La reputazione economica come fattore di cittadinanza nell Italia dei secoli XIV-XV

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1 1 Giacomo Todeschini (Università di Trieste) La reputazione economica come fattore di cittadinanza nell Italia dei secoli XIV-XV Che cosa significa nelle città italiane del Tre e Quattrocento avere una buona reputazione economica? Prima di arrivare a chiarire il significato assunto in questo contesto dal rapporto tra fama economica e cittadinanza, è necessario approfondire brevemente la nozione stessa di reputazione economica in Italia alla fine del medioevo. Le memorie e i libri di conti dei mercanti scrittori abbondano di dichiarazioni più o meno estese ed esplicite, più o meno retoricamente eleganti, in materia di importanza della fama per chi si dedichi al commercio e più in generale a guadagnarsi la vita investendo il proprio denaro nei giochi economici proposti da un mercato, che, ormai, dal Tre al Quattrocento si va facendo sempre più internazionale. Si va da Giovanni Morelli che insiste sull importanza di avere ottime relazioni con persone affermate, ben reputate e socialmente preminenti, per acquistare una ricchezza coincidente con il buon nome pubblico, all anonimo mercante trecentesco che dichiara seccamente l opposizione che esiste tra i mercanti di chiara fama e di nota ricchezza e quelli disfatti ovvero in rovina e mal reputati, sino all imponente discorsività dell Alberti e di Benedetto Cotrugli che erigono dei veri e propri monumenti linguistici al cittadino commerciante per il quale essere ricchi a buon diritto è del tutto indistinguibile dall essere riconosciuti come stimabili e cioè pubblicamente utili nell ambito della civitas. Bernardino da Siena, del resto, ereditando dalla Scuola oliviano scotista a cui apparteneva una nozione di ricchezza inscindibilmente connessa a quella di utilità pubblicamente riconosciuta della medesima, aveva stabilito negli stessi anni, che il peccato del commerciante truffatore era in realtà anche, se non soprattutto, un crimine nei confronti del sistema economico che costui avrebbe dovuto rappresentare. Il tradimento della fiducia di cui pubblicamente godeva, infatti, se da un lato cancellava definitivamente il suo nome e la sua reputazione, contribuiva d altra parte a svalutare, infamandolo, il sistema di relazioni economiche di cui, invece, avrebbe dovuto essere il garante. Non era estranea a questa visione del crollo della fiducia collettiva indotto dalla disonestà del singolo una lettura classicamente agostiniana del tradimento di Giuda come attentato al bene pubblico, ossia come metaforico peculato perpetrato ai danni della persona del Cristo a sua volta intesa metaforicamente come figura dello Stato e dell erario. La buona fama del mercante, in altre parole, era raffigurata dai teologi e dai giuristi, oltre che dai mercanti stessi, come l esito di una competenza nel far funzionare l equilibrio

2 2 civico: il suo contrario, la cattiva reputazione, era invece il segno di una attitudine perversamente orientata a distruggere il gioco delle fiducie che teneva insieme il mercato. Ma, poiché questo sistema di relazioni poteva essere identificato come corpo civico, ne risultava che la cattiva reputazione del commerciante era in definitiva la prova di un suo tradimento nei confronti della res publica intesa come Corpo economico e mistico. L essenziale di quanto nell Italia del Tre e del Quattrocento si poteva intendere con l espressione reputazione economica, per come essa ci giunge tramite attraverso i lessici che denotano la fama derivante dai comportamenti tecnicamente economici, stava dunque nell impossibilità di essere veduti come persone o come appartenenti a gruppi che commettono crimini e peccati in grado di danneggiare la Cosa pubblica. Chi aveva una buona fama economica apparteneva, doveva appartenere, per ciò stesso al gruppo dei costruttori del bene comune, ciò che implicava un pregiudizio favorevole riguardo ai suoi comportamenti economici. L azione economica che conferiva una buona riconoscibilità sociale, una sorta di celebrità civica, dipendeva interamente dall agire in termini rappresentabili e cioè pensabili come profittevoli per il bonum commune, ossia per ciò che il governo politico, la norma eticoreligiosa e la consuetudine locale intendevano con questa definizione. Il termine di riferimento negativo dal quale guardarsi e di continuo ricordato, implicitamente o esplicitamente, tanto dalle fonti narrative e memorialistiche quanto da quelle giuridiche e legislative, era non a caso l avarizia di Giuda, ossia un ansia di arricchimento raffigurata sempre di più alla fine del medioevo non tanto nei termini di una avidità generica, ma piuttosto come indifferenza colpevole per la felicità e per la salvezza collettiva, ovvero, sulla traccia di Agostino, come minaccia nei confronti della ricchezza istituzionale: furtum de re publica. Per meglio comprendere la forza di questo collegamento tra la figura dell apostolo maledetto e la cattiva fama di coloro che risultavano estranei e disinteressati in senso economico al benessere della res publica, occorre ricordare che la tradizione omiletica, ma anche quella teologica e canonistica, riecheggiata in questo da quella civilistica, avevano incollato sulla storia di Giuda così come era stata tramandata non solo dai commenti al testo dei Vangeli, ma anche dai lessici dell avveduta amministrazione monastica, oltre che da una miriade di sentieri testuali leggendari, ricapitolati nella loro sostanza dalla Legenda aurea, la rappresentazione solo in apparenza più generica del fur, del ladro comune abituato a perpetrare in una oscurità tanto reale quanto simbolica le proprie malefatte, a determinare dunque la rovina del pubblico bene per la via di una dissimulazione e di un inganno tanto peggiori perché mascherati. Una tradizione narrativa, radicata nel Vangelo di Giovanni,

3 3 riorganizzata e tramandata dai vocabolari delle regole monastiche laddove essi avevano definito le forme della corretta gestione di beni della comunità, rileggeva a partire soprattutto dal XII secolo la figura di Giuda come tipo del ladro occulto, e decifrava la sua impiccagione come modello di pena da infliggersi esemplarmente a quanti attentassero all ordine economico della collettività. L infamia del fur, anche lessicalmente riconducibile al concettoparola furvum ossia oscuro, invisibile, notturno, nigrum, e per questo autore di un crimine tanto più inquietante, aveva acquistato insomma nella ricostruzione della figura di Giuda tra XI e XIII secolo, tutto il fascino negativo di uno stereotipo dominante: che aveva pertanto invaso prepotentemente il campo della legislazione e della rappresentazione diffusa, se è vero che mentre l ambito statutario e giurisprudenziale italiano e francese segnalano, fra Due e Quattrocento, nel furto la trasgressione più odiosa perché più insidiosamente connessa al tradimento di una fiducia sociale ipotizzata come irrinunciabile, nel contempo teologi e canonisti fanno del ladro il protagonista obbligato di un avarizia criminosa e impenitente, quasi certamente recidiva e in se stessa, dunque, preludio ad una disobbedienza politica da punire con la morte. Sì che, ad esempio, una cronaca come quella di Matteo Villani può sottolineare che è appunto per mezzo dell accusa di furto che in ogni momento si può infamare il nemico politico, anche se leggiadro e di gran pompa come Bordone figlio di Chele Bordoni, indurlo dunque sulla base della pubblica voce a confessare sotto tortura ( il mormorio del popolo minuto era contro di lui ci fa notare il Villani), ed anche metterlo a morte. Antonino da Firenze all inizio del Quattrocento ribadirà il concetto stabilendo che "la terza figliuola del avaritia si chiama proditione cioe tradimento di persone come giuda traditore che tradì christo dandolo nelle mani de' nimici o tradire cipta o castella..." Già nel fra Due e Trecento, del resto, un testo, attribuito a un divulgato enciclopedista come Vincenzo di Beauvais, aveva affermato la somiglianza tra il più malfamato degli uomini d affari, l usuraio manifesto, e Giuda: comedendo et bibendo cum homine, et cum fratre proprio, mutuando et pecuniam tradendo, intendit eum exheredare et spoliare suis. Similis Iudae proditori qui comedendo et bibendo cum domino eum intendebat prodere. La mala fama economica si congiungeva quindi ad una nozione di tradimento del bene pubblico in molteplici flussi testuali, che, dal Tre al Quattrocento, facendo leva sulla divulgata figura di Giuda come prototipo di un uso antisociale ma anche economicamente perdente della ricchezza, conducevano ad intendere il mercante da poco, il mercante fallito o il mercante isolato e privo di contatti col mondo dei gruppi solidali, delle fraternità e delle famiglie, come personaggi anomali e fondamentalmente sinistri. Indebitati insolventi e cattivi

4 4 pagatori di quanto richiesto per via fiscale dalle amministrazioni cittadine, come ci rivelano gli studi di Massimo Vallerani e Giuliano Milani, avevano del resto molto in comune con coloro che, per essere stati identificati come esterni alla fama economica, piombavano nel ruolo di nemico del bene pubblico. La buona reputazione economica non coincideva dunque, nelle parole e nelle concettualizzazioni di mercanti e giuristi fra Tre e Quattrocento in Italia, con un generico insieme di buoni ed onesti comportamenti attestati dalla publica vox, ma assai più concretamente con una pratica economica e sociale in grado di attestare e confermare la partecipazione di chi agiva economicamente ad un modello di gestione della cosa pubblica, a sua volta costruito a partire da catene concettuali lunghe e profonde, non necessariamente consapevoli ed esplicite, ma desumibili da una analisi del vocabolario delle fonti serrata e costante. Una reputazione economica non era fatta quindi soltanto di provata onestà negli affari, ma anche, se non di più, dalla consuetudine familiare con le famiglie o i clan cittadini meglio reputati e più potenti. Dal fatto, sì, di essere associati sul piano economico con questi uomini onorati e rispettati, ma anche di essere uniti a loro da vincoli di amicizia, parentela, affinità, consuetudini. Un certo numero di documenti abitualmente considerati prove di una vita economica chiusa nei confini del perseguimento di una onesta utilità, potranno a questo punto essere riletti nella prospettiva di quanto essi ci dicono in tema di appartenenza civica e di contrattabilità sociale delle norme economiche. E il caso tanto delle serie statutarie dedicate a fissare le logiche del recupero di crediti da parte dei comuni quanto delle infinite registrazioni notarili di debiti pagati o non pagati a gruppi professionali (un buon esempio ci è offerto, per Firenze, dalle imbreviature di Matteo Biliotto riguardanti i debiti vantati dalla società dei linaioli). In entrambi i casi l abitudine storiografica a pensare le relazioni creditizie medievali italiane che stabilivano un prezzo del denaro, come comportamenti semi-legali ed estranei ad una piena rispettabilità economica risulta infondata e aprioristica. E infatti chiaro che, tanto nel primo quanto nel secondo caso, il debito e la sua registrazione normativa o notarile non soltanto dimostrano l esistenza di un vincolo d obbligazione, ma, di più, attestano tutto l onore di appartenere a gruppi, governativi o professionali, sia in veste di creditori sia in veste di debitori. L esibizione scritturale del debito da restituire, sub poena dupli, ovvero cum damnis, expensis et interesse, ossia maggiorato da un interesse di tipo usurario, aveva nelle scritture ufficiali tutta la pubblicità di una transazione onorevole, ben lontana dunque dalla ambiguità del prestito mascherato come in genere si ritiene: questa relazione economica e fiduciaria era in effetti sistematicamente qualificata da un pagamento

5 5 aggiuntivo alla somma prestata o di cui si vantava il credito; se l importo dell interesse non veniva quantificato formalmente ciò dipendeva dal fatto che esso era inteso o come prezzo della gratitudine risultante da un mutuo amichevole comprensiva di una compensazione di spese, o come ammenda punitiva da definirsi in base alle condizioni specifiche del mancato o ritardato pagamento. L intera configurazione dei rapporti di credito-debito, per come ci è rivelata dalle definizioni statutarie, e dalle registrazioni notarili, ossia da documenti pubblici, mostra dunque sino a che punto da un lato lo spazio economico cittadino italiano tre e quattrocentesco ritenesse onorata la relazione creditizia e costoso il denaro ove credito e denaro fossero gestiti da soggetti indiscutibilmente ossia per definizione ritenuti utili al Corpo sociale, e dall altro facesse discendere il significato di una transazione economica dal prestigio di gruppo di coloro che la attivavano. Il problema non era costituito, in sostanza, per legislatori, civilisti, canonisti e teologi dal denaro e da una sua astratta sterilità, ma dal significato sociale e politico ovvero dalla rispettabilità e dunque dal valore civico riconosciuti a coloro che lo facevano circolare, lo spendevano e lo pagavano. In questa prospettiva, le ricerche recentissime di Gabriella Piccinni sulla vita economica e i dibattiti antiusurari nella Siena trecentesca, di Anna Esposito sulla definizione di inaffidabilità di forestieri e socialmente disinseriti nella Roma del Quattrocento, e di Antonella Astorri sul potere del tribunale della Mercanzia nella Firenze trecentesca di definire il senso e i confini della reputazione economica, permettono di capire a fondo quanto la fama economica fosse questione determinata da elaborazioni discorsive e da sentenze prodotte in ogni caso da una ristretta minoranza di detentori del potere economico. Il fatto che l attentato alla buona reputazione di un mercante noto e socialmente ben inserito ci sia testimoniato a Firenze, come ha messo in luce Antonella Astorri, da carte processuali che narrano storie di truffe ordite da infedeli e stranieri ignoti alla città cristiana ai danni di mercatores di ottima fama, e che la forma di tali ipotetici inganni sia quella di una rivendicazione di credito, negata con successo grazie all intervento del Tribunale della mercanzia fermamente intenzionato a difendere l onore economico di chi è al sopra di ogni sospetto, ci induce a riflettere non soltanto sui modi di costruzione della colpa economica in Italia fra Tre e Quattrocento, ma anche sulla indubitabilità della parola di chi, a Firenze come a Roma, a Milano, come a Siena, faceva parte della piccola schiera dei super-cittadini ovvero di quelle che Edwyn Hunt ha denominato the medieval super-companies. Il numero piccolo di cittadini che ordinassono e pacificassono i cittadini e la terra e che, stando alle parole di Giovanni Bentivoglio per come ce le riferisce il Morelli nelle sue memorie, riteneva di avere un maggiore diritto di

6 6 amministrare la realtà cittadina, si impone sempre più dal Tre al Quattrocento come protagonista privilegiato della vita economica italiana. Questo modello di élite o di oligarchia ha tuttavia il suo punto di forza politico nella capacità che, fra centro e nord italiano, già fra Due e Trecento, esso ricava dalla capacità che lo caratterizza di presentarsi come fautore e produttore di un bene comune economico altrimenti impossibile, di un equilibrio governativo come quello che Giovanni Villani poteva attribuire ai XXXVI buoni uomini mercatanti e artefici, de' maggiori e migliori che fossono nella cittade che, a Firenze, nel 1266 venivano creando un meccanismo di controllo economico e politico potente come quello delle Arti maggiori e minori. Se, tuttavia, la reputazione economica, come appare da molti indizi, era faccenda dipendente dalla appartenenza di gruppo, e, per esempio, non erano l esercizio del prestito a interesse, o la pratica creditizia, a determinare l accusa di usura, ma piuttosto la condizione di usuraio manifesto e conclamato, o l autodenuncia, o la resistenza a pagare quanto dovuto, a imporre uno stigma di estraneità e il ruolo di nemico del bene pubblico, ci si deve domandare come la condizione di cittadino, e l appartenenza alla civitas fossero in realtà connesse ai comportamenti economici e alla fama che poteva derivarne. Bisogna prima di tutto distinguere con una certa cura fra le dichiarazioni formali di cittadinanza, così come venivano registrate in molte città italiane, dipendenti che fossero dall acquisizione di proprietà immobili o da privilegi concessi per meriti particolari, da un grado più profondo di cittadinanza come poteva essere quello derivante dalla reputazione economica, in se stesso debolmente connesso alla registrazione ufficiale, ma tipico di un basso medioevo cittadino italiano che appunto riguardo alla nozione di appartenenza al corpo cittadino aveva sviluppato un massimo di ambiguità, non fosse altro perché la convalida delle identità civiche dipendeva da un groviglio giurisdizionale di cui facevano parte la norma canonica, la pratica sacramentale, il diritto locale e quello comune. Proprio perché essere cives era in ogni caso il risultato di una composizione, del sovrapporsi di differenti aspetti della identità personale, ed equivaleva ad una risposta molteplice alle esigenze di riconoscibilità stabilite da poteri e da istanze di giustizia differenti, la vox publica, o almeno quanto il gioco dei poteri ammetteva o doveva ammettere della vox publica, giocava un ruolo importante nella definizione della cittadinanza e soprattutto di quella legata a comportamenti economici ossia pubblicamente visibili e presupposti tanto dal vocabolario della tradizione teologica, quanto da quello della codificazione canonistica e civilistica, come fondamento della felicità pubblica e del bene comune. In altre parole, la relazione fra reputazione economica ed appartenenza civica

7 7 risultava nell Italia delle città tre - quattrocentesche dal sottile equilibrio che si determinava fra riconoscibilità pubblica, attestata dalla rinomanza, e partecipazione ai riti di una socialità di mercato convalidata istituzionalmente ma anche a livello dottrinario dalla élite giuridica, teologica ed economica che amministrava il potere nelle città e che era espressa dal sistema dominativo delle famiglie di antica o recente ricchezza. La definizione corrente del risultato di un tale non facile equilibrio, riassunta da definizioni ingannevolmente limpide come quella corrente nelle memorie mercantili di onorevole cittadino e buono mercatante, non deve nasconderci la complessità reale di cui si intesseva la piena cittadinanza fondata su una buona fama economica. Gli scritti memorialistici e didascalici dei mercatores italiani di successo illustrano, fra Tre e Quattrocento, e con una certa chiarezza, se osservati da vicino, la complessità di una fama economica in grado di fondare una cittadinanza indiscutibile. Proprio il fatto che in queste dichiarazioni di identità appaia esplicitamente la necessità di un intreccio tra abitudini, scelte economiche e sociali, e strategie politiche di inserimento comunica al lettore e mette in pubblico quanto la fama di buon mercante e buon cittadino sia questione da contrattarsi con i poteri e gli ambienti che, nella città, fanno e cioè dominano il mercato. Già Pegolotti, nella celebre introduzione versificata al suo manuale di mercature, per definire Quello che dee avere in sè il vero e diritto mercatante, deve comporre un elenco alquanto eterogeneo di comportamenti in grado di far riconoscere nel mercator un membro credibile della società cittadina. Onestà (dirittura), e previdente accortezza (provedenza) lo devono qualificare, ossia atteggiamenti tanto morali quanto tecnicamente economici. Al tempo stesso la sua parola deve essere ritenuta affidabile (ciò che promette non venga mancante), e il suo aspetto onorevole e piacevolmente accogliente (sia se può di bella e onesta contenenza fuori di rampogna con bella accoglienza). Cautela economica, intelligenza contrattuale, e buoni rapporti col mondo ecclesiastico ne faranno un protagonista apprezzato del mercato (scarso comperare e largo venda la chiesa usare e per Dio donare crescie in pregio, e vendere a uno motto). La sua visibilità di commerciante dovrà infine ben distinguersi dall infamia del gioco d azzardo e dell usura manifesta, risultando invece da una costante professionalità contabile (usura e giuoco di zara vietare e torre via al tutto. Scrivere bene la ragione e non errare.) Non può sfuggire che questo sistema di qualità fa dell abilità di inserimento sociale un aspetto decisivo della capacità gestionale e aziendale: per essere considerati bravi mercanti bisogna prima essere riconosciuti come cittadini nel senso pieno del termine da quanti, l Arte della Mercanzia, la Chiesa, le grandi famiglie, la pubblica opinione, organizzano la credibilità di

8 8 chi gioca i giochi del mercato. Pochi anni dopo, Benedetto Cotrugli si diffonderà ancora su tutto questo, ma insisterà, divulgandolo, su un aspetto della competenza e dunque della reputazione economica dell uomo d affari, la resistenza del corpo e della mente, una sorta di stoicismo economico, che, pur accennato e presente tra i mercanti scrittori del Trecento poiché radicato in una lunga ed antica tradizione discorsiva, messa a punto nell ambito delle riflessioni sulla credibilità mercantile della scuola economica francescana (Olivi, Scoto e avanti, fino a Bernardino da Siena e Matteo d Agrigento), e in grado di connettere ascesi e mercatura, stava diventando nel Quattrocento un segno distintivo della appartenenza del grande mercante al mondo delle aristocrazie cittadine. Scrive dunque Cotrugli, dopo aver nettamente distinto lo stile economico, spassionato e indifferente al denaro in se stesso, del vero mercante, da quello gretto dei rivenditori, degli inesperti del mercato o, peggio, degli usurai e della gente da poco, che quanto in definitiva fa del professionista del mercato una persona specialmente nobile è la capacità di durare gran fatica di giorno et di nocte, camminare personalmente a pie et a cavallo, per mare, per terra, et così affaticarsi nel vendere et nel comperare, et usare in tucte simili facciende quanta diligentia è possibile, posponendo ogni altra cura non solamente di cose superflue, ma etiamdio di quelle che sono necessarie alla conservatione della humana vita. Et però n'occorre alcuna volta il differire il mangiare et bere et dormire, anzi è necessario di tollerare fame, sete et vigilie et simili altre cose che sono noiose et contrarie alla quiete del corpo; il quale se non fussi acto come dextro instrumento, non potrebbe sopportare, et sopportandolo ne riceverebbe incommodità, alla quale di necessità sequirebbe infirmità et di poi morte. Onde di due inconvenienti ne sequirebbe l'uno, o veramente che non pigliando simili exercitii come si conviene non sarebbe il proposito et cet., nè verrebbe al suo desiderato fine, o che facciendolo non potrebbe per la disaptitudine del corpo perseverare et perseverando chascherebbe nella infirmità et morte. Et perché l'uno et l'altro di questi due inconvenienti extremi sono da schifare, diciamo et confirmiamo ch'egli è sommamente utile et ancora necessario l'avere il corpo in buona dispositione, acto a simile essercitio, il quale a questa opera della consequition del fine concorrerà come instrumento adacto non altrimenti che si facci il martello che concorre come dextro instrumento del fabbro quando fabrica l'acuto.» L uomo d affari superiormente dotato, a buon diritto riconoscibile come componente della élite cittadina e al tempo stesso così padrone di sé da sdegnare il denaro in quanto tale, ha nel suo stesso corpo, ammaestrato e ben esercitato, il primo strumento di un successo che è soprattutto ascesa sociale. Si tratta, però, di una forza fisica e di una resistenza, di una tenacia,

9 9 prodotte da un acutezza mentale in se stessa segno di elezione. Il corpo dev'essere acto a supportare li affanni, non dico però che sia bastagio, perché communemente quelli che sono robusti et forti di loro natura non sono habili d'intellecto. Debbe dunque il mercante essere supportante li affanni et havere le sue carni molli et delicate, le quali demostrano la nobiltà dello intellecto, non dico corpi inbecilli per la inaptitudine al'exercitio, né dico facti bastagi et robusti, li quali communemente sono inscipidi et bestiali compagnoni et sanza fructo, la quale cosa è contrariissima allo mercante. La reputazione economica, in altri termini, fonda una supremazia civica poiché produce al di là della competenza e anche del profitto, un immagine divulgabile di superiorità intellettuale e politica. L apparizione nel discorso del bastagio il facchino, a indicare la quotidiana e spregevole miseria di una forza fisica utile ma socialmente indegna, inscipida e bestiale, ossia priva del sale dell intelligenza e dello spirito e dunque subumana, orienta evidentemente il ragionamento specificandone il senso che è tanto politico e antropologico quanto economico. La supremazia economica ma anche l incontrovertibile cittadinanza del vero mercante dipendono a questo punto da scelte e comportamenti la cui valenza, civica, religiosa, morale, rivelano in realtà una superiorità molto vicina a quella di sangue. Un abisso incolmabile separa la forza e la compostezza di questo esperto della ricchezza pubblicamente significativa dalla sciatta incompetenza del piccolo bottegaio, dalla avidità dell usuraio o dalla smania di guadagno di ignoranti, vedove, villani et homini che non sono usi alo exercitio della mercantia. Si tratta nel caso del grande mercante di essere e di apparire nella mente, nel corpo e nella amministrazione come uno di quelli che sono ricchi et hanno il governo di molte cose et grandi, e che pertanto debbono stare con l'intellecto sublevato et investigare le cose alte. La fama economica deve essere fama di un identità centrale alla città, superiormente predisposta alla gestione della ricchezza come governo del bene comune: una vera e indiscussa reputazione economica fa tutt uno, ci spiega Cotrugli, con l appartenenza al gruppo esclusivo di coloro che sanno amministrare la cosa pubblica. Chi guida un economia, come chi comanda una nave, dovrà dunque essere ed essere visto come uomo temperato, continente, sobrio, domestico nello magnare, apto alle fatigie, acre et vivo, non avaro, non giovene, patre che agia figlioli, addire apto et ornato, de extimatione predito, ma ormai queste sue qualità ne segnaleranno più che la virtù generica o la competenza economica, il diritto di far parte della luminosa élite che, come aveva scritto Tommaso d Aquino, può comandare all infinito popolo di quelli devono ubbidire.

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