Stefan Zweig. Gli occhi dell'eterno fratello

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Transcript:

Stefan Zweig Gli occhi dell'eterno fratello

IL NUOVO MELANGOLO

Titolo originale Die Augen des ewigen Bruders Traduzione di Anita Rho

1989, Atrium Press Ltd, London 2003, Il nuovo melangolo s.r.l. Genova - Via di Porta Soprana, 3-1 Collana Lecturae ISBN 88-7018-485-4 Fotocomposizione e impaginazione: Type, Genova Scansione di Serenella

Note di copertina La vicenda di Virata, ispirata alla figura del Budda, che venne glorificato con i quattro nomi delle virtù dal suo popolo, ma di cui non è scritto nelle cronache e nei libri, è una delle più suggestive versioni della spiritualità orientale.

Non con l'attenersi ottiene l'uomo liberazione dall'attività. Né alcuno, nemmeno per un istante, può rimanere inattivo. Bhagavad Gita, canto terzo. Che cos'è l'azione, che cos'è l'inazione? - Su questo punto anche i saggi sono perplessi. Poiché è necessario aver conoscenza dell'azione,

conoscenza altresì dell'azione illecita. Ed è necessario aver conoscenza dell'inazione -difficile ad intendere è la natura dell'azione. Bhagavad Gita, canto quarto.

CAPITOLO I Questa è la storia di Virata che il suo popolo glorificò con i quattro nomi della virtù ma di cui non è scritto nelle cronache dei dominatori né nei libri dei saggi e la cui memoria gli uomini hanno dimenticato. Prima che il sublime Budda soggiornasse sulla terra e versasse

sui suoi fedeli il lume della conoscenza, viveva nel paese dei Birwagh, presso un re Rajputas, un nobile, Virata, che era chiamato "il lampo della spada", perché era un guerriero audace fra tutti, e un cacciatore le cui frecce non fallivano mai, la cui lancia non era mai brandita invano, e il cui braccio calava come il tuono dietro la folgore della sua spada. La sua fronte era chiara, dritti i suoi occhi sopportavano le domande degli uomini; mai s'era vista la sua mano contrarsi in un pugno rabbioso, mai si era udita la sua voce alzarsi nell'ira. Egli serviva fedelmente il

re e i suoi schiavi servivano lui con devozione, perché nessuno aveva così grande fama di giusto alle cinque foci del fiume; gli uomini si inchinavano passando davanti alla sua casa e i bambini lo guardavano sorridendo nelle stelle degli occhi. Accadde però che la sventura si abbattesse sul re che egli serviva. Il fratello della regina, innalzato alla carica di reggente su metà del paese, s'invogliò dell'intero regno, e allettò in segreto con regali e promesse i migliori guerrieri del re, affinché passassero al suo servizio. E indusse altresì i sacerdoti a portargli i sacri aironi del lago, che

da mille e mille anni, nella schiatta dei Birwagh, erano considerati un simbolo del potere. Il ribelle raccolse elefanti ed aironi nel suo accampamento, radunò in un esercito i malcontenti abitanti delle montagne e avanzò minaccioso verso la città. Allora il re diede ordine che da mattina a sera si percuotessero i cuprei dischi e si soffiasse nei bianchi corni d'avorio; la notte furono accesi fuochi sulle torri, e squame sminuzzate di pesci vennero gettate sulle fiamme, perché divampassero gialle sotto le stelle, in segno di pericolo. Ma pochi

accorsero in aiuto; la notizia del ratto dei sacri aironi pesava sul cuore dei condottieri e li rendeva sgomenti. Il capo dei guerrieri e il guardiano degli elefanti, i generali più sperimentati, si trovavano già nel campo nemico; inutilmente il sovrano abbandonato si guardava intorno in cerca di amici (poiché era stato un padrone duro, severo nel giudicare e spietato nel riscuotere i tributi). E davanti al suo palazzo non vide nessuno dei suoi esperti capitani, nessuno dei comandanti del campo; solo una schiera perplessa di servi e di schiavi.

In tali frangenti il re si ricordò di Virata che al primo richiamo dei corni gli aveva inviato un messaggio di fedeltà. Fece allestire la lettiga d'ebano e si fece condurre alla casa di lui. Virata s'inchinò fino a terra mentre il re scendeva dalla lettiga, ma quegli lo abbracciò supplichevole e lo pregò di guidare l'esercito contro il nemico. Virata tornò ad inchinarsi e disse: "Sarà fatto, o signore; non ritornerò alla mia casa finché la fiamma della rivolta non sia stata soffocata sotto i piedi dei tuoi servi."

E riunì i suoi figli, le sue genti e i suoi schiavi, raggiunse con loro la schiera dei fedeli e li dispose in ordine di guerra. Tutto il giorno marciarono tra fitti boschi fino al fiume, sulla cui riva opposta erano radunati i nemici in numero incalcolabile, ostentando la loro massa, intenti ad abbattere alberi per costruire un ponte onde traversare il fiume, e, fiume essi stessi, inondare il paese di sangue. Ma Virata, nelle sue cacce, aveva scoperto un guado più a monte e quando scese l'oscurità condusse i suoi fedeli ad uno ad uno sull'altra sponda e nel cuore della notte essi

assalirono d'improvviso il nemico addormentato. Agitando le torce a vento fecero adombrare gli elefanti e i bufali, che nella fuga schiacciarono i dormienti e bianca la vampa s'appiccò all'accampamento. Virata intanto s'era lanciato nella tenda dell'usurpatore e prima che i dormienti balzassero su ne aveva già trafitti due con la spada e ucciso il terzo mentre scattava dal giaciglio in cerca di un'arma. Il quarto e il quinto li abbatté corpo a corpo nel buio, colpendone uno alla fronte, e l'altro in mezzo al petto.

Quando giacquero tutti immoti, ombre fra le ombre, egli s'appostò all'ingresso della tenda per impedire il passo a chiunque volesse mettere in salvo i candidi aironi, divino segno del potere. Ma nessuno comparve, tutti fuggivano in preda a un folle terrore, inseguiti con grida di giubilo dai vittoriosi servi del re. Il rumore della fuga s'allontanò, dileguò a poco a poco. Allora Virata sedette placido a gambe incrociate davanti alla tenda, la spada insanguinata fra le mani, e aspettò che i compagni tornassero dalla caccia furiosa.

Poco tempo trascorse, e il giorno di Dio si destò dietro la foresta, le palme arsero nella porpora dorata dell'aurora e rifulsero nell'acqua come faci, il sole si levò sanguinoso, infuocata ferita dell'oriente. Allora Virata si alzò, depose la veste, andò verso il fiume levando in alto le braccia, e s'inchinò in preghiera allo sfolgorante occhio divino; poi scese nel fiume a compiere le sacre abluzioni, e le sue mani furono mondate dal sangue. Quando un candido fiotto di luce gli sfiorò il capo ritornò a riva, s' avvolse nelle vesti e con

viso sereno andò a contemplare le imprese della notte alla luce del mattino. Con gli occhi spalancati, in attitudini scomposte, conservando nei tratti irrigiditi l'espressione del terrore giacevano i morti: con la fronte spaccata l'usurpatore e col petto squarciato l'infedele che era stato capo dell'esercito nel paese di Birwagh. Virata chiuse loro gli occhi e si volse per vedere gli altri, quelli che aveva colpiti nel sonno. Erano stesi a terra, a metà celati dalle stuoie; due di essi gli erano sconosciuti: erano schiavi del sobillatore, venuti dal sud, coi capelli lanosi e la faccia nera. Ma

quando girò verso di sé il viso dell'ultimo, la vista gli si annebbiò perché aveva riconosciuto Belangur, suo fratello maggiore, il principe delle montagne, che s'era schierato al fianco dell'usurpatore e che egli, la notte, ignaro, aveva trucidato di propria mano. Si piegò sussultante sul corpo rattrappito. Ma il cuore non batteva più, gli occhi dell'ucciso erano aperti e fissi, e le pupille nere lo frugavano fino in fondo al cuore. Allora il respiro di Virata si fece sommesso ed egli stette come un morto fra i morti, distogliendo lo sguardo, affinché l'occhio sbarrato di colui

che sua madre aveva prima di lui partorito non lo accusasse. Presto si udirono grida che si avvicinavano: i servi di ritorno dall'inseguimento schiamazzavano come uccelli selvatici, carichi di bottino e pieni di allegrezza. Quando videro l'usurpatore morto in mezzo ai suoi e i sacri aironi sani e salvi, si abbandonarono a danze scomposte, baciando la veste di Virata, seduto indifferente in mezzo a loro, e lo acclamarono col nome di "lampo della spada". Poi caricarono il bottino sui carri, ma sotto il peso le ruote affondavano

nel terreno e si dovettero frustare i bufali con rami spinosi, e le barche minacciavano di capovolgersi. Un messaggero si gettò nel fiume e corse avanti per recare al re la buona novella, mentre gli altri indugiavano nel saccheggio e nel tripudio della vittoria. Virata se ne stava sempre immobile, trasognato e in silenzio. Una volta sola fece udire la sua voce, quando i soldati vollero spogliare i morti delle loro vesti. Allora si alzò, ingiunse loro di raccogliere dei travi per bruciare i cadaveri su di un rogo, affinché le loro anime, mondate dal fuoco,

fossero pure e pronte alla trasmigrazione. I servi si meravigliarono assai che egli agisse in tal modo verso dei congiurati i cui corpi avrebbero dovuto venir dilaniati dagli sciacalli della foresta, e le ossa imbiancare al sole rovente; pure eseguirono i suoi ordini. Quando il rogo fu elevato, Virata vi appiccò il fuoco di sua mano e gettò balsami e sandalo sulla catasta ardente, poi volse altrove lo sguardo e rimase muto, finché i travi arroventati precipitarono e le braci caddero in cenere. Intanto gli schiavi avevano terminato il ponte cominciato il

giorno avanti con tanta tracotanza dai servi dell'usurpatore. Lo attraversarono per i primi i guerrieri, inghirlandati dal fiore del pisang, poi venivano i servi e infine i principi a cavallo. Virata aspettò che passassero tutti, e quindi li seguì da lontano, perché i canti e le grida gli laceravano l'anima. A metà del ponte s'arrestò e guardò a lungo le acque scorrenti a destra e a sinistra; sull'altra sponda i guerrieri stupefatti sostarono per conservare la distanza. E lo videro levare in alto la spada come per vibrarla contro il cielo; ma nell'abbassare il braccio egli lasciò stancamente

scivolare l'elsa dalle sue dita, e la spada precipitò nei flutti. Da entrambe le sponde fanciulli nudi si gettarono per ripescarla, credendo gli fosse sfuggita di mano; ma Virata li trattenne con gesto severo, e proseguì il suo cammino, col viso impenetrabile e la fronte oscurata, fra lo stupore dei servi. Non una parola mosse più le sue labbra, mentre l'esercito ora per ora lungo la gialla strada avanzava verso la sua città. Erano ancora lontani dalle porte di diaspro e dalle torri merlate di Birwagh, quand'ecco alzarsi una

nuvola bianca che si avvicinava. Erano cavalieri e staffette e alla vista dell'esercito in marcia si arrestarono e coprirono la strada di tappeti: il re veniva incontro a loro, il re il cui piede non tocca mai la polvere, dall'istante della sua nascita fino alla morte, quando le fiamme accolgono il suo corpo purificato. E già si avvicinava sul decrepito elefante il sovrano circondato dai suoi giovani schiavi.

CAPITOLO II L'elefante, ubbidendo all'arpione, s'inginocchiò e il re posò i piedi sui tappeti distesi. Virata fece per inchinarsi dinanzi al suo signore, ma il re gli andò incontro e lo strinse tra le braccia; onore da parte di un sovrano verso il suddito di cui mai s'era udito nei tempi, o letto nei libri l'uguale.

Virata fece portare gli aironi, e quando essi allargarono le ali bianche fu un tale prorompere di giubilo, che i cavalli si impennarono e i guardiani degli elefanti durarono fatica a trattenerli con gli arpioni. Davanti ai trofei della vittoria, il re abbracciò Virata una seconda volta e chiamò a sé con un cenno uno dei servi. Questi gli presentò la spada dell'eroico capostipite dei Rajputas, custodita da sette volte settecento anni nel tesoro regale; l'impugnatura era bianca di gemme, e sulla lama erano incise magiche parole di vittoria a lettere d'oro, nell'antica

scrittura dei padri che né i saggi né i sacerdoti del gran tempio sapevano più decifrare. E il re porse a Virata la spada delle spade, come dono della sua gratitudine e come insegna della dignità che gli conferiva di primo guerriero del regno e condottiero dei suoi popoli. Ma Virata chinò la fronte fino a terra e non la sollevò mentre diceva: "Posso chiedere una grazia al più benigno e magnanimo dei re?" Il re abbassò lo sguardo su di lui, e rispose: "La grazia è concessa prima

ancora che tu levi gli occhi sino a me. E se anche tu pretendessi la metà del mio regno, essa è tua, solo che tu muova le labbra." Allora Virata parlò: "Permetti dunque, o re, che questa spada rimanga nel tesoro regale, perché io ho fatto il voto in cuor mio di non toccare mai più un'arma, dacché oggi ho ucciso mio fratello, l'unico che nacque dallo stesso grembo e giocò assieme a me fra le braccia di mia madre." Il re lo guardò con stupore, poi disse: "Rimanga dunque senza spada il primo fra i miei guerrieri, purché io

sappia il regno al sicuro da ogni nemico; perché mai un eroe ha condotto con maggiore perizia un esercito contro forze preponderanti; prendi la mia cintura in segno del potere, e il mio cavallo affinché tutti riconoscano in te il sommo guerriero del mio regno." Ma Virata curvò di nuovo la fronte fino a terra e replicò: "L'Invisibile mi ha inviato un segno e il mio cuore l'ha compreso. Io ho dovuto trucidare mio fratello, per capire che chiunque uccide un uomo uccide il proprio fratello. Non posso esser condottiero in guerra, perché nella spada è la

violenza, e la violenza è nemica del diritto. Chi partecipa al peccato di omicidio è egli stesso omicida. Io invece non voglio incutere il terrore, e preferisco mangiare il pane del mendicante che agire contrariamente al segno che mi è stato rivelato. Poca cosa è la vita nell'eterna vicenda; lascia che io ne viva la mia parte da giusto." Il volto del re si oscurò un istante; un silenzio pieno di terrore si fece intorno a lui, perché mai si era udito fin dal tempo dei padri e degli avi che un uomo libero si

fosse schermito dai favori del re, e che un principe avesse rifiutato un dono regale. Ma il sovrano guardò i sacri aironi, simbolo della vittoria; il suo viso tornò sereno, ed egli disse: "Ti ho sempre conosciuto come un valoroso, Virata, e giusto fra tutti i miei fidi. Se non mi è più dato contarti fra i miei guerrieri, non voglio però privarmi dei tuoi servigi. Poiché sai distinguere e valutare la colpa con equanimità, sarai tu il sommo fra i miei giudici e pronuncerai le tue sentenze sullo scalone del mio palazzo, affinché la verità sia tutelata fra le mie mura e

il diritto salvaguardato nel mio regno." Virata s'inchinò dinanzi al re e gli abbracciò le ginocchia in segno di gratitudine. Il re lo fece salire sull'elefante al suo fianco, e così entrarono nella città dalle sessanta torri, il cui giubilo li investì come un'ondata tempestosa. Dall'alto dello scalone di marmo roseo, all'ombra del palazzo, Virata teneva ora corte di giustizia in nome del re, dall'aurora al crepuscolo. Ma la sua parola era simile ad una bilancia, che oscilla a lungo

prima di misurare un peso: il suo sguardo limpido entrava nell'anima del colpevole e le sue domande penetravano il crimine fino in fondo, tenacemente, come il tasso penetra nella terra buia. Le sue sentenze erano severe, però egli non pronunziava mai la condanna il giorno stesso, e sempre interponeva lo spazio della fresca notte fra l'udienza e il verdetto: nelle lunghe ore che precedevano l'alba i famigliari lo udivano sovente camminare irrequieto su e giù sul tetto della casa, meditando sulla giustizia e sull'ingiustizia. Prima di pronunziare la sentenza immergeva

le mani e la fronte nell'acqua, affinché il suo giudizio fosse immune dal calore della passione. E sempre, dopo essersi pronunciato, chiedeva al reo se la sua parola gli fosse parsa ingiusta: ma solo raramente accadeva che qualcuno protestasse; muti baciavano l'orlo del suo seggio e accettavano il castigo a capo chino, come dalla bocca di Dio. Non mai però Virata emanava sentenza di morte, nemmeno contro i più colpevoli, e resisteva a coloro che lo disapprovavano. Perché egli aveva orrore del sangue. Il pozzo

rotondo degli avi dei Rajputas, sul cui margine il carnefice piegava al colpo le teste dei condannati, e le cui pietre erano nere di sangue coagulato, nel volgere degli anni fu nuovamente deterso dalla pioggia. Né il numero dei delitti aumentò nel paese. Egli faceva rinchiudere i malfattori nel carcere scavato nel sasso o li inviava nelle montagne a spaccar pietre per i muri dei giardini, o nei mulini di riso sul fiume, dove facevano girare le ruote con gli elefanti. Ma egli rispettava la vita, e gli uomini rispettavano lui, perché non mai v'era errore nelle sue sentenze, non

mai negligenza nelle sue interrogazioni, non mai ira nelle sue parole. Da tutto il paese venivano i contadini sui carri trainati da bufali ad esporgli le loro liti, affinché egli le appianasse; i sacerdoti ascoltavano i suoi ragionamenti, e il re seguiva i suoi consigli. La sua gloria cresceva come cresce il giovane bambù, dritto e chiaro, in una sola notte, e gli uomini dimenticarono il suo antico nome "lampo della spada" e lo chiamarono in tutto il vasto paese dei Rajputas "la fonte della giustizia".

Nel sesto anno dacché Virata teneva giudizio sui gradini dell'atrio, accadde che gli accusatori gli conducessero davanti un giovane della tribù dei Kazari, selvaggi che abitano fra le rocce e servono ad altri dei. I suoi piedi erano feriti perché l'avevano trascinato per giorni e giorni di viaggio, e quadruplici catene avvincevano le sue braccia possenti, affinché egli non potesse nuocere ad alcuno, come minacciavano gli occhi che roteavano furenti sotto le ciglia aggrottate. Lo spinsero su per la scala e lo gettarono in ginocchio

davanti al giudice, poi s'inchinarono e alzarono le braccia in atto d'accusa. Virata guardò gli stranieri con meraviglia: "Chi siete, fratelli, che venite di lontano, e chi è costui che conducete in ceppi davanti a me?" Il più vecchio dei querelanti tornò a inchinarsi, e disse: "Noi siamo pastori, pacifici abitanti dell'oriente, costui invece è il peggior uomo della peggiore tribù, un mostro che ha massacrato più uomini di quante dita hanno le sue mani. Un pastore del nostro villaggio gli ha ricusato sua figlia,

perché codesta è gente di empi costumi, mangiatori di cani e uccisori di vacche; ed egli l'ha data in moglie a un mercante della vallata. Allora costui nella sua ira è piombato sui nostri armenti, ha ucciso nottetempo quel padre e i suoi tre figliuoli, e ogni volta poi che uno dei suoi servi conduceva il bestiame a pascolare verso i monti, egli lo uccideva. Undici del nostro paese egli ne ha trucidati così, finché ci siamo uniti e abbiamo dato la caccia allo scellerato come a una belva feroce e l'abbiamo condotto qui, dinanzi al più giusto di tutti i giudici, affinché tu liberi il

paese da questo violento". Virata si volse al prigioniero: "E' vero ciò che essi dicono?" "Chi sei tu? Sei forse il re?" "Io sono Virata, suo servo e servo della giustizia, poiché io impongo espiazione alla colpa e scevro il vero dal falso." Il prigioniero tacque a lungo, poi disse con uno sguardo duro: "Come puoi sapere da lontano ciò che è vero e ciò che è falso, se attingi la tua scienza soltanto dalle parole degli uomini?" "Alle loro parole opponi dunque le tue, affinché io riconosca la verità."

Quegli sollevò le ciglia, sprezzante: "Non voglio contendere con loro. Come puoi sapere tu quello che io ho fatto, se io stesso non so quello che fanno le mie mani quando l'ira si abbatte su di me? Io ho agito giustamente contro chi ha venduto una donna per denaro, contro i suoi figli e i suoi servi. Mi accusino pure. Io li disprezzo e disprezzo il tuo giudizio." Un fremito d'ira percorse i presenti all'udire che quel caparbio disdegnava il giudice equanime, e il servo del tribunale già levava

sull'accusato il nodoso bastone. Ma Virata li placò con un cenno e proseguì nelle sue domande. Ad ogni risposta dei querelanti interrogava anche l'accusato. Ma quegli stringeva i denti con un sorriso cattivo e ripeté una volta soltanto: "Come vuoi conoscere la verità dalle parole degli altri?" Il sole del mezzodì era alto sulle loro teste quando Virata pose fine all'interrogatorio; ed egli si alzò volendo, come di consueto, ritirarsi in casa e non pronunziare il suo giudizio fino al mattino seguente. Ma gli accusatori lo

implorarono: "Signore, sette giorni abbiamo camminato fin qui e sette giorni durerà il viaggio di ritorno. Non possiamo aspettare fino a domani, perché il bestiame morirebbe di sete, e il campo attende l'aratro. Signore, te ne scongiuriamo, pronuncia subito la sentenza!" Allora Virata tornò a sedersi sui gradini e meditò. I muscoli del suo viso erano tesi come quelli di chi porta un grave peso, perché mai gli era avvenuto di emanare un verdetto contro un accusato che non implorava pietà e rifiutava di difendersi. Rifletté a lungo e le

ombre si allungavano di ora in ora. Finalmente si avvicinò al pozzo, si lavò il viso e le mani nell'acqua fresca, affinché la sua parola fosse libera dal fuoco della passione, e parlò: "Possa essere giusta la sentenza ch'io pronuncio. Costui si è reso colpevole di assassinio; ha strappato undici anime al loro corpo pulsante per ricacciarle nel ciclo delle trasmigrazioni. La vita dell'uomo matura per un anno rinchiusa nel grembo materno; così costui, per ogni vita distrutta, sia rinchiuso per un anno nel grembo della terra. E poiché egli ha fatto

scorrere undici volte il sangue umano, sia flagellato a sangue undici volte ogni anno, affinché paghi con analogo sacrificio. Però egli non dovrà espiare con la vita, perché la vita appartiene agli dei, e l'uomo non deve toccare ciò che è divino. Possa esser giusta la sentenza che ho pronunciato, solo in nome della suprema legge dell'espiazione." Detto ciò Virata sedette, e i querelanti baciarono i gradini in segno di devozione. Ma il prigioniero fissò torvo il giudice che lo interrogava con lo sguardo. Virata disse:

"Ti ho invitato più volte a parlare perché tu mi eccitassi a clemenza e mi aiutassi contro i tuoi accusatori, ma le tue labbra sono rimaste suggellate. Se vi è errore nel mio giudizio non accusare me davanti all'eterno, ma il tuo silenzio. Io intendevo esserti clemente." L'uomo incatenato proruppe: "Non voglio la tua clemenza. Che è mai la clemenza che vuoi darmi, di fronte alla vita che mi togli?" "Io non ti tolgo la vita." "Tu mi togli la vita, e sei più spietato dei capi della mia tribù che

hanno fama di crudeli. Perché non mi uccidi? Io ho ucciso, uomo contro uomo, ma tu mi fai sotterrare come una carogna nella terra buia, a marcire a poco a poco, perché il tuo cuore è vile davanti al sangue e le tue viscere sono prive di forza. Arbitrio è la tua legge e martirio la tua sentenza. Uccidimi poiché ho ucciso. "Io ho misurato equamente la tua punizione." "Misurato equamente? E dov'è, giudice, la misura con la quale misuri? Chi ti ha fustigato da conoscere lo staffile? Come ardisci contare gli

anni sulle dita, baloccandoti, come se fossero la stessa cosa le ore della luce e quelle delle tenebre sotterranee? Sei stato in carcere, tu, per sapere quante primavere togli ai miei giorni? Tu non sei che un incosciente; non sei un giusto, perché soltanto chi lo subisce, e non chi lo vibra, sa valutare il colpo; solo chi ha sofferto può misurare la sofferenza. Nel tuo orgoglio tu osi erigerti a giudice dei colpevoli, ma tu stesso sei più colpevole di ogni altro; perché io ho distrutto delle vite mentre ero in balia dell'ira, sotto la violenza della passione, mentre tu, a sangue

freddo, mi privi della vita ed usi verso di me una misura che la tua mano non ha vagliato e il cui peso non hai controllato. Vattene dalla scala della giustizia, giudice, che tu non ne precipiti giù! Guai a chi misura con la misura dell'arbitrio, guai all'insipiente che crede di sapere cosa sia la giustizia. Via di li, giudice ignorante, e non giudicare gli uomini vivi con la morte della tua parola!" L'odio schiumava dalla bocca del condannato, e di nuovo gli astanti si gettarono sdegnati su di lui. Ma Virata li fermò, distolse gli occhi da quella belva e disse a

voce sommessa: "Non posso annullare la sentenza pronunciata da queste soglie. Faccia Dio ch'essa sia giusta." Mentre si impadronivano del prigioniero che si dibatteva, Virata lasciò il palazzo. Ma ancora una volta ristette e si volse: ed ecco, gli occhi dell'uomo che trascinavano via lo fissavano pieni di rimprovero e di rancore. E con un tonfo al cuore Virata vide che erano simili agli occhi di suo fratello quando giaceva morto nella tenda dell'usurpatore, trucidato dalle sue mani.

Quella sera Virata non rivolse parola ad anima viva. Lo sguardo dello straniero era fitto nel suo cuore come un dardo infuocato. E i suoi familiari lo udirono andare e venire tutta la notte sulla terrazza, senza requie, finché il rosso mattino non spuntò fra le palme. Virata si bagnò di buon ora nel sacro stagno, fece le sue preghiere rivolto a Oriente, poi rientrò nella sua casa, indossò la veste gialla dei giorni di festa, salutò gravemente i suoi che stupiti ma senza domandare osservavano i suoi atti solenni, e si recò solo al palazzo

reale che gli era aperto ad ogni ora del giorno e della notte. Virata si curvò davanti al re e sfiorò il lembo della sua veste in segno di preghiera. Il re lo guardò benevolmente e disse: "Il tuo desiderio ha toccato la mia veste. Esso è esaudito prima ancora che tu lo esprima". Virata rimase prosternato. "Tu mi hai nominato giudice supremo del tuo regno. Da sette anni io giudico in nome tuo e non so se ho giudicato rettamente. Concedimi riposo per una luna affinché io possa andare in cerca

della verità, e permetti ch'io tenga celato il cammino a te e agli altri. Voglio compiere un azione monda da ingiustizia e vivere senza colpa." Il re rimase attonito: "Da questa alla prossima luna il mio regno sarà dunque povero di giustizia. Ma io non chiedo qual'è il tuo cammino. Che esso possa condurti alla verità." Virata baciò l'orlo del trono in segno di riconoscenza, si inchinò ancora una volta e uscì. Dalla vivida luce esterna entrò nella sua casa, chiamò la sua donna e i suoi figli:

"Per un'intera luna non mi vedrete. Congedatevi da me e non domandate." Timida lo guardò la consorte, i figli reverenti. Egli si chinò su ognuno di loro e li baciò tra gli occhi. "Ora andate nelle vostre stanze e chiudetevi dentro, che nessuno guardi dove vado. E non chiedete di me prima che si rinnovi la luna." E tutti si ritirarono in silenzio. Virata si tolse l'abito festivo e ne indossò uno scuro; pregò dinanzi al simulacri del dio dalle mille incarnazioni, coprì di scrittura

molte foglie di palma e le arrotolò in una lettera. All'annottare usci dalla sua casa silenziosa, dirigendosi verso le rupi fuori della città, dove erano profonde cave di bronzo e le prigioni. Picchiò alla porta del guardiano, finché il dormiente si sollevò dalla sua stuoia e chiese chi lo cercasse. "Sono Virata, il sommo giudice. Sono venuto a vedere colui che è stato condotto qui ieri." "E' rinchiuso nei più cupi recessi, Signore, nelle tenebre del carcere più profondo. Devo condurti da lui?" "Conosco la strada. Dammi le

chiavi e torna al riposo. E non dire a nessuno che mi hai visto stanotte." Il custode s'inchinò, portò le chiavi e una lanterna, indi si ritirò muto e tornò a gettarsi sul suo giaciglio. Virata aprì la porta di bronzo che sbarrava l'accesso alla grotta, e scese nelle profondità della prigione. Già da cent'anni i re Rajputas chiudevano in quelle grotte i loro prigionieri e ognuno dei condannati scavava ogni giorno la montagna, costruendo nuove celle nella fredda pietra per i suoi successori. Prima di richiudere la porta

Virata gettò ancora uno sguardo al lembo di cielo con le bianche tremule stelle, poi fu accolto da un buio umidiccio che il chiarore della sua lanterna rompeva qua e là, esitante come un animale che cerca. Udì ancora il molle stormire del vento tra gli alberi, e l'urlo lacerante delle scimmie: al primo ripiano non era più che un leggero, lontano fruscio; al secondo ripiano tutto era silenzio come sotto lo specchio del mare, gelo ed immobilità. Le pietre trasudavano grosse gocce d'acqua e non si sentiva più il profumo della terra; a misura che Virata discendeva tanto

più duro echeggiava il suo passo nella rigidità del silenzio. Al quinto ripiano, più sprofondato nella terra di quanto i più eccelsi palmizi si innalzino nel cielo, era la cella del prigioniero. Virata entrò e rivolse la lanterna verso la massa scura che si muoveva appena, finché la luce la colpì. Una catena tintinnò. Virata si curvò su di lui: "Mi riconosci?". "Ti riconosco. Tu sei colui che era signore della mia sorte e che l'ha calpestata sotto i suoi piedi." "Non sono signore di nessuno.

Sono un servo del re e della giustizia. Sono venuto per servire ad essa." Il prigioniero sollevò cupo lo sguardo, e fissò il giudice in viso: "Che vuoi da me?" Virata stette a lungo in silenzio, poi disse: "Ti ho fatto del male con la mia parola, ma anche tu con le tue parole mi hai fatto male. Io non so se la mia sentenza sia stata giusta, ma nelle tue accuse c'era una verità: a nessuno è lecito misurare con una misura che non conosce. Io ero un incosciente, ma voglio diventare

cosciente. Ho dannato a queste tenebre centinaia di persone, a molti ho inflitto duri castighi, ma non so quel che ho fatto. Ora voglio sperimentare su me stesso, voglio imparare, per essere veramente un giusto e accedere senza macchia alla metamorfosi futura." Il prigioniero continuava a fissarlo; la catena tintinnò sommessa. "Voglio conoscere quel che ti ho imposto, voglio sapere come lo staffile morda il corpo, e il tempo della prigionia logori l'anima. Per una luna voglio occupare il tuo posto, così da sapere se ho

misurato giustamente la tua espiazione. Allora rinnoverò la sentenza dall'alto dello scalone regale conscio del suo peso e della sua portata. Tu intanto ne andrai libero. Ti darò la chiave che ti riporti alla luce e ti lascerò libero per una luna, purché tu mi prometta solennemente il ritorno, intanto l'oscurità di questo abisso farà la luce nella mia coscienza." Il prigioniero era immobile come una pietra. La catena non tintinnava più. "Giurami per l'inesorabile dea della vendetta, alla quale nessuno può fuggire, che conserverai il