Verso nuove teorizzazioni del lavoro sociale: l approccio di rete

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1 VERSO NUOVE TEORIZZAZIONI DEL LAVORO SOCIALE: L APPROCCIO DI RETE 13 Verso nuove teorizzazioni del lavoro sociale: l approccio di rete 1 P remessa In questo lavoro verrà considerata la possibile utilità operativa di un approccio emergente e non tradizionale (nelle sue linee nuove di concettualizzazione, quantomeno) di lavoro sociale: il cosiddetto «approccio di rete» o, per usare una locuzione pressoché equivalente ma più suggestiva, «approccio ecologico». Come cercherò di dimostrare, più che come una nuova tecnica o un nuovo modello di lavoro (di quelli che vanno e vengono rapidamente di moda nell incerta epistemologia del social work attuale), credo che questo approccio si debba concepire proprio nel suo senso più letterale, ossia come una possibilità alternativa di accostarsi cognitivamente ai rispettivi compiti di lavoro da parte delle varie figure di vecchi e nuovi operatori sociali. 1 In realtà, vorrei qui porre un equivalenza fra «lavoro di rete» e «lavoro sociale». Considerando i problemi sociali in senso stretto (intendendoli cioè come difficoltà di gestione della vita da parte di singoli, famiglie, ecc.) è possibile individuare da un lato un approccio di cura che si rifà alla tradizione «medico-sanitaria» e dall altro un approccio invece di tipo «assistenziale». Una diversa prospettiva di cura umana può appunto essere concettualizzata come «sociale»: essa integra in sé un po dell uno e un po dell altro approccio ma poi li trascende entrambi. Ebbene, dire che quest area abbia sofferto di scarsa autonomia o scarsa visibilità, dentro le organizzazioni dei moderni servizi, o che sia sempre stata «invasa» dai due approcci summenzionati, è affermare cosa ovvia. Ma è anche vero che la prospettiva sociale ha una sua identità evidentissima, che tuttavia non è sempre ben chiaramente compresa e che pertanto non è inutile tentare di mettere a fuoco con qualche accenno di ulteriore teorizzazione. L operatore sociale che tende ad agire secondo una prospettiva clinica è attratto, per semplificare, dal camice bianco dei medici. Entra in interazione verso il problema umano con l atteggiamento mentale di riparare e «curare» ciò che non va, di essere in toto artefice delle cure sociali cui deve, istituzionalmente, mirare. Utilizza strumenti specializzati (di indirizzo Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta in «Rassegna di Servizio Sociale», n. 3, 1990.

2 14 L UTENTE CHE NON C È psicoterapico, tendenzialmente) per conseguire, nelle intenzioni, obiettivi globali e diretti (la regressione di una patologia, ottenuta per sua mano). L operatore sociale ancorato a prospettive assistenziali si accontenta invece di rimanere un ingranaggio, essenziale fin che si vuole, per l implementazione di specifici istituti giuridici di assistenza, autolimitandosi con ciò a essere un tassello della (pur necessaria) burocrazia dei servizi. Egli offre un «pezzetto» di risposta, erogando risorse già razionate nel senso proprio del rationing (Foster, 1983) anglosassone, curandosi poi poco di tutto il resto che può mancare. L una prospettiva (clinica) è artefatta e sbilanciata in avanti, l altra (assistenziale) parcellizzata e ripiegata su se stessa. Ora, le prospettive di ruolo che si configurano come «sociali» e dunque come più aderenti all approccio di rete prendono atto che l operatore professionale è agente immerso continuativamente, e necessariamente, in flussi di comunicazioni (in reti) interpersonali, di cui lui diventa un elemento (un polo) tra i tanti. Pur se il suo mestiere lo porta prevalentemente a lottare contro il «negativo» a operare nel mezzo di disagi, sofferenze, disabilità personali, e dunque, più in generale, di relazioni sociali deboli o insoddisfacenti l approccio di rete fa riflettere sul fatto che quasi altrettanto l operatore sociale, nella sua azione, va a incrociare e sommuovere attese, speranze, abilità e competenze, ovvero le indispensabili risorse umane che esistono e si mobilitano attorno ai problemi, o che, se non ci sono, possono essere in qualche modo stimolate, entrando con discrezione e tatto negli imprevedibili dinamismi delle singole comunità di vita. L operatore sociale potrebbe dunque vedersi (oltre che come colui che sana o colui che eroga) anche come colui che, con la qualità della propria persona e con la propria intenzionalità metodologica, può fungere da stimolatore di risorse nuove (Folgheraiter, 1985), facendo scaturire risposte dalle premesse implicite nelle domande. L operatore sociale agisce da operatore di rete quando trova le chiavi per fungere da catalizzatore di interscambi di risorse umane nei circuiti delle reti sociali (formali e informali) della comunità, ovvero quando, se tali risorse non ci sono già pronte, accende delle scintille nelle relazioni, che poi, forse, si spera, le potrebbero generare. Questo è, se volessimo ridurlo in sintesi estrema, il «programma» del lavoro sociale di rete. Ora, a delineare questo approccio in modo così astratto (o generico, come può ben apparire) si corre un rischio del quale occorre quantomeno avere consapevolezza. Il rischio è di far scattare in chi legge un riflesso mentale di rifiuto, una sensazione di stanchezza o di indisponibilità a rincorrere ancora qualche utopia rimasticata, una delle tante fantasie astratte e buone intenzioni di cui è lastricata la strada della crisi del welfare state. 2 Guardando alle difficoltà attuali di funzionamento dei servizi sociali, risulta evidente soprattutto un fatto: che al loro interno gli operatori professionali sono spesso in difficoltà proprio per la complessità (oltre che per la quantità) dei carichi di lavoro. Gli operatori sociali sono pagati per un mestiere che spesso impone come routine la gestione di crisi situazioni per loro natura eccezionali, ma che i servizi accentrano tutte al loro interno (O Hagan, 1990; Losee et al. 1989) o l estenuante lavorìo di fronteggiamento (coping) nella quotidianità. È quindi giusto l atteggiamento di dubitare di teorie o modelli che richiedano agli operatori, come possibili solutori delle loro difficoltà di azione, comportamenti professionali ben più complessi di quelli che già possiedono a un grado inferiore e che già faticano a sostenere. 3 I carichi andrebbero semmai alleggeriti o semplificati, non ulteriormente appesantiti da nuove sofisticazioni mentali, tecniche, ecc. Tuttavia, è da precisare e lo si vedrà in seguito

3 VERSO NUOVE TEORIZZAZIONI DEL LAVORO SOCIALE: L APPROCCIO DI RETE 15 che il lavoro di rete è certamente un approccio complesso da rappresentare sul piano della descrizione scientifica, ma questa complessità poi viene meno o si riduce quando dal livello astratto della teoria si scende al livello «empirico» del lavoro quotidiano. I comportamenti professionali che incarnano i principi (o gli atteggiamenti) del lavoro di rete sono, in realtà, comportamenti semplici e di per sé alla portata di qualunque operatore. Del resto, occorre riconoscere che, proprio di fronte alle dimensioni e alla complessità della crisi nei servizi formali, risulta obbligatoria l elaborazione di nuove prospettive teoriche che, come appunto promette la «teoria» dell approccio di rete, non siano già blande e poco incisive fin sulla carta. E quindi, il fatto che l approccio di rete indichi agli operatori una strada di radicale ristrutturazione epistemologica (un vero e proprio capovolgimento di impostazione mentale verso il lavoro) non dovrebbe esser visto come un titolo a suo sfavore. Anzi dovrebbe ancor di più incuriosire e incoraggiare a prenderlo in considerazione. Il problema è appunto di riuscire a innestare una sorta di differenziale fra la teoria (gli approcci strategici, i modelli, ecc.) e la pratica, così da incrementare la complessità degli effetti con prestazioni o comportamenti professionali il più possibile semplici. Questa, come vedremo, è appunto una delle novità a cui strategicamente il lavoro di rete mira. Vi sono poi altre considerazioni o altri elementi di valutazione oggettiva che sembrano incoraggiare una maggiore apertura mentale verso questo «nuovo» (se non proprio «improbabile» o «utopico») che sembra evolvere all interno del lavoro sociale: 1. Nei Paesi anglosassoni sono stati fin qui condotti ormai sistematici tentativi di applicare e di verificare l efficacia dell approccio di rete all interno dei servizi sociali (Whittaker e Gambarino, 1983; Biegel, Shore e Gordon, 1984; Collins e Pancoast, 1976; Froland, Pancoast et al., 1981; Maguire, 1987; Saurer e Coward, 1985; Hooymann e Lustbader, 1986). Sebbene occorra cautela nel «trasferire» nel nostro Paese evidenze riscontrate in contesti tanto diversi, e sebbene non manchino, anche in questi contesti, esempi di non profonda comprensione di questo approccio, i risultati di queste ricerche sembrano incoraggianti e, in ogni caso, è ormai semplicemente impossibile ignorarli. 2. Nel nostro contesto italiano, sebbene i tentativi di concettualizzare e validare empiricamente l approccio di rete siano ancora alle fasi iniziali (Donati, 1985; Folgheraiter, 1987; Lanzetti e Stumpo, 1986; Folgheraiter, 1989, Martini e Sequi, 1988), abbiamo già sotto gli occhi delle efficaci realizzazioni pratiche l approccio alla terapia e alla prevenzione dell alcolismo secondo il metodo «Hudolin», solo per limitarsi all esempio più noto (Hudolin, De Stefani) che possono in qualche modo garantire circa le reali potenzialità del lavoro di rete come modalità generale di lavoro sociale. Il lavoro di rete è, qua e là, già realizzato (seppur timidamente) ed è pertanto qualcosa che va ormai considerato al di fuori dall utopia. E il fatto che in Italia la pratica del «lavoro di rete» non abbia atteso, per mettersi in moto, l elaborazione di una corrispondente teoria, né di un progetto formale o di un input legislativo, è, a mio avviso, un segno non privo di significato. Testimonia che tale approccio possiede forza intrinseca, che nasce per spinta delle cose prima ancora che da elaborazioni o intuizioni a tavolino. Testimonia anche del fatto che, come più sopra si diceva, non sempre ciò che è complesso da capire o da descrivere nel linguaggio scientifico debba esserlo inevitabilmente anche nella pratica. Fortunatamente, in certi casi, obiettivi che paiono complessi o sofisticati o quasi al limite dell utopia a una prima analisi razionale possono essere avvicinati attraverso pratiche semplici, che scaturiscono dall illuminazione di una diversa prospettiva mentale o da

4 16 L UTENTE CHE NON C È una diversa disposizione psicologica (come successe a Gordio quando Alessandro pragmaticamente agì sul nodo tagliandolo, mentre gli altri erano mentalmente impediti dal farlo) (Jünger e Schmitt, 1987). L approccio di rete è, come detto, più una forma mentis che un insieme di teorie o di pratiche nuove. Vedremo anzi come pratiche molto tradizionali possano essere ricomprese in questa nuova ottica. Credo allora opportuno in questo lavoro cercare soprattutto di dare un idea intuitiva, per grandi linee, di questo nuovo orientamento, nel tentativo di metterne sinteticamente in risalto gli elementi di novità rispetto all «ultima» tradizione del lavoro sociale, nonché di segnalarne i presupposti e la logica sottostanti. Il mio scopo è quello di proporre qui degli spunti di teorizzazione, mentre altre pubblicazioni, che ora sono disponibili e alle quali si rimanda (Maguire, 1989; Silverman, 1989; Hudolin et al., 1987; Marshall, 1988) possono entrare più concretamente nei molteplici dettagli operativi. I l mix di risorse formali e informali: l evoluzione della community care nella realtà italiana Il significato dell approccio di rete può essere meglio messo a fuoco prendendo in considerazione due dei maggiori punti di difficoltà che gravano sul funzionamento attuale del welfare state socioassistenziale (intendendo con ciò l insieme dei servizi sociali formali): due «nodi» astratti che ora sono già ben dentro al pettine della realtà e ai quali appunto il lavoro di rete intende rispondere. Il primo è la difficoltà della rete dei servizi del welfare state a differenziare oltre certi limiti la gamma delle prestazioni, nel suo moto di continua rincorsa dei poliedrici bisogni individuali. Riuscire a dare risposte diverse a bisogni diversi, ancorché via via sempre più immateriali e soggettivi, è stata la continua scommessa su cui si è accanito in questi anni il welfare state, non riuscendo a liberarsene, come fosse una sorta di ossessione. La caratteristica più evidente che la rete dei servizi sociali è andata assumendo è stata proprio quella di una straordinaria differenziazione, pur tuttavia è evidente ora che questo processo di continuo adattamento autoplastico ai bisogni, da parte del sistema delle burocrazie di servizi, incontra limiti che si evidenziano come strutturali. Il secondo problema è connesso invece alla difficoltà a mantenere vivo, negli atti erogativi delle prestazioni, ciò che potremmo chiamare, per dirla genericamente, il loro senso umano. È difficile, in altri termini, ancorare le prestazioni professionali, nella loro (inevitabile?) corsa verso un sempre maggior grado di specializzazione tecnica o di razionalizzazione burocratica, il più vicino possibile alle pratiche umane di base, conservando a esse ancora il carattere di significativa (per chi la esperisce) comunicazione interumana. Va da sé che ogni prestazione di cura alla persona tale deve essere, pena il suo stesso venir meno. In sintesi, dunque: i servizi organizzati, considerati come un tutto, sono spinti e possono segmentarsi (essi stessi o le loro prestazioni) fino a entrare dentro ai bisogni in modo (relativamente) mirato. Essendo «risposte organizzate» (effetto di piani e programmazioni), questa capacità di differenziarsi risulta in loro una caratteristica peculiare. Ma vi è un punto limite come è ben noto e ampiamente segnalato oltre il quale questa avanzata verso il particolare si fa via via più difficoltosa. Lo spezzettamento funzionale dei servizi si arresta quando essi devono entrare in interazione con bisogni specifici e particolari, che richiedono risposte nell hic et nunc, risposte dense soprattutto di calore umano e affettività o risposte

5 VERSO NUOVE TEORIZZAZIONI DEL LAVORO SOCIALE: L APPROCCIO DI RETE 17 materiali così minute e ininterrotte da poter essere sostenute solo nella cerchia della responsabilizzazione e del coinvolgimento affettivo a breve raggio (nella famiglia, per gran parte). Sono queste le due principali direttrici (differenziazione e specializzazione delle prestazioni; umanizzazione delle stesse) dentro le quali si è dovuta incanalare l evoluzione moderna del welfare state e del lavoro sociale. Due direttrici non convergenti, al che la storia recente delle politiche sociali può essere letta, appunto, come un continuo tentativo di quadrare il cerchio, di conciliare due inconciliabili. Come noto, la chiave di risoluzione di questo che può essere considerato l autentico enigma del welfare state si è creduto di intravvederla in una prima ipotesi di community care (Payne, 1986; Zawadeski, 1985; Wehman, Renzaglia e Bates, 1987), cioè nella direzione di creare, per rispondere alle difficoltà di vita del cittadinoutente, servizi integrati nella comunità, collocati dunque nel punto fisico più vicino all insorgere dei bisogni e al fluire naturale delle risorse umane. In effetti, fra i vari principi guida delle recenti riforme di politica sociale (Donati, 1982), il principio che più si è reificato (che più ha smosso la cultura, la legislazione e la prassi quotidiana), è quello della desegregazione (o, in positivo, della social integration o della cosiddetta normalizzazione) (Flenny e Nitsch, 1980; Alaszewski e Nio Ong, 1990; Malin, 1991) inteso come affermazione del diritto di ogni persona, indipendentemente dalle sue difficoltà o handicap, a godere di condizioni di vita il più possibile vicine a un ipotetica linea di «normalità». La grande lotta contro le «istituzioni totali» (nella nota accezione di Goffman), che ha caratterizzato gli anni Sessanta, mette sotto accusa proprio la doppia natura di tali forme primordiali di assistenza, ossia di dare una risposta unica (che non fa differenza fra persona e persona, fra bisogno e bisogno) e una risposta disumanizzante (che disintegra l uomo mentre lo assiste integralmente, estirpandolo dalle relazioni entro le quali si realizza la vita). Questo movimento di «protensione» verso la comunità si è sviluppato in due momenti interconnessi ma che possono essere concettualmente distinti: (a) dapprima con l impianto nelle comunità di vita di piccole strutture di servizio alla persona (i cosiddetti «servizi sociali personali»). Questo primo sviluppo ha portato, nel suo complesso, alla costituzione di un articolata «rete formale» di supporto comunitario, a composizione mista pubblico-privato; (b) con una rinnovata presa di coscienza (dopo la pionieristiche intuizioni della psichiatria sociale, da Maxwell Jones a Gerard Caplan) delle potenzialità della comunità stessa come contesto di cura e promozione umana.

6 NORMALIZZAZIONE E MUTUO AIUTO TRA FAMIGLIE 65 Normalizzazione e mutuo aiuto tra famiglie 3 P remessa P Il lavoro di rete può essere inteso non come uno strumento specifico nel senso tradizionale del termine, quanto come una sorta di coordinata mentale; non una briglia stretta che irrigidisce l azione (una tecnica, un metodo, ecc.), ma piuttosto appunto un modo di concepire il lavoro, una mentalità ancorata nel presupposto che l operatore sociale non è «centrale», non ha l esclusiva dell aiuto. Nell ottica «di rete», l operatore sociale deve costruire i «ponti» o liberare i canali o predisporre le connessioni per far entrare nei processi di cura quante più risorse o opzioni vi si possono «integrare». Un tentativo di rendere «realizzate» le relazioni possibili, non di crearle o ricostruirle meccanicisticamente. Se pensiamo alla crisi del welfare state come a un «rompicapo» (nel senso di Popper) e se si è d accordo nel dire che il lavoro di rete possa esserne una potenziale soluzione, allora è stimolante riconoscere che a questa soluzione si è arrivati congiuntamente, per strade apparentemente separate anche se unite da mille raccordi: una via teoretica, la via della riflessione astratta, il tentativo di risolvere noeticamente il «problema» del welfare state, e una via empirica, la via dei tentativi per prove ed errori compiuti da operatori che, sperimentando direttamente come certi modi di «attaccare» i problemi non fossero efficaci, sono stati progressivamente spinti a cambiare e accorgersi così di alternative praticabili. Tra questi due distinti «universi» ci sono state delle interrelazioni, più di quante si possano immaginare. Chi ha affrontato il problema dal punto di vista teorico ha potuto giovarsi dell osservazione anche informale di ciò che funzionava nella realtà, e chi ha operato in questa realtà ha potuto realizzare tentativi non proprio alla cieca grazie alle indicazioni teoriche. L impressione però è stata «come se» una qualche separatezza vi sia stata, come se si fosse per così dire sbucati improvvisamente dall angolo di strade antitetiche, benché convergenti, alla consapevolezza che l approccio di rete può essere una speranza delle politiche sociali o qualcosa di più. Questo sincronismo fra il pensiero e l azione può essere inteso come Questo capitolo riprende l introduzione alla parte seconda al volume di F. Folgheraiter e P. Donati, Community care, teoria e pratica del lavoro di rete, Trento, Erickson, 1992.

7 66 L UTENTE CHE NON C È una garanzia dell approccio, che ha trovato indipendentemente le condizioni per crescere e dal punto di vista teoretico e dal punto di vista operativo, al contrario di certi modelli che magari sono affascinanti sul piano astratto ma impraticabili sul piano pratico o viceversa (la storia della psicologia o del lavoro sociale è piena, come sappiamo, di queste incongruenze). Alcune tipologie di servizi sociali non «realizzano» altro se non premesse di community care. Si tratta dunque di servizi diversi rispetto ai pur moderni servizi territoriali di gestione diretta dell utenza. Nulla tuttavia impedisce che il piacere di lavorare secondo ottiche reticolari possa prima o poi rinforzare e riorientare l azione anche dei servizi convenzionali (organizzati per «altri» fini rispetto alla community care) e degli operatori che vi lavorano. La maggior parte degli operatori devono rispondere prima di tutto alle «logiche» ufficiali del loro servizio. Spesso queste logiche sono antitetiche o distanti dalle prospettive di rete, ma più di quanto si crede vi sono nei servizi occasioni per «invertire» la forza delle abitudini, soprattutto quando queste abitudini si siano cristalizzate per effetto del caso o dell inerzia o di concezioni dubbie di partenza. Naturalmente è necessaria una maggior chiarezza di cosa sia il lavoro di rete, e questo potrebbe aiutare qualsiasi operatore a percepire con più immediatezza quando, in una giornata di lavoro, si aprono spazi (piccoli o grandi) dentro cui ci si potrebbe incamminare per sperimentare qualche novità rispetto alle consuete routine del lavoro. Ma può essere senz altro anche che molti operatori diventando più consapevoli di ciò che «è» lavoro di rete possano in realtà percepire o rendersi conto che spesso la loro azione (o dei frammenti di essa) è già orientata in tale direzione: solo che magari questi operatori non le attribuiscono la necessaria legittimazione, non si «gratificano» per averla fatta ma piuttosto la considerano un ripiego e si rammaricano di non poter (o riuscire a) fare qualcosa d altro, di più tecnico o specializzato, ecc. N ormalizzazione Nel sociale, il processo di progressiva «protensione» verso la comunità e la sottostante filosofia 1 è indicato di solito con il nome di normalizzazione. Se i termini di deistituzionalizzazione o desegregazione molto di moda negli anni Sessanta-Settanta indicano soprattutto una preoccupazione di tipo destruens, cioè di disattivare le istituzioni totali (manicomi, istituti, ecc.) per bloccare quel canale obbligato che portava immediatamente «fuori comunità» ogni disagio ingestibile o percepito come tale, il termine normalizzazione indica invece una preoccupazione più costruttiva, cioè il tentativo di individuare procedure e iniziative concretamente definite, non solo affermazioni di principio idonee a favorire una effettiva «accoglienza» del disagio nelle reti comunitarie. Non tanto, quindi, impedire quella sorta di riflesso all espulsione dei problemi dalla comunità, forzandoli invece coattivamente perché rimangano in essa (pensiamo alla tragedia degli anni dell immediato postriforma psichiatrica, con le famiglie costrette alle cure), ma appunto trovare gli accorgimenti perché la comunità possa esprimere come fatto «normale» delle capacità di trattenere presso di sé e di elaborare gli stress con il minimo di disagio e se possibile con un innalzamento della qualità di vita di tutti. Non è realistico pensare che la community care possa «nascere» esclusivamente da sé: se questo succede non si può che rallegrarsene (significa che la comunità è vitale di per sé e può autoorganizzarsi), ma laddove questo automatismo non si produca spontaneamente, allora è lecito pensare non di «crearlo» deterministicamente, ma di predisporre le condizioni perché esso sia più probabile.

8 INDETERMINAZIONE E EMPOWERMENT 173 Indeterminazione e empowerment 13 «Non so. Ma so di non sapere.» La differenza che Socrate pone tra sé e gli altri è appunto questa: che gli altri non sanno di non sapere, mentre lui sa di non sapere... È una verità povera che consiste appunto nel semplice sapere di non sapere ma è anche una verità che si dispone a diventare ricca, nel senso che è il mettersi alla ricerca di quel vero sapere che ora si sa di non possedere. (Severino, 1994) Gli approcci tradizionali hanno una visione statica dell esperto. Vedono un personaggio che, rimanendo così com è, tenta di cambiare gli altri. L atteggiamento relazionale invece è dinamico. Descrive un operatore che cambia nel processo di aiuto, dovendo necessariamente imparare il suo mestiere mentre lo svolge. La sua expertise professionale garantisce che potrà imparare presto e bene ogni volta daccapo, non che abbia già imparato tutto quanto fin dall inizio. Il professionista operatore sociale, avendo a che fare con problemi ed essendo un problema qualcosa che al momento sfugge alla capacità di comprensione per definizione ignora, come ignorano i suoi interlocutori al cui servizio si mette. Ma se lui sa di non sapere, su questa apparentemente banale verità può fondare la sua forza. Come Socrate, a cui l Oracolo aveva detto che era il più sapiente dei Greci perché sapeva di non sapere. La reciproca ignoranza iniziale di che cosa possa essere fatto, affinché la situazione si modifichi per il meglio, si spera di colmarla attraverso una dinamica di apprendimento congiunto, protratta nel tempo finché è necessario. Un reciproco apprendimento in itinere, guidato da un esperto consapevole della sua necessità: questo potrebbe essere un modo sensato di definire l intervento di aiuto sociale. L ignoranza iniziale è tassativa. Vale, come si è già detto, per ogni problema sociale, non solo per quelli catalogabili come complessi o complicati, ecc. In realtà, essa è doppiamente tassativa: primo, perché si parla di un problema, il quale senza ignoranza iniziale dei suoi presumibili risolutori non sarebbe tale. Secondo, perché ciò che si desidera trasformare è una realtà sociale: un intreccio di azioni in prospettiva, cioè processi che devono ancora succedere. Un cocktail di condizioni di ignoranza più estremo di questo è difficile da trovare. Questo capitolo è tratto dal volume di F. Folgheraiter Teoria e metodologia del servizio sociale, Milano, Angeli, 1998.

9 174 L UTENTE CHE NON C È L intervento sociale di cui parliamo qui la trasformazione della realtà ai fini di quell evento futuro che è l aiuto o un ritrovato benessere è il regno dell indeterminazione. Detta così, sembrerebbe una cattiva notizia. Ci si può chiedere, con qualche preoccupazione, come sia possibile sperare di costruire argomentazioni metodologiche precise, quando la stessa architrave del pensiero moderno il determinismo venga messa in discussione. Come è possibile definire sensate regole di efficacia/efficienza, ad uso degli operatori sociali professionisti, se non c è assoluta prevedibilità di causa-effetto? Dell indeterminazione, tuttavia, possiamo parlare non solo in negativo, come una mera limitazione al pensiero positivistico nel sociale. Può essere anche vista come un inaspettata e feconda possibilità di azione. Se il determinismo non riesce a spiegare la realtà a venire, non significa che non si possa far nulla. Vuol dire solo che bisogna sforzarsi di superare quel tipo di pensiero. I I ndeterminazione al negativo: alla partenza la soluzione «non c è» In prima istanza, l indeterminazione richiama l impedimento logico affinché un osservatore possa fare previsioni esatte sulla base di teorie scientifiche o calcoli, ecc. su come un certo stato di realtà (x0), colto in un certo tempo iniziale (t0), si ritroverà trasformato (x1) in un tempo successivo (t1). Se l osservatore immagina un certo percorso di trasformazione di una certa realtà e alla fine di quel percorso ideale vede un punto di domanda, quella è l indeterminazione. Se c è indeterminazione, l osservatore è libero di immaginare quello che vuole: anche la realtà è libera altrettanto, anch essa poi fa quello che vuole. Non necessariamente corrisponderà a quell immaginazione. L operatore che elabori astrattamente un suo preciso piano possiede un controllo assoluto solo di questo piano, cioè lo può effettivamente pensare come vuole, ma non possiede altrettanto controllo sugli esiti. Se io do una spinta affinché la realtà si modifichi (vale a dire: intervengo), il principio di indeterminazione dice che non posso sapere quello che esattamente combinerò: dato a, non necessariamente sarà b, e così via. L indeterminazione richiama l idea dell imprevedibilità e del basso controllo ex ante dell azione. In realtà, indeterminazione non vuol dire totale imprevedibilità degli eventi, un impazzimento assoluto dei rapporti di causa-effetto, bensì l impossibilità di ponderare con certezza. I calcoli che si possono fare valgono, sì, ma fino a un certo punto. E il fatto che i calcoli iniziali non vadano meccanicamente a buon fine non è tanto attribuibile a una qualche difficoltà di calcolo: il principio dell indeterminazione dice che è la realtà che si rifiuta, irriducibilmente, di farsi calcolare con esattezza fino in fondo. O ltre la dottrina degli effetti perversi O Questo è un punto che va capito bene. Se si afferma che la realtà è così complessa che è facile elaborare piani sbagliati e che se quei piani fossero stati più adeguati o più globali, cioè capaci di tenere assieme più aspetti di realtà, ecco che allora, in quella particolare fattispecie, il completo controllo si sarebbe potuto raggiungere, non si dovrebbe parlare qui, a rigore, di indeterminazione, che è una caratteristica logica della realtà e non, come in questo caso, una semplice evidenza ex post facto della fallibilità umana.

10 INDETERMINAZIONE E EMPOWERMENT 175 Quando gli esiti previsti non si ottengono per difetto intrinseco al piano di previsione, siamo all interno del paradigma dei cosiddetti effetti perversi, 1 che è ancora dentro la logica del determinismo. L operatore mira bene al bersaglio, meglio che può, e poi però la freccia va per traiettorie non previste. L output è diverso da quello atteso ma in ogni caso l obiettivo c era, e si sarebbe potuto centrare se solo si fosse riusciti ad agire con superiore destrezza. Si definisce «effetto inintenzionale non voluto» l esito di un intervento che arriva al posto di quello che ci si aspettava, oppure che si verifica assieme a quello atteso. Molti effetti che sfuggono alle intenzioni possono essere sorprese positive. In questo caso si parla di effetto buono. Si dice «effetto perverso» quell esito inintenzionale non voluto che sia considerato dannoso o non desiderabile da chi interviene o da altri osservatori neutrali, ad esempio gli effetti collaterali negativi di molti farmaci, come gli antibiotici che uccidono la flora intestinale e così via. Si dice invece effetto paradossale quell effetto perverso che sia esattamente speculare (contrario) a quello atteso, come quando, per fare solo un esempio, una qualche benintenzionata campagna di prevenzione contro la droga attiva curiosità o fornisce giustificazioni inconsce, o romanticizza la tossicodipendenza e così via. La dottrina degli effetti perversi non esce dal determinismo: insegna solo che il determinismo, per così dire, è una cosa seria. Dice che non si può ingenuamente pensare che basti programmare degli interventi perché i risultati vengano di conseguenza. Non è così semplice. Bisogna mettere in conto che in regime di complessità la realtà presenta sfaccettature e interdipendenze tali da superare spesso anche una certa accuratezza di previsione. Affinché ci sia un risultato esatto occorre che l accuratezza sia totale rispetto a ciò che richiede la contingenza. Per ogni data circostanza, è possibile ipotizzare un intervento all altezza: che poi in pratica non vi sia, o non vi sia ancora, è un altro conto. Il risultato può arrivare, e questo è l essenziale. Un altro conto è invece dire che si viaggia fuori dal determinismo, in un differente paradigma. Se si dice che il piano iniziale, comunque sia costruito, dunque anche il miglior piano possibile, può e non può (non si sa) raggiungere il bersaglio, qui siamo nel mezzo di un indeterminazione logica, una caratteristica della realtà piuttosto che una semplice testimonianza della fallibilità umana. Si ha indeterminazione di questo tipo all interno di uno schema in cui l input può scatenare non una singola reazione prevedibile, né una catena anche complessa di reazioni in linea, bensì ogni volta una rosa di reazioni equipotenti. Ogni snodo della catena apre imprevedibilmente i rami delle possibilità (in forma binaria o ternaria, e così via), cosicché, con tutta la buona volontà, non è possibile pronunciarsi esattamente a priori. Occorre semmai seguire il processo snodo per snodo, accompagnandone il decorso nell iter che sarà, ma anche con questo atteggiamento prudenziale non si acquisisce certezza, bensì solo qualche punto maggiore di probabilità. Fa parte del bagaglio di saggezza di ogni operatore distinguere bene se stia operando con realtà all interno o all esterno del campo logico del deter minismo. Il principio di indeterminazione, se è per quello, vale anche per le realtà fisiche, sia per quelle macroscopiche che per le realtà subatomiche, 2 ma certamente nel mondo fisico newtoniano, cioè nella fascia di collocazione entro cui funziona il cervello umano, le determinazioni ci sono, e anche ferree, come le conquiste della scienza e della tecnologia stanno a dimostrarci. Tutto il nostro mondo, anche di vita quotidiana, è ancorato a questo solidissimo principio: se non valesse, da un pezzo la vita ci sembrerebbe ingovernabile, e forse tutto ci sarebbe già crollato addosso. Non discriminare però è un grave errore.

11 176 L UTENTE CHE NON C È Ci sono realtà, sui generis nel panorama della natura, che si regolano su altri codici. Se vengono accostate con in mano la bussola del determinismo, quella bussola subito impazzisce. In realtà fa anche di peggio: non impazzisce vistosamente in questo caso ce ne si accorgerebbe, e tutti la butterebbero via ma apparentemente sembra che funzioni. Fornisce dati sbagliati e però plausibili, quindi tende a ingannare con maggiore e più subdola efficienza. D alle politiche sociali al lavoro sociale, ovvero dal generale al particolare: un crescendo di complessità Sappiamo bene quali sono le realtà che si collocano almeno in parte e dunque completamente, in termini logici al di fuori del deter minismo: sono le realtà delle azioni umane in prospettiva. Questo succede perché laddove l input incoccia in una persona, tra l input e l output si frappone quella sconnessione potenziale che è la soggettività dell oggetto che si intende trasformare. Husserl direbbe che le persone non sono meri uomini di fatto, cioè esseri assimilabili ai fatti oggettivi che succedono fuori di loro, e che loro poi percepiscono in quanto soggetti che li vivono nell esperienza immediata. Le scienze umane positive, la psicologia in primis, hanno tentato di studiare tali esseri «di fatto» e però Husserl ne ha evidenziato la crisi (Husserl, 1961). Ora però è bene fare un passo avanti e distinguere tra realtà umane che reagiscono diversamente a questi fattori. Distinguiamo tra realtà collettive e realtà particolari, perché è possibile scorgere in ciascuna di queste categorie gradi differenti di complessità strutturale e dunque differenti ordini di indeterminazione. Diciamo subito che la complessità cresce in direzione opposta a quello che potremmo intuitivamente ritenere: va crescendo, come spiega Boudon, in direzione del particolare. Cerchiamo di chiarire. Per intervento sociale possiamo genericamente intendere tanto un intervento universalistico sulla società in generale quanto un intervento particolaristico su questa o quella rete di persone in situazione. Come si ricorderà, nel primo caso siamo nel dominio della politica sociale, nel secondo in quello del lavoro sociale. In entrambi questi livelli operativi, chi progetta l intervento che sia un policy maker o un front-line worker deve sapere che la programmazione ex ante, di tipo lineare, offre ampi margini di incertezza, come abbiamo detto sin qui. Sia che uno pianifichi una nuova politica a favore delle famiglie numerose monoreddito di un dato ambito territoriale (le famiglie italiane ad esempio, o venete, ecc.), sia che pensi invece alla concreta situazione della famiglia numerosa monoreddito Bianchi o Rossi, in ogni caso non può pensare di sfuggire alla legge dell imponderabile. Pro-gettando (letteralmente: gettando contro) interventi standard verso realtà vive bisogna mettere bene in conto possibili disillusioni, effetti perversi, ecc. (Donati, 1997). Tuttavia, non possiamo fare di ogni erba un fascio. L ordine delle probabilità di successo varia inversamente alla numerosità dei distinti soggetti destinatari di questi interventi. Se io seleziono un problema specifico per la famiglia Rossi o Bianchi, e ho a disposizione solo un intervento standard a priori, questo intervento ha una probabilità di riuscita prossima allo zero (più o meno), mentre se seleziono un problema collettivo, comune alla generalità di x famiglie considerate, la probabilità si innalza in funzione diretta della numerosità. Quando un problema sociale è generalizzato, tanto più esso in qualche modo si oggettivizza, se possiamo dir così, visto che stiamo sempre parlando di persone. Quando le persone

12 INDETERMINAZIONE E EMPOWERMENT 177 sono associate, e le si considera come un corpo statistico, chi interviene può depurare le situazioni dalle variazioni particolari lo specifico di ciascuna e badare all essenza comune. Questo andare al nocciolo si traduce di fatto in riduzione della complessità: più si sale nella scala della generalizzazione, più si scende nella complessità. Un intervento collettivo non è sbagliato pensarlo come standardizzato, cioè come un intervento che deve andar bene per tutti o per il maggior numero. Il risultato atteso è un dato statistico, per cui si potrà accreditare come un successo un ampia rosa di esiti possibili. Ad esempio, una politica per la famiglia che dia il 30% di riscontri positivi potrebbe anche essere considerata un successo, senza stare a badare alla rimanente maggior porzione di target che non ha reagito, e in base a qualche analisi costi-benefici potrebbe anche essere effettivamente così. In un intervento di aiuto con la famiglia Rossi, invece, al di sotto del cento per cento non si può andare: o la famiglia Rossi risponde come previsto dal piano, o si registra un insuccesso. L intervento standardizzato deve di fatto funzionare come fosse individualizzato, il che è per l appunto improbabile. Si comprende perché Boudon sostenesse che la comprensione e noi diciamo anche la manipolazione di realtà particolari sia «infinitamente complessa» (Boudon, 1993). Tanto da richiedere una metodologia distinta. L indeterminazione in positivo: la soluzione può essere «più di una» Il principio dell indeterminazione (in negativo) ci informa che una data soluzione può anche non verificarsi, indipendentemente dalle buone intenzioni e dall abilità dell operatore: dunque, è come se quella soluzione non ci fosse. Come se un arciere mirasse a un bersaglio che in realtà non c è. Lo schema classico della metodologia dell intervento sociale non tiene conto di questa risultanza: descrive un operatore che: (a) pensa a tavolino il miglior intervento che riesce a ipotizzare, rispetto a un esito prefissato che vuole conseguire; (b) applica quell intervento; (c) va a verificare quel che è successo. Questo modello dà per scontata una premessa che, nel sociale, non è valida: che il bersaglio oggettivo (il target) ci sia. Nel sociale il modello della programmazione lineare ex ante incontra difficoltà, non solo perché l applicazione del programma può sfuggire al controllo intenzionale, e non c è una corrispondenza necessaria tra la realtà di partenza, la soluzione teorica, e la realtà di arrivo, la soluzione realizzata. C è di mezzo una questione più radicale e cioè che gli esiti attesi... non ci sono. Essi nascono in corso d opera. Debbono non solo essere portati allo scoperto gradatamente secondo quella metodica che viene definita incrementalistica ma anche contrattati o creati relazionalmente nel processo (Donati, 1997, p. 48). Se si vedono già alla partenza, essi in realtà risiedono nella unilaterale immaginazione del pianificatore e possono poi di seguito sfuggire come un miraggio. In verità, abbiamo precisato che una strategia ex ante potrebbe anche funzionare, in qualche misura e sempre prestando il fianco a critiche, negli interventi di politica sociale i quali, a dispetto della loro maggiore estensione quantitativa, lasciano qualche margine di manovra. Per gli interventi micro del lavoro sociale, quel modello è inadeguato fino in fondo. Il principio di indeterminazione distrugge la metodologia classica del lavoro sociale, non a caso basata sul determinismo. Lo stesso principio però subito ci viene in aiuto: getta le fondamenta per una metodologia alternativa. Applicandolo su situazioni particolaristiche, il principio dell indeterminazione rivela una qualità inaspettata. Smette di ingenerare solo

13 178 L UTENTE CHE NON C È incertezza e lascia intravvedere interessanti possibilità teoriche. Diciamo teoriche perché, non va dimenticato, dal punto di vista pratico, quelle possibilità devono per forza essere già state esplorate, non importa se in assenza di consapevolezza, da tutti gli operatori efficaci della storia. In positivo, l indeterminazione suona in questo modo: ogni problema sociale particolare (non generalizzabile) ammette una pluralità di soluzioni, tutte, grosso modo, equamente possibili al momento in cui l intervento prende il via. Dunque: c è indeterminazione non esiste una soluzione certa non tanto perché non ne esiste veramente neanche una, bensì al contrario, perché esistono, come spiega Lalande, parecchie soluzioni potenziali. 3 Ciò è diverso dal dire che quell unica soluzione che esiste non è possibile conoscerla con certezza. Se avessimo in mano solo questa nozione, allora sì, non sapremmo più cosa fare. Alla partenza non è dato conoscere con certezza la soluzione anzi per essere esatti alla partenza la soluzione non c è però noi abbiamo una certezza sovraordinata: che i percorsi praticabili, sebbene incogniti, sono molteplici e si potranno disvelare o addirittura creare nel corso dell azione. Non le possiamo vedere, se non ex post, ma le soluzioni si costruiscono in itinere e possono essere molteplici. Addirittura possiamo ipotizzare una correlazione diretta tra complessità della situazione e quantità di possibili esiti accettabili: più è corposo e articolato il problema sociale, più strade, tendenzialmente, si aprono davanti ai nostri piedi. L intervento sociale: la metafora del «viaggio avventuroso» Perché mai un operatore sociale dovrebbe scoraggiarsi se alla partenza non ha un univoco bersaglio chiaro? Non è mica un arciere che tira una freccia, che giustamente pretenderebbe di sapere dove indirizzare. Alla partenza l operatore può partire ignorando dove arriverà precisamente. Deve avere il senso di una finalità, cioè sapere che è bene muoversi in una certa direzione, non di dove arrivare precisamente, né tanto meno di come arrivarci. La direzione migliore, o la direzione possibile, tra tutte le molteplici direzioni accettabili, la potrà riconoscere via via strada facendo, e alla fine, se tutto sarà andato per il meglio, gli sarà chiara. La strada sarà cosparsa di segnali, a saperli leggere: essa stessa lo condurrà. Diciamo strada qui un po impropriamente, dato che il tragitto a cui ci si riferisce non è tracciato. Meglio sarebbe parlare di una rotta. Nell intervento sociale, per dirla con Machado, la strada si fa con il camminare. Camminando si ottengono sempre due risultati insieme: da un lato ci si avvicina a una mèta, dall altro si costruisce la strada dietro di sé. L intervento di aiuto sociale è come un «viaggio avventuroso», 4 dove bisogna prendere decisioni in ogni momento, rischiando di sbagliare e di doversi correggere, insomma dove bisogna sempre andare avanti un po così. Non è un viaggio su rotaia e neppure un viaggio segnato sulla guida Michelin. D altronde, ciò che veramente conta, per gli operatori sociali, come succedeva per i pionieri che partivano verso Ovest, è il conseguimento, alla fine, di una mèta, non la sicurezza anticipata di dove andare. Forse è esagerato dire che una mèta incerta, se raggiunta, è più bella di una meta certa, ma, in ogni caso, anche senza comportarci come la volpe con l uva, non c è scampo. La mèta certa, così come la procedura certa, non c è. È saggio pertanto smettere di sognarla o smettere di fare come se ci fosse, costruendoci sopra addirittura delle metodologie. L esperto operatore sociale deve dotarsi, nel suo piccolo, di un epistemologia pratica simile a quella raccomandata da Karl Popper nella sua celebre opera La società aperta e i suoi nemici. Ralf Dahrendorf riassume così l essenza dell idea popperiana:

14 INDETERMINAZIONE E EMPOWERMENT 179 Il messaggio di Popper è semplice e tuttavia profondo. Noi viviamo in un mondo di incertezza; noi tentiamo e sbagliamo. Nessuno sa bene quale sia la strada in avanti, e quelli che pretendono di saperlo possono sbagliarsi. Una simile incertezza è dura da sopportare. Lungo tutta la storia, il sogno della certezza ha accompagnato la realtà dell incertezza. (Dahrendorf, 1989, p. 103) Popper ovviamente si riferisce all azione politica, ma l analogia con quel particolare genere di politica in piccolo che è l intervento sociale è palese. Lungo tutta la storia sociale dell uomo, il «sogno della certezza» culminato nel welfare state, con la sua pur ammirevole tensione a diritti certi, a interventi certi, e così via «ha accompagnato la realtà dell incertezza». Altre analogie le ritroviamo andando avanti nella citazione: I grandi filosofi hanno alimentato questo sogno. Platone [...] Hegel, e Marx dopo di lui, pretendevano di parlare per conto della storia quando affermavano che quello che è ragionevole o è già reale o lo sarà dopo la rivoluzione proletaria. Ma questi sono falsi profeti. Essi non possono sapere quello che tu e io non possiamo sapere. Il mondo reale è un mondo in cui vi sono sempre molte vedute, e c è conflitto e cambiamento. (Dahrendorf, 1989, p. 104) Gli operatori sociali sono falsi profeti? Oppure sono preda di falsi profeti? Bisognerebbe rispondere di sì, quando ci si accorgesse che essi bluffano lasciando intendere di sapere «quello che tu e io non possiamo sapere». Quando fanno capire di sapere esattamente dove stanno andando, ogni volta che intraprendono il «viaggio» di un intervento. Quando vanno avanti dritti senza costruire la mappa con i loro interlocutori, che si trovano in viaggio con loro. Indeterminazione e prevalenza del senso soggettivo Nell intervento di aiuto, l operatore metaforicamente è in viaggio, ma il viaggio non è suo. Questo è il più profondo motivo di indeterminazione, che va compreso bene. L esperto è una guida che accompagna in un viaggio senza esiti assicurati le persone che, per scelta deliberata o per caso o anche a volte per qualche costrizione burocratica, si affidano a lui. Una guida sui generis: non un esperto del luogo di arrivo e del tragitto, ma un esperto lettore di segnali di orientamento che troverà cammin facendo. Davanti a lui, potenzialmente, vi sono disegnati svariati percorsi possibili, accanto a percorsi ingannevoli o fuorvianti (dottrina degli effetti perversi docet). Il suo compito è quello di aiutare a leggere i segnali, contribuendo a far capire quale fra i molteplici percorsi buoni sia quello che meglio si addice alla situazione contingente che accompagna. Meglio si addice. Ma a chi «meglio si addice» esattamente? Sappiamo ormai bene una cosa: per leggere i segnali sparsi lungo il cammino è necessario accoppiare le competenze dell esperto e quelle degli interessati. Con questa sinergia di intelligenze diverse, è più probabile che le decisioni di fronte a ogni bivio sconosciuto della strada, prese con maggiore ponderazione, si rivelino efficaci. E se le intelligenze disgiunte al momento sono insufficienti, interagendo possono aiutarsi l una con l altra a crescere in un dinamismo virtuoso di apprendimento. Questa è ciò che abbiamo chiamato l elaborazione congiunta della soluzione. Quanto al riconoscimento della mèta come tale, tuttavia, il teorico equilibrio degli apporti si deve un po riconsiderare. Chi deve sentire o capire che dove si è arrivati va bene? È una decisione questa, o spesso un semplice sentimento, che spetta principalmente agli interessa-

15 180 L UTENTE CHE NON C È ti. Ovviamente l esperto può ancora entrare nel merito, ad esempio con un ruolo critico, quasi di avvocato del diavolo, aiutando le persone a considerare i punti deboli o non ben fondati del loro ottimismo. Ma alla fine sono gli interessati a decidere. Dopo tutto, il viaggio è loro e l esperto semplicemente li accompagna. Se ci chiediamo perché la tecnologia, nell intervento sociale, non può operare esclusivamente entro i suoi canoni e le sue strutture logiche oggettive, dobbiamo rispondere in questo modo: perché il senso ultimo di ciò che l intervento intende conseguire non appartiene al depositario di quella tecnologia. L autoreferenzialità tecnica salta, a un certo punto, perché la soluzione deve essere azione dotata di senso, ed esattamente il senso di chi la esprime. Questa regola risulta lapalissiana nell intervento di aiuto sociale. Non vale invece, o vale meno, negli interventi di controllo o, a maggior ragione, nelle relazioni di aiuto clinico, dove lo specialista, e solo lui, oltre a porre la diagnosi, è in grado di stabilire se il trattamento sia andato a buon fine, e quindi sia concluso o meno, secondo i parametri obiettivi a cui solo lui può accedere. L utente può assecondarlo o coadiuvarlo, ma la decisione, essendo una deliberazione tecnica, spetta a lui. Al contrario succede in un intervento sociale, dove il giudizio tecnico, strettamente parlando, nella decisione se una situazione sia migliorata, o sia accettabile, è secondario. Questa considerazione basta da sé a farci capire perché l indeterminazione, nel lavoro sociale, non sia proprio uno scherzo. Risulta poco saggio che l esperto fissi alla partenza una soluzione non solo perché le soluzioni possibili sono tante ed è da scoprire in situ (nel senso proprio dell euristica) quale sarà la più idonea. Ma anche perché gli sfugge risiede in un universo altro da sé il senso ultimo di cosa sia la soluzione. La soluzione, come il problema, non è nelle cose, fisicamente parlando, ma è nel sociale, nelle menti convergenti di persone. In questo sociale, cioè tra queste persone, a pari titolo, c è l esperto, essendo stato da loro chiamato in causa, vale a dire a coinvolgersi nella loro rete. Ma il sociale, con una tale aggiunta, rimane comunque se stesso, solamente ne risulterà arricchito. La primazia del senso soggettivo in ogni soluzione di aiuto va enfatizzata anche per un altro motivo. Perché in realtà la metafora della mèta, che pur ci è utile, non è del tutto fedele. L idea che l intervento di aiuto sia un viaggio e la soluzione sia il luogo finale di arrivo la destinazione di quel viaggio, non è esatta del tutto. In molti casi, il viaggio non termina con la soluzione: continua ancora. La soluzione elaborata con il concorso dell esperto è più propriamente un rimettersi in rotta. Spesso l intervento significa percorrere un tratto assieme, pieno di incognite, con l intento di trovare una strada più sicura per il prosieguo, non per trovare un luogo di stasi assoluta. La meta è l imboccatura di una nuova strada, che gli interessati percorreranno da soli, dopo aver salutato e ringraziato l esperto. Nel sociale il vero viaggio è la continuità della vita. Dunque, che agli interessati la nuova rotta individuata con l esperto sembri quella buona è essenziale. Anche l esperto deve esserne convinto, perché anche lui è in gioco, con piena responsabilità, ma la convinzione dei suoi interlocutori è prioritaria e, se ci fosse un contrasto, risolutiva.

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