LA LEGITTIMITA DEL PROVVEDIMENTO DI DESTITUZIONE DAL PUBBLICO IMPIEGO VA VALUTATA IN BASE AL PRINCIPIO DEL TEMPUS REGIT ACTUM

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N 39/2013 4 Novembre 2013 (*) Gentili Colleghe e Cari Colleghi, nell ambito di questa nuova iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, ma pur sempre collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli. Oggi parliamo di. LA LEGITTIMITA DEL PROVVEDIMENTO DI DESTITUZIONE DAL PUBBLICO IMPIEGO VA VALUTATA IN BASE AL PRINCIPIO DEL TEMPUS REGIT ACTUM TAR LAZIO SENTENZA N. 7953 DEL 16 AGOSTO 2013 Il TAR Lazio, sentenza n 7953 del 16 agosto 2013, ha statuito che la destituzione dal servizio del dipendente pubblico può avvenire solo al termine del procedimento disciplinare con decorrenza dalla data di inizio della sospensione cautelare. La legittimità della stessa va valutata in base alla normativa vigente all epoca dei fatti imputati al lavoratore. Nel caso de quo, una dipendente pubblica veniva destituita dal servizio a seguito della condanna definitiva ad un anno e quattro mesi di reclusione con la pena accessoria dell interdizione dai pubblici uffici per la medesima durata. 1

La lavoratrice ricorreva al Tribunale Amministrativo Regionale richiedendo l applicazione della normativa, nelle more, sopravvenuta ed a lei più favorevole contestando, in subordine, la decorrenza del provvedimento di destituzione. Orbene, i Giudici amministrativi, nel rigettare il ricorso della dipendente, hanno sottolineato come, in virtù del principio tempus regit actum, la legittimità del provvedimento amministrativo deve essere valutata con riferimento alla normativa vigente al momento della sua adozione; inoltre, il provvedimento di destituzione decorre dalla data della sospensione cautelare. Pertanto, i Giudici amministrativi hanno confermato la legittimità del provvedimento di destituzione della dipendente pubblica, attesa l inapplicabilità della normativa temporalmente successiva anche se di maggior favore per la prestatrice. NEL CASO DI ESPOSIZIONE DI LIEVE ENTITA ALLE FIBRE DI AMIANTO GRAVA SUL LAVORATORE PROVARE L ESISTENZA DEL DANNO BIOLOGICO ED IL NESSO FRA L ATTIVITA LAVORATIVA E LA PATOLOGIA. CORTE DI CASSAZIONE - SENTENZA N. 18267 DEL 30 LUGLIO 2013 La Corte di Cassazione, sentenza n 18267 del 30 luglio 2013, ha statuito che non è risarcibile il danno biologico se l esposizione del lavoratore alle fibre di amianto è inferiore alla soglia minima rilevante. Nel caso de quo, un lavoratore, occupato con mansione di ascensorista, adiva i Giudici di prime cure al fine di ottenere il ristoro del danno biologico patito a seguito dell esposizione alle fibre di amianto e della contestuale carenza dei dispositivi individuali di protezione, messi a disposizione dal datore di lavoro. Soccombente in entrambi i gradi di merito, il dipendente ricorreva in Cassazione. Orbene, gli Ermellini, nell avallare in toto il decisum di merito, hanno sottolineato come grava sul lavoratore dimostrare il danno subito ed il relativo nesso con l attività lavorativa. Il datore di lavoro, ex adverso, deve dimostrare di aver adottato tutte le cautele che la norma e l esperienza comune suggeriscono. Pertanto, atteso che, nel caso in commento, il lavoratore era stato esposto alle fibre di amianto solo lievemente, ben al di sotto della soglia minima di legge e non aveva fornito adeguata dimostrazione del nesso lavoro/patologia, i Giudici 2

dell organo di nomofilachia hanno confermato la mancanza di responsabilità in capo al datore di lavoro rigettando la richiesta di risarcimento del danno biologico. NELLA CESSIONE DI AZIENDA IL VALORE ACCERTATO AI FINI DELL IMPOSTA DI REGISTRO PUO ESSERE ASSUNTO AI FINI IRPEF PER DETERMINARE IL MAGGIOR VALORE DELL AVVIAMENTO. CORTE DI CASSAZIONE SENTENZA N. 22143 DEL 27 SETTEMBRE 2013 La Corte di Cassazione, sentenza n 22143 del 27 settembre 2013, ha (ri)confermato che, il maggior valore accertato nella cessione di azienda, ai fini dell imposta di registro, può essere assunto anche ai fini Irpef per determinare il maggior valore dell avviamento realizzato. Nella fattispecie in esame, l'ufficio del Registro di Eboli, a seguito di atto di adesione, rideterminava, ai fini dell imposta di registro, il valore del prezzo di cessione di un azienda; successivamente, con avviso di accertamento nei confronti dell imprenditore cedente, fondato sul predetto atto di adesione, l'agenzia delle Entrate di Agropoli rettificava, anche ai fini IRPEF, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 54, comma 5, il prezzo della cessione, rideterminandone la relativa plusvalenza tassabile. La CTP di Salerno accoglieva il ricorso proposto dall imprenditore; parimenti la CTR della Campania, sez. distaccata di Salerno, rigettava l'appello dell'ufficio. Ebbene, l Amministrazione Finanziaria, inappagata dai giudizi, ha proposto ricorso sostenendo che il valore di avviamento, definito in fase di adesione, era stato correttamente posto a fondamento presuntivo anche della plusvalenza ai fini Irpef mentre, era onere del contribuente dimostrare che l'azienda era stata ceduta ad un prezzo inferiore a quello accertato. La Suprema Corte ha accolto il ricorso ed ha ribadito che i principi relativi alla determinazione del valore di un bene che viene trasferito sono diversi a seconda dell'imposta che si deve applicare, sicché quando si discute di imposta di registro si ha riguardo al valore di mercato del bene mentre, quando si discute di una plusvalenza realizzata nell'ambito di un'impresa, occorre verificare la differenza realizzata tra il prezzo di acquisto e il prezzo di cessione. All uopo, l'ufficio, abilitato dalla legge ad avvalersi di presunzioni, può anche utilizzare una seconda volta gli stessi elementi probatori già utilizzati in precedenza e idonei a provare il fatto posto a base dell'accertamento. 3

Nella fattispecie, l'indicazione nel bilancio del soggetto economico di un'entrata derivante dalla vendita di un bene, inferiore rispetto a quella accertata ai fini dell'imposta di registro, legittimava di per sé l'amministrazione a procedere ad accertamento induttivo, mentre spettava al contribuente deducente, l'inesattezza di una tale correzione, superare la presunzione, dimostrando di avere in concreto venduto proprio al prezzo (inferiore) indicato in bilancio. ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO CHE NON RISPETTI I CRITERI DI SCELTA STABILITI IN SEDE SINDACALE. CORTE DI CASSAZIONE SENTENZA N. 19177 DEL 19 AGOSTO 2013 La Corte di Cassazione, sentenza n 19177 del 19 agosto 2013, ha ritenuto illegittimo il licenziamento effettuato in difformità dai criteri di scelta stabiliti in sede di consultazione sindacale. Nel caso in commento, la Ferrarelle Spa, dopo aver esperito la consultazione sindacale ex art. 4 L. 223/91 - provvedeva al licenziamento di un lavoratore inquadrato nella categoria di quadro. Tale scelta veniva effettuata considerando che il dipendente aveva maturato i requisiti per il pensionamento, così come stabilito in sede sindacale, ma, senza confrontare la posizione dello stesso con quella di altri subordinati. Il dipendente, ritenendo violati i criteri di scelta stabiliti a conclusione della procedura sindacale, difformi da quelli canonici indicati dall art. 5 cit. lex, ricorreva alla Magistratura. Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, aditi in ultimo dall azienda, nel confermare il deliberato di prime cure, hanno sottolineato come i criteri di scelta indicati a conclusione dell iter sindacale non possano essere arbitrariamente disattesi dal datore di lavoro. Pertanto, atteso che, nel caso de quo, la posizione del lavoratore non era stata utilmente comparata con quella degli altri subordinati, i Giudici del Palazzaccio hanno confermato l illegittimità dell atto di recesso datoriale. 4

L INTERPRETAZIONE ESTENSIVA DEL CONCETTO COMUNITARIO DI IMPRESA NON INCLUDE L ATTIVITA DEL LIBERO PROFESSIONISTA AL FINE DI USUFRUIRE DI SGRAVI CONTRIBUTIVI. CORTE DI CASSAZIONE SENTENZA N. 18710 DEL 6 AGOSTO 2013 La Corte di Cassazione, sentenza n 18710 del 6 agosto 2013, ha affermato che, sebbene la concezione di impresa, elaborata dalla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia, faccia rientrare nel novero delle imprese qualsiasi attività organizzata allo scambio di beni e servizi, ivi comprese le attività professionali, tale nozione non può essere utilizzata per la concessione di sgravi contributivi alle libere professioni. Nel caso de quo, un ragioniere commercialista aveva adito il Tribunale di Cagliari, esponendo che l'inps aveva sempre riconosciuto lo sgravio contributivo totale triennale previsto dalla L. n 407 del 1990, ex art. 8, comma 9, in caso di nuove assunzioni di lavoratori iscritti nelle liste di disoccupazione ordinaria da almeno 24 mesi, unicamente in favore degli imprenditori di cui all'art. 2082 c.c., negandolo, invece, ai liberi professionisti. E il caso di precisare che, la norma prevede, in favore di tutti i datori di lavoro (ivi compresi i professionisti), che i contributi previdenziali ed assistenziali siano applicati nella misura del 50%, per un periodo di trentasei mesi; nell ottica di agevolare i datori di lavoro, esclusivamente imprese, operanti nel Mezzogiorno, è previsto un incremento dello sgravio predetto al 100%. Ebbene, a parere del commercialista, la scelta dell'istituto, di escludere i professionisti del mezzogiorno dall ulteriore beneficio, era conseguente ad una interpretazione restrittiva della nozione di impresa, in contrasto con la costante Giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea; reclamava, pertanto, la restituzione del 50% relativo alle somme indebitamente versate per detti contributi. L'adito Giudice rigettava la domanda, parimenti la decisione veniva confermata dalla Corte di appello di Cagliari. Giunta al vaglio della Suprema Corte, la questione è stata affrontata dagli Ermellini che hanno avvalorato la nozione di impresa elaborata dalla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia, con riferimento esclusivamente alle regole comunitarie della concorrenza, in cui si esclude che possa operarsi una distinzione tra "impresa" e "libera professione", proprio al fine di evitare di falsare il mercato; in tale interpretazione 5

estensiva del concetto, si fa rientrare nel novero delle imprese qualsiasi attività che consista nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato, a prescindere dallo status giuridico della detta entità e dalle sue modalità di finanziamento. Orbene, gli Ermellini, rigettando il ricorso, hanno concluso che, tale nozione estensiva di impresa non può trovare applicazione al caso in esame in cui vengono in rilievo sgravi contributivi. Nell'ambito di una normativa di stretta interpretazione, può ritenersi che il mancato riconoscimento di detti sgravi, anche al libero professionista, alteri la concorrenza quando quest'ultimo abbia organizzato la propria attività con un supporto organizzativo tale che, l'entità dei mezzi impiegati sovrasti l'attività professionale del titolare, circostanza questa che, nel caso in esame, non è stata dimostrata. Ad maiora IL PRESIDENTE EDMONDO DURACCIO (*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata. Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!! HA REDATTO QUESTO NUMERO LA COMMISSIONE COMUNICAZIONE SCIENTIFICA ED ISTITUZIONALE DEL CPO DI NAPOLI COMPOSTA DA FRANCESCO CAPACCIO, PASQUALE ASSISI, GIUSEPPE CAPPIELLO E PIETRO DI NONO. 6