Mi chiamavano montanaro p. 011
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- Marta Corsi
- 8 anni fa
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1 Mi chiamavano montanaro p PERCHÉ? Tutto cominciò con un sogno di Simone, un mio carissimo amico di Aosta. Viveva anche lui, come me, da qualche anno a Milano dove frequentava l università. Me lo raccontò il mattino dopo, un giorno d inverno del Si era sognato che sarei diventato famoso con una barca. Risi di cuore. L acqua era lontana da me come il sole dalla luna; in quel periodo, tra l altro, ero impegnato a organizzare una spedizione di corsa in Alaska. Ero infatti un uomo di montagna nato e cresciuto ad Aprica, in provincia di Sondrio, in una bellissima valle alpina chiamata Valtellina. I miei genitori ci arrivarono nel 74 appena ventenni: erano diretti a St. Moritz dove volevano cercare lavoro nella ristorazione. Non se ne andarono più. Aprica è un passo alpino che sorge a 1200 metri sul livello del mare e neanche se salissi sulla montagna più alta riuscirei a vedere il mare. Scoprii qualche anno più tardi che il senso, quel sogno, ce l aveva davvero e non era tanto bizzarro e fuori luogo quanto credessi. In ricordo di quella sera avrei chiamato il mio progetto di traversata «Al-One», contrazione del mio nome e di quello del mio amico, nonché termine inglese che sta per «solo».
2 Mi chiamavano montanaro p Mi chiamavano montanaro Fu il 2001 l anno zero. Da qualche anno, senza grandi risultati e con aspirazioni in drastico calo, studiavo a Milano alla facoltà di scienze bancarie alla quale mi ero iscritto con grande entusiasmo. La consideravo ormai come una stazione ferroviaria in attesa che arrivasse il treno giusto a portarmi via. Fin da piccolo avevo praticato diversi sport tra cui lo sci, ma ultimamente era nata in me un attrazione per qualcosa di nuovo, per qualcosa di distante da me che non sapevo neppure dove andare a cercare. Non ero soddisfatto della vita che conducevo, sognavo di fare esperienze diverse che mi avrebbero arricchito interiormente. A febbraio andai in Marocco per partecipare alla Marathon des Sables, una corsa di duecentocinquanta chilometri in autosufficienza. Fu una corsa durissima che mise a dura prova le mie capacità di resistenza alle fatiche e ai dolori fisici. A partire dal terzo giorno, la pelle della pianta dei piedi veniva via assieme alle calze che levavo la sera a fine tappa, procurandomi dolori strazianti. Ma nonostante questo, cominciai ad apprezzare il senso della sfida con me stesso e il piacere di percorrere la «vita» attraverso strade non battute. Una sera scambiai due chiacchiere con un noto cameraman della RAI, il quale mi raccontò con evidente emozione di essere stato qualche tempo prima in Alaska per seguire con la telecamera un gruppo di folli che correvano per centinaia di chilometri in una delle zone più fredde, selvagge e isolate al mondo. Da quel momento corsi la Marathon des Sables con il desiderio di raggiungere il prima possibile il traguardo e potermi dedicare alla corsa in Alaska. In Alaska ci andai per due anni consecutivi, nel 2002 e nel Il primo anno partecipai alla gara con incoscienza,
3 Mi chiamavano montanaro p Perché? 13 senza aver ben chiaro ciò che avrei dovuto superare per raggiungere l arrivo, ma la forte motivazione mi bastava ed ero convinto che sarebbe stata in grado di colmare le lacune della mia preparazione approssimativa. Sapevo solo che avrei dovuto percorrere seicento chilometri durante il rigido inverno dell Alaska in completa autosufficienza, vale a dire senza poter richiedere assistenza esterna. Le informazioni e i resoconti di chi aveva partecipato in passato a questa corsa-avventura erano pochissimi e non riuscii mai a mettermi in comunicazione con chi ne conoscesse insidie e pericoli. Per far fronte alla necessità di essere completamente autonomo, di dormire al riparo da venti e isolato dal terreno gelido, con l aiuto di un mio amico di nome Philippe decisi di costruire una slitta composta da due gusci in vetroresina, che mi permettesse di dormirci dentro. La progettammo seduti a un tavolo, su un pezzo di un tovagliolo di carta, durante una cena tra amici, la sera stessa in cui ci conoscemmo. Dopodiché la costruimmo nel suo box durante un inverno di intenso lavoro. Ero certo di aver trovato la soluzione a tutti i problemi di sopravvivenza in ambienti estremamente freddi e mi chiedevo perché nessuno ci avesse mai pensato prima. Svolsi anche una preparazione fai-da-te. Per poter meglio sopportare i climi polari che mi attendevano in Alaska mi feci prestare da un amica di famiglia albergatrice di Aprica la sua cella frigorifera con temperatura minima 18 ºC nella quale per qualche giorno feci delle prove di resistenza e sulla qualità e la combinazione ideale di abbigliamento. Anche le metodologie di allenamento furono bizzarre e alternative. Avevo individuato un grande prato poco fuori dal centro di Aprica. Correvo fino a quattro ore al giorno,
4 Mi chiamavano montanaro p Mi chiamavano montanaro trainando dei copertoni legati fra loro, su un circuito di circa due chilometri di lunghezza con piccoli saliscendi, da me disegnato. Non di rado sceglievo di allenarmi di notte, con qualsiasi condizione meteorologica. All inizio di dicembre, quando cadde la prima neve, sostituii i copertoni con la slitta che mi sarei portato in Alaska. In parecchi, vedendomi correre nel bel mezzo della notte, magari sotto una nevicata, si fermavano incuriositi e se raccontavo loro le mie intenzioni lo sbalordimento aumentava. «Perché lo fai?» mi chiedevano. «Perché no?» rispondevo senza neppure fermarmi. La cosa più ridicola mi successe qualche anno più tardi, una sera di inverno, mentre rientravo a casa dopo un lungo allenamento. Scendevo da una pista da sci di Aprica di corsa, ai piedi delle scarpe da ginnastica. Ero vestito tutto di nero e sembravo Diabolik. Correvo spedito quasi nel buio completo e mentre passavo di fianco a un gruppetto di bambini il più grande di loro disse agli altri, parlando piano come se stesse per raccontare loro una confidenza: «Ecco che arriva il matto!» Atterrai all aeroporto di Anchorage con una slitta enorme, simile a una cassa da morto, che pesava 52 chili a pieno carico, in mezzo allo stupore di chi era venuto ad accogliermi. Nei giorni precedenti la partenza della corsa venni seguito con curiosità e interesse dagli altri concorrenti che, organizzati con slitte più leggere e idonee al tracciato, cercavano di farmi ragionare sulle dimensioni extra della mia slitta. Erano tutti sempre più dubbiosi sulla riuscita della mia traversata e seriamente preoccupati per la mia sicurezza. Di fronte a quelle facce poco convinte reagivo borbot-
5 Mi chiamavano montanaro p Perché? 15 tando tra i denti: «Non sapete con chi avete a che fare! State a guardare! Costi quel che costi arriverò in fondo». La corsa partì, la progressione fu da subito molto lenta, le notti nella slitta non si dimostrarono meno fredde di quelle passate all addiaccio e il peso si rivelò enormemente maggiore rispetto all effettivo vantaggio di poterci dormire dentro. Successe in più di un occasione che, davanti a una dura salita, dovetti svuotare completamente la slitta da tutta l attrezzatura, farne un fagotto con il sacco a pelo e portarlo in cima per poi ridiscendere, caricarmi la slitta sulle spalle e ritornare in cima. L avventura fu dura e lunghissima, a tratti un incubo, ma non ebbi mai nessuna intenzione di mollare. Venni soprannominato simpaticamente «l italiano con il motorhome», un nome azzeccato per la mia slitta oversize. Chi ebbe il modo di incontrarmi, nei pochi villaggi attraversati durante la marcia, si dimostrò sempre sorpreso di vedermi ripartire dopo una breve sosta al check point. Davo l impressione di essere una persona sull orlo del crollo fisico eppure dentro mi sentivo solido come una roccia. Dopo nove giorni di fatica, una mattina presto, annegato nelle mie stesse lacrime, tagliai il traguardo di McGrath, un piccolo villaggio oltre i monti dell Alaska Range. La notte precedente, a pochi chilometri dall arrivo, avevo perso l orientamento e vagato alla cieca nel letto ghiacciato di un fiume. Ad attendermi c era l organizzatore della corsa che mai avrebbe creduto possibile che ce l avessi fatta. Avrei certamente avuto vita più semplice se mi fossi fatto convincere a sostituire la mia slitta con una più leggera, ma volevo essere coerente con le mie scelte, a costo anche di sbagliare. Dovevo ancora capire che intestardirsi è spesso un grosso errore. Nel 2003, un po meglio organizzato, con una slitta più
6 Mi chiamavano montanaro p Mi chiamavano montanaro leggera, riuscii a percorrere millequattrocento chilometri in ventitré giorni fino a Nome, sul mare di Bering. Non ricordo quando e come maturai la scelta di attraversare l Atlantico a remi, anche se sicuramente qualcosa o qualcuno mi influenzò. Ma ricordo perfettamente il giorno in cui ebbi per la prima volta notizia di un rematore oceanico. Ho sempre avuto, sin da piccolo, una passione per gli orologi, soprattutto per quelli sportivi. Forse passione non è la parola giusta. Provavo gusto ad avere un orologio al polso, mi sembrava un oggetto che si potessero concedere solo gli adulti e ogni volta che mio padre si presentava a casa con un piccolo pacchetto speravo ci fosse dentro un nuovo orologio. Quando compii tredici anni, la mia nonna paterna mi regalò un bellissimo Sector, che in quegli anni era sponsor di numerosi atleti estremi. Insieme all orologio, mi fu dato anche un libro in cui venivano presentati i personaggi sponsorizzati dall azienda attraverso le loro gesta avventurose. Mi colpì molto un francese, Gérard D Aboville, che nel 1980 aveva attraversato l oceano Atlantico del nord dagli Stati Uniti alla Francia con una piccola barca a remi in legno; nel 1991 era stato il primo al mondo ad attraversare, sempre a remi, il Pacifico dal Giappone agli Stati Uniti. Ricordo di aver guardato quelle pagine con ammirazione. Provavo una fortissima attrazione per quelle avventure di mare, per quella storia che mi pareva impossibile, una sfida di altri tempi che solo un uomo con una forza straordinaria sarebbe stato in grado di affrontare. Il tempo passò e nonostante del libro non me ne fossi mai sbarazzato anzi, fa ancora oggi bella mostra nella mia libreria lo persi di vista facendomi travolgere da altri
7 Mi chiamavano montanaro p Perché? 17 avvenimenti. Ma da quel giorno, in qualche parte dentro di me, la spia dell Atlantico rimase sempre accesa. Continuai a sentire degli stimoli interiori che mi nascevano dentro allo stomaco e che me lo annodavano. Sentivo un attrazione verso qualcosa di ignoto che non riuscivo a individuare, ma combattevo quei pensieri con le amicizie e le esperienze tipiche di un adolescente che cercava di ancorarsi alla vita di tutti gli altri. Non osavo ancora avventurarmi per sentieri nuovi anche se coglievo il mio disagio nel percorrere una strada già battuta. Finché le mie reali aspirazioni si fecero sempre più invadenti tanto da diventare una presenza costante e scomoda. Cominciai a non pensare ad altro. Sempre più spesso la notte mi tornava in mente l avventura di D Aboville e mi sembrava di vivere la sua esperienza in prima persona. Sentivo il vento nelle orecchie, le mani indurite dai calli impugnare i remi di legno, la fatica e la paura opprimermi ma capivo che la mia forza interiore, che cresceva sempre più, poteva resistere a tutto quello. L Atlantico, ancora prima di salire per la prima volta su una barca a remi, l avevo già attraversato migliaia di volte. Non sognavo più, vivevo in anticipo avvenimenti che si sarebbero verificati anni dopo. Tra ciò che ero e ciò che sarei voluto essere c era di mezzo il mare. Così decisi di attraversarlo. La mia famiglia non ha mai opposto resistenza alle mie avventure. Quando decisi di rivelare a mio padre la mia decisione di correre la prima maratona in Marocco, mi aspettavo che mi dicesse che era molto meglio per me rimanere a casa, impegnarmi nello studio perché ero indie-
8 Mi chiamavano montanaro p Mi chiamavano montanaro tro con gli esami, con tutti i sacrifici che faceva per mantenermi a Milano. Che dovevo diventare più responsabile della mia vita; crescere una volta per tutte. Invece successe tutt altro. Si dimostrò tanto entusiasta dell idea che si offrì di seguirmi per farmi da assistenza con la moto, sua vecchia passione. Gli spiegai che non sarebbe stato possibile. In Marocco ci sarei dovuto andare da solo. Erano passati più di dieci anni da quella notte in cui lo vidi partire da Aprica per il suo secondo viaggio in moto fino a Dakar in Senegal, la Mecca di ogni motociclista da fuoristrada. Pioveva e faceva anche freddo, credo che fosse novembre. Non so perché decise di partire proprio di notte, e sotto l acqua, forse rendeva il viaggio più avventuroso. Dalla finestra osservai mia mamma di fianco alla moto, poi mio papà che scompariva. La moto era carica come un asino di ogni attrezzatura, mi chiedevo come potesse aver ancora la capacità di muoversi. Taniche di benzina supplementari, copertoni da deserto, tenda, sacchi a pelo e un infinità di altri oggetti. Mentre tornavo a letto, dopo che avevo visto la moto allontanarsi lasciandosi dietro una scia di spruzzi di acqua, pensai che avevo proprio un papà tutto matto. La domanda che mi viene posta più di frequente è: «Perché?» La gente vuole sentirsi parlare con termini che conosce, vuole fatti, motivazioni chiare e spesso non è facile rispondere come gli altri si aspettano. Ma forse, il fatto di non trovare una risposta precisa è anche la mia fortuna più grossa. Se avessi una risposta non avrei più motivo di andare a ricercare il «perché». Sempre a patto che parta per cercarlo. Se lo trovassi, potrei anche rimanerne deluso.
9 Mi chiamavano montanaro p Perché? 19 Ho smesso di chiedermi il perché delle cose da molto tempo. Da quando mi sono accorto che cercare un motivo ragionevole, dare un senso a ogni azione, avrebbe limitato la mia vita a ciò che reputavo logico. Non c è logica in quello che faccio e non la si potrà trovare nemmeno in questo libro. Ci sono invece emozioni. Forse le uniche che hanno veramente un senso e un valore. Un giorno il mare mi ha chiamato e io ho risposto, accettando l idea assurda e per molti senza senso di buttarmi verso qualcosa di sconosciuto e lontano da me. È stato in quel preciso momento, quando ho accettato la sfida, che ho dimostrato vero coraggio. Tutto il resto che accadde tra la partenza da Genova con la mia barca a remi e l arrivo in Brasile è stato solo un avventura. Ci vuole coraggio ad accettare il confronto con emozioni sconosciute che in una vita «a terra» non avrei potuto provare. Avevo voglia di vivere, di sopravvivere, di tornare a casa sano e salvo, di vincere i marosi, gli imprevisti, la fame e i mesi infiniti di solitudine. C era una sola maniera per farlo: remare. Nel febbraio 2003, il giorno prima che prendesse il via la mia seconda partecipazione alla corsa-avventura in Alaska, scrissi sul mio sito web: Verranno giorni, là fuori, tutt altro che semplici. Giorni in cui rimpiangerò di non essere mai stato un tipo «tra le righe». Mi maledirò per aver permesso a certe passioni di essersi potute radicare così profondamente nella mia persona. Saranno solo attimi. Poi capirò perché sarò là. Ad ogni persona è stato assegnato un posto, nel mondo. Il mio è un posto senza nome e senza terra in cui soffia il vento della libertà.
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