INTERNET: la sconfinata prateria dove tutto è permesso
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- Alessandro Rinaldi
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1 INTERNET: la sconfinata prateria dove tutto è permesso e niente può essere vietato? A cura dell avv. Anna di Martino Ragazzi, oramai siamo in piena era telematica; un era in cui non si riesce ad immaginare la vita senza un telefono cellulare che come un appendice accompagna le nostre attività e soprattutto non si riesce ad immaginare il nostro vivere senza la possibilità di un collegamento ad Internet. Certo l innovazione tecnologica ha portato grandissimi ed indubitabili vantaggi ma la comodità che si nasconde dietro il click di un mouse spesso comporta come rovescio della medaglia dei risultati inquietanti in termini di socialità del vivere. L intelligenza sta nel cogliere la strumentalità di questa fantastica innovazione e dei suoi vantaggi, senza tuttavia farne uno strumento sostitutivo del nostro vivere sociale attraverso il quale potersi esprimere velocemente ed in piena libertà non può certo significare calpestare regole e valori non soltanto giuridici ma anche e soprattutto comportamentali e civici. La visione distorta che la velocissima evoluzione tecnologica ha comportato negli ultimi decenni ha suscitato riflessioni ed interventi legislativi volti ad arginare l involuzione sociale che essa stessa potrebbe comportare se lasciata al libero arbitrio di ciascuno degli utenti. Di qui la normativa in materia di tutela dei dati personali che non può non involgere anche, ed ora dovremmo dire soprattutto, i dati trasmessi telematicamente o semplicemente immessi in rete nonché i numerosi interventi volti a reprimere condotte che integrano i c.d. reati informatici. 1
2 Il D. lgs , n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali, detto codice sulla privacy), che a far data dal ha sostituito la legge n. 675/96 e molte altre disposizioni di legge e di regolamento in materia, definisce dati personali qualsiasi informazione relativa a persona fisica, giuridica, ente o associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale. La categoria dei dati personali è pertanto assai generica e ricomprende in essa ogni forma di informazione che sia riferibile a persone fisiche o enti.( Nome, cognome, denominazione, ragione sociale, Indirizzo di residenza, domicilio, dimora, sede, Età Stato civile Utenze e traffico telefonico o di fax ..). Una ulteriore particolare tutela è riservata a quei dati personali cosiddetti sensibili di cui all'articolo 4 del D. lgv. 196/03, vale a dire dati idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica,* le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere le opinioni politiche l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. In alcuni casi il titolare che gestisce i dati personali è tenuto a notificare al Garante il trattamento cui intende procedere (art. 37 del Codice). Chi assume essere stato leso in ordine al trattamento dei dati personali può proporre reclamo, segnalazione o ricorso al Garante oppure adire l'autorità Giudiziaria. Oltre al risarcimento del danno sono previste particolari sanzioni amministrative. Per un illecito trattamento dei dati, per falsità nelle comunicazioni e omissione delle misure di sicurezza, sono previste anche sanzioni penali sino a 3 anni di reclusione e pene pecuniarie sino a Euro. 2
3 Ma Quali sono i diritti dell'interessato in ordine al trattamento dei dati personali per via telematica? L'art. 7 del D. lgv. 196/03 stabilisce che, in relazione al trattamento di dati personali: 1. L'interessato ha diritto di ottenere la conferma dell'esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile. 2. L'interessato ha diritto di ottenere l'indicazione: a. dell'origine dei dati personali; b. delle finalità e modalità del trattamento; c. della logica applicata in caso di trattamento effettuato con l'ausilio di strumenti elettronici; d. degli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell'articolo 5, comma 2; e. dei soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati. 3. L'interessato ha diritto di ottenere: a. l'aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l'integrazione dei dati; b. la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati; c. l'attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in 3
4 cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato. 4. L'interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte: a. per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta; b. al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale. Tali diritti sono esercitati con richiesta rivolta senza formalità al titolare o al responsabile, anche per il tramite di un incaricato, alla quale è fornito idoneo riscontro senza ritardo. ***** Per quanto riguarda invece le nuove fattispecie penali introdotti dai vari interventi legislativi sub specie di reati informatici, qualche considerazione specifica merita il caso di ingiuria e diffamazione perpetrate mediante internet; per tali tipi di reato infatti non c è stato lo stesso intervento ortopedico del legislatore con l introduzione di tipologie specifiche e corrispondenti di ingiuria o diffamazione telematica. Pertanto ci si è chiesti se fosse possibile subire una diffamazione o un'ingiuria via Internet? Non è difficile sostenere che le fattispecie di reato di cui agli artt. 594 (ingiuria) e 595 (diffamazione) del codice penale, sono sufficientemente generiche da ricomprendere anche tutti quei comportamenti offensivi che si compiono attraverso le reti informatiche e le moderne tecniche di comunicazione in generale (SMS, Chat, Newsletter etc.). 4
5 La stessa Corte di Cassazione, in una recente pronuncia, avalla tale posizione, affermando che è addirittura intuitivo che "i reati previsti dagli articoli 594 e 595 c.p. possano essere commessi anche per via telematica o informatica; basterebbe pensare alla cosiddetta trasmissione via , per rendersi conto che è certamente possibile che un agente, inviando a più persone messaggi atti ad offendere un soggetto, realizzi la condotta tipica del delitto di ingiuria (se il destinatario è lo stesso soggetto offeso) o di diffamazione (se i destinatari sono persone diverse)" (cass. sez. V penale, , n. 4741). La Corte afferma, in particolare, che il reato di diffamazione si perfeziona nel momento in cui il messaggio viene percepito da parte di soggetti che siano terzi rispetto all'agente ed alla persona offesa. Non è infatti necessaria la contestualità tra l'offesa e la sua percezione "ben potendo i destinatari trovarsi persino a grande distanza gli uni dagli altri, ovvero dall'agente". Da quanto ora affermato, può ricavarsi con certezza che la diffamazione e l'ingiuria, oltre che per il mezzo dell' , possono realizzarsi anche attraverso tutti i diversi servizi della rete: le mailing list, le riviste telematiche, le newsgroup, le pagine Web e le chat. ***** Proprio in considerazione di tutto ciò, ho selezionato una rassegna giornalistica concernente una delle più attese sentenze in materia di trattamento di dati personali e telematici che ha visto alcuni dirigenti di uno dei più grandi provider esistente in rete, GOOGLE, esser incriminati per aver in concorso trattato in maniera illecita i dati personali relativi ad un studente disabile consentendo la pubblicazione di un video, realizzato da compagni di classe tutti minorenni, che lo ritraeva mentre era vittima di atti di bullismo estremamente vergognosi e vessatori. ***** 5
6 Disabile picchiato e filmato, condannata Google Gli Usa: "La libertà di internet è vitale" L'ambasciatore americano: "No a responsabilità preventiva dei provider" Durissima la reazione dell'azienda MILANO - Il tribunale di Milano ha condannato tre dirigenti di Google per violazione della privacy, per non avere impedito nel 2006 la pubblicazione sul motore di ricerca di un video che mostrava un minore affetto da autismo (e non da sindrome di Down come erroneamente comunicato in un primo tempo ndr) insultato e picchiato da quattro studenti di un istituto tecnico di Torino. Ai tre imputati sono stati inflitti sei mesi di reclusione con la condizionale; i dirigenti sono stati invece assolti dall'accusa di diffamazione, un quarto dirigente che era imputato è stato assolto. Si tratta del primo procedimento penale anche a livello internazionale che vede imputati responsabili di Google per la pubblicazione di contenuti sul web. Durissima la reazione della società: "Un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito internet" spiega il portavoce di Google, Marco Pancini. "Siamo negativamente colpiti dalla decisione", dice in un comunicato l'ambasciatore americano a Roma David Thorne. I dirigenti coinvolti sono David Carl Drummond, ex presidente del cda di Google Italy ora senior vice presidente, George De Los Reyes, ex membro del cda di Google Italy ora in pensione, e Peter Fleischer, responsabile delle strategie per la privacy per l'europa di Google Inc. I tre sono stati condannati per il capo di imputazione di violazione della privacy. Assolto Arvind Desikan, responsabile del progetto Google video per l'europa, cui veniva contestata la sola diffamazione. Nei loro confronti l'accusa aveva chiesto pene comprese tra 6 mesi e un anno di reclusione. IL video venne girato a fine maggio 2006 e caricato su Google l'8 settembre: rimase online due mesi, fino al 7 novembre, prima di essere rimosso, totalizzando
7 contatti. Nel filmato si vedono una decina di compagni di classe che stanno a guardare, mentre uno dei ragazzi indagati sferra qualche pugno e qualche calcio al compagno disabile, un altro è intento a riprendere la scena con la telecamera, un terzo che disegna il simbolo "SS" sulla lavagna e fa il saluto fascista. Il ragazzo aggredito rimane immobile. Al giovane disabile vengono anche tirati oggetti e per ripararsi lui perde gli occhiali e si china a cercarli affannosamente. Nell'indifferenza del resto dellaclasse Nel corso del processo i legali del ragazzino disabile avevano ritirato la querela nei confronti degli imputati. Nulla di fatto per il comune di Milano per l'associazione ViviDown che si erano costituite come parti civili. La loro posizione era legata al reato di diffamazione per cui gli imputati sono stati assolti. "Faremo appello contro questa decisione che riteniamo a dir poco sorprendente, dal momento che i nostri colleghi non hanno avuto nulla a che fare con il video in questione, poiché non lo hanno girato, non lo hanno caricato, non lo hanno visionato - dice il portavoce di Google - se questo principio viene meno, cade la possibilità di offrire servizi su internet". Opposta la reazione di pm milanesi. "Con questo processo abbiamo posto un problema serio, ossia la tutela della persona umana che deve prevalere sulla logica di impresa" affermano il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo e il pm Francesco Cajani. Nell'annunciare l'intenzione di appellare la sentenza di condanna, i legali dei dirigenti condannati, Giuseppe Bana e Giuliano Pisapia, affermano: "Google si è comportato correttamente, perché non aveva alcun obbligo di controllo preventivo sui video e i messaggi messi in Rete, mentre invece dal momento in cui è stato informato di quel filmato ignobile l'ha subito eliminato". "Non ci sono né vinti né vincitori", aggiungono i legali, che poi interpretano l'assoluzione dall'accusa di diffamazione come "la non esistenza dell'obbligo giuridico di controllo preventivo da parte di Google su cosa viene messo in Rete". 7
8 Gli Stati Uniti, per bocca dell'ambasciatore americano a Roma David Thorne, esprimono il proprio disagio per la decisione giudiziaria. "Siamo negativamente colpiti dall'odierna decisione di condanna di alcuni dirigenti della Google inc. per la pubblicazione su Google di un video dai contenuti offensivi", afferma in un comunicato Thorne. "Pur riconoscendo la natura biasimevole del materiale - precisa l'ambasciatore - non siamo d'accordo sul fatto che la responsabilità preventiva dei contenuti caricati dagli utenti ricada sugli internet service provider". "Il principio fondamentale della libertà di internet è vitale per le democrazie che riconoscono il valore della libertà di espressione e viene tutelato da quanti hanno a cuore tale valore", dice Thorne ricordando che "il segretario di Stato Hillary Clinton lo scorso 21 gennaio ha affermato con chiarezza che internet libero è un diritto umano inalienabile che va tutelato nelle società libere". "In tutte le nazioni - conclude il comunicato - è necessario prestare grande attenzione agli abusi; tuttavia, eventuale materiale offensivo non deve diventare una scusa per violare questo diritto fondamentale". **** Non puo' esistere 'la 'sconfinata' prateria di internet dove tutto e' permesso e niente puo' essere vietato': lo scrive il giudice di Milano, Oscar Magi, nelle motivazioni della sentenza di condanna di tre dirigenti di Google, per violazione della privacy, in relazione ad un filmato che riprendeva un minore disabile insultato in una classe. Filmato che venne caricato sul famoso motore di ricerca. Il giudice, nelle 111 pagine di motivazioni, spiega che 'esistono, invece, leggi che codificano comportamenti e che creano degli obblighi; obblighi che, ove non rispettati, conducono al riconoscimento di una penale responsabilita''. Dunque, per il giudice monocratico della quarta sezione penale, 'non esiste' la 'sconfinata prateria di internet (...) pena la scomunica mondiale del popolo del web'. 8
9 Il reato per cui sono stati condannati i tre manager di Google per il tribunale di Milano risiede, tra l'altro, nel fatto che da parte della societa' c'e' stato lo sfruttamento commerciale del video pubblicato sul web. "In parole semplici - spiega il giudice nella sentenza - non e' la scritta sul muro che costituisce reato per il proprietario del muro ma il suo sfruttamento commerciale puo' esserlo, in determinati casi e determinate circostanze". **** È finalmente stata resa nota la sentenza con cui si è concluso il primo grado di giudizio del processo che ha visto condannare i tre dirigenti di Google a una pena detentiva di sei mesi. Il caso è scaturito in seguito al reperimento di un video apparso su Google Video raffigurante un episodio di bullismo nei confronti di un ragazzo disabile. Gli autori del video sono stati condannati in separato processo dal tribunale di Torino mentre nei confronti di Google è stata esercitata l azione penale dalla procura di Milano per i reati di concorso omissivo in diffamazione e violazione della normativa in materia di privacy. Come sappiamo, il tribunale di Milano ha riscontrato la colpevolezza degli imputati in merito alla sola violazione della privacy mentre il capo sulla diffamazione è caduto. Le motivazioni della condanna sono state particolarmente attese nel nostro paese e non solo: le regole in materia di responsabilità dei provider e in materia di protezione dei dati personali hanno entrambe origine comunitaria e, quindi, il processo italiano ha un rilievo che va oltre il confine nazionale avendo costituito il primo banco di prova nella ricerca di un punto di bilanciamento tra la libertà di espressione e di impresa in rete e il diritto alla privacy degli utenti. Il provider non è responsabile 9
10 La motivazione della sentenza permette, in questo momento, di fare luce sulle domande più preoccupanti sorte al momento della condanna, e cioè se alla luce della legislazione italiana, sia possibile configurare un obbligo di controllo da parte di un provider sui contenuti immessi dai propri utenti e se il provider debba controllare in qualche modo che gli utenti che pubblicano dati personali o sensibili di terze persone ne abbiano ottenuto il preventivo consenso. Ebbene, secondo il tribunale di Milano la risposta a queste due domande è no. Il provider non ha l obbligo di controllare il contenuto generato dagli utenti, così come non ha l onere di assicurarsi che gli utenti abbiano adempiuto agli obblighi che la disciplina in materia di privacy gli attribuisce dal momento in cui procedano a diffondere sul web i dati di terze persone. Leggiamo direttamente dalla sentenza: «Esiste, quindi, un obbligo non di controllo preventivo dei dati immessi nel sistema, ma di corretta e puntuale informazione da parte di chi accetti ed apprenda dati provenienti da terzi, ai terzi che questi dati consegnano. Lo impone non solo la norma di legge (articolo 13 dl citato), ma anche il buon senso» Secondo il tribunale di Milano, quindi, i tre dirigenti di Google sono stati chiamati a rispondere per non avere adempiuto agli obblighi previsti dall articolo 13 del Codice privacy, cioè, di provvedere a fornire una corretta informativa. Informativa e alibi precostituiti Nella sentenza si legge che l inserimento da parte di Google di un riferimento al rispetto dei dati di terzi da parte degli utenti nell informativa inserita nelle Condizioni di Servizio equivale, in buona sostanza, a nascondere le informazioni sugli obblighi derivanti dal rispetto della legge sulla privacy e in merito alle condizioni di servizio si aggiunge che «il contenuto appare spesso incomprensibile, sia per il 10
11 tenore delle stesse che per le modalità con le quali esse vengono sottoposte all accettazione dell utente» Questa parte della motivazione espone un ragionamento interessante e, cioè, quale valore giuridico debba darsi in concreto alle condizioni o termini di servizio che siamo abituati ad accettare ogni volta che sottoscriviamo un servizio web, ma che molto di rado vengono effettivamente letti e compresi. Il problema in sentenza è appena accennato e certamente avrebbe meritato un ulteriore approfondimento, non solo per la sua centralità ma tra l altro per l intrinseco valore di una riflessione sul dibattito in relazione al rapporto reale che esiste tra consenso prestato tramite il click sul pulsante Accetto e consapevolezza del contenuto e del significato delle clausole che si sono accettate con quel clic. La motivazione, peraltro, non dice quali criteri avrebbero dovuto essere osservati nell informativa per ritenerla, invece, corretta: si limita a constatare che era insufficiente e intenzionalmente non era stata adeguatamente evidenziata. Google, in pratica, avrebbe scientemente inserito informazioni relative agli obblighi in materia di privacy nei propri servizi solo a fini di cautela legale ma, in concreto, per il giudice non erano sufficienti a informare in modo effettivo l utente. Nella sentenza si legge, infatti che «tale comportamento, improntato ad esigenze di minimalismo contrattuale e di scarsa volontà comunicativa costituisce una specie di precostituzione di alibi da parte del soggetto». La mancata indicazione dei criteri che l informativa di un servizio come Google Video avrebbe dovuto seguire anche perché il difetto e l incompletezza dell informativa non possono essere solo presunti, devono esserlo in concreto non sono la sola perplessità alla base della motivazione che spiega i motivi della condanna. Rimane, 11
12 infatti, da capire in che modo una informativa incompleta ha portato ad una incriminazione per trattamento illecito dei dati. Incompleta informativa e reclusione? Come è noto, infatti, i capi di imputazione nei confronti dei dirigenti Google erano due. Uno riguardante il concorso omissivo in diffamazione (capo A), caducato, e l altro riguardante l illecito trattamento dei dati personali (capo B), che è quello che ha dato origine alla sentenza di condanna. Il capo B, lo ricordiamo, vedeva i tre dirigenti imputati in concorso tra loro per il trattamento illecito dei dati personali dello studente disabile secondo quanto previsto dall articolo 167 del Codice in materia di protezione dei dati personali. Nell imputazione si legge, infatti, che i tre dirigenti «al fine di trarne profitto» (ritenuto sussistente dalla presenza dei Google Ads nei contenuti di Google Video) «procedevano al trattamento dei dati personali (del disabile) in violazione degli articoli. 23, 17 e 26 del decreto legislativo 196/03 con relativo nocumento per la persona interessata». L articolo 167 è quindi la norma chiave che ha portato il giudice alla condanna dei tre dirigenti di Google e riguarda, appunto l illecito trattamento. Ebbene, l articolo 13 non è menzionato nell articolo 167. Esso non parla di informativa se non per un richiamo indiretto attraverso l articolo 23 richiamato nel secondo comma e che si riferisce, però, al consenso. E sul consenso si sostiene in sentenza che quando riguarda i dati di un soggetto terzo rispetto all utente (e questo è il caso, dato che il nocumento per il trattamento illecito si è verificato a carico del ragazzo disabile) deve essere ottenuto dall utente stesso e non dal provider. L omessa o inidonea informativa, invece, è punita non dall articolo 167 ma dall articolo 161 del Codice in materia di protezione dei dati personali che stabilisce che «la 12
13 violazione delle disposizioni di cui all articolo 13 è punita con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da seimila euro a trentaseimila euro». È certo che la vicenda non è destinata a concludersi adesso e questa sentenza sarà, riformata probabilmente in appello. ***** Google in Appello sentenza bambino disabile MOUNTAIN VIEW, CA (USA). La decisione del Tribunale di Milano, che ha condannato 3 dei 4 dirigenti di Google per la diffusione di un video di vessazioni contro un bambino disabile, si sta trasformando in una crociata di Internet contro il Belpaese. A parte le decisioni strettamente tecniche (Google si appresta a fare appello contro la sentenza), la decisione del Tribunale di Milano ha messo il nostro Paese al centro delle polemiche per come viene interpretata la Rete nella nostra legislazione. Google e altri commentatori stranieri ritengono che il sito di video social network YouTube (di proprieta di Google) non sia altro che un mero fornitore di servizi. Dunque, non responsabile per i materiali ivi pubblicati da altri utenti. «Minacciato su Facebook per la sentenza Google Sul suo profilo di Facebook racconta di aver ricevuto «centinaia di di offesa e minaccia». Ma di non essersi intimidito perché «ho solo fatto il mio dovere di giudice». Oscar Magi, il magistrato finito sotto accusa del popolo del web per la sua sentenza di condanna nei confronti di tre manager di Google Italy in relazione al caso del video del ragazzo disabile torinese, parla in esclusiva con Il Sole24 Ore. Google sostiene che questa sentenza potrà stravolgere il volto della rete. 13
14 Per mia natura non sono abituato a polemizzare con gli imputati, però mi sembra francamente strano: o non hanno letto bene la sentenza o ho scritto qualche cosa che io stesso non riesco a misurare, come portata. Continuo a pensare che la mia sia una sentenza favorevole al mondo di internet in generale e a Google in particolare. Mi sembra di non aver assolutamente modificato nessun canone fondamentale della rete. Lei ha anche un profilo su face book? Sul quale mi sono arrivate centinaia di lettere offensive di protesta e soprattutto di minaccia. Su alcune ho dovuto addirittura chiedere l'intervento dei gestori della piattaforma, segnalando l'esistenza di persone minacciose. Lettere dall'italia? Soprattutto dall'estero, da dove mi sono arrivate critiche molto violente. Però le minacce vere sono arrivate soprattutto dall'italia e invece una serie di , diciamo così, di approvazione del mio operato dalla Spagna. Tra le critiche più dure che le sono state mosse c'è il fatto che i tre dirigenti di Google sono stati condannati a sei mesi di carcere. Queste persone non hanno girato il video e non l'hanno caricato sulla piattaforma. È la legge sulla privacy che prevede delle pene non banali che vanno da un minimo di un anno di reclusione in su. Quindi va considerato che io ho dato loro il minimo dei minimi, di meno non potevo certo fare. Forse in Italia queste norme sulla privacy puntano troppo sul meccanismo della pena intesa come carcere e poco su pene alternative. Nel caso Google il fine di lucro è stato accertato. Eppure in un'intervista rilasciata sul «Sole 24 Ore» del 26 marzo, il country manager di Google Italy, 14
15 Stefano Maruzzi, ha sostenuto il contrario. Una linea di difesa non convincente. Tenga conto, poi, che il processo è stato fatto con rito abbreviato. Il che vuol dire che sono entrate nel dibattimento tutte le indagini preliminari senza nessun filtro. A mio parere le indagini dei pm sono state accurate, soprattutto per rilevare il meccanismo che portava ad avere delle finalità di lucro attraverso il collegamento commerciale esistente tra Google Italy e Google Inc, sempre attraverso il meccanismo degli spot online. La legge italiana sulla privacy esiste da anni. Certo, dal 1996 e nel 2003 ha avuto una modifica confermativa. E non si può pensare che una legge che esiste da quattordici anni sia poco conosciuta. Il concetto di trattamento dei dati è molto complesso e spesso i server che li custodiscono sono all'estero. Sì però il trattamento dei dati non è solo l'immagazzinamento ma anche la diffusione, l'indicizzazione, il collegamento pubblicitario che se ne fa. Lei crede che queste motivazioni convinceranno l'opinione pubblica americana, che l'ha messa sotto attacco? Guardi, non mi sono posto questo problema. Va però ricordato che questa è una sentenza per metà di condanna e per metà di proscioglimento e un domani i pubblici ministeri potrebbero addirittura appellarla per quanto riguarda la diffamazione. Qual è la sua idea del web? 15
16 Uno strumento di libertà e di comunicazione prezioso, direi addirittura indispensabile. Questo però non vuol dire che non debba essere vissuta attraverso il confronto con le regole. Non esiste una zona franca dove tutti possono fare quello che vogliono. Non è così che funziona, per il rispetto che abbiamo di noi stessi e della libertà altrui. A cura dell Avv. Anna Di Martino 16
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