su quella che io stesso chiamo la laicità o secolarizzazione (secularism) postcoloniale e i suoi fondamenti. Facendo ritorno al pensiero di Kant mi chiedo cioè se la laicità così come è stata formulata da questo filosofo non dovesse essere una prospettiva del tutto non confessionale; era necessario che si sbarazzasse del riformismo protestante del quale era impregnata, così da poterla ricollocare una volta per tutte nel quadro della governamentalità di Foucault. Nel contesto del dopo 11 settembre, è opportuno chiedersi quali siano i nuovi modi di governamentalità biopolitica destinati a esercitare i loro effetti tanto in India quanto sulle

8 comunità sorte all estero in seguito alla diaspora. Da questo punto di vista l Australia rappresenta un interessante esempio, perché in questo paese esiste un vero e proprio baratro tra la condizione dei bianchi i quali beneficiano appieno dei vantaggi offerti dallo Stato-previdenziale e quella dei boat people: uando questi ultimi tentano di penetrare nelle acque territoriali le loro barche vengono affondate dalla marina australiana. Una situazione come questa è indice del fatto che esiste una nuova definizione di cittadino e di straniero; il mio intento è confrontare tale definizione di straniero con il caso dei contadini scacciati dalle loro terre perché possa esservi costruita una fabbrica di automobili della multinazionale Tata e questo avviene in India, nel Bengala, a solo un centinaio di chilometri da Kolkata. La democrazia postcoloniale è tutto questo una situazione, del resto, paragonabile al modo in cui sono trattati i migranti nel primo mondo. Uno dei punti forti del Centre for Studies in Social Sciences è poi lo studio pionieristico, avviato una ventina di anni or sono, del problema dei rapporti tra donne e uomini. Tale studio ha messo in luce come solo nel XIX secolo il problema della donna abbia assunto un ruolo di primo piano: in precedenza, infatti, si dava per scontato che le donne dovessero essere relegate esclusivamente alla sfera domestica. Poi andò sviluppandosi il movimento che si opponeva all immolazione delle vedove, cui seguì quello a favore della possibilità che si risposassero; oggi ormai il secondo matrimonio è legale, sebbene sia poco praticato. Questo movimento, comunque, se è riuscito a dar prova della superiorità etica degli indiani rispetto ai colonizzatori britannici (vista l impossibilità di dimostrare una superiorità tecnica o amministrativa), ha fallito in relazione a un punto: non ha saputo risolvere il problema dei rapporti fra musulmani e indù. I bengalesi indù (in particolare appartenenti alle caste superiori) hanno trattato i musulmani del Bengala in un modo che può essere considerato l equivalente coloniale e postcoloniale dell apartheid. Come è noto, il problema, che rimase irrisolto, condusse alla Partition [separazione] del 1947; le cause, tuttavia, continuano a essere presenti ancora oggi. Tanto la politica delle caste quanto la politica locale condotte in Bengala, naturalmente, sono incomparabilmente meno dure di quelle portate avanti nel resto dell India in particolare nel sud del paese. Ma facciamo un esempio, citando proprio il caso del Centre for Studies in Social Sciences: tutti i bengalesi che vi lavorano appartengono a una delle tre caste superiori; inoltre, stando a ciò che ha affermato il nostro Primo ministro, anche se i musulmani rappresentano il 23% della popolazione totale del Bengala occupano soltanto il 3% dei posti nell ambito del settore pubblico e dell università. Scegliere di non risolvere tale problema è parte integrante della variante bengalese della laicità e porre questioni simili viene considerato del tutto fuori luogo. Quanto ai marxisti, la loro spiegazione è formulata sulla base dell appartenenza di classe: a loro avviso, infatti, i musulmani sono discriminati perché si tratta di contadini, e fanno dunque parte delle classi inferiori o subalterne. La problematica delle comunità locali, insomma, non è mai stata oggetto di una politica adeguata; per questa ragione si è trasformata in un elemento essenziale nella vita del Bengala dopo la Partition. Nascondendola, tuttavia, si è dato modo all intellighenzia bengalese di manifestare appieno il proprio dinamismo: è dunque possibile analizzare la diffusione a macchia d olio della letteratura e della cultura bengalesi nel corso degli anni Sessanta e Settanta del secolo passato come un modo per eludere tale scottante questione.

9 Intervista a Sibaji Bandoyapadhyay Sibaji Bandoyapadhyay è ricercatore in studi culturali presso il CSSSC. Si è specializzato nel campo della letteratura per l infanzia, dei gender studies e della sessualità occupandosi anche del tema della traduzione e ricezione dei testi. J.-L.A.: Cosa può dirmi riguardo ai Subaltern Studies e al postcolonialismo? Sibaji Bandoyapadhyay: I Subaltern Studies hanno avuto origine proprio qui, a Kolkata, configurandosi presto come vero e proprio movimento. Tutti abbiamo scelto di aderire a questa nuova forma di narrazione storica dopo aver saggiato le difficoltà insite tanto nella narrazione storiografica nazionalista quanto in quella marxista ortodossa. Sarebbe sbagliato, tuttavia, ricondurre i Subaltern Studies all opera di una singola persona o considerarli una corrente unitaria: al loro interno coesistono numerose tendenze e molti pensatori che hanno portato avanti il movimento. L aspetto davvero utile, per noi, è stato la possibilità di cominciare a utilizzare la categoria di egemonia in luogo di quella di dominio : in questo modo siamo riusciti a conferire finalmente la priorità alla nozione di cultura una scelta che in precedenza veniva almeno in parte rifiutata. J.-L.A.: Il rifiuto proveniva dai marxisti ortodossi? S.B.: Non è facile rispondere a questa domanda. L ambito all interno del quale si è sviluppata la classe media bengalese durante il periodo coloniale e postcoloniale era costituito unicamente dalla cultura. Vi sono senza dubbio state ricerche che si sono occupate dell orgoglio provato dai bengalesi per la loro letteratura e la loro musica; al tempo stesso, tuttavia, questa cultura bengalese non ha goduto di un elaborazione teorica adeguata. Grazie ai Subaltern Studies è stato possibile attribuire alla cultura un ruolo decisivo, e da questo punto di vista è forse necessario distinguere in primo luogo quanti assegnano alla cultura un autonomia totale dalla società. Si tratta infatti di un orientamento destinato a confluire nei Cultural Studies nei confronti dei quali, tuttavia, nutro un certo scetticismo: stando a questa posizione, infatti, sembra che tutto (compresa l economia) possa essere letto e interpretato in termini culturali. Altri ricercatori, al contrario, pur riflettendo in un ottica culturale, non considerano la cultura parte integrante di un rapporto mutuamente esclusivo fra base (o struttura) e sovrastruttura; quest ultima, peraltro, è un opposizione che sappiamo ormai non essere veramente marxiana ma riconducibile piuttosto al marxismo ortodosso più meccanicista: ci è stata infatti trasmessa dal marxismo sovietico, e i Subaltern Studies hanno contribuito a eliminarla una volta per tutte. Dobbiamo proprio ai Subaltern, in effetti, la diffusione della flessibile nozione di egemonia che abbraccia una molteplicità di ambiti: culturale, politico, economico Naturalmente questo non significa che i Subaltern Studies vadano accettati in blocco. Per quanto riguarda il postcolonialismo, a mio avviso c è un problema riconducibile proprio al prefisso post- con il quale viene comunemente etichettato: credo infatti che il colonialismo non sia scomparso davvero, e dal mio punto di vista sarebbe meglio fare ritorno alla vecchia formulazione degli anni Sessanta e Settanta continuando a parlare di neocolonialismo. Ritengo del resto che la scomparsa di quest ultimo termine, il cui posto è stato ormai preso da postcolonialismo, trovi un eco significativa nella scomparsa del termine internazionalismo che è stato sostituito da globalizzazione. J.-L.A.: La nozione di internazionalismo, tuttavia, è espressione del punto di vista dei subalterni laddove quella di globalizzazione sembra piuttosto rappresentare l ottica dell élite

10 S.B.: Da un certo punto di vista, in effetti, la nozione di postcolonialismo ratifica la globalizzazione anche se riguardo a quest ultima i Cultural Studies hanno assunto un atteggiamento senza dubbio critico. J.-L.A.: E cosa si può dire in merito all islam? S.B.: Non esiste una risposta unitaria a questa domanda, perché quella dell islam è una realtà estremamente complessa e per di più descritta spesso nell ambito di una realtà del tutto particolare: lo si è visto attraverso l eredità orientalista, e questo atteggiamento trova riscontro nell ordine mondiale unipolare contemporaneo. Ma in realtà l islam stesso è diviso, frammentato al proprio interno. J.-L.A.: Nel suo lavoro di ricerca utilizza mai i Subaltern Studies? S.B.: Non ho alcun problema nell accogliere il psotstrutturalismo in quanto tale, ma non mi trovo affatto a mio agio con il postmodernismo e il postcolonialismo. Senza dubbio esiste un rapporto organico fra la modernità europea e il colonialismo, del quale tuttavia il postmodernismo non è in grado di dar conto laddove il poststrutturalismo e il marxismo ci stimolano costantemente a ricordarci di tale rapporto. Il poststrutturalismo mi sembra una sorta di strategia di lettura che va contro il metodo, e dunque rimette in discussione le opposizioni di tipo binario ma anche l ipotetica coerenza del sistema. Il marxismo, peraltro, ci sensibilizza anche nei confronti della categoria stessa di contraddizione: il meccanismo preferito da tutte le politiche, infatti, è proprio l oblio della contraddizione. J.-L.A.: Su cosa sta lavorando per la precisione in questo periodo? S.B.: Sul commento del Bhagavad-gītā, vale a dire su una parte del Mahābhārata. Il mio intento è cercare di capire in che modo questo testo è giunto a occupare una particolare centralità nella modernità indiana e come, in definitiva, sia stato costruito a partire dalla nostra modernità; inoltre mi interessa scoprire in che modo nell ambito di specifici processi alcune delle sue categorie chiave abbiano subito delle trasformazioni, e quali siano le implicazioni di tali trasformazioni. J.-L.A.: Qual è la natura del testo che sta studiando? S.B.: Il Bhagavad-gītā è considerato la Bibbia degli indù, sebbene lo stesso induismo sia in definitiva un invenzione nostra e degli europei una sorta di coproduzione fra gli europei, i musulmani e noi stessi. Se decidiamo di chiamare un particolare insieme di fenomeni religione, ebbene a quel punto avremo bisogno di un libro: andremo dunque in cerca di questo libro. Ecco in che modo il Bhagavad-gītā è diventato la Bibbia degli indù. La prima domanda, allora, è la seguente: quand è che un testo diventa una Bibbia, sospingendo tutti gli altri sullo sfondo? E cosa ne facciamo di questo piccolo libro, che genere di lettura o ermeneutica mettiamo in gioco per riuscire a produrre un particolare tipo di conoscenze tale da entrare in risonanza con istanze moderne del lavoro missionario? Cosa succede ai termini tecnici fondamentali, che vengono sistematicamente trasformati? Le domande che mi pongo, insomma, sono di questo genere. J.-L.A.: Mi pare che lei cerchi di capire in che modo l induismo sia stato inventato come religione, e a seguito di quale processo il Bhagavad-gītā è diventato il libro di questa religione S.B.: L induismo può rivendicare per sé una modernità radicale, dal momento che è al tempo stesso antico e moderno. In quanto religione è un invenzione moderna, e per ratificarla si rende necessario

11 il ricorso al piccolo libro del Bhagavad-gītā. Perciò siamo proprio noi a far dire al testo, in un certo senso, quel che noi stessi vogliamo ci venga detto J.-L.A.: In modo simile a ciò che è avvenuto per la Bibbia? S.B.: Seguendo il modello valido per la Bibbia e per il Corano, certo, ma anche per i Veda. In definitiva il problema è semplicemente lo statuto che assegniamo a determinati fenomeni: dato che esistono delle entità chiamate cristianesimo e islam ciascuna delle quali possiede un libro, posso decidere che debba esistere un altra entità chiamata induismo per la quale è necessario disporre egualmente di un libro. La lettura alla quale sottopongo questo libro, tuttavia, non è ispirata alla Bibbia o al Corano perché si tratta di una simulazione della differenza o forse di una differenza nella simulazione. Nel momento stesso in cui ho deciso di far ricorso al testo e lavorare con il testo, processo che ha esso stesso una lunga storia alle spalle è necessario che io abbia già attribuito a quel testo una natura trascendente. Nel caso del Bhagavad-gītā, tuttavia, il processo è moderno poiché risale soltanto alla fine del XIX e agli inizi del XX secolo. Naturalmente vi sono molti studiosi che hanno condotto ricerche sul Bhagavad-gītā prima dell era moderna: esistono perciò numerosi commenti a questi testi, ma quando i commentatori moderni se ne sono impadroniti hanno preferito coniare nuovi significati a partire da quei commenti più antichi invece di occuparsi dei testi in se stessi.

12 Intervista a Shahid Amin Shahid Amin è professore di storia presso l Università di Delhi ed è uno dei più importanti membri del gruppo dei Subaltern Studies. Ha iniziato la sua carriera occupandosi di storia economica, per approdare in seguito a studi sulla memoria e sul ricordo del passato come fonte alternativa della storia. Amin è noto per i suoi studi sulle rappresentazioni di importanti personaggi come Gandhi o Salar Masud Gazi, un santo guerriero musulmano del XIV secolo. L intervista seguente affronta il tema dei rapporti fra la cultura musulmana e la cultura induista, che occupa un ruolo importante nella sua opera. J.-L.A.: La mia domanda verte sui rapporti fra la cultura musulmana e la cultura indù da un lato, e dall altro i Subaltern Studies. In che modo i Subaltern Studies hanno affrontato la questione musulmana in India? Shahid Amin: La sua è davvero di un ottima domanda. Comincerò con il rispondere alla seconda parte dell interrogativo, per poi tornare a occuparmi delle nuove direzioni seguite dalla ricerca durante gli ultimi venti anni; si è trattato, infatti, di anni durante i quali la situazione politica è cambiata, e ciò ha dato origine a una risposta specifica da parte degli storici indiani. Lei mi ha chiesto se i Subaltern Studies abbiano affrontato in modo esplicito ed esaustivo la questione musulmana, e la mia risposta in questo caso è negativa. La ragione, credo, va attribuita al fatto che in un primo tempo ci interessavamo soprattutto ai contadini analizzando la coscienza e la religiosità contadine intese come altrettanti modi di intervento politico. Quasi tutto il materiale che abbiamo studiato riguardava perciò il costituirsi della religiosità nell ambito della società indù. Naturalmente se analizziamo, ad esempio, il volume di Ranajit Guha Elementary Aspects of Peasant Insurgency (1983) possiamo senza dubbio trovarvi qua e là alcuni sparsi accenni alla problematica religiosa musulmana; tuttavia i nostri sforzi erano di fatto concentrati sulla maggioranza del popolo dunque su contadini appartenenti all universo induista. Anche nel caso del mio saggio dedicato alla figura del mahatma Gandhi, del resto, la costruzione di Gandhi come personaggio divinizzato è sostanzialmente affrontata mettendola in stretta relazione con la cultura popolare induista [cfr. Amin, S., Gandhi as Mahatma: Gorakhpur District, Eastern Uttar Pradesh, , in Guha, R., a cura, Subaltern Studies III, Delhi, Oxford University Press, 1984, pp. 1-61]. D altra parte, però, Partha Chatterjee nei suoi scritti sui contadini bengalesi, pubblicati nel primo volume della collana, non ha potuto non tenere conto dell islam. Eppure anche in quel caso non si trattava di analizzare la religiosità musulmana in se stessa; quando lo studio della coscienza contadina ci condusse ad analizzare un ambito di relazioni sociali che comprendeva anche l islam, cominciammo a occuparcene. Circa vent anni fa la ricerca condotta da Gyanendra Pandey rappresentò un primo tentativo di connettere lo smantellamento economico delle comunità locali proprio al progressivo rafforzarsi e consolidarsi della coscienza locale manifestato dai membri di quelle comunità; in quell occasione, Pandey diede prova di un esplicita volontà di confrontarsi con il racconto nazionalista e dar conto, finalmente, dei rapporti fra le comunità indù e musulmana [cfr. Pandey, G., The Construction of Communalism in Nothern India, Delhi, Oxford University Press, 1990]. In modo analogo, le indagini condotte dallo stesso Pandey sull Uttar Pradesh rappresentano un saggio di decostruzione delle categorie stereotipe che vedono gli artigiani musulmani come dei bigotti: si trattava infatti dell uso di stereotipi coloniali, appositamente trasformati in strumenti di discriminazione economica. Era inoltre necessario cominciare a prendere seriamente in considerazione una tematica come quella della costruzione della comunità e dello spazio urbano. Anche se le ricerche di Pandey al riguardo risalgono agli inizi degli anni Novanta, egli subì l influsso di approcci risalenti alla fine degli anni Settanta che mettevano già in discussione il racconto nazionalista dominante. Fra l altro abbiamo dovuto confrontarci anche con l irresistibile ascesa della destra indù e in quell occasione abbiamo subito dure critiche in particolare da parte

13 dei marxisti per aver parlato di religiosità in un periodo nel quale si riteneva che degli storici laici non avrebbero dovuto farlo. Questo episodio è comunque una chiara dimostrazione di come avessimo tentato di creare un nuovo spazio concettuale per riuscire a comprendere la storia dei conflitti fra comunità. Per quanto mi riguarda, ho intrapreso un percorso alquanto diverso da quello di Gyanendra Pandey: poiché infatti sono specializzato in storia economica, in un primo tempo mi sono interessato ai rapporti fra il mondo contadino, la piccola produzione mercantile e il capitalismo. In seguito ho trascorso una ventina d anni studiando le rappresentazioni visive della violenza contadina e il rapporto problematico che quest ultima intrattiene con il nazionalismo. Il libro che contiene queste mie ricerche è stato pubblicato nel 1995 [cfr. Amin, S., Event, Memory, Metaphor, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1995]. A partire dagli anni Ottanta, ho cominciato a occuparmi delle nozioni stereotipe relative all identità, alla descrizione fisica e alle massime sui musulmani [cfr. Amin, S., Representing the Musalman: Then and Now, Now and Then, in Mayaram, Pandian, Skaria, a cura, Subaltern Studies XII. Muslims, Dalits and the Fabrications of History, Delhi, Permanent Black, 2005, pp. 1-35]. È dunque innegabile che ci sia stato, da parte nostra, un tentativo di confrontarci con il problema dei conflitti fra comunità formulato nell ottica di una storia dell immaginario e degli stereotipi. Nelle mie ricerche affronto l analisi dell India settentrionale, in particolare il Rajasthan, alla fine del XIX secolo un vero e proprio periodo cardine, durante il quale il vissuto e i ricordi dei musulmani e delle popolazioni locali sono stati fissati nella forma di un racconto condiviso. Sono inoltre impegnato in un altro progetto di lunga durata: tentare di scrivere una storia alternativa della conquista musulmana del nord dell India. L ipotesi su cui si fonda il mio lavoro è che mentre gli storici della conquista scrivono una storia del sincretismo, gli storici delle comunità locali scrivono una storia della conquista: in poche parole, gli storici medievisti dell India non desiderano in alcun modo affrontare il tema della natura della conquista e del suo linguaggio con tutta l attenzione che merita. Durante questi ultimi anni ho svolto ricerche su un santo guerriero turco molto noto, Salar Masud Gazi, che si ritiene sia nipote di Mahmud al-ghazni a sua volta un conquistatore turco che invase a più riprese il nord dell India nell XI secolo [cfr. Amin, S., Un saint guerrier. Sul la conquête de l Inde du Nord par les Turcs au XI e siècle, «Annales HSS», vol. 6, n. 2, 2005, pp ]. Il sultanato turco fu in realtà fondato due secoli più tardi, ma in tutti i testi è la figura di Mahmud al-ghazni a rappresentare la metafora della dominazione musulmana. Ho scoperto però che in realtà questo Mahmud al-ghazni non aveva nipoti: dunque quella di Salar Masud Gazi è una figura mitica non solo di guerriero ma anche di santo. Gazi è un eroe giovane e intrepido che viene letteralmente venerato ed è oggetto di un vero e proprio culto da cinque secoli a questa parte. Mi sono perciò servito di questa figura per analizzare il modo in cui la conquista è ricordata e rielaborata: un notevole lavoro di reinterpretazione, fondato su agiografie e testi in hindi, di una storia di longue durée che va dal XIV secolo sino a oggi.

14 Intervista a Shail Mayaram Shail Mayaram è ricercatrice presso il Centre for the Study of Developing Societies di Delhi. È cocuratrice assieme a Pandian e Svaria dell ultimo volume della collana dei Subaltern Studies (il XV, pubblicato nel 2005); nel suo studio dedicato ai meo del Rajasthan cerca di sviluppare una descrizione della subalternità nella longue durée storica. J.-L.A.: Mi è stato detto che lei critica e rifiuta l idea di un opposizione netta fra entità indù ed entità musulmana, ritenendola un prodotto coloniale. Shail Mayaram: Non è del tutto esatto. Mi limito soltanto a contestualizzare le varie narrazioni, ma non ritengo che l opposizione sia tout court una costruzione coloniale. J.-L.A.: Tuttavia la categoria di musulmano sembra proprio esito di una costruzione coloniale S.M.: Sì, naturalmente si tratta di uno stereotipo ma lo stesso vale per quello con cui sono stati etichettati gli indù. Denominazioni stereotipe come queste sono del resto legate a una concezione della religione importata dall Europa. In epoca precoloniale, tuttavia, esisteva già una consapevolezza delle differenze fra comunità. Facciamo l esempio dei musulmani meo, un etnia che ho studiato e che occupa una posizione inferiore rispetto ai più blasonati mogol e ai turchi. All interno del loro spazio abitato, sorta di luogo intermedio fra l induità e l islam, può esservi un elemento terzo che manifesta astio nei confronti dei turchi. J.-L.A.: Cosa può dirmi dell oblio dell islam da parte dei Subaltern Studies? S.M.: Posso dire che sì, un parziale oblio in effetti c è stato. Agli inizi si dava molta importanza ai contadini e ai gruppi tribali ma in seguito, anche grazie alle mie ricerche e a quelle di Shahid Amin, questa tendenza è stata corretta. Peraltro i primi esponenti del gruppo dei Subaltern Studies si interessarono al problema della differenza: è il caso di Gyanendra Pandey e della sua ricerca sulla coscienza locale. Questi studi, tuttavia, non riguardavano esattamente l identità musulmana ma affrontavano invece quel particolare genere di contrapposizione musulmani-indù che era venuta alla luce e andava spiegata al pari delle responsabilità che il nazionalismo e la costruzione dello Statonazione ebbero nella comparsa della questione musulmana in India. J.-L.A.: Credo che il titolo del suo libro sui meo, Against History, Against State, sia un po ambiguo. Se infatti i meo possono in un certo senso apparire un etnia contro la storia e contro lo Stato sono tuttavia immersi nella storia e nello Stato a tal punto da aver accolto e fatto propri alcuni elementi che caratterizzano gli Stati confinanti. S.M.: Sì, è certamente così. I meo tuttavia sono anche vittime di alcuni processi storici vittime dello Stato e dell ideologia di Stato, che alla fine diventa la loro stessa ideologia. La comunità meo, peraltro, si è riappropriata di nozioni che provengono da testi storici; perciò, anche se in un certo senso la lotta dei meo è davvero diretta contro lo Stato, esiste una sorta di complicità con l élite politica oltre che con le pratiche e l ideologia dello Stato, naturalmente. Quando poi li vediamo recuperare le categorie storiche e gli schemi di pensiero degli autori persiani, dobbiamo concludere necessariamente che i meo siano situati nella storia. J.-L.A.: Il suo libro è emblematico di una nuova forma di Subaltern Studies, dal momento che affronta il tema di una subalternità nella longue durée: non si parla più di una subalternità puramente coloniale o postcoloniale, perché quella dei meo è anche effetto di un dominio precoloniale. Questo dominio, naturalmente, trasforma i gruppi dominati o subalterni, che cambiano

15 anche attraverso i rapporti intrattenuti con gruppi confinanti: a loro non basta resistere, e assorbono elementi dell esterno. Per questa ragione vorrei chiederle se, in un certo senso, i meo rappresentino davvero a suo avviso una sorta di soggetto intatto, un essenza rimasta stabile nella durata. S.M.: In effetti ho esplicitamente scelto una prospettiva d analisi che privilegiasse la longue durée. Naturalmente l identità si sviluppa in rapporto con i gruppi esterni e abbiamo molti esempi che testimoniano di tali rapporti. Persino quando i meo sono in conflitto con le caste superiori l ideologia braminica continua a essere presente in particolare nel modo in cui concepiscono la gerarchia fra caste e in cui si situano al suo interno, rivendicando lo statuto di membri delle caste superiori. Naturalmente la loro cultura è definita in rapporto con quella dei gruppi confinanti, ed è comune a quella di altri gruppi di contadini; tuttavia, accanto a questi aspetti comuni, vi sono una serie di differenze in particolare rispetto ai jat che creano frontiere e territori distinti, quantunque si tratti in ogni caso di limiti fluidi. I meo inoltre si sposano con membri dei gruppi circostanti, e questo mi induce a concludere che cambino ininterrottamente. J.-L.A.: A dispetto di ciò lei presenta i meo come un popolo che ha resistito a vari conquistatori e gruppi dominanti S.M.: È ovvio che da un certo punto di vista i meo siano consapevoli della continuità della loro storia, anche se accettano le relazioni di dominio e l inquadramento nell ambito di un sistema. La struttura dei gruppi e dell economia, così, si adatta ai cambiamenti; il passaggio dal nomadismo a un modo di vita completamente sedentario rappresenta, ad esempio, una trasformazione di enorme importanza e lo stesso può dirsi dei cambiamenti tecnologici indotti dalla rivoluzione industriale. J.-L.A.: Mi sono chiesto se la sua descrizione dei meo non corrispondesse per alcuni aspetti al modello della società segmentaria così come è stato delineato da Evans-Pritchard e Fortes un modello anch esso coloniale, del resto. È possibile inoltre che il suo approccio non tenga conto in modo esaustivo delle gerarchie interne agli stessi meo quale gruppo subalterno? S.M.: Non c è dubbio che a mio avviso il modello segmentario sia per molti aspetti problematico; eppure si tratta di un modello utilizzato anche da un noto storico dell India, Burton Stein, ma in modo assai diverso. Di conseguenza è possibile trasporre un concetto sviluppato per un obiettivo preciso e in un determinato contesto culturale (nel caso specifico africano), adattandolo a un contesto culturale differente. Per quanto mi riguarda il concetto di Stato segmentario non può essere accettato in particolare l idea che possano esistere società senza Stato. Del resto la formazione politica meo non rimane affatto stabile nel corso del tempo: così essi intrecciano rapporti con i mogol ma anche con gli inglesi, e se alcuni clan possono addirittura identificarsi con i colonizzatori altri continuano a resistere rivendicando la loro indipendenza. Quanto alle gerarchie interne, senza dubbio esistono e non solo sulla base del genere sessuale ma anche nella forma della stratificazione di classe. J.-L.A.: Se ho ben compreso il suo punto di vista, la stabilità è limitata all identità meo. Si tratta di un etichetta che non cambia, ma possiamo essere certi che il suo significato non si modifichi nella longue durée? S.M.: Il termine utilizzato anticamente per denominare l etnia era Mewa o Mewati. Entrambi i nomi venivano usati dagli storici persiani. Tuttavia la resistenza dei meo, nel corso della storia, ha contribuito a definire un identità stabile. È questa resistenza che ha dato vita alla comunità e a una vera e propria cultura della resistenza, mentre la tradizione orale ha prodotto in certa misura un senso di identità. Tuttavia non bisogna mai dimenticare che la tradizione orale è costruita con un

16 esplicito orientamento eroico e laudatorio quel che i bardi recitano, insomma, è una sorta di panegirico.

17 La Bolivia e il Taller de Historia Oral Andina Le interviste seguenti sono state realizzate nel marzo 2007 a La Paz, con l attiva partecipazione di Franck Poupeau. Desidero esprimere un particolare ringraziamento a Poupeau, sociologo e ospite dell Istituto francese di studi andini (IFEA), che mi ha accompagnato per tutto il periodo del mio soggiorno in Bolivia. Intervista ad Álvaro García Linera, vicepresidente della Repubblica boliviana J.-L.A.: Lei sa che io difendo la tesi secondo cui in Africa le categorie etniche sarebbero state inventate nel periodo della colonizzazione, anche se in seguito gli attori sociali le avrebbero fatte loro. È possibile pensare che questa idea abbia una qualche applicazione anche nel caso della Bolivia? Álvaro García Linera: Sono pienamente d accordo con la sua tesi sulla natura coloniale delle categorie etniche. Come lei stesso ha avuto modo di constare in Africa, anche qui in Bolivia le denominazioni utilizzate dai colonizzatori per separare, classificare e identificare gli individui e i gruppi sono invenzioni etniche collettive. Per quanto concerne gli aymara, ad esempio, se facciamo riferimento alle ricerche sociostoriche possiamo affermare che non esisteva affatto un identità aymara o quechua. Questi termini designano semplicemente delle lingue e non fanno in nessun caso riferimento a delle identità; l aspetto paradossale della questione, peraltro, è che quella nata come una costruzione coloniale utilizzata per dominare i popoli si è trasformata ai nostri giorni in un emblema per le rivendicazioni di quegli stessi popoli. Ecco perché bisogna assumere un atteggiamento critico, e tenere pienamente conto del momento in cui nasce la costruzione classificatoria, senza tuttavia dimenticare mai che l aspetto importante in ambito politico è proprio la funzione che quelle classificazioni oggi possono svolgere. Anche se è probabile che l origine di tutte le identità etniche attuali sia coloniale, quel che oggi ha importanza per noi è riuscire a sapere in che modo tali designazioni coloniali possano giocare un ruolo politico catalizzando attorno a sé forze di cambiamento. Lo stesso avviene a livello simbolico. Nel paese, ad esempio, c è un acceso dibattito riguardo la whilpala: si tratta di sapere se la bandiera indigena sia di origine spagnola o nativa. Quel che oggi conta davvero, tuttavia, è riuscire a capire in che modo questa bandiera può riuscire a promuovere la mobilitazione delle persone. Credo pertanto che si debba distinguere la storia della designazione e costruzione identitaria dalla funzione politica contemporanea di questa identità inventata durante il regime coloniale. J.-L.A.: Tuttavia non è sufficiente limitarsi a dire che le categorie sono invenzioni coloniali; si tratta anche di una questione politica. Esiste infatti un efficace processo attraverso il quale si reificano, trasformandoli in altrettante essenze, gruppi che in realtà non hanno alcuna esistenza naturale e non sono effettivamente distinti fra loro. Questo processo rende le identità più rigide proprio perché reifica le popolazioni aymara o quechua da un lato e, dall altro, i meticci urbani (meztizos urbanos) e i bianchi-creoli (blancos criollos). Inoltre, il problema della natura coloniale delle categorie etniche non esaurisce la questione perché in Sudamerica, da una ventina d anni a questa parte, la tematica dei popoli originari è sostenuta finanziariamente dalle organizzazioni internazionali. Si tratta di una tematica perfettamente compatibile sia con il liberalismo che con la posizione assunta dalla Chiesa.

18 Á.G.L.: Mi sembra che questa tesi si riveli complementare a quella che ho appena formulato. Ciò di cui lei parla ha a che vedere con un modo particolare di utilizzare proprio la funzione politica delle categorie dal momento che oggi una funzione politica di queste ultime senza dubbio esiste. Si tratta allora di capire quale direzione imboccherà un simile movimento. C è un gruppo, in effetti, che si comporta esattamente nel modo da lei descritto: converte questa funzione politica di mobilitazione e rappresentazione in un meccanismo il cui obiettivo è il ritorno all arcaico ovvero una regressione arcaizzante della società nel suo complesso. Un altra lettura dell identico tipo di funzione politica consiste invece nel trasformarla in una leva che stimoli la crescita del capitale elettorale. In realtà vi sono molti altri modi di utilizzare il fatto politico legato alla denominazione identitaria; l aspetto davvero importante, allora, è saperlo riconoscere come fatto politico a prescindere dalla sua origine coloniale. Non c è dunque un solo uso possibile delle categorie, e se ne possono realizzare interpretazioni molteplici trasformandole in strumento di manipolazione, divisione, creazione di fazioni, promozione di una visione arcaizzante o di una strategia elettoralista Quel che cerchiamo di fare, a partire dall idea dell etnicità intesa quale modalità di mobilitazione politica, è anzitutto studiare come sia stato possibile che una costruzione coloniale si sia trasformata in un fattore di mobilitazione. Non si tratta infatti di pura e semplice manipolazione, ma in un certo senso siamo dinanzi a una particolare espressione di una realtà sociale. I miei testi e quelli di Luís Tapia un politologo boliviano che insegna presso l Università Mayor di San Andrés tentano di spiegare che oggi un simile dibattito sull etnicità, pur senza tener conto delle diverse tendenze in gioco, fa comunque riferimento a meccanismi di esclusione e dominio in grado di conferire una particolare struttura di classe alla Bolivia. Di tale struttura fa naturalmente parte l etnicità ma anche classificazioni, declassamenti e riclassificazioni di ogni genere, prodotti dai possibili riposizionamenti di gruppi di riferimento difformi uno dall altro. Qui da noi il colore della pelle e il nome hanno entrambi una funzione oggettiva nella formazione dei gruppi, e proprio per questa ragione l etnicità intesa quale meccanismo di mobilitazione politica esprime tale realtà deformandola. Noi membri del collettivo Comuna 1, comunque, facciamo in modo da non spingere all eccesso la tensione identitaria; in questo modo l identità può servire a decostruire in parte i meccanismi di dominio e di esclusione generati dalla lingua, dal colore della pelle e dal nome per poi essere utilizzati al fine di monopolizzare le risorse. J.-L.A.: Leggendo la stampa di questo paese e ascoltando ciò che la gente dice attorno a me rimango colpito dal fatto che esista, onnipresente, una ricerca della purezza indigena. All opposto ho la netta impressione che quanti vengono sospettati di non essere indigeni anche all interno del governo siano oggetto di discredito: questo fatto, cioè, li renderebbe inadatti a rappresentare gli interessi del popolo. Ritiene che questa mia sensazione sia infondata o che corrisponda invece a qualcosa di reale? Á.G.L.: I rischi di una politicizzazione della tematica etnica sono proprio di questa natura: rendendo più visibili e somatizzando gli elementi più profondi che costituiscono l essere umano in quanto persona sociale la lingua, la cultura, la tradizione, gli eroi, gli antenati si corre sempre il rischio di creare delle essenze. Da un certo punto di vista, insomma, nella mobilitazione politica prodotta dall etnicità è sempre presente una carica razzista. Non bisogna pertanto perdere di vista i limiti di tale processo, né dimenticare che l etnicizzazione coloniale ma anche la designazione e la funzione statuale delle identità etniche rappresentano altrettante forme di razzializzazione dello Stato. Di qualunque società si tratti, lo Stato sarà sempre e comunque razzista perché il suo compito è rendere i gruppi omogenei. In Europa tale processo di omogeneizzazione è stato molto 1 Camuna è il nome di un gruppo di intellettuali che hanno dato un grande contributo a favore delle lotte popolari a partire dalla fine degli anni Novanta, in particolare grazie ad alcune pubblicazioni tempestive e impegnate incentrate sul tema del ritorno della Bolivia plebea.

19 rapido, la gente ha ammainato il proprio stendardo etnico e linguistico in cambio del benessere materiale. In altre società, invece, la costruzione dello Stato è fondata su una forte componente razzista; si tratta di una circostanza certa, e dobbiamo fare i conti con essa per evitare di giungere a una radicalizzazione politica estrema. Franck Poupeau: Questo è indubbiamente vero; tuttavia, a me sembra che vi sia una grande differenza tra lottare contro il capitale etnico (se ammettiamo che quest ultimo rappresentasse un ostacolo nell accesso a posizioni di prestigio in seno allo Stato coloniale) e sostenere meccanismi volti a creare essenze identitarie in grado di promuovere forme di mobilitazione. J.-L.A.: Aggiungerei a ciò che ha appena detto Franck Poupeau una domanda: si può fare una politica di discriminazione positiva senza far ricorso a identità-essenze? Á.G.L.: Credo che da questo punto di vista sia necessario distinguere il discorso di alcune élite intellettuali indianiste legate a particolari gruppi dalle posizioni dei dirigenti dei grandi movimenti sociali. Perciò se parliamo del CONAMAQ [Consejo nacional de ayllus y markas de qullasuyu, un organizzazione indigenista], del THOA, dell intellettuale indigenista Pablo Mamani, abbiamo senza dubbio a che fare con discorsi essenzialismi sull identità, ma dobbiamo anche ricordare che si tratta pur sempre di intellettuali legati alle ONG. Le cose sono del tutto differenti per ciò che concerne gli intellettuali legati a movimenti sociali reali: il CONAMAQ non è un movimento sociale vero e proprio ma solo una grande ONG molto simile al THOA che gli ha dato i natali. Si tratta di settori che hanno scarsa capacità di mobilitare le persone, ma il cui discorso assume toni molto radicali. Se invece prendiamo in esame i settori in grado di mobilitare ingenti masse di gente, scopriamo che il linguaggio delle loro élite è differente: così lo stesso Felipe Quispe, a dispetto delle critiche che mi ha rivolto di recente [il leader indigeno Quispe ha accusato Linera di aver tradito la causa rivoluzionaria indigenista alleandosi con Evo Morales], ma anche la federazione Tupac Katari o la Federazione contadina del tropico fanno discorsi davvero molto, molto diversi. Questo fatto, d altro canto, ci dà modo di spiegare chiaramente quale sia l azione del governo: nell ambito di tali organizzazioni non ho mai osservato toni esacerbati o un uso strumentale e essenzialista dell identità. F.P.: Questo processo di trasformazione dell identità in un essenza è caratteristico dell ambito intellettuale paceño (ossi degli intellettuali che gravitano attorno a La Paz)? Á.G.L.: Direi di sì. J.-L.A.: Esiste un rapporto fra il carattere paceño e l aspetto aymara di questa trasformazione dell identità in un essenza? Á.G.L.: Vi sono numerosi ambiti intellettuali, che rappresentano altrettanti segmenti solo parzialmente indipendenti. Da una parte abbiamo l intellettualità classica degli studiosi di letteratura e degli storici, che hanno copiato la moda della subalternità; poi ci siamo noi, ovvero il gruppo Comuna, che facciamo parte dell élite meticcia; ma parallelamente esistono altri settori dell intellettualità indigena alcuni legati alle ONG, altri ai movimenti sociali, altri ancora infine all attuale governo. Naturalmente fra questi campi differenti si verificano momenti di interazione e mescolanza. All interno dell ambito intellettuale indigeno, insomma, le tendenze sono molteplici. Le più radicali, quelle che articolano un vero e proprio discorso indigenista o indianista, a mio avviso sono espressione dei gruppi che hanno i rapporti più stretti con le ONG. Potrei addirittura formulare questa ipotesi di lavoro: in alcuni casi mi sembra che un particolare radicalismo sia legato a una conversione alquanto recente degli intellettuali indigenisti passati da posizioni marxiste e di

20 sinistra a posizioni indianiste. Questo, almeno, è il caso dell ex membro del gruppo Comuna Felix Patzi [già ministro dell Educazione nel governo Morales], o di Pablo Mamani.

GRUPPI DI INCONTRO per GENITORI

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