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ovvero. Agenda un po insolita per appunti. mica tanto frettolosi con il gradito contributo del Centro Studi O. Baroncelli N 06/2014 Napoli 10 Febbraio 2014 (*) Gentili Colleghe e Cari Colleghi, nell ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli. Oggi parliamo di. E SPROPORZIONATA LA SANZIONE ESPULSIVA ADOTTATA PER IL DIPENDENTE CHE INSTALLI UN PROGRAMMA SOFTWARE PER SCARICARE MUSICA DAL PC AZIENDALE. CORTE DI CASSAZIONE SENTENZA N. 26397 DEL 26 NOVEMBRE 2013 La Corte di Cassazione, sentenza n 26397 del 26 novembre 2013, ha stabilito che l installazione di un programma software per scaricare musica sul pc aziendale non giustifica il licenziamento del dipendente. Nella vicenda de qua, la Corte di Appello di Roma aveva confermato la decisione del Tribunale romano e dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore al quale era stata contestata l installazione, sul pc aziendale, del programma emule, utilizzato per il download di files musicali. La Corte rilevava che il chiaro tenore letterale della missiva di licenziamento evidenziava come a fondamento dello stesso era stata posta non tanto l'installazione non autorizzata del software bensì, anche, ed in modo determinante, la negazione dei fatti contestati, da parte del dipendente, in sede di giustificazioni. Tale ultima circostanza, a parere dei Giudici di prime cure, non poteva essere posta a base del provvedimento espulsivo in assenza di previa contestazione e, nel contempo, l'addebito relativo alla installazione ed utilizzo del programma "emule", da solo, 1

non era idoneo a giustificare il licenziamento, sanzione questa, del tutto sproporzionata. Soccombente nei primi due gradi del giudizio, la società ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza. La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha avallato il decisum dei precedenti gradi del giudizio sostenendo che la Corte di Appello aveva correttamente valutato la missiva di contestazione e la successiva lettera di licenziamento. Pertanto, dopo aver evidenziato la presenza di un solo precedente disciplinare in quindici anni di anzianità di servizio del dipendente e la mancanza di concreti danni all'azienda ricollegabili all'addebito, i Giudici dell Appello avevano idoneamente reputato la contestazione non di gravità tale da giustificare l'adozione della sanzione espulsiva. LA SENTENZA PENALE DI CONDANNA DEL DATORE DI LAVORO PUO LEGITTIMAMENTE ESSERE UTILIZZATA DAL GIUDICE CIVILE AL FINE DI ACCERTARE, IN CONCORSO CON ALTRI ELEMENTI, LA SUSSISTENZA DEL DANNO MORALE RIVENDICATO DAL LAVORATORE. CORTE DI CASSAZIONE SENTENZA N. 26401 DEL 26 NOVEMBRE 2013 La Corte di Cassazione, sentenza n 26401 del 26 novembre 2013, ha statuito che la sentenza penale, con la quale il datore di lavoro venga condannato per le carenti misure di sicurezza adottate nei luoghi di lavoro, non ha efficacia automatica sul rito civile ma, può legittimamente costituire fonte dalla quale il Giudice può attingere al fine di soddisfare le esigenze probatorie necessarie per deliberare correttamente in merito alla richiesta di risarcimento danni avanzata dal lavoratore. Nel caso de quo, un dipendente restava infortunato cadendo al suolo da una impalcatura alta alcuni metri. Il datore di lavoro veniva condannato in sede penale per la mancata adozione delle necessarie cautele previste, all'epoca dei fatti, dal D. Lgs. N 626/1994. I Giudici di merito, aditi dal lavoratore al fine di ottenere il ristoro del danno morale subito, accoglievano, in entrambi i gradi di giudizio, le doglianze del prestatore attingendo elementi di prova anche (ma non solo) dalla sentenza penale. 2

Orbene, i Giudici dell'organo di nomofilachia, chiamati in ultima battuta a dirimere la querelle, hanno sottolineato come, ferma restando la mancata valenza extra-penale del giudizio di colpevolezza, lo stesso può legittimamente costituire fonte di prova in quanto i fatti già accertati nel corso del procedimento penale possono liberamente concorrere a formare il convincimento dei Giudici civilisti. Pertanto, atteso che, nel caso in commento, i Giudici di prime cure avevano comunque debitamente motivato le proprie decisioni anche (ma non solo) attingendo dagli elementi inconfutabilmente accertati in sede penale, gli Ermellini hanno confermato la condanna (anche) civile del datore di lavoro che non aveva adottato le necessarie cautele in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. LA VARIAZIONE DI MANSIONE, RESA NECESSARIA DA CAUSA NON IMPUTABILE AL DATORE DI LAVORO, NON COSTITUISCE ILLECITO DEMANSIONAMENTO. CORTE DI CASSAZIONE SENTENZA N. 26516 DEL 27 NOVEMBRE 2013 La Corte di Cassazione, sentenza n 26516 del 27 novembre 2013, ha ritenuto non sussistente la fattispecie dell'illecito demansionamento laddove la variazione di mansione venga resa necessaria dalla soppressione, disposta da norme di legge, del dipartimento ospedaliero al quale il lavoratore era adibito. Nel caso in commento, un primario ospedaliero veniva assegnato alla funzione di dirigente di un altro dipartimento a seguito della chiusura, per incorporazione in altro presidio, del reparto di ginecologia ed ostetricia al quale era normalmente adibito. Tale incorporazione era decisa dall'asl in ottemperanza alle sopravvenute norme statali e regionali. I Giudici di merito rigettavano le doglianze del primario che ricorreva, in ultima battuta, in Cassazione. Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, nell'avallare in toto il decisum di prime cure, hanno sottolineato la legittimità del comportamento dell'asl, resistente in giudizio, in quanto la variazione di mansione era stata resa necessaria da motivazioni del tutto indipendenti dalla volontà del datore di lavoro che si era anche fattivamente adoperato al fine di 3

trovare una collocazione che consentisse al prestatore di mantenere il livello d'inquadramento dirigenziale. Pertanto, atteso che, nel caso de quo, la sopravvenuta normativa aveva, de facto, costretto l'asl ad assegnare il primario ad altro incarico a seguito della chiusura del reparto ospedaliero per accorpamento con altro presidio medico, i Giudici del Palazzaccio, rigettando il ricorso del lavoratore, hanno negato la sussistenza di un illecito demansionamento. SI PRESUME A CAUSA DI MATRIMONIO IL LICENZIAMENTO DELLA LAVORATRICE DECISO ENTRO UN ANNO DALLA CELEBRAZIONE DELLE NOZZE. CORTE DI CASSAZIONE - SENTENZA N. 27055 DEL 3 DICEMBRE 2013 La Corte di Cassazione, sentenza n 27055 del 3 dicembre 2013, ha (ri)confermato la nullità dei licenziamenti disposti a causa del matrimonio. All uopo, la presunzione di nullità riguarda ogni recesso che sia stato "deciso" entro un anno dalla celebrazione. Nel caso in esame, una lavoratrice impugnava il licenziamento intimatole ed allegava che lo stesso era stato intimato entro l'anno dal matrimonio. Il Tribunale di Roma dichiarava la nullità del recesso e la Corte di Appello rigettava il ricorso della società datrice di lavoro. La Corte osservava che il recesso doveva ritenersi effettuato entro l'anno, in quanto era stato disposto entro questo termine anche se differito, per l'esecuzione, al termine del preavviso concesso. Inoltre, l ipotesi di cessazione di attività, paventata dall'azienda, non poteva estendersi sino a coprire mere ipotesi di ristrutturazione organizzativa nei reparti ricevimento e portineria e reparto centralino, come allegato dalla società appellante. La società ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza ribadendo che, l'operatività del recesso era stata stabilita dopo il termine annuale sottoposto a tutela. Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, compulsati dalla società soccombente, hanno rigettato il ricorso e rimarcato il dettato della L. n 7 del 1963 che, all art. 1 dispone la nullità dei licenziamenti attuati a causa del matrimonio, specificando, al comma 3, che si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle 4

pubblicazioni di matrimonio... a un anno dopo la celebrazione, sia stato disposto per causa di matrimonio". Il termine "disposto" non lascia adito a dubbi di sorta che la presunzione di nullità riguarda ogni recesso che sia stato "deciso" nell'arco temporale indicato per legge, indipendentemente dal momento in cui la "decisione" di recesso sia stata attuata. Inoltre, hanno concluso gli Ermellini, nel caso in esame si era solo dimostrato una complessa operazione di ristrutturazione organizzativa attraverso il ridimensionamento aziendale, che la legge non ritiene possa giustificare un recesso nel suddetto periodo protetto. IN CASO DI OMESSA PRESENTAZIONE DELLA DICHIARAZIONE IVA L AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA E LEGITTIMATA A DETERMINARE INDUTTIVAMENTE IL VOLUME D AFFARI ATTRAVERSO PRESUNZIONI SEMPLICI. CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE TRIBUTARIA - SENTENZA N. 1240 DEL 22 GENNAIO 2014 La Corte di Cassazione - Sezione Tributaria -, sentenza n 1240 del 22 gennaio 2014, ha statuito che, qualora sia stata omessa la presentazione della dichiarazione, l Amministrazione Finanziaria può legittimamente avvalersi di presunzioni semplici per accertare il volume d affari della società. Nel caso in specie, ad una società che aveva omesso di presentare la dichiarazione IVA per alcuni anni d imposta, veniva notificato avviso di accertamento con cui si procedeva a determinare un volume d affari pari al reddito indicato ai fini delle imposte dirette. La società contribuente provvedeva ad impugnare il suddetto avviso dinanzi alla giustizia tributaria, risultando vincente in entrambi i gradi di giudizio. L Agenzia delle Entrate ricorreva per Cassazione lamentando la violazione e falsa applicazione dell articolo 55 del D.P.R. n. 633 del 1972 perché i Giudici di Appello, erroneamente, non avevano ritenuto che l Ufficio fiscale potesse fondare la ricostruzione dei redditi per gli anni accertati, equiparando il reddito imponibile IRES a quello IVA. 5

Orbene, gli Ermellini nell'accogliere il gravame dell'agenzia delle Entrate, con la sentenza de qua, hanno evidenziato che l articolo 55 del DPR 633/1972 consente all'amministrazione finanziaria, nel caso di mancata presentazione della dichiarazione annuale IVA, di determinare induttivamente l ammontare imponibile e l aliquota applicabile sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza dell Ufficio e tra tali dati può essere, senza dubbio, incluso quello indicato nella dichiarazione dei redditi (all'epoca dei fatti mod. 760), direttamente dal contribuente, per il medesimo anno d imposta (cfr. ex plurimis, Cassazione sentenze n. 792/2003, n. 19321/2006 e n. 4381/2011). Inoltre, i Giudici del Palazzaccio, nelle motivazioni della sentenza hanno rilevato che, il suddetto principio risulta essere perfettamente in linea con l'orientamento più volte espresso dalla stessa Corte, secondo il quale nell ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione da parte del contribuente, le disposizioni tributarie abilitano gli uffici finanziari a servirsi di qualunque elemento probatorio ai fini dell accertamento del reddito e del volume d affari e, quindi, di ricorrere anche al metodo induttivo, utilizzando, se necessario, in deroga alla regola generale, presunzioni semplici prive dei requisiti di cui al terzo comma dell articolo 38 del DPR 600/1973. Per cui, a fronte della legittima prova presuntiva della consistenza dell imponibile offerta dall Agenzia delle Entrate, l onere di dedurre e provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa tributaria, incombe sul contribuente. In conclusione, i Giudici Tributari di legittimità hanno accolto il ricorso dell Agenzia delle Entrate senza rinvio, compensando le spese. Ad maiora IL PRESIDENTE EDMONDO DURACCIO 6

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata. Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!! Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello e Pietro Di Nono. 7