Jean-Marie Schaeffer. L immagine precaria. Sul dispositivo fotografico. Traduzione e cura di. Marco Andreani e Roberto Signorini

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1 Jean-Marie Schaeffer L immagine precaria Sul dispositivo fotografico Traduzione e cura di Marco Andreani e Roberto Signorini

2 INDICE Introduzione... 7 Nota dei traduttori Avvertenza Capitolo 1 L arché della fotografia Osservazioni preliminari Impronta e immagine fotonica Produzione e riproduzione del visibile: fotografia e camera obscura Questioni infondate e problemi veri Indice, icona e convenzione Sapere dell arché o lettura del codice? Indicatore, indice e impronta La funzione indicale Capitolo 2 L icona indicale Al di qua e al di là dell immagine fotografica Spazio e tempo fotografici Il representamen, l interpretante e l oggetto Informazione fotografica e codice cibernetico Sull obiettività L immagine fotografica come segno di ricezione Informazione fotografica e codice iconico Il segno fotografico Capitolo 3 L immagine normata Situazioni di ricezione La ricezione dell immagine come impronta

3 6 3. Il campo quasi-percettivo La tesi di esistenza Le regole normative La testimonianza Presentazione, mostrazione e postulato comunicazionale Capitolo 4 La questione dell arte Un arte precaria Il bello e il sublime Fotografia ed estetica romantica Epifania dell essere e verità ottica L astigmatico La luce come rischiaramento e la luce scotofora Una immagine fotografica L immagine come opera Bibliografia Indice dei nomi Autore, curatori

4 Introduzione Il libro nel suo contesto Roberto Signorini Jean-Marie Schaeffer è uno studioso francese già noto in Italia per alcuni saggi di estetica e teoria letteraria (1989, 1992, 2000) tradotti abbastanza tempestivamente. Il denso saggio che qui proponiamo esce invece a quasi vent anni dall edizione originale (1987). Ciò rende necessario da una parte spiegare le ragioni di un simile ritardo, e dall altra illustrare il contesto in cui nasce un opera che è ormai possibile leggere in prospettiva storica, tanto più dopo l avvento dell immagine digitale e le ormai consuete affermazioni sulla fine della fotografia. Per quanto riguarda il primo punto, non occorrono lunghi discorsi. Il degrado culturale della società italiana degli ultimi due decenni è sotto gli occhi di chiunque conservi senso critico. Ma c è un arretratezza specifica che affligge la cultura della fotografia. Mi si conceda il ricordo di un esperienza personale: quando, quasi dieci anni fa, andavo proponendo inutilmente la traduzione di questo libro a varie case editrici (in Spagna era uscito nel 1990), un redattore di una fra le più autorevoli mi rispose con mirabile sintesi che non erano interessati perché sa, noi ci occupiamo di estetica, non di fotografia. Eppure in Italia esiste una piccola ma importante tradizione di studi teorici che, a partire dagli anni Settanta, affiancano e interpretano il rinnovamento della fotografia come ricerca visiva: ricordo solo i nomi di Ugo Mulas (1973), Franco Vaccari (1978, ) e Claudio Marra ( ). E nella fotografia si riconosce ormai, qui come all estero, una delle forme più importanti dell arte contemporanea. Tuttavia, in contrasto con quanto avviene altrove, in Italia è limitata, e soprattutto isolata e dispersa, la produzione di pubblicazioni di riflessione teorica, si tratti di opere tradotte oppure di studi originali (nell ultimo ventennio, per le prime v. Krauss tr. it. 1996, Dubois tr. it e Adams 1981 tr. it. 1995; per i secondi, v. Mele 1983, 1991, Mormorio 1985, 1997, Sini 1991, Vaccari , 2001, , Costa 1998, Marra 1990, 1992, 1999, 2001, 2002, , Marra e altri 2000, Signorini 2001, Pieroni 2002, Valtorta [cur.]

5 8 2004, Giusti 2005). Inoltre sono ben pochi, e spesso di natura precaria, gli insegnamenti universitari che diano spazio a un approccio teorico alla fotografia. Per queste ragioni non c è da meravigliarsi se da noi è assai più facile e frequente la valorizzazione delle fotografie come prodotti sul mercato dell arte che non l indagine sulla fotografia come oggetto di un esercizio di pensiero. Ora, e vengo al secondo punto, è invece proprio un fervido dibattito teorico il contesto in cui nasce il libro che qui viene proposto. Siamo nella Francia degli anni Ottanta, dopo i fondamentali saggi sulla fotografia di Roland Barthes (1961, 1964, 1980a, 1980b) e di Susan Sontag (1977), e mentre cominciano a essere conosciuti gli studi di Rosalind Krauss ( , 1977); sono gli anni in cui più intensa è l attività dei Cahiers de la photographie ( ), una rivista a cui collaborano tutti coloro che fanno della fotografia un oggetto di riflessione essenziale e la vedono allo stesso tempo come posta in gioco estetica e come luogo possibile di un chiarimento, se non addirittura di una teoria (Gilles Mora, editoriali del n. 1 [1981], e del n. 15 [1985]). Fra i partecipanti al dibattito, che al lavoro dei Cahiers s intreccia attraverso molti fili, vi sono Henri Van Lier (1982a, 1982b, , ), Philippe Dubois (1983 1, 1986, ) entrambi di nazionalità belga, Jean-Marie Schaeffer (1987), e poi Jean-Claude Lemagny ( ), Gilles Mora (1982a, 1982b, 1985), François Soulages (1982, 1985, 1998), Philippe Ortel (1990), mentre la statunitense Krauss entra in contatto con l ambiente francese attraverso la rivista Macula (1977 tr. fr. 1979, tr. fr. 1990), Franco Vaccari viene tradotto dalle edizioni Créatis ( tr. fr. 1981), sui Cahiers interviene Luigi Ghirri (1985), caposcuola della nuova fotografia italiana, e del comitato di redazione fa parte Angelo Schwarz, animatore in Italia della Rivista di storia e critica della fotografia ( ). Tema centrale di questo dibattito (per una sintesi v. Signorini 2001) è il fotografico, cioè la singolarità semiotica della fotografia e insieme il suo ruolo di chiave interpretativa e paradigma di molta arte contemporanea, così che fare una teoria della fotografia, come auspica l ultimo Barthes (1980a), significa anche inventare un estetica nuova a partire dal fatto che la fotografia sposta la nozione di arte. Fondamentale, in questo itinerario dalla semiotica all estetica, si rivela il riferimento non più a Ferdinand de Saussure (1916) ma a Charles S. Peirce ( ), riscoperto negli anni Settanta da critici d arte e semiologi statunitensi ed europei, e da allora punto di riferimento obbligato dei nuovi teorici della fotografia. Alla luce delle nozioni peirceane di simbolo, icona e indice, la fotografia è interpretabile come un segno di tipo molto particolare, legato al proprio oggetto da un rapporto che non è solo di convenzione o di somiglianza, come nei simboli e nelle immagini della tradizione, ma è anche di connessione esistenziale, cioè non è solo simbolico o iconico ma è anche indicale, in quanto, come ha scritto Barthes (1980b), una fotografia è la traccia e la memoria fisica di qualcosa che è stato. Di tale specificità indicale del segno fotografico, della sua

6 natura d impronta e di traccia, Van Lier (1983) analizza il terribile mutismo, riluttante al significato ma proprio per questo possibile premessa di un arte estrema che pratica la sovversione dei codici (1982a, 1982b, 1983); e Dubois (1983), a partire dal fatto che la fotografia [ ] per via della sua genesi [ ] attesta ontologicamente l esistenza di ciò che fa vedere ma si mantiene essenzialmente enigmatica, afferma che con essa non ci è più possibile pensare all immagine al di fuori dell atto che l ha creata : donde l analisi del complesso rapporto che nell atto fotografico si stabilisce fra l iscrizione naturale del mondo sulla superficie sensibile e gesti e [ ] processi, del tutto culturali, che dipendono interamente da scelte e decisioni umane. Questa dialettica del fotografico tra presenza e assenza dell autore sposta decisamente l attenzione dal piano semiotico a quello della storia dell arte e dell estetica: per Dubois (1983, 1986) si tratta di ripensare in una prospettiva nuova tutte quelle forme di arte dell indice che, dalle impronte di mani delle caverne neolitiche fino al ready-made duchampiano e alle esperienze performative, processuali e concettuali da esso derivate, si contrappongono al modello dominante della rappresentazione mimetica e della creazione demiurgica, e praticano il modello alternativo della presenza diretta e delle forme autoprodotte, costituendo nel Novecento non più una corrente sotterranea dell arte ma una delle sue manifestazioni più rilevanti. Si apre così lo spazio per una riflessione sul ruolo del fotografico nell arte contemporanea, e quindi per un estetica della fotografia che ripensi in profondità le nozioni di opera, autore e fruitore ereditate dalla riflessione del passato. È qui che s inserisce il lavoro di Schaeffer, come terzo elemento di un ideale trittico teorico (v. Lemagny 1990). Delle riflessioni di Van Lier e di Dubois, L immagine precaria riprende e approfondisce i risultati nei primi due dei suoi quattro capitoli, fitti di riferimenti impliciti ed espliciti a Barthes e a Peirce. Il primo capitolo s interroga sul nucleo indicale che è il principio originario o arché della fotografia. Il secondo analizza la dialettica che si istituisce nella fotografia tra l indicalità dell impronta, in connessione esistenziale con l oggetto, e l iconicità dell immagine, in rapporto di analogia con la visione umana di esso: dialettica che fa della fotografia un icona indicale, un entità dinamica e ambigua con un numero indefinito di stati, ciascuno dei quali è caratterizzato dal posto che occupa lungo una linea continua bipolare tesa fra l indice e l icona (p. 91). Da questa costitutiva ambiguità consegue per Schaeffer che come già aveva annunciato Dubois (1983), senza però sviluppare il tema dell atto fotografico è parte essenziale non solo la produzione ma anche la fruizione dell immagine; e come per Dubois l automatismo fisico-chimico con cui si produce la fotografia è letteralmente chiuso, serrato, pressato dalle forme culturali della rappresentazione, così per Schaeffer l immagine fotografica in quanto segno di ricezione è culturalmente e socialmente organizzata e disciplinata in riferimento a certe norme che, su quell asse [indice-icona] sog- 9

7 10 getto a uno slittamento continuo, mirano a ritagliare degli stati discontinui, delle dinamiche di ricezione regolate (p. 91). Queste sono oggetto di attenta e minuta analisi nel terzo capitolo del libro, dove si studiano i diversi modi in cui le norme di ricezione cercano di aggirare la stranezza del segno fotografico, di minimizzare la sua estraneità, anche se non riescono a eliminarla perché esso, nonostante tutto, rimane in gran parte un segno selvaggio, intermittente (p. 92), restio ai fini comunicativi cui si cerca di piegarlo. Questa constatazione dell ambiguità ineliminabile del segno fotografico diventa il punto di partenza e di forza della riflessione estetica abbozzata nell ultimo e decisivo capitolo del libro, dedicato alla fotografia come arte precaria ( arte poco sicura l aveva definita Barthes 1980b). Proprio l irriducibilità di quel segno selvaggio che è la fotografia, la sua incapacità di costituirsi in oggetto estetico, almeno finché quest ultimo viene definito, secondo la logica romantica, come messaggio simbolico (p. 152), possono paradossalmente rappresentare il fondamento di un estetica della fotografia veramente adeguata al suo oggetto. In accordo con la messa in discussione postmodernista e poststrutturalista del soggetto e dell autore (v. Barthes 1968, Foucault 1969), la questione dell arte in fotografia andrà posta abbandonando le nozioni tradizionali e rassicuranti di autore, di opera, di significato, e riscoprendo, al di là dell estetica romantico-modernista, il Kant della Critica del Giudizio, secondo la proposta di Jean-François Lyotard (1983a; ma v. anche 1982, 1983b, , 1991). Della terza Critica, tuttavia, sarà da recuperare non la riflessione svolta nell Analitica del bello, bensì quella, problematica e aporetica, delineata nell Analitica del sublime. Ciò che interessa Schaeffer (p ) è l idea del sublime come esperienza estetica, conflittuale e contraddittoria, di un oggetto che è incontrollabile nella sua stessa essenza, che si sottrae a qualsiasi messa in forma, che frustra le aspettative, poiché [ ] si rivela inadeguato rispetto alla facoltà di rappresentazione ; l immagine fotografica è una immagine sublime in quanto immagine-traccia che si direbbe [ ] presenti sempre un leggero scarto rispetto alla nostra visione, e anche rispetto a qualsiasi pulsione semantica, e tuttavia produce un piacere estetico proprio perché questo frustrare le aspettative iconiche e semantiche è in realtà una liberazione, ha la natura di un esercizio zen, è una pratica di desemantizzazione del mondo. Infatti (p. 163) la ricchezza dell immagine fotografica sta altrove, nel riaffiorare dell impronta con la sua contingenza, [ ] con la sua opacità e la sua poca realtà, anche (e soprattutto) simbolica, e l arte fotografica non [ ] sembra da cercarsi in un illusoria ascesa dal segno indicale verso il semanticismo dell iconicità simbolica, ma al contrario in una discesa da quel segno verso il brusio della traccia visiva da cui proviene. Così (p. 170) la fotografia [ ], nei suoi momenti migliori, apre l orizzonte di un reale finalmente profano, che si accontenta di essere ciò per cui si offre, senza la promessa di un altrove che sarebbe più essenziale: è un arte laica,

8 un immagine che emoziona, che incanta o che rattrista, ma con quella emozione fugace, con quella tristezza o quell incanto leggeri, sottili e precari che nascono da un incontro breve e fortuito. Un immagine in cui c è da vedere, ma non c è nulla o ben poco da dire. In queste parole, che chiudono il libro, sembra di avvertire un eco del Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere, proposizione conclusiva del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein. Né ciò stupisce in un opera come L immagine precaria, i cui primi tre capitoli, di analisi semiotica, spesso innestano su un tessuto lessicale e concettuale debitore di Barthes e di Peirce, lo stile della filosofia analitica austro-anglo-statunitense e il riferimento ai suoi maestri (Wittgenstein, Carnap, Goodman, Quine, Black, Grice, Searle), mentre l indagine estetica del quarto capitolo dialoga piuttosto con classici e contemporanei della filosofia europea continentale (Kant, Goethe, Hegel, Schelling, Heidegger, Lyotard, Derrida). In effetti, gli anni in cui nasce il libro di Schaeffer sono quelli dei tentativi d incontro fra analitici e continentali, e delle fortune anche statunitensi del poststrutturalismo (v. D Agostini 1999), entro un contesto di pensiero postmodernista che, si occupi di giochi linguistici o di fine del soggetto, considera superata per sempre la questione metafisica dei fondamenti. Quello su cui la fotografia secondo Schaeffer apre il suo sguardo di arte laica è dunque un mondo che il ritirarsi del senso ha lasciato libero, ma anche ha reso vuoto; è il mondo della morte di dio e dell uomo, della fine della verità e del soggetto, quello, insomma, del nichilismo della modernità (v. Bontempelli e Preve 1997, Preve 1998, Bontempelli 2000, 2001): un mondo che la riflessione postmodernista si rappresenta come fine della storia e di ogni pensiero forte. Ma la storia, e oggi si comincia a vederlo meglio, non è affatto finita, perché i conti con essa, col suo peso di laceranti contraddizioni, vengono a scadenza ogni giorno. Né si può, senza fondamenti e senza un pensiero dei principi, fare fronte alla tempesta che spinge irresistibilmente nel futuro [ ] mentre il cumulo delle rovine sale [ ] al cielo (Benjamin ). Che dire allora, a vent anni di distanza e in piena era digitale, della riflessione estetica iniziata da Schaeffer (e a cui scorre parallela quella di Lemagny e segue quella di Soulages 1998, altri due testi che da noi non si dovrebbero ignorare)? Io credo che resti centrale e attuale l idea del fotografico come spinta alla liberazione dello sguardo. Ma questa liberazione non è una vacanza, è una responsabilità: il fotografico resta un nodo teorico che rimanda agli irrisolti paradossi della condizione tardomoderna e del suo nichilismo; e l opera fotografica, analogica o digitale che sia, al di là di ogni sogno demiurgico di mondi paralleli, resta l atto, pieno di incognite e di scoperte, dell aprirsi all altro da sé, a quello che non si sa (Vaccari 2001); atto di un essere umano consapevole e inquieto che guarda questo mondo per stupirsene ogni volta e ogni volta desiderarlo meno disumano, pur sapendo che tale lo vedranno altri, forse. 11

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