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1 Sergio Ribichini Lo spazio sacro come categoria storico-religiosa Piano del dossier 1. Introduzione 2 2. Il labirinto 5 3. La montagna cosmica 8 4. L ombelico del mondo La pietra potente L albero della vita La grotta della salute La casa della divinità Il sacrario La sala di preghiera Una bibliografia preliminare 31

2 Introduzione La ricerca storica pone di fronte allo studioso monumenti di carattere religioso di varia tipologia e funzione, alla cui varietà corrisponde la ricchezza delle definizioni per essi adottate: tempio, santuario, sacello, edicola, cappella, chiesa, basilica, cattedrale, duomo, sinagoga, moschea, pagoda, e così via. La loro interpretazione come luoghi sacri dipende, com è ovvio, anzitutto dalla natura dei spazi in questione, cioè dalla loro conformazione e destinazione. Anche nel caso di testimonianze archeologiche mute, di civiltà ormai scomparse, è la struttura architettonica di una installazione a rivelarne la destinazione cultuale, o anche la sua connessione con una particolare manifestazione di ciò che nella rispettiva cultura è ritenuto sacro; in altri casi la connotazione sacrale si deduce dal rinvenimento di oggetti e manufatti in tal senso qualificanti, come ex-voto, iscrizioni votive, statue o altri oggetti indicativi di un culto. Topografia del sito, pratiche rituali e credenze religiose possono dunque essere intesi come i tre elementi capaci di individuare in autonomia un luogo consacrato. Ma la definizione di uno spazio come luogo o edificio sacro è una questione meno facile di quanto possa sembrare a prima vista e investe problemi di ampia portata. Essa dipende, in primo luogo, dal significato che l osservatore moderno assegna a questa qualificazione, e al contempo, più o meno indipendentemente da ciò, anche dal valore attribuito al termine sacro già nella cultura in esame, correlatamente a quanto, nell uno e nell altro caso, viene distinto invece come profano, secondo una dicotomia che però appartiene, in larga parte, alla nostra tradizione culturale. Dal punto di vista terminologico, infatti, il sacro è un concetto individuato originariamente in varie religioni del Mediterraneo antico, poi arricchito e trasformato con l apporto di valori derivati dall etnologia (mana, tabu, ecc.), e giunto a rappresentare uno dei tanti strumenti per l interpretazione moderna dei fatti religiosi. Nelle antiche lingue semitiche (come l accadico, l ebraico e il fenicio), ad esempio, il termine qodesh esprimeva la nozione di consacrazione/appartenenza a Dio e di purità religiosa, in riferimento ad oggetti, luoghi e persone. Nell Islam sono ancora oggi haram, inviolabili, i luoghi resi sacri dalla presenza divina e dagli atti religiosi (a cominciare dalla Kaaba e dai territori della Mecca), accessibili solo per il credente purificato. Diversamente, nel mondo indiano la parola caitya designa in origine le caverne, usate per le sepolture; indica poi i tumuli funerari e successivamente edicole o cappelle con immagini cultuali; infine la sala monumentale, con abside e navate, tipica del convento buddhista. Un particolare significato religioso si riconosce anche al termine tirtha, che indica inizialmente fiumi come il Gange, abbeveratoi, guadi o siti per fare il bagno lustrale. Nell antica Grecia sembra possibile individuare un alternativa tra hieros e hagios, per indicare rispettivamente il sacro come qualcosa di diverso e potente, e il sacro come oggetto di rispetto e timore; nel lessico dei luoghi sacri hieron è l edificio templare, che si eleva nel temenos, il terreno/recinto proprietà del dio, mentre naos è la cella entro la quale si trova la sua statua. Nell antica Roma una tripartizione stabilita già alla fine dell età repubblicana distingue le res sacrae (consacrate ritualmente) da quelle religiosae (principalmente le tombe) e dalle sanctae (le cose dotate di una sanctio legale, ad esempio le mura o le porte di una città); per i luoghi consacrati, templum corrisponde a temenos, e vale in origine come spazio delimitato ; fanum deriva da fas ( legge divina ) e ha un senso generico, come sede di un culto ; aedes viene solitamente precisata con un aggettivo (aedes sacra) e seguita dal nome del dio cui l edificio è 2 Sergio Ribichini, Lo spazio sacro

3 dedicato. Il ricorso a questi e altri termini, peraltro, nell uso letterario spesso si confonde, sicché spetta sovente allo storico verificare che cosa siano nella realtà dei fatti hieroi, naoi, templa o fana di cui parlano gli autori antichi. Solitamente oggi, sul piano della fenomenologia storico-religiosa, per caratterizzare il sacro si utilizzano due criteri: da un lato sta il sacro per separazione, ciò che è stato scisso dall uso quotidiano e appartiene a una potenza sovrumana; dall altro il sacro in positivo, la qualità indefinibile ma evidente nei suoi effetti che distingue dal consueto taluni esseri e talune cose. Riserva e timore da parte dell uomo caratterizzano il primo aspetto, ammirazione e ricerca di familiarità il secondo. Ma nell osservare ciò che nelle varie civiltà tende a distinguere lo spazio sacro rispetto al profano, lo studioso è chiamato a render conto non già di una esperienza assoluta del sacro, come qualcosa di obiettivamente esistente, bensì delle ragioni per cui certi luoghi assumano carattere religioso, di volta in volta, in risposta ad esigenze diverse. Pochi esempi chiariranno meglio il concetto. La terra coltivabile, ad esempio, può avere un valore sacro ben differente, a seconda che a identificare tale valore sia una popolazione di agricoltori oppure di allevatori, di nomadi o di marinai. Analogamente, una grotta può recare traccia di un culto funerario, eroico, divino, salutifero, ctonio, ecc., in dipendenza di valori e significati ad essa riconosciuti in una determinata cultura o tradizione mitica. Un ambiente monoteistico, lo spazio, comunque delimitato, è parte del cosmo e dunque creazione del Dio trascendente, diverso da esso: taluni spazi possono essere considerati sacri per via di particolari sue manifestazioni, per via della loro destinazione al suo culto, per via di particolari vicende storiche legate a determinate credenze, per via dell edificazione di determinati edifici riservati a ciò che s intende come religione. In ambiente politeistico, tutto lo spazio è parte del mondo divino, immanente, si divide secondo le sfere di competenza di ciascuna divinità e contribuisce a caratterizzare ciascuna di esse in autonomia rispetto alle altre: dio del mare, del cielo, della montagna, dei boschi, della terra, degli inferi, ecc. Perciò, una tipologia dello spazio consacrato non può rispondere banalmente a criteri fondati sulla semplice esperienza paesaggistica o ad una generica sacralità della natura. Una distinzione tra luoghi sacri urbani ed extraurbani, rurali, marittimi, o montani, nazionali, tribali o sovranazionali, parimenti, può assumere valori diversi secondo la civiltà in esame e le differenti visioni del mondo che li hanno espressi. Sul piano storico, insomma, non ha importanza che cosa sia una grotta, una roccia o una fonte in assoluto, o se riveli qualcosa di trascendente; interessa invece conoscere che cosa una certa cultura, a seconda delle circostanze, vuole che la grotta, la roccia, la fonte siano, e perché, nella loro connessione con altri elementi culturali, politici, sociali, religiosi. Da questo punto di vista, il primo elemento da rilevare sul piano generale è il processo di sacralizzazione di determinati spazi, che vengono sottratti alla dimensione profana mediante l attribuzione di valori simbolici peculiari. Tale processo concerne da un lato luoghi costruiti specificamente dall uomo per finalità religiose e dall altro luoghi naturali, adibiti allo stesso scopo; riguarda luoghi nei quali si può entrare fisicamente, ma anche luoghi immaginari, ove entrare simbolicamente, o visivamente. Risvolti di sacralità s individuano allo stesso modo nella configurazione topografica di certi siti, quando ad essa si riconoscono significati peculiari: il centro può avere ad esempio un carattere positivo rispetto alla periferia, analogamente all orientamento e alle direzioni. Connotazioni sacrali investono anche la configurazione marginale di taluni luoghi, come soglie, crocicchi, vestiboli e confini. In teoria la sacralità dello spazio non esclude neppure un luogo del tutto profano, per via che lo stesso luogo può essere come categoria storico-religiosa 3

4 sacro e non, in differenti punti di vista o circostanze: nella cultura tradizionale dei Maori della Nuova Zelanda, ad esempio, la latrina segna il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti; come tale gode di una sacralità specifica, relativa a particolari momenti del mito o del rito. Nell India vedica, per altro verso, non c erano templi o aree consacrate permanenti; il luogo sacro veniva costituito di volta in volta, presso singoli individui o località, mediante l installazione di tre focolari e dell altare. Gli spazi possono apparire sacralizzati in relazione alle origini di un popolo, come localizzazione di eventi primordiali, oppure perché sede della manifestazione di una presenza potente (si pensi al culto delle reliquie, ai centri oracolari e salutiferi), o ancora perché localizzano materialmente luoghi immaginari (territorio dei morti, olimpo degli dèi, ecc.). Talora la forma di un sito può dare senso specifico alla sacralità che ad esso viene riconosciuta proprio per essere collegato a punti caratteristici della natura. In differenti culture vari luoghi naturalmente eminenti suggeriscono la presenza della divinità (o di una potenza extraumana), che abita o s identifica con boschi, fiumi, sorgenti, grotte, e sporgenze rocciose. In questi casi, in un certo senso, l uomo si limita a riconoscere la sacralità dei luoghi in questione, che dipende dal suo volere solo nella misura in cui egli interviene per dare forma e accessibilità ai luoghi stessi, o nello stabilirne la separazione rispetto allo spazio profano. In altri casi, invece, la sacralità di un sito deriva direttamente dalla volontà umana, che sceglie e costruisce i luoghi in cui far abitare la divinità. Un secondo elemento da rilevare è quello degli atteggiamenti rituali che concernono il rapporto uomo-spazio consacrato. Possiamo distinguere a questo proposito i riti di determinazione degli spazi religiosi (mediante aruspicina, incubazione, o altre forme divinatorie, per stabilire posizione, orientamento e sequenze di costruzione di un edificio sacro), dai riti destinati a trasformare simbolicamente lo spazio costruito o stabilito dall uomo in uno spazio di valore cosmico, nonché dai riti che più propriamente qualificano come tale lo spazio consacrato, mediante interdizioni e prescrizioni sull accesso ad esso (abbigliamento, esclusioni, rituali di purificazione, ecc.). Il terzo elemento da porre in evidenza concerne la funzione dello spazio sacro, connessa in primo luogo alla possibilità che ivi si offre di entrare visivamente in contatto col sovrumano. Lo spazio sacro, in tal senso, è tipicamente un luogo di purità, che rivela un ordine ideale e riflette la grandezza e la perfezione divina. In secondo luogo esso è l ambito dell intervento divino, spesso mèta, proprio per questo, di pellegrinaggi, ispirati al desiderio di sperimentare cure miracolose (dai santuari di Asclepio alla grotta di Lourdes), o motivati dalla ricerca di una salvezza interiore e dalla volontà di migliorare la propria sorte (si pensi ai santuari dei culti misterici nell impero romano). Lo spazio sacro serve, in terzo luogo, con i suoi simbolismi, come rappresentazione iconografica del mondo, prototipo di un regno ultraterreno, proiezione ideale dell universo e ripetizione di una cosmogonia, punto d intersezione con il mondo divino, luogo d origine e di ordinamento perfino del tempo. Vi sono infine spazi che appaiono sacralizzati in rapporto alla loro utilità economica e sociale, nella misura in cui essi rappresentano l ambito naturale delle attività dei vari gruppi umani, costituiscono il centro di produzione, consumazione e redistribuzione della ricchezza, s identificano con la sede del potere politico o funzionano come elemento di coesione per la società, mantenendone e favorendone l unità. Il recinto del bestiame può essere luogo sacro per popoli allevatori, il mare può assumere caratteri sacri per pescatori e marinai, il suolo si esprime 4 Sergio Ribichini, Lo spazio sacro

5 come spazio per la coltivazione e sede della potenza ctonia per culture di agricoltori, la foresta o il deserto si caricano di valenze sacrali presso popoli cacciatori-raccoglitori o nomadi. Ma il discorso investe soprattutto i templi delle antiche culture orientali e classiche: santuari che battevano moneta propria, che funzionavano come banche e sedi per l accumulazione di denaro pubblico, che organizzavano fiere commerciali, guidavano le imprese coloniali, erano luogo d incontro e di raccordo comunitario. Nelle note che seguono 1 non si vuole tracciare semplicemente un panorama, più o meno eterogeneo, di tutti i possibili luoghi sacri né tracciare una tipologia assoluta dello spazio sacro; si vuole piuttosto costituire (con particolare attenzione alla documentazione archeologica, per via della specializzazione dei corsi di laurea interessati alla materia presso la nostra Università), una sorta di dossier che presenti, con i materiali, anche le questioni e i possibili approcci al tema dello spazio sacro. Il labirinto Secondo gli scrittori antichi, il labirinto di Creta fu costruito da Dedalo per il re Minosse, affinché vi si chiudesse il Minotauro. La tradizione mitica si canonizza intorno al IV secolo a.c. e riecheggia temi cari al nazionalismo ateniese: il racconto segna il trionfo dell eroe Teseo, che scende nei meandri oscuri con l aiuto di Arianna, uccide il mostro dalla testa taurina e libera gli Ateniesi dal tributo di sudditanza in vite umane al sovrano dell isola. Il mito, al tempo stesso, dà fondamento al rito d iniziazione per i giovani ateniesi, che celebrano l impresa fortunata e con apposita coreografia ripetono l andirivieni dei corridoi, la scena dell uccisione del Minotauro, la liberazione dei prigionieri e la loro esultanza finale. Il labirinto, nel mito, ha caratteri ben disegnati: è luogo sacro, poiché in esso si porta l offerta periodica di ragazzi destinati alla morte; è un luogo sotterraneo, e non semplicemente un antro o una spelonca naturale, poiché si presenta scavato nella pietra, secondo il disegno di un architetto; è luogo oscuro, poiché per entrarvi Teseo ha bisogno, prima ancora del filo, di una prodigiosa corona luminosa. Il carattere di percorso difficile è però quello che sovrasta sugli altri significati del luogo, fino a diventare l idea base del labirinto, la sua caratteristica peculiare. La localizzazione della costruzione cretese già all epoca delle fonti più antiche era discussa, e gli autori ne parlano con grande incertezza. Una parte delle testimonianze classiche documenta inoltre l estensione del termine labirinto a monumenti di vario aspetto, di varia epoca e di luoghi diversi: gallerie sotterranee con manufatti antichissimi e ipogei mortuari, identificati in Egitto (tomba del faraone Amenemeth III), in Etruria (sepolcro di Porsenna) e in Grecia (grotte e costruzioni varie a Nauplia, Tirinto, Samo, Lemno). Dal punto di vista figurativo, il problema non è molto complesso: a parte le immagini connesse ai personaggi del mito, la rappresentazione del labirinto segue solitamente due schemi: quello spiraliforme e quello meandriforme. Se pure non ogni figurazione intricata deve essere intesa come riproduzione di un labirinto, un nesso tra questa costruzione e la danza liturgica che ne ripeteva la spirale appare già nel VII secolo a.c., nella decorazione di una oinochoe da Tragliatella. Nel IV secolo, e in epoche più recenti, schemi labirintici compaiono su monete di 1 Riprese (e in parte rielaborate) da un lavoro precedentemente edito: cf. S. Ribichini, I luoghi del sacro, Dossier della rivista Archeo, 89, luglio 1992, De Agostini Rizzoli Periodici, pp come categoria storico-religiosa 5

6 Cnosso, a quadrilatero semplice, a croce o a spirale. L immagine più antica sembra essere quella di una tavoletta del palazzo miceneo di Pilo, anteriore di almeno sette secoli alle prime monete cnossie, che raffigura un edificio schematizzato ad angoli retti. Se si tratta realmente di un labirinto, esso comunque rinvia ad una costruzione reale, tutt altro che fantasiosa: il che ci spinge a spostare il discorso dal piano mitico e iconografico a quello più propriamente archeologico ed epigrafico. La questione di una possibile localizzazione topografica del labirinto cretese venne aperta nel 1901 da Arthur Evans, il quale propose d intendere il greco labyrinthos come casa dell ascia bipenne e d identificare il monumento con il palazzo reale di Cnosso, che proprio in quegli anni rivelava la grandezza della civiltà cretese. Gli scavi presentavano il palazzo come un groviglio di corridoi, scale e appartamenti a diversi livelli, ove i muri portavano spesso graffita la doppia ascia, il labrys. Nel palazzo della bipenne era dunque da riconoscere il labirinto che gli antichi mitografi non sapevano localizzare con certezza e l ascia era simbolo di una antichissima divinità maschile, nella quale i Greci avevano poi identificato lo Zeus cretese. La teoria di Evans trova ancor oggi qualche sostenitore, ma è stata ampiamente rivista nell ultimo mezzo secolo, per la scoperta e decifrazione dei testi in lineare B, che hanno offerto nuovi elementi e aperto nuovi problemi. Nelle tavolette cretesi e greche continentali compare più volte al genitivo la parola da-pu-ri-to-jo, nella quale si è riconosciuto senza difficoltà un precedente diretto del termine greco per labirinto. In più di una tavoletta, poi, il termine è accompagnato dal nome di una divinità, la po-ti-ni-ja (Potnia, Signora ), cui vengono indirizzate offerte di miele. Dunque è apparsa evidente l esistenza a Creta di un Labirinto come luogo sacro reale, non abitato dal Minotauro bensì da una dea, accostata dagli studiosi alle divinità greche Atena e Afrodite nonché alla figura preistorica della Grande Madre mediterranea. Per il termine labirinto, inoltre, si è fatta strada un etimologia diversa dal legame con l ascia bipenne, con un significato che rinvia piuttosto al concetto di pietra tagliata, scavo nel vivo del masso. Sicché non vi più ragionevole ostacolo per riconoscere in questo labirinto reale l adattamento ad opera umana di un antro naturale. Dove fosse questo santuario consacrato alla Potnia cretese è difficile dire. Potrebbe localizzarsi presso Gortina, dove esiste una spelonca con tracce d intervento umano piena di anditi e di cavità sinuose, che conducono ad una sorgente interna. Ma numerose altre grotte in tutta l isola potrebbero aspirare allo stesso titolo. Si può anzi avanzare l ipotesi che varie caverne cretesi, sistemate dalla mano dell uomo, si chiamassero labirinti, e che da Creta il nome s irradiasse, con il diffondersi di quella civiltà, cristallizzandosi poi specialmente nell ambiente grecocontinentale. Fondando su questi argomenti, Michelangelo Cagiano de Azevedo ha proposto di collegare il nome e la struttura del labirinto con le costruzioni megalitiche della preistoria maltese e più precisamente con l ipogeo di Hal Saflieni, unico complesso sotterraneo finora scoperto a Malta. Il monumento è un aggregato di grotte scavate nella roccia calcarea, su un area di circa 145 metri quadrati. Gli ambienti sono scaglionati su tre livelli e collegati fra loro da una serie di corridoi, nicchie, scale e anfratti ad ogni piano, fino a oltre dieci metri di profondità. Il passaggio da un piano all altro è però uno solo, così che dalla zona dell ingresso all ultima stanzetta del piano più profondo vi è un solo percorso possibile, con andamento a spirale. Nelle grotte si notano lunghi panconi, ricavati dalla roccia delle pareti, e nicchie, forse destinate a poggiare le lampade per illuminare gli ambienti. In una vasta caverna del piano centrale il soffitto è decorato con una 6 Sergio Ribichini, Lo spazio sacro

7 pittura a vernice rossa, con una serie di spirali ricorrenti; in un atrio la pietra è tagliata in modo da imitare la facciata di un tempio, simile a quella delle costruzioni megalitiche che sorgono numerose sull isola e anche nei pressi di questo ipogeo. Oltrepassato l ingresso al centro della finta facciata si penetra in una camera più piccola, anch essa decorata e probabilmente destinata alla celebrazione di riti per un pubblico ridotto. Al terzo livello di ambienti si scendeva con una scaletta rimuovibile, forse per un ulteriore accentuazione del carattere di sacro recesso delle stanze più riposte. Nell ipogeo sono state trovate, insieme a frammenti ceramici e oggetti vari, molte ossa umane, cosa che ha fatto pensare ad una funzione funeraria del luogo, anche se non necessariamente alternativa ad una sua preminente funzione cultuale. Quest ultima appare significativamente caratterizzata dal ritrovamento di una figura femminile in terracotta, dai fianchi molto sviluppati, giacente su un lettuccio e in atto di dormire. L abito e le fattezze della figurina corrispondono a quelli di molte statue di danzatrici sacre cretesi, mentre la posizione suggerisce d intendere il ritrovamento maltese come l effigie di una sacerdotessa in stato d incubazione. Dal complesso dei dati si deduce che l ipogeo di Hal Saflieni, quale appariva al culmine del suo sviluppo, cioè verso la metà del II millennio, si caratterizzava come luogo oscuro sotterraneo destinato ad attività religiosa, e probabilmente alla divinazione, verosimilmente consacrato, come i templi megalitici dell isola che esso imita nell architettura, ad una divinità femminile. Trattandosi di preistoria non suffragata da testimonianze scritte, e mancando punti di collegamento assolutamente chiari e precisi tra il neolitico maltese e altre civiltà dell area mediterranea, una definizione del monumento di Hal Saflieni come labirinto rimane ipotetica, e purtuttavia assai verosimile, specie per la corrispondenza formale dell ipogeo con la tipologia labirintica sopra individuata. Del resto le testimonianze epigrafiche del labirinto come luogo consacrato al culto di una Signora rimandano ad una valenza del termine più ampia di quella ad esso riconosciuta dalla tradizione letteraria classica. Un po come facevano già gli storici e i mitografi antichi, si può insomma parlare del labirinto come contrassegno collettivo per antichi luoghi sacri, nei quali l incedere nelle profondità della terra, seguendo percorsi artificiali e insidiosi, era parte integrante di un culto, rivolto a potenze infere e divinità femminili. Il labirinto cretese, legato al Minotauro, per concludere, non è solo un immagine mitica: nella realtà storica del II millennio a. C. esso identificava un luogo di culto scavato nella roccia e consacrato ad una dea. Come tanti elementi della civiltà micenea anche questo venne riutilizzato dal pensiero mitico greco, con nuovi caratteri: sparito nella memoria degli uomini come luogo reale, il labirinto finì per diventare uno spazio simbolico, che non si poteva (né, forse, si voleva) più localizzare in modo univoco, o descrivere con troppa precisione. In quanto idea, il labirinto poteva essere riconosciuto in una caverna, pensato in una costruzione, realizzato in una decorazione e perfino in una danza, secondo le necessità. Dalla verità storica a quella mitica, del labirinto si venne ad accentuare sempre più il valore simbolico, a danno dei significati originari e al punto da trasformare la costruzione in un archetipo, proficuamente utilizzato per millenni. Nell architettura romana e medievale, ad esempio, il labirinto si ritrova come motivo per la decorazione dei pavimenti; nelle chiese romaniche e gotiche il labirinto è simbolo dell itinerario dell anima verso Dio; nel Rinascimento diviene un elemento fondamentale dell arte dei giardini. Come immagine di un percorso difficile e ben oltre il problema storico e archeologico, il labirinto è ancor oggi presente nell immaginario collettivo, per interpretare situazioni psicologiche di tipo problematico, parafrasare un cammino penitenziale e iniziatico, o magari, più semplicemente, per come categoria storico-religiosa 7

8 ridare veste grafica alla sequenza di prove e trabocchetti dell antico mito, in un moderno e non meno affascinante videogioco. La montagna cosmica Con il tema della sacralità delle montagne il discorso si fa più complesso e articolato. Essa può rappresentare anzitutto una valorizzazione della realtà climatica e paesaggistica, nelle credenze di un popolo che interpreta le alture come dimora della divinità o divinità esse stesse, sede di avvenimenti primordiali o di culti specifici. Montagne considerate sacre compaiono, ovviamente, in quelle civiltà in cui un paesaggio montuoso appare geograficamente significativo, a cominciare dalle culture del Vicino Oriente preclassico e del Mediterraneo antico, ed assumono valori diversi a seconda delle civiltà in questione. In Siria-Palestina, ad esempio, il monte Casio, il Carmelo, il Libano e altre montagne costituivano alture divine, antiche quanto il mondo, ed offrivano un contesto peculiare per quei riti sugli alti luoghi (ebraico bâmôt) naturali o artificiali che nell Antico Testamento vengono condannati come un abominazione. Ma anche il monoteismo yahwistico non era estraneo dal concepire taluni spazi montani qualitativamente differenti dal resto, perché sacralizzati dalla presenza di Dio: sul monte Garizim, non lontano da Sichem, solo verso il 168 a.c. un tempio consacrato a Zeus Ospitale si sostituì ad un più antico edificio samaritano consacrato a Yahweh, mentre il Sinai, l Oreb e Sion costituivano altrettanti luoghi santificati dalla potente presenza del dio d Israele. La sacralizzazione di particolari alture è un elemento che caratterizza anche la religione di Creta, a partire dal Minoico Medio, e numerosi santuari erano qui costruiti sulle cime dei monti: a Petsofà, vicino Palaikastro, sullo Juktas, sull acropoli di Maza e altrove. Solitamente si tratta di un recinto a terrazza, sistemato sulla prominenza della montagna, ove strati di cenere molto spessi e grandi quantitativi di figurine in terracotta documentano le offerte per una Signora della montagna, che nelle figurazioni (per esempio su un sigillo di Cnosso del Minoico Tardo) compare su un picco roccioso, fiancheggiata da animali selvaggi. Nel mondo classico il monte più famoso è l Olimpo, tra la Macedonia e la Tessaglia: concepito come sede di Zeus già in Omero ed Esiodo, l Olimpo si trova utilizzato anche in senso generico, per indicare la dimora degli dèi e lo stesso consesso divino. In questa tipologia di luoghi sacri possiamo considerare infine anche il santuario rupestre più importante dell Anatolia hittita, situato a circa due miglia dalla capitale del regno, Hattusas (oggi Boghazköy). Qui, nell ultimo quarto del II millennio a.c., le pareti di un recesso roccioso, noto in lingua turca come Rupe scritta (Yazilikaya), servirono a raffigurare un duplice corteo di figure divine scolpite in bassorilievo. Una delle due processioni è guidata dal dio della tempesta Teshub, raffigurato in piedi accanto al suo toro, con una sorta di mazza ricurva nella destra, mentre i piedi poggiano su due divinità-montagna; l altro corteo è capeggiato dalla dea Hebat, in piedi su una pantera, seguita dal figlio Sharruma, anch egli su un felino. La tribuna principale, sulla parete di fondo del luogo, è occupata dalla figura di un sovrano (probabilmente Tudhalijas IV, figlio di Hattusili III, sovrano negli anni a.c. circa), in piedi sulle montagne. La scena rappresenta forse un matrimonio sacro, o un rito che periodicamente ripeteva un importante evento del mito; si può anche pensare che il luogo fosse consacrato, almeno parzialmente, al culto dei morti della dinastia hittita del Nuovo Impero, che insomma fosse una sorta di tempio mortuario. Si tratta comunque, in tutta evidenza, di un monumento della religione di Stato, legato più che ad una sacralità naturale del luogo, alla precipua volontà di trasformare in spazio sacro 8 Sergio Ribichini, Lo spazio sacro

9 quel recesso tra le rupi, sfruttando appieno di queste ultime la naturale conformazione a fini iconografici e commemorativi. La sacralità delle montagne, come si vede, è un dato che supera in ogni caso il semplice riflesso dell esperienza paesaggistica e dipende pienamente dalle particolari credenze di un popolo. In tale quadro, essa può trovare giustificazione anche in una specifica concezione del cosmo organizzato in livelli ascendenti e comunicanti (cielo, terra, inferi), tale da considerare i luoghi elevati come le sedi più prossime al contatto col sovrumano. La montagna, anzi una montagna, può rappresentare così l asse cosmico attorno al quale si estende l intero mondo, nonché il territorio capace di congiungere la terra e il cielo. In una concezione di questo tipo, inoltre, anche i templi costruiti dall uomo, nella misura in cui collegano uomini e dèi, possono essere intesi come ricapitolazioni architettoniche delle montagne sacre. Dur-an-ki, Legame tra cielo e terra : così vengono chiamati nelle tavolette cuneiformi i santuari della Mesopotamia preclassica che gli studiosi indicano col nome antico di ziqqurat ( tempio elevato ) e che, per la struttura a gradoni sovrapposti, rinviano con immediatezza all immagine biblica della torre di Babele, simbolo di eccesso e di arroganza. Con il tempio costruito sulla terrazza più alta, le ziqqurat rappresentavano una rievocazione delle montagne sacre e dei significati cosmici ad esse riconosciute: salire verso la loro cima equivaleva a muovere dal mondo profano verso quello soprannaturale, in una simbolica rappresentazione dell universo. Ne sono testimoni vari appellativi usati per le ziqqurat: Casa della montagna, Vento della montagna, Casa della Decisione, Casa del legame tra cielo e terra, Casa di fondazione dell universo. Nel VII secolo a.c. il re Nabopolassar così parla della ziqqurat di Babilonia: Il dio Marduk mi ordinò di piantare solide fondamenta per la "Casa di fondazione dell universo", così da raggiungere il mondo sotterraneo e ascendere con la sua cima fino al cielo. Nel V secolo a.c. Erodoto descrive la ziqqurat di questa città come una torre massiccia a otto stadi: Vi si sale a mezzo di scale esterne che si svolgono a spirale intorno a ciascuna delle torri; a metà della salita vi è un ripiano con dei sedili, sui quali si riposano coloro che salgono. Infine nell ultima torre vi è un grande tempio, nel quale si trovano un letto d oro e una tavola, anch essa d oro. Non ci sono invece statue del dio. Nessun essere umano vi può trascorrere la notte, eccetto una donna del paese, scelta dal dio. L erosione del tempo e le acque dell Eufrate rendono oggi impossibile ricostruire la ziqqurat di Babilonia, ma molte altre torri templari sono state ritrovate a Uruk, Nippur, Larsa, Ur, Nimrud, Khorsabad, Kar-Tukulti-Ninurta, Obeid, e altrove. L esempio forse meglio ricostruibile e tra i più antichi è quello di Ur: iniziata all epoca della I dinastia della città (2500 a.c. circa), completata sul finire del terzo millennio dal sovrano Ur Nammu (III dinastia, a.c.), restaurata più volte dai successori, risistemata integralmente in età neobabilonese, la torre cadde in rovina solo in età persiana. La sua esplorazione sistematica si è iniziata intorno alla metà del secolo scorso, quando archeologi inglesi ritrovarono i sigilli di fondazione del re Nabonedo ( a.c.), che per ultimo l aveva rinnovata, con il racconto delle fasi edilizie attraversate dalla ziqqurat in precedenza. La torre era costruita su base rettangolare (m. 62,50 x 43), con tre scalinate convergenti sul lato nord-est che permettevano la salita fino al livello più alto, il terzo. Qui sorgeva il tempio, la cui porta si apriva sull asse della scalinata centrale. Sembra certo che in ciascun periodo storico altri santuari, magazzini e un grande cortile erano costruiti attorno alla ziqqurat, mentre loughi consacrati al culto della coppia divina, Nanna (il dio-luna sumerico) e Ningal, sorgevano alla base stessa della torre, forse come santuari di accoglienza delle divinità, nella loro discesa dall alto. come categoria storico-religiosa 9

10 Significati assai analoghi a quelli della ziqqurat, sia pure a distanza notevole di spazio e di tempo, vanno riconosciuti ad un altro tipo di montagna artificiale: le piramidi templari delle civiltà del Messico precolombiano. L idea ispiratrice di questi monumenti, che altro non erano se non piattaforme per templi elevati, sembra essere per l appunto quella di avvicinare l uomo agli dèi, d immergere i loro santuari nel cielo. E possibile che la piramide-tempio mesoamericana sia nata come sviluppo di una più antica realizzazione dell idea di tumulo sepolcrale, o del monumento funebre, poiché all interno di alcune piramidi sono state trovate tombe, talora assai elaborate; tuttavia la funzione di rappresentare una visione mitica dell universo appare largamente preminente, testimoniata anche da una iconografia ricca di elementi simbolici connessi con la volta del cielo (come il serpente piumato) nonché dal periodico restauro edilizio delle piramidi, forse legato a grandi cicli calendariali, quasi che il rinnovamento dei monumenti fosse anche un momento di ricapitolazione del tempo. A Chichen Itza, centro tolteco dello Yucatan, di grande prosperità intorno al 1000, il tempio principale è un chiaro esempio di questi valori: nove ripiani con quattro scalinate e centinaia di gradini ripetono simbolicamente sulla pietra i nove cieli della concezione mesoamericana dell universo e i giorni dell anno che il sole impiega a percorrerli tutti. A Tenochtitlan, la capitale azteca sulle cui rovine gli spagnoli edificarono l odierna Città del Messico, il tempio più importante voluto da Moctezuma I ( ) era su una piramide che raggiungeva un altezza di trenta metri; due ampie scalinate erano inserite nella facciata, rivolta a occidente come quasi tutte le piramidi azteche, e sulla piattaforma più alta si innalzavano due templi, dedicati rispettivamente a Tlaloc (la Pioggia) e a Huitzilopochtli (il Sole). La piramide prendeva nome dal monte dei serpenti, sul quale era stato partorito Huitzilopochtli, e simboleggiava il centro mitico dell universo, da cui partivano le quattro direzioni del mondo e dal quale si accedeva ai tredici cieli sovrapposti e alle nove regioni sotterranee. L ombelico del mondo I sacerdoti di Apollo a Delfi narravano che il tempio del dio sorgeva nel luogo in cui si erano incontrate due aquile, che Zeus aveva fatto volare dagli estremi occidentale e orientale della terra, per fissare il punto centrale della terra stessa; da allora una pietra, l onfalo, marcava allo stesso tempo il punto d incontro dei rapaci e insieme l ombelico del mondo. La pietra, di forma ovoidale, si trovava nella parte più celata del santuario, accanto alla statua di Apollo e presso l apertura del terreno, simile a un pozzo, sulla quale era posto il tripode oracolare della Pizia. Una moneta di Delfi (epoca dell imperatore Adriano) rappresenta l onfalo con un serpente che vi si avvolge intorno; più diffuso è però il modello dell onfalo ornato con una rete di bende di lana, del quale si conserva al Museo di Delfi una copia di epoca romana. Su alcuni monumenti l onfalo è fiancheggiato dalle due aquile in oro, che nel tempio esistevano già al tempo di Pindaro e che vennero fuse dai Focesi durante la guerra sacra ( a.c.); su altri, posteriori al V secolo, è associato a scene del mito di Oreste. L onfalo conservato nell adyton del santuario delfico, peraltro, non era visibile alla folla dei fedeli, mentre numerose erano le copie che si trovavano in varie città greche (Argo, Chio, Atene, ad esempio: da quest ultima proviene un bell esemplare in marmo). Nei monumenti e nelle testimonianze scritte la pietra viene sistematicamente associata al nome e all oracolo del dio Apollo, vero signore dell onfalo, che secondo Platone si era «insediato al 10 Sergio Ribichini, Lo spazio sacro

11 centro e all ombelico della terra per guidare il genere umano». Certo non si deve pensare ad una concezione di questo ombelico del mondo nei termini di una connotazione geografica, quasi che il clero di Delfi, i poeti e taluni geografi antichi abbiano voluto insistere sull idea di un centro geometrico della Grecia e dell universo. Piuttosto si deve collegare la localizzazione mitica dell asse del cosmo in tale sito col ruolo di questo santuario di Apollo nel mondo greco, quale centro di riferimento culturale e punto di partenza per ogni iniziativa coloniale o espansionistica. E, cioè, una notazione politico-religiosa d insieme quella che ha permesso a Delfi di essere nel mito ombelico del mondo e nei fatti centro d irradiazione dei valori della cultura ellenica. D altro canto il simbolismo del centro, in riferimento a luoghi santi considerati asse del cosmo, elemento di congiunzione tra cielo, terra e inferi, sembra aver trovato mezzi di espressione assai chiara anche in altri ambiti culturali, soprattutto in quello semitico, in epoca preclassica e non. Già nel mondo mesopotamico, ad esempio, una città come Babilonia era considerata porta degli dèi, con un riferimento alla sua funzione di collegamento sacrale tra i tre livelli sovrapposti dell universo. In Siria e in Palestina si evidenzia poi l immagine di una città santa, come Biblo, fondata dal dio El quale sua abitazione e per questo primo centro urbano secondo la tradizione fenicia, o come Gerusalemme, considerata nella tradizione rabbinica il centro del cosmo, per via del tempio di Yahweh, costruito attorno e sopra una roccia sacra, intesa come la pietra di fondazione del mondo. Un ruolo ombelicale del tutto analogo a quello che aveva Gerusalemme per l antica comunità giudaica s individua infine, ancor oggi, nei valori che l Islam riconosce al suo monumento più importante: la Kaaba, l edificio cubico in muratura situato al centro della grande moschea della Mecca. Essa è il luogo verso cui si orientano i fedeli di tutto il mondo per le loro preghiere, da quando il Profeta ne riconobbe l importanza come primo santuario della terra, luogo della grazia di Dio, della sua adorazione, della proclamazione della sua unicità. All interno, sotto il drappeggio di seta nera e dietro la porta in oro massiccio, non c è nulla da venerare; la Kaaba è soltanto la Sacra Casa di Dio, nella convinzione che essa sia stata costruita da Abramo, nello stesso punto sopra il quale, nel regno dei cieli, si innalza il trono di Allah. Il tema dell Axis mundi, che possiamo considerare a questo punto come un archetipo, al modo di Mircea Eliade, constatandone però le diverse realizzazioni storiche, nel sistema giuridicoreligioso romano si concretizza nell immagine complessa, simbolica e reale del mundus. Secondo gli autori classici, questo termine indicava due cose. Da un lato la fossa, chiusa per sempre, in cui Romolo, al momento della fondazione della città, aveva gettato le primizie di quanto vi è di buono, dal punto di vista del costume, e di necessario, dal punto di vista della natura, nonché una manciata di terra del luogo da cui proveniva ciascuno dei suoi compagni. Dall altro lato ancora una fossa, o meglio un pozzo, che dava accesso al mondo sotterraneo e che veniva considerata aperta solo tre volte l anno (mundus patet era la formula che indicava questa situazione), il 24 agosto, il 5 ottobre e l 8 novembre, e che in talune fonti viene connessa al nome della dea Cerere. Nei giorni in cui il mundus era aperto non si poteva attaccare battaglia, mobilitare le truppe, prender moglie, tenere i comizi e operare nella pubblica amministrazione. Secondo Plutarco e Catone il significato del termine mundus era nella forma che questo pozzo aveva, cioè nel fatto che esso ripeteva e rappresentava, in uno spazio sotterraneo, il mondo celeste. Varrone considerava il mundus come un passaggio comunicante con l aldilà e un commentatore di Virgilio suggerisce l uso di questo pozzo per un rito che affidava ad un bambino il compito di discendere in esso e di prendere le tavolette divinatorie (sortes), con le quali si stabiliva l articolazione dell anno liturgico. Anche se le fonti sembrano mescolare varie tradizioni, confondendo miti, riti e luoghi (Plutarco, ad esempio, dice che la fossa è stata scavata presso il come categoria storico-religiosa 11

12 Comizio, mentre per altri era sul Palatino), si riconosce agevolmente il simbolismo assiale sia della fossa mitica, scavata all atto di fondazione della città, che quello del pozzo rituale. Il mundus rievocava il patto concluso in origine da uomini di stirpe diversa, per formare un solo popolo, e la sua apertura ripeteva periodicamente le condizioni ideali di pace; al tempo stesso il mundus localizzava sulla superficie terrestre la città di Roma, ancorandola ai due poli opposti della sfera cosmica (il cielo e gli inferi). Così il centro dello spazio di Roma era anche il punto iniziale della storia del popolo romano. L ubicazione del mundus si riconosce archeologicamente sul Palatino in un piccolo monumento circolare scoperto all inizio del secolo scorso, per il quale sembra proponibile una datazione tra la fine del II secolo e l inizio del I secolo a.c., con rifacimenti in età imperiale (Severo Alessandro). L edificio era in forma circolare, sormontato da un monoptero, con almeno otto colonne, entro il quale è un piccolo ambiente, accessibile da una porta rivolta a ovest. L identificazione del monumento col mundus di cui parlano le fonti letterarie trova una certa conferma nel fatto che proprio in corrispondenza di esso venne eretto, al tempo di Augusto (intorno al 20 a.c.), il miliarium aureum, la colonna di bronzo dorato che rappresentava il centro geografico dell impero romano e dalla quale partivano o convergevano le più grandi strade imperiali. Al tema dell ombelico del mondo, e al mundus latino in specie, è stato dato un parallelo indiano nell istituzione del mandala, cui è opportuno far cenno. Il termine sanscrito ha valore di circolo o centro ; sia nell Induismo tantrico che nel Buddhismo esso designa una diagramma geometrico, che riproduce l universo nel suo schema essenziale. Di regola la sua figura risulta composta di una cintura esterna e di uno o più cerchi concentrici, i quali racchiudono a loro volta un quadrato, diviso da linee trasversali. Alcuni modelli di mandala presentano anche complesse combinazioni di triangoli, figure divine o il fiore di loto, sui cui petali sono disposti simboli e disegni. Il mandala viene solitamente tracciato in terra, su una superficie consacrata, con fili, farina di riso o sabbia, a vari colori, da un maestro che compie la cerimonia alla presenza dei discepoli che vogliono essere iniziati ai misteri espressi in forma simbolica dal disegno stesso. Poi si passa all evocazione degli dèi che s insedieranno nel diagramma, affinché lo trasmutino in un cosmo vivente, ove l iniziando possa ripercorrere, nell intimo della propria coscienza, le forze che il mandala rappresenta, e realizzare in se stesso la verità da quello adombrata. I disegni spesso sono destinati a durare soltanto per il tempo di un rito, ma il mandala può identificarsi anche nella planimetria di una costruzione sacra, e ripetersi in pitture murali o su rotolo, per costituire un permanente veicolo meditativo. Interi templi buddhisti e induisti possono così essere mandala, riassumere simbolicamente l universo e presentare al fedele, attraverso la simbologia delle immagini e dei percorsi, un costante itinerario salvifico (l assimilazione del tempio al mandala è evidente ad esempio nel santuario di Borobudur, nel cuore di Giava). Persino il corpo umano può essere considerato uno spazio mandalico, costituito in centri e linee metafisiche che realizzano la riunificazione degli opposti. La pietra potente Il processo che carica di valenze sacrali determinati spazi si avvale con frequenza di pietre come oggetti significanti, sul piano mitico e su quello rituale, e con utilizzazioni che variano da cultura a cultura. 12 Sergio Ribichini, Lo spazio sacro

13 Un primo esempio dell utilizzazione delle pietre per questo scopo è dato dal fenomeno del megalitismo, che ha un estensione notevole, nello spazio e nel tempo, dall area oceanica a quella asiatica ed europea, con varie corrispondenze anche nelle civiltà precolombiane dell America. Per mostrare solo due diverse realizzazioni del fenomeno in ambito europeo e mediterraneo, si possono ricordare i templi megalitici dell isola di Malta e i complessi costituiti da dolmen e menhir della Gran Bretagna. Nel primo caso la forma e gli oggetti ritrovati non lasciano dubbi sulla natura sacrale delle costruzioni, che risalgono al III e II millennio a.c.: gli edifici a più vani e di forma circolare di Tarxien, Gigantija, Hagiar Qim e altre località dell arcipelago maltese, presentano spesso pilastri in pietra particolarmente curati e talora anche riprodotti in piccolo, tavole in forma di altare, talvolta ornate di rilievi. Il ritrovamento di ossa di animali e di arnesi litici, che a questi oggetti si aggiunge con frequenza, suggerisce la presenza di un culto, per una divinità femminile che statuette in pietra e argilla presentano nuda, con forme fisiche esageratamente pronunciate. Nel secondo caso, in mancanza di ritrovamenti chiaramente riferibili alla pratica cultuale, il carattere sacro affiora piuttosto dalla topografia dei siti e dall interpretazione più verosimile degli edifici megalitici. Il caso più celebre è quello di Stonehenge a Salisbury. Qui la struttura circolare del monumento ha fatto pensare ad una costruzione capace di predire le eclissi e legata probabilmente ad un culto del cielo o del sole, con cerimonie per il solstizio d estate. Ma anche altri imponenti monumenti preistorici della Gran Bretagna mostrano una particolare attenzione verso il sole e si rivelano come osservatorii astronomici: è il caso, tra gli altri, del cerchio e degli allineamenti in pietra che circondano un enorme pilastro a Callanish (Isola di Lewis, Ebridi). La spiegazione che si dà per tali ambienti non esclude e anzi enfatizza la loro connotazione di luoghi sacri, nella funzione evidente di porre - se è corretta la loro interpretazione - sotto controllo umano una realtà naturale e grandiosa come il movimento degli astri. Un altro tipo di pietre capaci di segnare sacralmente un territorio è costituito dalle pietre meteoriche. In generale si osserva che questo tipo di simboli litici diviene significante per i poteri magici che ad essi si riconoscono e soprattutto per il modo in cui si sono presentate all esperienza dell uomo. Le pietre vengono da un altro mondo, nel significato letterale dell espressione, e sono i segni di una realtà diversa, strumenti di una forza alla quale essi servono quasi da ricettacolo. Costituiscono esempi classici e famosi il simulacro della Grande Madre di Pessinunte (oggi Balhissar, in Turchia), portato a Roma con grande fasto nel 205 a.c. ma poi rimasto ai margini del culto ufficiale, e la Pietra Nera della Kaaba, presso gli Arabi, che da contrassegno di una venerazione politeistica, in epoca preislamica, contribuì poi a caratterizzare il luogo più santo dell Islam. La pietra di Pessinunte era di colore nero e di forma irregolare, non eccessivamente grande; quando i Romani concepirono l idea di trasferirne il culto a Roma, per fronteggiare il pericolo di Annibale con l aiuto della dea frigia, l aerolito fu installato sul Palatino con grande fasto, prima nel tempio della Vittoria e poi in un edificio appositamente costruito per la dea, venerata col nome di Magna Mater deum Idea e raffigurata con una statua argentea, nella quale venne incastonata la pietra. Verso questa divinità i Romani nutrirono a lungo un religioso timore: il culto, affidato a sacerdoti frigi e strettamente controllato, poteva svolgersi solo all interno del santuario, ai margini dell ufficialità fino all età imperiale, quando la diffidenza timorosa fece posto ad un favore dichiarato. Gli scavi condotti sul Palatino nell area del tempio confermano l aspetto salvifico e l apertura popolare di questo culto; il ritrovamento di molte statuine in terracotta, databili agli ultimi due secoli a.c. e raffiguranti l eroe Attis, testimonia peraltro una come categoria storico-religiosa 13

14 precoce presenza nel culto anche del compagno della dea frigia, evidentemente introdotto in contemporanea. La Pietra Nera della Mecca, sigillata all esterno della Kaaba, nell angolo nord-orientale, è di forma ovale, con una circonferenza di circa 90 centimetri; è spezzata in tre frammenti a causa di un incendio, tenuti insieme in un contenitore d argento. La Pietra Nera ancora oggi è venerata come una reliquia, per una tradizione che si rifà all esempio di Maometto, ma che non rappresenta un obbligo o un precetto di Allah. Il suo culto è comunque antichissimo, verosimilmente legato già nelle credenze dell Arabia preislamica alla sua origine meteorica e alla connessione con la Kaaba. Nella tradizione islamica essa proverrebbe dal cielo, portata dall angelo Gabriele, e in origine era bianca; il colore nero sarebbe dovuto al contatto con l impurità dei peccati dell epoca pagana. In parte confuso con quello delle pietre meteoriche e meglio connesso alla peculiarità di taluni luoghi sacri è il culto del betilo, pietra culturale tipica dell area semitica ma nota anche nel mondo classico. In una tipologia delle pietre sacre, il betilo si caratterizza come sede della divinità e oggetto cultuale in senso stretto, un vero e proprio dio(-di)-pietra, ampiamente attestato in Siria-Palestina e nel mondo fenicio-punico. Particolarmente significativo a questo proposito è l episodio biblico al capitolo XXVIII della Genesi, ove si narra del patriarca Giacobbe, che verso il tramonto del sole giunge in un luogo disseminato di grosse pietre e vi si addormenta, senza rendersi conto dell aura divina che circonda quel luogo. Il contatto con la pietra utilizzata come guanciale procura a Giacobbe la visione prodigiosa di angeli che salgono e scendono lungo una scala e di Yahweh che promette quella terra in eredità. Così al risveglio Giacobbe drizza la pietra, la consacra come massêbâh (stele) e chiama il luogo dell apparizione col nome di Beth-El, Casa di Dio. I Greci e i Romani ereditarono il termine e il significato del betilo semitico, arricchendoli di elementi mitici e valenze rituali nuovi. Il greco baitylos indica infatti, in modo peculiare, la pietra che la dea Terra aveva sostituito al neonato Zeus e che Crono aveva ingoiato al posto del figlio e poi vomitato. Al tempo di Pausania questo betilo si venerava a Delfi, non lontano dall onfalo. Ma anche Roma pretendeva di possedere lo stesso betilo, e lo identificava con la pietra informe di Termine (il dio che presiedeva ai confini), conservata nel tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio. Qui il betilo stava simbolicamente all aperto (un piccolo pertugio praticato sul soffitto del tempio gli consentiva di avere sopra di sé soltanto le stelle) e fondava miticamente la sacralità delle pietre confinarie. Secondo la tradizione, infatti, al momento della costruzione del tempio di Giove sul colle capitolino, il dio di pietra si sarebbe ostinato a restarvi, rifiutando di cedere spazio a favore dell altro dio. E dal momento che non si era lasciato smuovere a beneficio di Giove, Termine poteva garantire appieno l inamovibilità di ogni singolo terminus, cioè di ogni confine, pubblico e privato, posto sotto la sua protezione. I caratteri di questo betilo/dio di confine consentono d introdurre l analisi di un ultimo tipo di pietre, utilizzate sacralmente per la definizione e il controllo di uno spazio da considerare inviolabile e religiosamente tutelato: quello, appunto, relativo ai confini. L esempio che viene più immediato al proposito è dato dai kudurru, le pietre confinarie dell antica Mesopotamia, protette da riti, simboli e pesanti formule di maledizione. Rinvenuti numerosi negli scavi, con le iscrizioni e le figurazioni che recano incise i kudurru testimoniano la preoccupazione di documentare durevolmente la proprietà, così che la stabilità spaziale del territorio si tramuti anche in stabilità temporale. Ma il discorso vale parimenti per il mondo greco, che affida il controllo dello spazio a varie divinità: quello ignoto a Ermete, quello domestico a Estia, quello coltivabile a Zeus Horios 14 Sergio Ribichini, Lo spazio sacro

15 (cioè a Zeus/pietra di confine). Diversamente dai kudurru, le pietre confinarie in Grecia (horoi) spesso erano appena squadrate e prive di raffigurazioni, rimuovibili e utilizzabili perfino come materiale da costruzione per le fondamenta di templi. Ma vi erano anche horoi più importanti, destinati a fungere da limiti lungo i confini di un santuario o come cartelli indicatori davanti o dentro di esso. In tali casi un iscrizione riporta solitamente il nome della divinità e formule concise: «Horos del santuario di Ninfa» (Atene, fine V secolo a.c.), «Horos del santuario di Eracle, di piedi cinquanta» (campagna attica, seconda metà IV secolo a.c.). Un caso a parte formano, infine, gli horoi che delimitavano una zona sacra in cui vigeva il diritto di asilo, che era cioè rifugio di supplici e perseguitati. Il più antico horos di asilo (inizi del V secolo a.c.) è stato ritrovato in situ a Corinto, al confine di un piccolo recinto contenente un tempietto e un ara, forse di carattere oracolare; l epigrafe è chiusa da una brevissima legge: «Horos sacro inviolabile. Non si oltrepassi. Pena 8 (oboli)». L albero della vita Se prestiamo fede a Plinio il Vecchio, le foreste sarebbero state i primi santuari; Luciano di Samosata afferma che prima ancora dell avvio del culto per gli dèi i boschi ritenuti sacri erano già circondati da un recinto. Di fatto la venerazione degli alberi - non in quanto tali, ma in quanto simbolo o attributo di una potenza sovrumana - è assai diffusa e notevolmente antica. Già nell iconografia del Vicino Oriente preclassico troviamo con grande frequenza la rappresentazione di un albero sacro (per lo più una palma dattilifera, più o meno stilizzata), circondato da animali caprini, astri, uccelli, serpenti, simboli vari e figure araldiche, nel quale si riconosce un simbolismo complesso, che spesso trova riscontro e chiarimento nei testi: albero del paradiso, immagine del cosmo, pianta della vita, sorgente del bene e del male, centro e sostegno del mondo. Questo albero simbolico, ma anche più concretamente un albero reale, magari di particolare forma o dimensione, può contrassegnare la sacralità di un luogo, perché adatto a manifestazioni della divinità o perché sede di un culto specifico. Nell Antico Testamento, per esempio, Yahweh appare ad Abramo alla quercia di More e poi gli si manifesta alla quercia di Mambre; in entrambi i luoghi Abramo edifica altari, a ricordo e perpetuazione della presenza divina. Nel mondo minoico l albero sacro contraddistingue spesso un santuario. Su figurazioni di anelli d oro esso compare al centro di un recinto e viene talora associato alla divinità che esso indica o simboleggia. Nel mondo greco, parimenti, l albero costituisce un elemento di demarcazione per luoghi consacrati, immagine e contrassegno di un culto divino. Ogni santuario ha, nella maggior parte dei casi, ciascuno il proprio albero particolare, con funzioni specifiche: sull acropoli di Atene un olivo si trovava nel recinto della dea Pandroso ed era simbolo della città; nel tempio di Era a Samo un salice era incluso nel grande altare dell edificio; a Delo si mostrava la palma che aveva sorretto Latona nel partorire Artemide e Apollo; a Olimpia un olivo selvatico forniva rami per incoronare i vincitori dei giochi. L accostamento albero-luogo di culto è presente anche nel mondo romano, e si ritrova ad esempio in varie pitture di Pompei ed Ercolano, raffiguranti alberi protetti da un muretto o inseriti in edicole di varie dimensioni. In una prospettiva strutturale potremmo intendere questo ruolo degli alberi, nella definizione sacrale di un territorio, come la valorizzazione di un opposizione tra natura e cultura, tra spazio selvaggio e spazio cittadino: con l albero isolato all interno di un tempio, e spesso ritualmente come categoria storico-religiosa 15

16 portato dal bosco alla città (sono le dendroforie dei culti di Apollo in Grecia e di Cibele a Roma), la vita urbana viene in certo modo rivitalizzata dall energia che deriva dai luoghi non abitati circostanti. E non ci si allontana da questi valori anche nel caso in cui è un intero bosco ad essere coinvolto nel processo di sacralizzazione spaziale, come parte di un santuario o in quanto esso stesso considerato luogo sacro. In greco, il bosco sacro è indicato dal termine alsos e s inserisce in vario modo nel culto divino. Tra i boschi più noti vi erano quelli consacrati a Zeus: l Altis di Olimpia, soprattutto, celebrato già da Pindaro, e la foresta di querce a Dodona, famosa per i vaticini che il dio vi offriva con lo stormire delle fronde. L alsos aveva funzioni mitico-cultuali, come spazio riservato alla divinità, ma anche funzioni economiche, come pascolo per gli animali e fonte per legname; perciò era protetto da norme e divieti specifici. Il bosco di Asclepio a Epidauro, scrive Pausania, «è da ogni parte delimitato da pietre di confine. Dentro il recinto non possono morire esseri umani né partorire donne, e la stessa norma vige a Delo». Nel santuario di Iuno Lacinia, presso Crotone, il bosco era lasciato al pascolo di ogni genere di animali, dalla cui vendita si ricavavano ingenti profitti. L alsos greco ha un corrispondente nel bosco sacro del mondo romano, indicato col termine nemus e più spesso (e più specificamente) con quello di lucus. Quest ultimo, in senso originario, designava piuttosto una radura ricavata col disboscamento, per conquistare terreno agricolo; ben presto il termine venne però utilizzato per indicare i boschi sacri, generalmente di proprietà pubblica, e lucar era il denaro che si ricavava dall affitto di tali boschi o dalla vendita del legname. Il numero dei luci, consacrati a divinità italiche o etrusche romanizzate, era assai elevato, ma le necessità dell urbanizzazione ne ridussero progressivamente l estensione e il significato già in età repubblicana. Nella gran parte i luci ci sono noti per allusioni rapide e imprecise delle fonti letterarie, ma in qualche caso disponiamo d informazioni maggiori grazie all archeologia. Ciò accade, ad esempio, per il Lucus Furrinae del Gianicolo, consacrato in origine a una divinità etrusca, che a partire dal II secolo d.c. cedette il posto a un santuario per le divinità siriane. Dagli scavi è ben noto anche il lucus della dea Dia, sede della confraternita degli Arvali e individuato sul sito della Magliana, a sette km. circa da Roma. Altri due luci esplorati dagli archeologi sono poi il Nemus Aricinum, presso il lago di Nemi, e il Lucus Feroniae, presso Capena, a nord di Roma, sui quali conviene fermare l attenzione, in quanto appaiono particolarmente utili ad esemplificare le valenze che storicamente si legano a questo tipo di spazio consacrato. Nel bosco di Ariccia, circondato da un temenos e assai vasto, sulla riva di un lago di montagna sorgeva fin dal 500 a. C. il santuario di Diana Nemorense, importante per essere stato al centro di una federazione di gente latina. Il culto era qui affidato alle cure di un sacerdote che portava il titolo di re (rex Nemorensis), anche se la tradizione rendeva fragile questa dignità, prescrivendo che chi aspirasse a tale titolo dovesse uccidere il re in carica, dopo aver spezzato un ramoscello da un albero del bosco sacro (= il Ramo d oro, cui James G. Frazer ha intitolato il suo più celebre lavoro di etno-antropologia). Nel bosco una fonte celava una sorta di ninfa, Egeria, il cui nome va forse collegato all atto finale della gravidanza (egerere, portar fuori, far uscire ), e alla quale venivano a sacrificare le partorienti. Il bosco ospitava anche un genio maschile, Virbio, considerato identico all eroe greco Ippolito, nella generale ellenizzazione del culto di Diana, assimilata alla greca Artemide fin dal IV secolo a.c. La dea latina era detta però anche Trivia e considerata simile a Ecate. Perciò il suo personaggio non si caratterizzava soltanto nelle vesti di una giovane cacciatrice, signora dei boschi; e anzi, quando il santuario di Ariccia, col decadere 16 Sergio Ribichini, Lo spazio sacro

17 della lega latina, perse a favore di Roma la sua importanza politica, nel culto del Nemus Aricinum si accentuarono gli aspetti di una devozione quasi privata, legata specialmente ai rischi della gravidanza e del parto. Dalle fonti letterarie è noto, tra l altro, che alle Idi di agosto le donne romane si recavano al bosco in processione, per dimostrare la loro riconoscenza alla dea. I dati archeologici confermano questo aspetto del culto e ne precisano i caratteri. Gli scavi, infatti, hanno riportato alla luce una gran quantità di ex-voto in bronzo e terracotta di età mediorepubblicana, dal significato non dubbio: statuette di madri con lattanti o con l abito aperto sul davanti e immagini di organi sessuali, maschili e femminili. Quanto alla struttura del santuario, individuato fin dal Seicento nella zona a nord del lago di Nemi, non è possibile avere oggi un quadro preciso degli edifici che lo componevano, per i molti scavi di rapina. Dalle indagini finora effettuate si può dedurre un ampio intervento edilizio intorno alla fine del VI - inizi del V secolo a.c., poi soggetto a ristrutturazioni e modifiche varie, fino all età imperiale. In epoca tardorepubblicana del santuario faceva parte una grande terrazza, limitata su tre lati da un portico colonnato, cui appartenevano probabilmente le numerose antefisse con il busto di Diana trovate su tutta l area. In epoca imperiale l area del bosco comprendeva, con il santuario di Diana, altre costruzioni, tra cui un fanum di Iside e Bubasti, un teatro e le terme. Il tempio della dea si riconosce in genere in una costruzione allungata (m. 30x15,90), con tre ambienti in linea; ma poiché Vitruvio parla di un edificio a cella trasversale, esso va forse cercato nella zona non ancora esplorata. La massima concentrazione di testimonianze archeologiche si evidenzia comunque nel periodo della dinastia giulio-claudia e mostra l assorbimento graduale del santuario di Diana nel quadro dei culti imperiali e in un ambito decisamente privato, in particolare al tempo di Caligola, la cui villa sorgeva proprio a ridosso del luogo sacro. Pressoché parallela si muove la storia del Lucus Feroniae di Capena, attestato a partire dal IV secolo a.c., ove meglio si evidenziano gli elementi di una contrapposizione tra natura e cultura, tra bosco e spazio abitato. Feronia era una divinità legata alla vegetazione: alcuni autori la definiscono come una dea agrorum, con un riferimento al suo carattere antiurbano, e forse anche ad un suo attivo contributo alla fertilità dei campi. In questa direzione orientano del resto le notizie di Tito Livio sull abitudine dei Capenati di consacrare a Feronia le primizie del raccolto, nonché quelle sulla grande fiera, che faceva convergere nel bosco sacro migliaia di acquirenti, venditori e pellegrini. Il lucus di Capena non aveva tuttavia competenza politica o federativa, al modo della Diana di Ariccia, sebbene anche Feronia, nel suo ambito agreste, fosse intesa come dea benevola: con la fiera essa forniva nel bosco a lei sacro una sorta di terreno neutrale per gli scambi tra i popoli, e con il culto regolare si dimostrava capace di guarire e fecondare. Gli scavi del lucus di Capena, identificato nel 1952 vicino al castello di Scorano, hanno documentato che fin dall epoca di Silla il bosco era ridotto ad un temenos di circa 3700 metri quadrati, con un tempio preceduto da un altare nella zona più a nord. Una favissa ha restituito figurine in terracotta di piedi, mani, teste, bambini in fasce e animali da lavoro, a testimonianza di un culto salutifero. Sono state inoltre ritrovate una quarantina di piccole basi di pietra dalle quali erano state strappate le statuette. Il complesso del materiale si data al III secolo a.c. ed è suggestiva l ipotesi che collega il furto delle statuette strappate dai piedistalli, e la mancanza di oggetti metallici nella favissa, con il saccheggio compiuto dai soldati di Annibale durante la seconda guerra punica, quando il santuario doveva essere al massimo del suo splendore. La particolarità di Feronia, rispetto a Diana, ma anche rispetto ad altre entità latine del mondo agreste, come Fauno e Silvano, si coglie dunque nella sua capacità di tutelare le forze della natura selvaggia (tutti i suoi luoghi di culto sono fuori dalle città, nei boschi; a Roma stessa, nel campo come categoria storico-religiosa 17

18 di Marte, il tempio di Feronia doveva trovarsi in un lucus, secondo un iscrizione), per porla al servizio degli uomini, della loro alimentazione, della loro salute e fecondità. La storia del santuario capenate si conclude tuttavia in modo analogo a quello della Diana di Ariccia: importantissimo nel periodo arcaico esso venne inserito progressivamente nel contesto urbano della colonia sillana e amplificato in un area pubblica, comprendente un foro, un aula basilicale a tre navate dedicata al culto dinastico, fino a divenire solo un appendice di una grande villa patrizia, quella dei Volusii Saturnini. La grotta della salute Secondo un diffuso schema di sviluppo, la grotta rappresenterebbe la prima abitazione dell uomo; utilizzata poi come luogo di sepoltura, essa sarebbe stata infine considerata come dimora divina. Ma la successione abitazione-tomba-santuario è ben lungi dall essere costante, né si può pensare all uso sacrale della grotta come un fenomeno universale (se non altro per via del fatto che non dappertutto esistono grotte). Tra i motivi dell utilizzazione sacrale delle grotte vi è di certo, non ultimo, quello della particolare atmosfera naturale: l oscurità poteva suscitare fin da tempi antichissimi una sensazione di mistero e di religioso timore; alcune strane concrezioni calcaree potevano servire (e di fatto servirono) come raffigurazioni di potenze sovrumane; molte grotte sotterranee si prestavano ad essere interpretate come ambito specifico delle potenze infernali. La comparazione storica mostra tuttavia che sulle varie motivazioni di ordine psicologico prevale il fattore culturale: la grotta non è un archetipo naturale (o seminaturale, quale potrebbe essere il labirinto, col quale pure talvolta si confonde), bensì un immagine e una realtà che si qualificano e si modificano per l influenza di vari fattori storici: tecnici, culturali, letterari, e così via. Per cominciare dalla sacralità delle numerose grotte dell Europa preistorica (più di un centinaio, per la gran parte situate nel sud-est della Francia e nel nord-est della Spagna), è difficile andare oltre l ipotesi della loro utilizzazione religiosa, che però, almeno in alcuni casi, è assolutamente plausibile. L infinita varietà delle forme delle caverne e l impiego di vari sistemi di rappresentazione rende, com è ovvio, ardua l interpretazione dei luoghi e delle decorazioni, soprattutto in quelle caverne in cui artisti di epoche diverse hanno riempito poco a poco tutti gli spazi disponibili; ma la scelta dei soggetti appare spesso orientata a ripetere uno schema o una sequenza precisa. Carattere dominante ha l associazione tra due specie di animali, una delle quali è data dal cavallo, l altra da un bovino, cui si aggiunge una seconda linea simbolica, ispirata all uomo. Nella grotta di Addaura, vicino Palermo (9000 circa a.c.), si trova ad esempio una composizione di uro (bue selvatico), cavallo e un cervide, assieme a personaggi che sembrano partecipare animatamente ad una danza circolare. Passando alle culture storiche del Mediterraneo, si può osservare anzitutto che le grotte-santuario costituiscono una caratteristica peculiare della religione della Creta minoica: almeno una trentina di caverne possono rientrare in questa definizione, per le installazioni cultuali (altari, tavole di offerta), i doni votivi, le ceneri di animali e la ceramica che esse hanno restituito in gran numero, a riprova di una frequentazione continua e di un culto forse periodicamente rinnovato. In alcune grotte, come a Kamares, sopra Festo, si è ritrovata esclusivamente ceramica, mentre in altre caverne, per esempio nella grotta di Psychro, v erano armi e figurine votive in bronzo o argilla, raffiguranti uomini e animali, deposte nelle fessure delle rocce o attorno a stalattiti. Le notevoli 18 Sergio Ribichini, Lo spazio sacro

19 differenze nei reperti delle varie grotte dimostrano che non è possibile supporre in epoca minoica una sorta di generale divinità delle caverne, ma si deve pensare al culto di diversi dèi, ciascuno con sue particolari funzioni. Tra i vari culti, grazie anche alla successiva tradizione ellenica, possiamo identificare con certezza quello di Ilitia, divinità preposta al parto, nella grotta di Amniso, non lontano da Cnosso. La caverna che l archeologia ha qui identificato è caratterizzata dalla presenza di stalagmiti - di cui forse una era oggetto di culto, poiché cinta da un muro e fronteggiata da un altare - e di ceramica che va dall epoca neolitica fino all età romana, il che suppone un ininterrotta frequentazione cultuale. Ilitia, del resto, figura come destinataria di offerte già in una tavoletta di Cnosso, e l antro della dea di Amniso è citato anche nell Odissea; vari autori raccontano poi che in questa grotta era caduto il cordone ombelicale di Zeus e menzionano i pellegrinaggi che vi facevano le donne incinte. Sempre a Creta si mostrava, ora sul monte Ida, ora sul Ditte, la caverna di Zeus, il dio che Crono avrebbe voluto ingoiare bambino come aveva fatto con gli altri figli, e che qui era stato nascosto dalla madre Terra. L incertezza delle fonti impedisce d identificare la grotta con uno dei recessi indagati dagli archeologi, rispettivamente sull Ida e sul Ditte. La caverna esplorata sulla sommità della prima montagna ha restituito doni votivi di epoca post-minoica deposti davanti all entrata, mentre all interno le tracce di un culto risalgono solo all età romana. Ma in ogni caso varie fonti letterarie attestano che nell antro sull Ida a Zeus era dedicato un culto mistico: ogni anno gli veniva imbandito un banchetto; gli iniziati entravano nella caverna indossando vesti di lana nera e vi si trattenevano per vari giorni. Dal IV secolo a.c. in poi si diffuse anche una tradizione che considerava questa grotta come il sepolcro di Zeus. Si raccontava inoltre di un lungo soggiorno compiuto in tale grotta da Epimenide di Creta, veggente estatico e uomo pieno di sapienza vissuto sul finire del VII secolo. Nella Grecia classica, le caverne appaiono con un ruolo secondario tra le manifestazioni del culto, spesso integrate come cripte di santuari in superficie; nell ambito della geografia mitica, invece, l antro assume significati simbolici peculiari e interessanti. Per un ateniese del V secolo a.c. la grotta è anzitutto un immagine della natura selvaggia, in opposizione alla città, e appartiene al paesaggio del mito; nelle caverne dèi ed eroi nascono, nascondono i loro amori, scompaiono alla vista, verso l Ade o l Olimpo. Se la caverna platonica è solo un allegoria filosofica, l antro di Lemno in cui l eroe Filottete passa, secondo il mito greco, nove anni di esilio è piuttosto una abitazione inabitabile, come scrive Sofocle: residenza impossibile per gli uomini. Se la caverna di Pan è principalmente una camera nuziale, luogo del desiderio e del commercio d amore, quelle abitate dalle Ninfe danno sfondo all immagine di un paesaggio agreste, dal quale prenderà forma l architettura del Ninfeo nell arte della Roma imperiale. Se la grotta di Dioniso, infine, è l antro in cui si celebrano i suoi misteri, altrettanto avviene per i culti di Mitra, originariamente venerato in grotte naturali e poi anche in ambienti che ne ripetono artificialmente l atmosfera. Tra i valori attribuiti alla grotta nel mondo romano si evidenzia in particolare quello di spazio delle origini, ove si nasce e si cresce, specie nelle tradizioni sul Lupercale, l antro che aveva ospitato i piccoli Romolo e Remo assieme alla lupa nutrice. La grotta, secondo le fonti letterarie si trovava ai piedi del colle Palatino e rimase come centro di venerazione fino al tardo impero; si sa che il Lupercale fu restaurato da Augusto verso l 8 a.c. e che venne ornato con una statua di Druso II all epoca di Tiberio. Il suo legame con l adolescenza, comunque, non è solo un dato mitico: dalla grotta partiva infatti ogni anno la festa dei Lupercalia, che si svolgeva il 15 febbraio e coinvolgeva due giovanetti di nobile famiglia in un complesso cerimoniale comparabile ai riti come categoria storico-religiosa 19

20 d iniziazione puberale, con una morte simbolica degli iniziandi alla vecchia condizione e la loro rinascita alla nuova. L importanza religiosa dell antro pertiene, come si vede, anzitutto alle credenze relative alla potenza e ai caratteri del nume che lo abita, poi alle immagini simboliche e alle forme del culto che ne conseguono. Di ciò si trovano ampie testimonianze anche in altre civiltà del Mediterraneo antico, a cominciare da quella fenicia, che utilizza grotte naturali sia in Oriente (a Wasta presso Tiro, ad esempio), sia in Occidente (come la Grotta Regina a ovest di Palermo, la Cueva d es Cuyram sull isola di Ibiza) per culti femminili, spesso a carattere taumaturgico. Ma anziché ampliare l esemplificazione di queste e altre caverne, piene di iscrizioni e di offerte per grazia ricevuta, nelle quali si ripete l immagine di una grotta della salute, luogo in cui gli dèi si manifestano e agiscono, più interessante pare proseguire il discorso su altri valori collegati all antro e reperibili in quelle concezioni che organizzano il cosmo in regioni sovrapposte, com è il caso della tradizione greca fissata in Omero ed Esiodo. L immagine della caverna concorre qui a costituire il luogo di passaggio peculiare tra la superficie terrestre e gli inferi, nei due sensi; per suo tramite si può scendere all Ade o risalirne, e come tale la grotta compare in numerose figurazioni di miti di catabasi ctonia, per esempio in quelli di Dioniso, Orfeo e Persefone. Caverne plutonie, ritenute accesso all Ade, si mostravano poi realmente ad Eleusi, a Colono, a Feneo, a Lerna, a Enna e Siracusa in Sicilia e anche altrove; talora, proprio per via di questa caratteristica, al concetto di passaggio ctonio (in greco plutonion e anodos) si associava quello oracolare di psychomanteion, cioè di luogo nel quale o attraverso il quale era possibile evocare i defunti. A Lebadea, per esempio, nella regione beotica, si conosceva una grotta in cui, secondo la tradizione, viveva immortale l eroe Trofonio, una volta celebre architetto poi sprofondato in un angusto crepaccio, dove si prediceva il futuro a coloro che scendevano per interrogarlo. Anche la cripta del santuario di Apollo a Delfi era intesa come un antro di questo tipo, per la faglia che si apriva nella terra e dalla quale fuoriuscivano le esalazioni che si pensava dessero la giusta ispirazione alla Pizia. Una caverna con oracolo di trovava anche a Ierapoli, in Frigia, sotto il tempio di Apollo, e nessuno poteva avventurarvisi senza rimanere ucciso dai vapori che salivano dal suolo, con l eccezione dei Galli, sacerdoti della Grande Madre. Ma famosi nell antichità erano soprattutto il plutonion e lo psychomanteion localizzati a Cuma, nei Campi Flegrei, ancor oggi ben noti per i versi di Virgilio, che situano appunto nel tenebroso paesaggio del lago Averno la discesa agli inferi di Enea e l ultimo suo colloquio col padre defunto. C è da dire, in proposito, che l identificazione dell Averno con una delle porte infernali è ben attestata da una lunga tradizione letteraria precedente a Virgilio; essa doveva essere certamente favorita dall atmosfera dei luoghi, per le acque del lago ritenute senza fondo e le malsane esalazioni solfuree che ne scaturivano. Strabone ricorda che nessuno osava bere ad una fonte che nasceva nei pressi, mentre Lucrezio afferma che gli uccelli non riuscivano a volare sullo specchio lacustre senza morirne. Qui era per di più localizzato anche l omerico paese dei Cimmeri (il popolo che viveva in oscure caverne sotterranee), dove Ulisse aveva compiuto la sua evocazione degli eroi defunti. Nella realtà storica, d altro canto, si collocavano nei Campi Flegrei due oracoli distinti: quello di Apollo di Cuma, affidato ad una Sibilla, e un oracolo dei morti, sui bordi del lago, visitato anche da Annibale nel 214 a.c. La consultazione di quest ultimo oracolo concerneva probabilmente la dea Ecate, cui l Averno era sacro, o anche Era, come attestano l iscrizione incisa su un disco di bronzo proveniente da Cuma (seconda metà del VII secolo a.c.) e la testimonianza letteraria di una Giunone (= Era) Averna o Stygia. 20 Sergio Ribichini, Lo spazio sacro

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