GRANDE E PICCOLA IMPRESA NELLA STORIA DELL INDUSTRIA. L Italia è un paese di piccole e medie imprese. È opinione corrente sia degli

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1 GRANDE E PICCOLA IMPRESA NELLA STORIA DELL INDUSTRIA ITALIANA Franco Amatori, PAM, Università Bocconi 1. L opinione comune e il modellaccio L Italia è un paese di piccole e medie imprese. È opinione corrente sia degli studiosi sia del più vasto pubblico opinione sigillata da un capitolo dell autorevole libro di Michael Porter Il vantaggio competitivo delle nazioni. In effetti, fra le nazioni avanzate l Italia ha un vero e proprio record con oltre il 60% della forza lavoro che si concentra in imprese con un numero di addetti inferiore a 50. Il nostro problema è che questa opinione prevalente si è tradotta anche in una prospettiva storiografica. Nell introduzione al volume curato da Giannetti e Vasta, L impresa industriale italiana del Novecento, Vera Zamagni parla di vie diverse alla crescita industriale intendendo la possibilità di competere attraverso le piccole dimensioni di impresa. Pierangelo Toninelli scrive addirittura più provocatoriamente di una industrializzazione senza energia, senza tecnologia, senza industria. L idea di fondo è che esiste un modello dei paesi avanzati e l Italia ne è fuori. Non sono d accordo. Secondo me quello dell Italia per dirla con Giorgio Fuà è un modellaccio. L Italia ha provato ad inserirsi nella corrente delle nazioni di prima fila e stava per riuscire ma poi qualcosa è andato storto. 2. Il modello dei paesi avanzati Nell ultimo ventennio dell 800 si ha una grande discontinuità che concerne essenzialmente lo stato dell arte della tecnologia. Questa è un prodotto profondamente umano, frutto di conoscenze scientifiche, di abilità tecniche, di 1

2 attitudini socio-culturali che si riflettono nelle forme di mercato. Prodotto umano che però ad un certo punto acquista una vita autonoma, è altro da noi. A fine 800 sotto tale punto di vista constatiamo l avvento della Seconda Rivoluzione Industriale, un complesso di innovazioni caratterizzato da alta intensità di capitale, di energia, processo produttivo continuo e veloce, larga infornata. Sono le produzioni di massa che colpiscono in particolare quattro settori: la metallurgia, la meccanica, la chimica, l industria elettrica. In questi settori funzionano le economie di scala e di diversificazione, ovvero quelle che consentono di produrre con uno stesso impianto beni diversi. Solo alcuni settori come quelli menzionati subiscono le conseguenze di questa grande svolta. Essi divengono il motore dello sviluppo. Ma attorno ad essi permangono rami ad alta intensità di lavoro nei quali all aumentare della produzione i costi unitari non cadono drasticamente e al cui interno pertanto la piccola impresa resta competitiva. Perché questa opportunità tecnologica si traduca in realtà economica è necessario un triplice investimento in impianti alla giusta dimensione di scala, in legame fra produzione e distribuzione tale da rendere fluido il rapporto fra fabbrica e mercato, nell ampia assunzione e promozione del management. È un passaggio difficile perché implica una notevolissima socializzazione dell impresa, un passaggio politico quindi. Tuttavia se questa mossa riesce e viene ribadita nel corso del tempo, l impresa acquista il diritto ad una lunga sopravvivenza. Le dimensioni di questo first mover sono quasi sempre settoriali; il che non significa che non possa essere sfidato, non però da rivali di piccole dimensioni ma sempre attraverso il triplice investimento, che è à la Taylor, l unica via migliore. È da rimarcare il fatto che in questo modello la crescita avviene per ragioni economiche ossia essenzialmente per tramutare l alto costo fisso in basso costo unitario. 2

3 3. L Italia e la Seconda Rivoluzione Industriale Se questo è il modello dei paesi avanzati, a cavallo del 1900 esso è constatabile anche nell evoluzione del sistema economico italiano. Come negli altri paesi anche da noi la prima grande impresa è un impresa ferroviaria, la Strade ferrate meridionali, ovvero la cosiddetta Bastogi dal nome del suo fondatore Pietro Bastogi, ministro delle finanze nel primo governo dello Stato unitario presieduto da Camillo Cavour. La Bastogi costruisce la ferrovia che va da Ancona a Brindisi entro il 1867 ed in seguito realizza la Napoli-Foggia, non senza scandali e malversazioni. Nel 1905 quando le ferrovie vengono nazionalizzate essa riversa gli indennizzi nell emergente settore elettrico restando quindi una potenza finanziaria di prima grandezza nel panorama economico italiano. Nel 1962, nazionalizzata a sua volta l industria elettrica, la Bastogi dirige le sue risorse verso la chimica, ma in questo caso il diverso scenario competitivo rende il passaggio molto più problematico. Nel 1884 nasce la Edison, la più grande impresa elettrica italiana, presto raggiunta dalla Sip, la Sade e la Sme. Nel 1888 è fondata la Montecatini che poi insieme alla Snia sarà di gran lunga la più importante impresa chimica italiana. Già nel 1872 era nata la Pirelli. Nell ultimo anno del secolo viene fondata la Fiat che alla vigilia della prima guerra mondiale produce la metà degli autoveicoli italiani per raggiungere subito dopo il conflitto il controllo di quasi il 90% del mercato. Si costruisce intanto, sempre a cavallo del XX secolo, la grande siderurgia con la Terni, l Elba, l Ilva, la Piombino e la Falck; mentre la grande meccanica negli stessi anni ha come protagonisti di assoluto rilievo l Ansaldo e la Breda. Nel contempo si profila a livello settoriale il predominio dell Italcementi, mentre acquista consistenza un impresa produttrice di macchine per ufficio, l Olivetti. Anche la grande distribuzione che ha dimensioni e ritmi industriali nasce in questi anni. Sulle ceneri della ditta Bocconi 3

4 nel 1917 è creata La Rinascente da cui a sua volta per mitosi nel 1931 ha inizio la Standa. In definitiva, tranne ENI e Fininvest per evidenti motivi, sebbene con nomi diversi e con pur notevoli trasformazioni societarie, all inizio del secolo sono presenti tutti gli attori che domineranno la scena industriale sino all ultimo decennio di esso. La presenza della grande dimensione è quindi simile a quella di Stati Uniti, Inghilterra e Germania, con un importante differenza però. In Italia la struttura oligopolistica è ancora più ristretta data la relativa povertà del mercato interno. Inoltre la concentrazione è spesso nascosta dalla forma a gruppo, che porta a distinguere il soggetto giuridico da quello economico. Per questo motivo capita di prendere non indifferenti cantonate a chi studia le imprese partendo dai repertori delle società per azioni. 4 Gli attori Se vista dall alto la forma del sistema industriale non è diversa da quella delle nazioni di prima fila, differenti sono invece gli attori dello sviluppo. L Italia è il terreno ideale per la verifica delle teorie di Alexander Gerschenkron il quale, come è noto, postula l esigenza di fattori sostitutivi (ovvero sostitutivi del semplice imprenditore) per promuovere l industrializzazione dei paesi late comer. Essi sono la banca universale se il ritardo è relativamente contenuto - e lo Stato se il grado di arretratezza è maggiore. Ora, in Italia attorno al 1900 è grande il contributo della banca universale, soprattutto la Comit e il Credito Italiano, alla fondazione di interi settori e alle più importanti iniziative industriali. Ma è soprattutto lo Stato il fattore decisivo, quello al quale la stessa banca guarda come rete protettiva di ultima istanza. Per l Italia si è parlato giustamente di precoce capitalismo di Stato nel senso che esso si caratterizza come il maggiore operatore economico-finanziario sin dall unificazione: per la creazione di debito pubblico, 4

5 per la pressione fiscale, per il vasto processo di privatizzazione del territorio nazionale (beni demaniali ed ecclesiastici) tutti strumenti con i quali finanziare infrastrutture essenziali come le ferrovie, l apparato amministrativo, le forze armate, le opere pubbliche. In definitiva in Italia i primi grandi affari si effettuano all ombra dell azione pubblica. Tuttavia, negli anni Ottanta dell'ottocento il potere politico compie una vera e propria forzatura verso la nascita di serie iniziative industriali. La rivoluzione nelle comunicazioni e nei trasporti, notevole esempio di globalizzazione, provoca la massiccia immissione sul mercato italiano di prodotti agricoli provenienti da oltreoceano, sommergendo in tal modo il modello di un Italia esportatrice di beni del settore primario. Questa ragione oltre che quelle relative ad esigenze di politica internazionale, porta nel 1884 alla creazione della prima impresa industriale moderna del paese, la Terni. È un episodio strategico della storia economica italiana perché alla Terni lo Stato non concede solo sovvenzioni, commesse, protezionismo. Quando tre anni dopo la nascita, nel 1887, l impresa è sull orlo della bancarotta lo Stato provvede al salvataggio utilizzando la Banca Nazionale, in seguito Banca d Italia, con l emissione di nuove banconote. Un operazione di questo genere il salvataggio attraverso l intervento della banca centrale in mezzo secolo è attuata quattro volte: nel 1887 viene salvata un impresa, la Terni per l appunto; nel 1911 è la volta di un intero settore industriale, il siderurgico; nel 1922 il privilegio tocca alle attività industriali afferenti a due grandi banche, la Banca Italiana di Sconto (dentro c è la maggiore azienda italiana, l Ansaldo) e il Banco di Roma; infine, nel 1933 l ultimo e più grande salvataggio, quello delle imprese legate alle tre grandi banche miste, la Comit, il Credito Italiano, il Banco di Roma. Nasce l IRI, ovvero lo Stato Imprenditore, ed è la fine della banca mista. Dopo l Unione Sovietica l Italia è il paese che può vantare la maggiore estensione di proprietà 5

6 industriale pubblica. La morale è evidente: per un'impresa ritenuta strategica per gli interessi del paese, manca in Italia una libertà fondamentale in un sistema capitalistico, quella di fallire. 5. Il capitalismo politico Non si tratta tuttavia di un fatto solo quantitativo. La pervasiva presenza dello Stato ha un forte impatto sull agire imprenditoriale. Mentre nei paesi avanzati la crescita è perseguita per ragioni squisitamente economiche, ovvero il taglio dei costi unitari, non di rado in Italia si assiste a tentativi di espansione per meglio contrattare con il potere politico. All inizio del secolo gli imprenditori siderurgici sono consapevoli del fatto che le caratteristiche del mercato non richiedono la costruzione di nuovi impianti e tuttavia si espandono perché sanno che presto o tardi si arriverà ad un accordo arbitrato dal governo; è meglio arrivarci più abbondanti possibile. Allo stesso modo l Ansaldo si lancia in un folle progetto di integrazione verticale durante la prima guerra mondiale: dalle miniere alla fabbricazione di tutte le più significative produzioni metalmeccaniche. Per i suoi leader giustificare in senso economico quest opera è compito dello Stato dato l interesse nazionale che essa rappresenta. Significativo è l esempio della Terni nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale. Vengono meno le ragioni economiche della siderurgia bellica e il suo leader, Arturo Bocciardo, la porta ad operare nel campo della produzione di energia elettrica e di risulta in quello elettrochimico. La siderurgia bellica però viene mantenuta in attività in quanto formidabile strumento di pressione nei confronti del governo fascista. È un do ut des: la Terni continua ad offrire armamenti anche quando non ha alcuna convenienza economica, ma il governo garantisce buone condizioni per le forniture di energia elettrica, un terreno di prezzi amministrati, e buone 6

7 posizioni all interno dei cartelli chimici. Prendiamo anche l esempio della Montecatini: per acquisire una duratura supremazia nel fondamentale settore dei concimi chimici, l impresa di Guido Donegani si lancia nella produzione di azoto sintetico con l originale metodo Fauser che lo ricava da acqua, aria, elettricità. Ma per un obiettivo del genere la società milanese deve attuare costosissimi investimenti, ovvero la costruzione di centrali idroelettriche. Per giustificare un impegno del genere Donegani ha bisogno del totale controllo del mercato interno. Chiede quindi a Mussolini dazi che costituiscano barriere insuperabili e all inizio degli anni Trenta li ottiene. Del resto la Montecatini era l epitome dell impresa fascista. In particolare per la produzione di azoto sintetico, che corrispondeva a tre idee-forza del regime: ruralismo, bellicismo, e infine autarchia, dati gli ingredienti necessari. Nulla viene dato per gratuito, però. In cambio della protezione tariffaria il governo chiede alla Montecatini una serie di salvataggi: l ACNA, impresa produttrice di coloranti; la Montevecchio, che in Sardegna gestiva giacimenti piombiferi; le maggiori aziende attive nel settore marmifero carrarese. Alla Montecatini viene anche chiesto di tenere in vita produzioni obsolete, come la lignite, o autarchiche, si veda il caso dello zinco con un impianto elettrolitico. L azienda di Donegani si appesantisce così con danno irreparabile nel differente contesto del secondo dopoguerra. È questa l origine del fallimento che porta nel 1966 alla disastrosa fusione con la Edison. Si ricordi infine la vicenda della chimica italiana negli anni Settanta, quella che è all origine del famoso processo IMI-SIR. Tre aziende Montedison, ENI e SIR di Nino Rovelli costruiscono tre impianti simili nello stesso luogo, Ottana, al centro della Sardegna. Non c è razionalità economica ma solo ragioni strategico-politiche. In totale, se il capitalismo americano può essere definito manageriale, se quello inglese è un capitalismo personal-famigliare, e se il tedesco può essere indicato come 7

8 capitalismo cooperativo, non pare esagerato definire quello italiano un capitalismo politico. 6. Il grande capitalismo privato Non c è solo questo in Italia. C è anche una grande industria orientata al mercato. Giovanni Battista Pirelli si consolida ed amplia la propria azienda sin dall ultimo ventennio dell Ottocento rispondendo a commesse pubbliche nel settore dei cavi telegrafici e telefonici. Pirelli tuttavia costruisce ben presto un impresa che compete sul mercato internazionale costruendo stabilimenti in Spagna, in Sud America, addirittura in Inghilterra, nel cuore del capitalismo globale. La Fiat è senz altro un impresa che nasce bene. Fra gli azionisti ci sono i migliori nomi dell aristocrazia e della borghesia torinese e all inaugurazione del primo stabilimento sono presenti due altezze reali. Tuttavia la Fiat è l impresa egemone dell industria automobilistica italiana già alla vigilia della prima guerra mondiale quando produce la metà dei veicoli nazionali, grazie ad un imprenditore, Giovanni Agnelli, il primo a comprendere che l automobile non è un giocattolo per ricchi ma un tipico prodotto di massa della seconda rivoluzione industriale. Agnelli è quindi capace di attuare una vasta operazione di integrazione verticale dalle fonderie ai garage per la vendita che dà alla Fiat un incolmabile vantaggio sugli altri competitori nazionali. Si consideri anche il caso della Falck che fabbrica acciaio con una tecnologia flessibile come quella che consente il forno elettrico e che punta su un mercato normale ovvero non legato a commesse militari, per la meccanica e lo sviluppo urbano. 7. Il mercato interno ristretto 8

9 Perché questo capitalismo pur orientato al mercato non si trasforma in capitalismo manageriale all americana o famigliar-manageriale alla tedesca? Appare decisiva in questo senso la ristrettezza del mercato interno che se all inizio degli anni Venti vede pari ad 1 il reddito pro capite italiano, deve assegnare il doppio a quello inglese e francese e un 3,6 all americano. Del resto quando i tecnici della Fiat vanno a Detroit a studiare il funzionamento delle celebri catene di montaggio di Ford, tornano con una relazione nella quale è scritto che il loro sistema appariva impetuoso come un torrente di montagna a paragone del quale la catena del Lingotto sembrava uno stagnante rigagnolo. E tutto ciò non sembra esagerato, dato che alle 2000 automobili giornaliere della Ford ne corrispondevano 300 della Fiat. È il paese, l Italia, nel quale la maggiore impresa chimica, la Montecatini, ha alla base dei suoi affari la produzione di concimi con la calciocianamide il villano se la ride recita un celebre slogan mentre è ben visibile la debolezza della chimica industriale. L Italia è il paese in cui una catena di grande distribuzione, la Rinascente, non può puntare sui magazzini di lusso e riesce quindi a salvarsi dalla grave crisi dei primi anni Trenta con la riconversione verso i negozi popolari della UPIM (Unico prezzo italiano Milano). È l Italia in cui nel 1932 il direttore generale della Fiat, Vittorio Valletta, predica un fordismo grazie al quale quattro operai comprano una Balilla, l automobile meno cara della Fiat sebbene costosa quanto un appartamento. Ai quattro ipotetici operai Valletta chiedeva di recarsi al lavoro insieme con l automobile acquistata e quindi di godersela con la famiglia una domenica al mese ciascuno. Si potrebbe sostenere che un alterativa possibile era rappresentata dalle esportazioni, ad esempio la Fiat collocava all estero nel 1922 il 70% della propria produzione. Ma il mercato internazionale si presentava caratterizzato da forti incertezze e fluttuazioni. Quando nel 1926 il governo italiano decide di sostenere la lira probabilmente oltre 9

10 i limiti del ragionevole, il settore automobilistico, ad esempio, riceve un durissimo colpo. 8. Il settore elettrico cuore del potere economico Alla vigilia della seconda guerra mondiale il capitalismo industriale italiano sembra regredire verso forme feudali. È quanto afferma il magnate dell industria elettrica Ettore Conti in una celebre pagina del suo Taccuino di un borghese. In essa si afferma che mentre in Italia si celebra un sistema politico ed economico che va verso il popolo, la realtà dice di interi rami dell industria governati da un uomo, Agnelli, Pirelli, Donegani, Falck, Cini, Volpi. A fine anni Trenta Stato e famiglie dominano la grande industria italiana e la loro azione converge nel controllo del settore elettrico, un industria resa possibile dall eccellenza tecnica dei nostri ingegneri ma che finisce per risolversi in un terreno di sicura rendita. I capi dell industria elettrica più che a top manager in senso anglosassone assomigliano a funzionari, funzionari di un grande imprenditore pubblico come Alberto Beneduce, o di eminenti famiglie, gli Agnelli, i Pirelli, i Crespi, i Feltrinelli, i Borletti, i Marchi. 9. Un miracolo che viene da lontano Pur in un percorso tutt altro che lineare, quando inizia la seconda guerra mondiale l Italia è l unico paese del Mediterraneo ad avere raggiunto uno stabile stadio di industrializzazione. Non ce l ha fatta la Spagna, ad esempio, che forse si è affidata troppo alle multinazionali. Per l'italia è la prima guerra mondiale con le commesse della Mobilitazione Industriale il punto di non ritorno al termine del quale la nazione è fra le otto più industrializzate del mondo. Ma già negli anni 10

11 immediatamente precedenti la Grande Guerra il paese è autonomo per una produzione essenziale come quella siderurgica, mentre un'impresa come l'ansaldo nonostante la megalomania dei suoi capi ha impianti che suscitano l'ammirazione degli addetti militari tedeschi. Nel corso della prima metà del ventesimo secolo si formano in Italia importanti forze produttive che si concretizzano soprattutto nella costituzione di coorti manageriali. Sono ad esempio gli uomini del Professore, ovvero i dirigenti della Fiat che affiancano Vittorio Valletta nella grande performance degli anni Cinquanta. Quasi tutti entrano in azienda all'inizio degli anni Venti per rispondere alle esigenze create dalla inaugurazione del Lingotto, il più moderno impianto automobilistico d'europa. Sono i siderurgici di Oscar Sinigaglia, il samurai che ha individuato nell'acciaio la questione economica fondamentale dell'economia italiana. Sinigaglia sin dal 1910 espone un lucido programma di sviluppo e specializzazione degli impianti a ciclo integrale che diano al paese prodotti siderurgici su vasta scala, di buona qualità e a basso prezzo. Sinigaglia prosegue la sua azione per tutto il periodo considerato, particolarmente importante è a sua opera all'interno della Sofindit, la finanziaria che raggruppa le partecipazioni industriali della Banca Commerciale Italiana all'inizio degli anni Trenta. E' qui che Sinigaglia ha un'influenza decisiva su un manager come Agostino Rocca che alla fine degli anni Trenta realizzerà il primo stabilimento a ciclo integrale di Cornigliano, presso Genova, un'esperienza che, sebbene vanificata dai tedeschi nel 1943 è all'origine dei grandi successi degli anni Cinquanta. Un terzo nucleo di assoluta rilevanza è costituito dai seguaci di Francesco Saverio Nitti, l'uomo politico lucano, che riteneva solo l'industrializzazione potesse risolvere la grande questione nazionale, quella del Sud. Il più importante dei nittiani è Alberto Beneduce, l'ideatore della formula 11

12 IRI, ovvero di un'insieme di imprese di proprietà pubblica ma caratterizzate da uno stile manageriale privato. 10. La grande impresa protagonista del miracolo Gli anni a cavallo del 1960 sono ricordati come il periodo del miracolo economico italiano. Indiscussi protagonisti sono imprenditori che giocano in grande e non vedono il mercato frenato da vincoli insuperabili. Perseguono quindi le economie di scala e di diversificazione lanciandosi nella costruzione di grandi impianti e grandi organizzazioni. Non vedono nella contrattazione con il potere politico l'essenza del proprio agire imprenditoriale. Questa è data piuttosto da produzioni di massa che rendano accessibili beni essenziali alla maggioranza dei consumatori. Si consideri Vittorio Valletta e il lancio della 600 nel 1955 e della 500 due anni dopo. Per l'italia è il raggiungimento della motorizzazione con livelli comparabili a quelli del grande paese d'oltreoceano. Un traguardo impensabile pochi anni prima. Oscar Sinigaglia realizza un piano per la siderurgia degno di un John Rockefeller. Costruisce un grande impianto a ciclo integrale presso Genova, a Cornigliano appunto, secondo lo stato dell'arte della tecnologia. Specializza la produzione degli altri impianti, chiude quelli obsoleti licenziando migliaia di operai. Sinigaglia era molto sensibile ai costi sociali e a chi gli obiettava le conseguenze della sua azione in questo campo rispondeva che offrendo acciaio di buona qualità e a basso prezzo sviluppava potentemente l'industria meccanica ottenendo quindi un massiccio incremento dell'occupazione. Altro grande primo attore di questa fase è il leggendario Enrico Mattei, il fondatore dell'eni, che realizza a vantaggio dell'industria settentrionale una fitta rete metanifera mentre attua un'efficace politica nel settore del petrolio grazie a geniali e rischiosi accordi 12

13 con i paesi produttori. Mattei si avvale della sua posizione in campo metanifero per strappare alla Montecatini, a vantaggio degli agricoltori italiani, la leadership dei concimi chimici azotati. Nel 1956, infatti, costruisce a Ravenna un impianto petrolchimico con un investimento di sessanta miliardi. Sei anni prima la Montecatini aveva speso per un analogo stabilimento a Ferrara diciotto miliardi. Le economie di scala realizzate dall'eni sono imbattibili. Un quarto indimenticabile protagonista è Adriano Olivetti, l'imprenditore più consapevole delle conseguenze sociali dell'industrializzazione ma così concreto da realizzare nel campo dei prodotti per ufficio una multinazionale da cinquantamila dipendenti, tale da acquisire alla fine degli anni Cinquanta una delle maggiori imprese americane del settore la Underwood. Importante è notare come non ci sia differenza in questa golden age fra privato e pubblico (a questo proposito potremmo aggiungere il caso dell'alfa Romeo di Giuseppe Luraghi). Certo non tutti vincono. Perdenti sono coloro che restano fermi alla cultura e al modo di operare del periodo precedente, al capitalismo politico. La prova più chiara è la vicenda della Montecatini che dopo il 1945 non muta la filosofia di do ut des con il potere politico restando un'obsoleta conglomerata. 11. Un approdo giapponese? Un reddito nazionale che in vent'anni ( ) cresce mediamente del 6% annuo; la Fiat quinta impresa automobilistica mondiale potenzialmente in grado di competere sul mercato internazionale con l'esperienza acquisita nel segmento delle small cars; la Olivetti che primeggia sui mercati internazionali con le sue macchine per scrivere e con le sue calcolatrici tanto da acquisire una corporation americana di primo rango; Enrico Mattei protagonista della politica petrolifera 13

14 internazionale; la siderurgia che passa dal nono al sesto posto nel mondo; il nucleare che vede il paese all'avanguardia in Europa; la formazione di nuovi settori industriali come quello degli elettrodomestici e il generale irrobustimento della struttura produttiva cosicché i sarti diventano industriali dell'abbigliamento, i falegnami mobilieri, i calzolai calzaturieri. Tutto questo dava la sensazione che l'italia potesse spingersi sino alla frontiera dell'economia mondiale, come il Giappone, un paese certo lontano ma per molti versi vicino data la periodizzazione del suo sviluppo industriale, dato il ruolo giocato in esso dall'attore pubblico. La chiave per comprendere i diversi esiti dei due paesi è nell'elemento politico-istituzionale. Negli anni Trenta in Giappone l'azione dello Stato è troppo pervasiva: una selva di leggi e regolamentazioni finisce per ingessare l'economia nazionale. Il Giappone dove la burocrazia è forte mentre debole è la politica, apprende la lezione. Nel secondo dopoguerra si assiste al ritiro dell'intervento pubblico diretto; i grandi ministeri dirigono la politica industriale grazie a guidelines, a moral suasion. Si delinea una sorta di quadratura del cerchio per cui lo Stato protegge e sostiene le grandi imprese ma le obbliga a confrontarsi con il mercato globale. In un tentativo di storia controfattuale si potrebbe dire che in Italia lo Stato avrebbe dovuto ritirarsi dall'intervento diretto e dedicarsi alla creazione di un quadro di regole all'interno delle quali la grande impresa potesse prosperare. Sarebbe stata necessaria quindi un'efficace protezione degli investitori in Borsa; la promozione di investitori istituzionali; la revisione della legge bancaria con il ripristino della cosiddetta haus bank; una legislazione antitrust; il governo delle trasformazioni sociali e del conflitto. 12. Uno Stato politicizzato 14

15 Quella italiana è una società che, date le caratteristiche del processo che ha portato alla formazione dello Stato unitario, si è sempre contrassegnata per la sua frammentazione localistica tale da non sopportare un rapporto diretto fra Stato e cittadini, necessitando invece di una mediazione da parte della politica. Quando si parla di pubblico in Italia, quando si parla di Stato, è sempre necessario intravedere l'azione e la discrezionalità della politica. Si prenda il caso di quello che diverrà il sistema delle Partecipazioni Statali. La formula Beneduce proprietà pubblica e stile managerial-imprenditoriale privato era la brillante soluzione di un nodo storico, la discrepanza fra le necessità di investimenti industriali e la disponibilità di capitali. Ma i rischi non erano di poco conto. La fase della negligenza benigna da parte dei politici non dura molto a lungo. Già alla metà degli anni Cinquanta si intravede uno spoil system che segnerà pesantemente l'intera costruzione. E dato il cosiddetto bipartitismo polarizzato che la natura del maggiore partito di opposizione, il Partito Comunista Italiano, rende inevitabile, si tratta di uno spoil system a senso unico che finisce per rendere irresponsabili governo ed opposizione. Lo Stato Imprenditore diviene sempre più uno strumento per il consenso, ovvero cresce per incrementare l'occupazione sicuro grimaldello del successo elettorale. Nel 1956 con la nascita del Ministero delle Partecipazioni Statali viene creata una catena di comando che nel corso degli anni si rivelerà micidiale. Prendiamo il caso siderurgico. Alla fine degli anni Cinquanta era necessario incrementare sostanzialmente la capacità produttiva. Viene effettuata una indagine fra i maggiori dirigenti della Finsider, la finanziaria siderurgica dell'iri, il responso è quasi unanime e prevede il raddoppio dello stabilimento di Piombino, un sito di antica industrializzazione. Il Ministero insiste perché un nuovo impianto sorga a Taranto, la città pugliese in crisi per lo stato dei suoi cantieri. I capi della Finsider vi si recano e, constatata la grave situazione di 15

16 disagio sociale, si convincono a costruire a Taranto il quarto centro siderurgico dopo quelli di Genova, Piombino, Bagnoli. Ma gli allievi di Oscar Sinigaglia non potevano non confrontarsi con le esigenze del mercato. Propongono quindi di costruire un impianto che realizzi grandi tubi per metanodotti e lamiere per navi, ovvero prodotti ad alto valore aggiunto. Ancora una volta prevalgono i politici e impongono il dissennato incremento della produzione con la costruzione di diversi altiforni. E' la produzione di massa a basso costo per la quale si va a sicura sconfitta da parte dei concorrenti asiatici. L'occupazione aumenta ma per la Finsider è l'inizio della fine, che arriva con la bancarotta del 1988, un debito di miliardi. Una sorte simile rischia l'eni, che, obbligata a salvataggi da leggi del parlamento un vero e proprio metodo sovietico di esproprio delle prerogative di impresa viene trasformata di fatto da azienda a ente per lo sviluppo. Pasquale Saraceno. accademico ma anche fra i maggiori dirigenti dell'iri, testimone e protagonista della sua vicenda afferma l'esigenza per l'impresa pubblica di perseguire il concetto di economicità, ovvero la dialettica fra massimizzazione del profitto e istanze politico-sociali. E' quanto di fatto avviene con i cosiddetti oneri impropri, ovvero indicazioni politiche di investimenti per le imprese pubbliche e vincoli localizzativi che il parlamento compensa con un fondo di dotazione. E' un metodo che finisce per rendere irresponsabile il management pubblico. L'economicità di Saraceno è un concetto affascinante ma che non regge alla prova dei fatti. 13. L'approdo mancato L'incapacità di raggiungere i risultati del Giappone si concretizza in cinque grandi episodi. 16

17 1. La degenerazione dello Stato Imprenditore, di cui si è parlato proprio ora; 2. Il fallimento dei progetti di frontiera tecnologica. E' l'olivetti che dopo l'improvvisa scomparsa del suo leader Adriano Olivetti non riesce a concretizzare l'occasione della pionieristica produzione di computer, una iniziativa i cui costi andavano ben oltre le disponibilità di una impresa famigliare. E' l'abortire del grande progetto di dotare il paese di una rete di impianti nucleari, che solo una determinata e unitaria politica industriale poteva rendere realistico. 3. Le conseguenze della nazionalizzazione dell'energia elettrica. E' il risultato della decisione caldeggiata dal governatore della Banca d'italia Guido Carli di indennizzare le aziende e non gli azionisti. Carli pensava di ripetere l'operazione del 1905 quando gli indennizzi della nazionalizzazione delle ferrovie si erano riversati nell'emergente industria elettrica. Ora si pensava alla chimica ma il contesto competitivo era ben diverso né esisteva una Borsa per sanzionare i comportamenti negativi degli imprenditori né una haus bank tale da indirizzarli correttamente. Il risultato più rilevante di questo snodo è la disastrosa fusione fra Montecatini ed Edison. 4. La crisi delle grandi famiglie che si verifica diffusa negli anni Sessanta fra vecchie e nuove dinastie industriali. Del resto nel 1976 viene pubblicata una ricerca dello studioso italo-americano Robert J. Pavan, dalla quale emerge l'incapacità di crescere e di competere sui mercati internazionali della grande impresa famigliare italiana all'interno della quale i dirigenti risultano giudicati più per la fedeltà che per le performances. 5. Il lungo autunno. E' il periodo che inizia con la vertenza Fiat del settembre 1969 e che si conclude sempre alla Fiat con la cosiddetta marcia dei quarantamila nell'ottobre del E' un periodo di importanti conquiste 17

18 sociali ma anche di tragici conflitti come la diffusione del terrorismo. Ciò che risalta è l'incapacità di incanalare politicamente e istituzionalmente giustificate rivendicazioni, alla maniera tedesca con la cogestione. Sono sconfitte dalle quali la grande impresa non si riprenderà più, nonostante i ruggenti anni Ottanta, del resto profondamente contrassegnati dall'assenza di regole. Carlo De Benedetti quota in Borsa quattro volte la stessa società; la Fiat vende le azioni libiche con metodi non proprio trasparenti. Raoul Gardini acquista la Montedison con i soldi della Montedison. Una vera e propria fortuna per l'italia è rappresentata dalla piena adesione al progetto europeo, dall'accordo di Maastricht. Esso porta non solo alla moneta unica ma anche all'instaurazione finalmente di regole, come l'antitrust, il rafforzamento della Consob, la legge sulle SIM, la nuova legge bancaria, la legge sulla corporate governance. Ma i buoi sono scappati. La grande impresa è irrimediabilmente depotenziata. Nel 1997 la Montedison cede le attività chimiche. Quasi nello stesso periodo la Fiat entra in una crisi di cui è difficile prevedere la conclusione, mentre le prime imprese italiane risultano quelle come l'eni e la Telecom che nella realtà usufruiscono di forti posizioni di rendita. 14. La scoperta della piccola impresa L'Italia degli anni Settanta è un mistero. Sembra afflitta da tutti i mali e da tutte le crisi ma continua a crescere seconda solo al Giappone fra i paesi dell'ocse. Si riscopre allora la piccola impresa, spesso organizzata nella forma del distretto industriale - un territorio definito dedicato alla produzione di un bene per la quale viene realizzata una divisione del lavoro sia orizzontale sia verticale, ovvero oltre 18

19 al bene si fabbricano anche le macchine per la sua realizzazione. Nel 1991 quando il parlamento approva una legge che intende tutelarli, vengono censiti 199 distretti che possono contare addetti, ossia il 45% dell'occupazione manifatturiera complessiva. Sono i distretti che indirizzano le proprie risorse verso la produzione di beni per la persona e per l'abitazione ad essere protagonisti nell'ascesa del made in Italy. I distretti si formano in un processo di lungo periodo. Se la causa scatenante è l'emergere di un mercato nazionale e internazionale nel secondo dopoguerra, le origini sono senz'altro remote. Un forte ruolo è giocato dalla tradizione corporativa come dal retaggio mezzadrile con l'etica del lavoro, le tante abilità manuali, lo spirito imprenditoriale. Importanti sono anche l'antica consuetudine di raffinata domanda urbana e l'attitudine al commercio cosmopolita. In ogni caso, quello dei distretti è un successo che non si spiega solo con la quantità e qualità dei fattori individuali. Decisivo è l'apporto di un'istituzione come la famiglia per aziende nelle quali padroni ed operai sono spesso parenti. Così come in primo piano è la comunità locale, per cui la concorrenza è bilanciata da un senso di solidarietà e le conoscenze tecniche e professionali sono nell'aria. Altrettanto importanti sono le istituzioni locali sia con interventi positivi, come ad esempio nel campo dell'istruzione e della costruzione di infrastrutture, ma anche con la tolleranza verso comportamenti discutibili (evasione fiscale). Si consideri infine l'elemento relativo alla omogeneità politica: i distretti fioriscono in aree o fortemente rosse o a netta prevalenza cattolica. In questo modo è possibile attenuare il lacerante conflitto sociale che caratterizza la grande impresa. Tutte queste virtù non possono nascondere lati oscuri come la sottocapitalizzazione, la sclerosi produttiva, la volatilità dei mercati al cui interno i distretti operano, mercati soprattutto di beni voluttuari, come si è già detto, la diffusa piaga dell'evasione fiscale. Un quadro di 19

20 luci e di ombre quindi che in definitiva riesce a catturare la grande vitalità del paese. 15. Il quarto capitalismo Dai distretti emergono non di rado imprese che in essi creano precise gerarchie. Tali attori vengono definiti quarto capitalismo perché non possono essere identificati né con la grande impresa privata né con quella pubblica né con la piccola impresa. Alla fine degli anni Novanta sono attive in Italia un migliaio di aziende che fatturano fra i trecento e i tremila miliardi di lire. Una parte di esse ha origini che risalgono al periodo successivo alla prima guerra mondiale, altre sono figlie del miracolo economico, altre ancora nascono proprio con la crisi degli anni Settanta. Due le caratteristiche fondamentali: grande abilità tecnica di origine addirittura artigianale - si pensi a Leonardo Del Vecchio e alla sua Luxottica - oppure una straordinaria capacità commerciale come nel caso della Divani e Divani di Pasquale Natuzzi. La formula del successo di questo quarto capitalismo è la concentrazione su una nicchia ma a livello globale, come sanno i produttori fabrianesi di cappe aspiranti. Il quarto capitalismo ha fatto scrivere che l'italia più che un declino stia subendo una metamorfosi. In realtà questo nuovo protagonista deve affrontare due nodi irrisolti. Il primo riguarda quella che oggi viene definita governance, ovvero il modo in cui si rende armonico il rapporto fra proprietà, controllo e gestione d'impresa. Il quarto capitalismo è nettamente dominato da imprese famigliari, con tutti i problemi che questo assetto comporta. Il secondo riguarda i settori in cui esso opera tessile, abbigliamento, calzature, pelli e cuoio, legno e mobili, ceramiche e marmo, oreficeria, gioielleria, strumenti musicali, articoli sportivi, giocattoli ovvero quelle produzioni a cui si accennava 20

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