rivede suo figlio ritornato dalla guerra. Custodiva un aria triste, ma allo stesso tempo dignitosa e fiera, con testuali parole mi disse freddamente:



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Transcript:

1 Premio al racconto IL VIAGGIO VERSO LA SPERANZA: DIFFERENZIANET di SOFIA PERRONE - Mazara del Vallo (Trapani) Scuola Elementare G. B. Quinci di Mazara del Vallo (Trapani) Un racconto fresco ed ironico che affronta la complessa tematica del riciclaggio. Viene qui tratteggiato un mondo virtuale che permette al lettore di concentrarsi su una problematica che racchiude in sé dei tratti drammatici. C era una volta Cassonet una città disordinata, senza alberi, abitata da persone che possedevano oggetti considerati inutili. Vi abitava Spazza Vitu, basso, grassoccio con la barba lunga e incolta, due occhi neri e tristi. Vitu era triste perché nella sua città non c erano alberi e poi perchè voleva commerciare i suoi averi, però nessuno li voleva, poiché erano sporchi e puzzolenti. Malgrado ciò, egli credeva nell utilità dei suoi prodotti per cui decise di tentare la sorte da un altra parte. A tarda notte riempì i suoi sacchetti di carta di vetro, alluminio, resti di alimenti e tristemente iniziò il suo viaggio verso la città della speranza: Differenzianet. Arrivò a Fumos. Spazza Vitu si stupì nel vedere fumo denso e nero uscire da alte ciminiere, per le vie vide gli abitanti con una mascherina che copriva naso e bocca. All improvviso gli si avvicinò una spazza- macchina dalla quale scese una strana signora. Avvolta in un alone di profumo all essenza di spazzatura, si presentò tutta sofisticata nel suo vestito fuori moda con una fila di bottoni a forma di lattina, il viso color fumo era incorniciato da capelli biondo cenere. Spazza Vitu le si avvicinò e le raccontò delle sue speranze e dei suoi progetti. La signora disse che voleva i suoi prodotti e che sapeva come utilizzarli. Così l ingenuo Vitu si avviò verso il palazzo di Cenerentolet. Entrò in un enorme portone con l animo colmo di speranza. Attraversò una grande sala notando il lampadario di lattine rosse e alle parete i ritratti degli antenati di Cenerentolet. L ambiente sembrava lussuoso ma, uscendo fuori, rimase molto deluso: tutto era squallido, c era immondizia dappertutto e ovunque grandi forni che bruciavano ogni genere di rifiuto e che diffondevano un fumo nero e puzzolente. Anche lì non c erano alberi. Poi, il colmo! Grossi tir carichi di rifiuti velenosi pronti per partire per i paesi poveri. Vitu era sconvolto perché lui con i suoi prodotti non voleva distruggere il mondo, voleva solo essere utile. Si girò e di scatto raccolse i suoi pacchi e scappò lontano da quella orrenda città. Fermo in un angolo,vitu stava pensando di ritornare a Cassonet, quando gli si avvicinò un giovane, alto, biondo con due occhi verdi come le colline d estate, profumava di prati fioriti, sembrava un angelo senza ali, il suo vestito era di stoffa metalizzata. Si chiamava Ricy Claggio. Il tono della sua voce era gentile, nel chiedere a Spazza Vitu il perché della sua tristezza. Vitu, sollevato da tanta cortesia, raccontò la sua disavventura e del viaggio verso la città di Differenzianet. Ricy Claggio disse che si trovava proprio lì. Poi aggiunse: La carta su cui scriviamo per favore non buttiamo, se il vetro riutilizziamo il nostro ambiente salviamo. Plastica e lattine possiam recuperare e le nostre risorse risparmiare e ancora per non sprecare i resti alimentari, concime posson diventare. Noi un compito abbiam da fare il nostro mondo dobbiam salvare. Quindi propose a Spazza Vitu di unirsi a Lui per portare avanti il suo progetto: realizzare un mondo pulito attraverso la raccolta differenziata. Ogni abitante del mondo non doveva mischiare i rifiuti ma selezionarli e metterli in appositi contenitori. Vitu fu d accordo così i suoi prodotti avrebbero potuto essere riutilizzati e riconvertiti in oggetti utili. In breve tempo città come Fumos scomparirono e al loro posto sorsero città incantevoli, con immensi prati verdi, alberi in quantità, aria pulita e acqua pura. Così tutti vissero felici e contenti. 2 Premio al racconto LA MARGHERITA CHE SMISE DI SORRIDERE di SARA AMBROSIO - Giulianova (Teramo) Scuola Elementare G. Cardelli di Mosciano Sant Angelo (Teramo) Lo sguardo di una semplice margherita che inorridisce dinanzi allo spietato intervento umano. Un silenzioso grido di responsabilità verso tutto ciò che ci circonda. In una splendida mattina di primavera, in un immenso prato lontano dalla città, nacque una piccola margherita di nome Sofia. Aveva i petali bianchi e soffici come la neve, la testolina gialla, gli occhietti vispi, la bocca a cuoricino e delle esili braccia che spuntavano dal gambo. Ogni mattina la piccola margherita si svegliava, immersa nel verde, insieme a tanti altri fiori colorati. Gli alberi erano rigogliosi e tendevano i loro rami al cielo per salutare il sole, le farfalle variopinte svolazzavano leggere, gli uccelli cinguettavano allegramente e le laboriose formichine si erano appena svegliate dal lungo sonno invernale. L aria era fresca, pulita e profumata e tutti la respiravano a pieni polmoni. Era sempre una festa!!! Le api volavano in cerca di polline e i fiorellini offrivano loro tutto il cibo necessario per vivere. Erano davvero tutti felici e contenti di quella vita serena e salutare. La piccola Sofia si crogiolava al sole, giocava e scherzava con i suoi amici e cresceva sempre più bella; ogni giorno che passava era orgogliosa di essere nata in quel posto sano e meraviglioso circondata da tanti amici e sorrideva allegramente a tutti. Accadde però che, un brutto giorno, alcune persone sconosciute giunsero lì con delle enormi attrezzature e iniziarono a costruire, in quel piccolo angolo di paradiso, un grandissimo palazzo e uno strano contenitore alto almeno sessanta metri. Il palazzo era grigio scuro con delle grandi finestre di vetro, mentre il contenitore era nero lucido con delle strisce blu notte. Era tutto molto triste e faceva un po paura. Tutti gli abitanti del prato si chiedevano cosa fossero mai quelle grandi strutture che gli uomini avevano costruito, ma lo scoprirono presto perché, quando l intero complesso fu inaugurato, venne appeso ai cancelli un grosso cartello con scritto Centrale nucleare. Sofia capì allora che si trattava di un grave pericolo per lei, per tutta la vegetazione, per i suoi amici animali e per la natura in generale. Infatti, dopo alcuni mesi che la centrale lavorava senza fermarsi mai, emanando fumi e liquidi inquinanti per l ambiente e nocivi per la salute degli esseri viventi, si accorse che sia gli animali che le piante avevano smesso di essere allegri e sorridenti e soffrivano perché l aria puzzava e il cibo era inquinato. Tutto era cambiato. La festa era ormai finita!!! Quel meraviglioso angolo di mondo si era trasformato in una trappola mortale per tutti! Sofia

allora smise di sorridere e così anche i suoi amici. Un giorno il piccolo fiorellino si sentì male a causa del fumo velenoso e, pian piano, si spense. Prima di morire, però, volle lanciare un messaggio a tutti gli uomini della Terra e raccomandò loro: Ricordatevi che gli animali, le piante e le persone non possono vivere in un ambiente inquinato! Salvate la Natura prima che sia troppo tardi per il Mondo intero!!!. 3 Premio al racconto CARISSIMA ITALIA di HELEN REGUI - Cariati (Cosenza) Scuola Elementare Istituto Comprensivo di Cariati (Cosenza) Una lettera all'italia, un piccolo viaggio nella sua storia per scoprire, attraverso le memorie del passato, un forte senso d'appartenenza. Ritornare alle radici per sentirsi a casa. Carissima Italia, sono felice di scriverti. In questi ultimi giorni sto lavorando duramente sulla tua storia, innanzitutto volevo porgerti gli auguri più sentiti per il tuo 150 anniversario, chew ricorda la tua libertà. Ti avevano lasciata andare, ma grazie a tante persone, sacrifici e sangue versato per te, finalmente dal 1946 sei diventata anche Repubblicana e libera come ti voleva Mazzini che ha realizzato anche il grande sogno della Giovane Italia. Tanto tempo fa la libertà, secondo me, era il tuo desiderio più grande, perché tutti invidiavano la tua bellezza, cultura e storia, dopo tutto, la grandezza dell Impero Romano, però, si erano cullati e così ti sei indebolita e gli altri popoli ne hanno approfittato. Italia, patria mia, ora che conosco la tua storia, devo dire che hai sofferto molto! Sono perciò fiera e orgogliosa di appartenere ed essere nata qui ed essere italiana. Infatti, se mi allontano per andare in altri Paesi, come il Marocco, paese di origine di mio padre, mi sento straniera e ti voglio ringraziare anche perché qui sono tanti i marocchini che vengono per lavorare e tu li accogli con rispetto, perciò si sentono a casa propria. Ciao, e festeggia un buon compleanno! 1 Premio al racconto UN AMICIZIA SENZA CONFINI di CRISTINA LUCIANI - Castorano (Ascoli Piceno) Scuola Secondaria di 1 Grado Enrico Mattei di Castel di Lama (Ascoli Piceno) I sentimenti forti della lealtà, della fiducia, dell'affetto riescono a superare le barriere dell'incomprensione e della paura. Il messaggio di questo racconto ci lascia sospesi in un mondo freddo ed ostile riscaldato, però, dalla fiaccola di una speranza robusta perché fondata su valide fondamenta. Martina odiava la pioggia, e quella mattina i nuvoloni neri che si addensavano e si rincorrevano fuori dalla finestra della sua camera promettevano un lungo temporale. La ragazza si alzò dal letto con i capelli scarmigliati e l aria assonnata e gettò un occhiata sconsolata allo zaino ancora aperto, con sopra appoggiato l odiato libro di scienza. Martina aveva provato a studiare, ci aveva messo tutto l impegno di cui era capace, ma il risultato era lo stesso: l argomento da studiare per quel giorno era rimasto per lei un concetto astratto e irraggiungibile. Era a metà del primo quadrimestre, e i suoi voti di scienze, storia e geografia erano in caduta libera verso l insufficienza in pagella. doveva evitarlo atutti i costi: i suoi genitori non sapevano nulla di quei quattro che fioccavano come caramelle, implacabili. Sua madre, giornalista in carriera, la vedeva di sfuggita a cena, quando era fortunata, mentre suo padre, rappresentante farmaceutico di una grande azienda, era quasi sempre in viaggio. Martina prese sbuffando la borsa, si sistemò i capelli con una mano, afferrò a volo l mp3 e uscì di casa, dirigendosi verso la fermata del pullman, dove rimase in un angolo, assorta nella musica e nei suoi pensieri. Aveva quattordici anni, ma ne dimostrava di più: il suo volto, anche senza trucco, era quello di una donna e l espressione accigliata che spesso assumeva contribuiva a farla sembrare più grande. Martina era anche molto alta e magra; adorava portare geans strappati e magliette aderenti, preferibilmente nere. Aveva l abitudine di mordersi leggermente il labbro inferiore quando era nervosa e di attorcigliarsi le lunghe ciocche bionde intorno a un dito mentre pensava. Come aveva previsto, presto iniziò a piovere, ma lei era già in classe, ancora a ripassare scienze, che aveva alla prima ora. Appena il professore entrò, annunciò l interrogazione sul nuovo capitolo. Mentre il Prof scorreva lo sguardo sul registro per decidere chi interrogare, Martina pensava ad occhi chiusi: Non scegliere me, per favore, va avanti e non scegliere me, ti prego - Fraschi, saresti così gentile da aprile gli occhi e di venire alla lavagna per spiegare ai tuoi compagni l argomento della lezione? Ecco io - iniziò titubante la ragazza, quando qualcuno bussò alla porta. Entrò il bidello, seguito da un ragazzo scuro di pelle, con i capelli lunghi e neri che cadevano sparpagliati sul giubbetto. Gli occhi grandi avevano una luce gioiosa e allegra; il nuovo arrivato sorrideva con denti bianchissimi. Il bidello sussurrò qualcosa al professore porgendogli un foglio da firmare, poi se ne andò. il Prof squadrò il ragazzo dai capelli fino alla punta delle scarpe, poi lanciò uno sguardo al registro e lesse l ultimo nome in fondo, aggiunto solo io giorno prima. Ti chiami Djstryza, giusto? Emeca annuì, sempre sorridendo. Bene, ti puoi sedere lì, vicino a Fraschi Martina si sentì gelare e guardò il banco vuoto accanto a sé. Emeka si avvicinò e appoggiò lo zaino al banco. Ciao le disse con una voce dal leggero accento straniero. La

ragazza lo gurdò di sottecchi e tornò a concentrarsi sulla sua interrogazione. Il professore, però, sembrava più interessato al suo vicino che a lei, tanto che sospese la precedente domanda per far intervenire Emeka a vedere a che punto fosse, e fu così anche nelle ore successive. Il ragazzo era preparato in tutto. Martina, invece, tirò un sospiro di sollievo: con quella novità,.non la interrogavano più. La svolta arrivò durante il compito di geografia. Martina era incartata e pensò a quell ennesimo quattro con rassegnazione. Ehi le sussurrò una voce serve aiuto? EmeKa, poco distante da lei, le fece l occhiolino. Se puoi - Pochi minuti dopo, la ragazza stava copiando le soluzioni da un foglietto che poi andò a buttare. su quel compito prese 6 e guadagnò la sufficienza anche nei seguenti, grazie al suo nuovo compagno di banco. E man mano che i suoi voti si alzavano, cresceva anche l amicizia con Emeka, che da semplice compagno di banco divenne un vero amico, l unico che Martina avesse mai avuto. Con il suo aiuto, inoltre, iniziò a capire anche quelle materie che prima non le piacevano e a studiare sul serio, tanto che ne risentirono anche le sue interrogazioni che si fecero più articolate e consistenti. Ma non durò a lungo. Arrivò un giorno ventoso, molto simile a quello dell arrivo di Emeka. Il ragazzo a scuola non c era; Martina si preoccupò nel vedere il banco vuoto, ma non più di tanto: tornerà domani, pensò. Emeka non tornò l indomani, e neanche il giorno seguente. Trascorsa una settimana (durante la quale la ragazza aveva cercato notizie dell amico, ma con scarsi risultati), venne il vicepreside all ultima ora per annunciare che Emeka era in ospedale, pestato da ragazzi razzisti. La classe ammutolì, e Martina avvertì un soffio d aria gelida che le chiuse la gola e sentì un peso all altezza del petto. Guardava le labbra del professore di scienze muoversi per scambiare qualche parola con l altro uomo, ma non udì niente. Quella sera, rannicchiata sul letto, pianse per la prima volta dopo molti anni. A scuola, chi conosceva Emeka, non riusciva a credere che proprio lui, così gentile e onesto, fosse stato picchiato da qualche loro coetaneo. Non sapevano neanche chi fosse stato. Martina provò ad andare a trovarlo, ma le risposero che doveva aspettare fino a quando il ragazzo non si fosse rimesso abbastanza da ricevere visite. I giorni passavano, e la scuola era diventata per lei un luogo freddo e ostile, dove adesso, però, otteneva alcune piccole soddisfazioni, che avrebbe voluto condividere con il suo amico. L ultima settimana di scuola, Emeka no n era ancora tornato, ma i professori avevano deciso di valutarlo con i voti precedenti al pestaggio, che erano comunque ottimi. Martina uscì fa scuola, qual lunedì, ma non prese il pullman. Voleva chiarirsi le idee, perciò decise di fare una passeggiata per tornare a casa. Camminava distratta e aveva il sole in faccia, perciò non riconobbe subito la figura appoggiata all angolo della via nella quale abitava e la superò velocemente. Da quando non saluti più i vecchi amici, Fraschi? le disse una voce ben nota. Si voltò e vide Emeka che le sorrideva. Un sorriso si fece strada sul suo bel viso e corse ad abbracciare l amico, ridendo e piangendo insieme. Emeka aveva ancora la pelle intorno all occhio destro un po violacea e un labbro spaccato, ma non aveva perso il suo sorriso. I due ragazzi si misero seduti sul muretto a chiacchierare, mentre il fantasma del razzismo, della violenza, dell odio evaporava al sole della loro amicizia. 2 Premio al racconto IN EQUILIBRIO CON LA FOLLA di ILENIA ANNA SICIGNANO - Pompei (Napoli) Scuola Media Amedeo Maiuri di Pompei (Napoli) Patrioti per caso, spinti da un bisogno di libertà e sogni nuovi. La storia di una ragazza innamorata che, seguendo l'istinto, si lancia in un'avventura che ha permesso la realizzazione di un grande progetto. Un passato un po' romanzato che diviene il trampolino per affrontare, con un pizzico di follia, questo presente turbolento. Mi ricordo che quella notte fu davvero turbolenta e calda, c era un vento intenso che lle quattro del mattino non mi permetteva di respirare. Eppure era il 5 maggio del 1860 e pochi giorni prima c era stato un vero e proprio acquazzone. Decisi così di andare a lavorare un ora prima per non soffrire troppo e comunque per vedere prima il mio Giacomo. Eh sì, da circa quattro i mesi era diventato mio e non volevo lasciarlo per nessun motivo al mondo. Egli era un pescatore di Quarto, di vent anni, con capelli ricci e castani, occhi color dello smeraldo e una gran voglia di rivoluzione. Mi guardava mentre coltivavo il mio piccolo appezzamento di terra e ci scambiavamo gli sguardi armoniosamente. Un bel giorno decise di chiedermi di stare insieme ed entusiasta accettai, con quel sorriso che ti riscalda il cuore e l anima. Indossai la mia gonnella grigia e il mio foulard, che cingeva come una corona d oro la mia bionda chioma ricca che faceva risaltare gli occhi color del mare. Uscii dalla vecchia casa diroccata con grande orgoglio e anche con i miei attrezzi, odiati e allo stesso tempo amati, e mi incamminai attraverso la stretta viottola. Da lì si scorgeva tutta la città di Quarto: il porto grande, il porto piccolo dove c era la verde barchetta di Giacomo la ferrovia in costruzione, le carrozze, la gente che iniziava a vivere la giornata e un vecchio, oramai stanco della vita, che dipingeva distratto l orizzonte e l alba chiara. Arrivai al campo dove già c era la mia migliore amica Carlotta che lavorava da circa mezz ora. Adoravo la mia cittadina, anche se allo stesso tempo mi stava stretta, avevo un aria ribelle. Il tempo passò abbastanza velocemente per una ragazza di diciott anni che aveva voglia di volare e mollare tutto. Ma non sapevo cosa mi aspettava Tornai a casa, o meglio di quello che ne rimaneva, e trovai una sorpresa: era Giacomo. Lasciai cadere tutto ciò che avevo in mano e lo abbracciai dolcemente, come una mamma che

rivede suo figlio ritornato dalla guerra. Custodiva un aria triste, ma allo stesso tempo dignitosa e fiera, con testuali parole mi disse freddamente: - Parto per la Spedizione dei Mille, ho conosciuto l equipaggio, ho intravisto Garibaldi, mi sembrano tipi a posto e hanno una giusta causa per cui combattere, so usare il fucile e ho coraggio da vendere. Non posso stare qui per tutta la vita, viglio il meglio e quindi dopo la conquista, sarò un uomo nuovo e mi distinguerò dalla massa. Partiremo stanotte dal porto grande. Rimasi sconvolta, una lacrima amara rigò le mie pallide e bianche guance, i miei occhi divennero del colore del mare in tempesta, le mie mani tremarono e il mio animo fu trafitto dalla sorte più improbabile che si potesse chiedere! Non capii il motivo della sua decisione, sapevo che era un patriota, sapevo che mi amava, sapevo che voleva una vita più facile, sapevo che era libero, sapevo che lo amavo, sapevo che poteva morire!, non dissi semplicemente niente, ma fuggii verso il porto per guardare il tramonto e chiarirmi le idee. Piansi, piansi, piansi, però ad un certo punto mi venne un idea brillante, pazza, folle, incredibile, un equilibrio con la furia, instabile, incontrollata, impulsiva, libera, indipendente, stupenda di quelle che ti cambiano la vita Corsi a casa, salutai mia madre con un cenno della mano tremante e andai davanti lo specchio. Tagliai ciocca per ciocca tutti i miei capelli, facendoli diventare cortissimi, tolsi i miei vestiti da donna e infilai i calzoni marroni di mio padre ormai scomparso, indossai un cappello e ritornai inn città. Lì cercai di non farmi notare da nessuno, e ormai sera sgattaiolai in una delle navi della spedizione, precisamente sulla Piemonte dove si trovava sia Garibaldi sia Giacomo. C era un gran fracasso nella stiva, c era gente che gridava, chi beveva rum, chi preparava la poca polvere da sparo. Il mio piano era quello di partire per stare vicino a Giacomo e non abbandonarlo mai. Però vestita co ero, potevo subito venir riconosciuta come persona non arruolata ufficialmente nella spedizione. Entrata in una stanzetta, trovai con un colpo di fortuna una divisa: una camicia rossa con due ghette e il berretto rosso e nero, i calzoncini neri e le calzamaglie, ero irriconoscibile. Circa alle due del mattino della notte fra il 5 e il 6 maggio, si partì per la Sicilia. Ero terrorizzata, forse non pensai a cosa andavo incontro, potevo anche morire. Così mi appoggiai all umido muro e mi addormentai pensando e sperando che fosse tutto un brutto sogno, mentre una lacrima bagnava il mio viso. La mattina sulla nave era tutto un via vai, mi ordinarono di dividere la polvere da sparo in vari contenitori e poi di consegnarli a un certo Pino. Così, riordinati a caso, andai per la Piemonte a cercare questo tipo, ma, mi ritrovai inconsapevolmente davanti al mio coraggioso Giacomo. Avevo una grande voglia di riabbracciarlo, di sentire il calore della mia pelle accostata alla sua, di chiedergli scusa della fuga e di fargli notare che gli ero stata vicina e lo ero ancora. Tuttavia non lo feci, ero consapevole che mi avrebbe rimandata indietro con una scialuppa o qualcos altro e decisi con pensiero malinconico e malato d amore di andare avanti con la mia ricerca misteriosa. I giorni sembravano non passare mai e non senza agonia, paura e umidità, anche quando facemmo scalo prima a Talamone e poi a Porto Santo Stefano. Al quinto giorno arrivammo a Marsala, stanchi del viaggio, ma entusiasti per la battaglia che ci attendeva. L Italia finalmente poteva riunirsi sotto un unica cultura, un unica lingua, un unica religione, sotto speranze comuni e comuni pensieri. Poteva tornare a vivere dopo mille anni, a risplendere anche se morta dentro. Ad avere un coraggio bugiardo, ma pur sempre coraggio. Anch io possedevo inconsciamente questo desiderio che si affermava sempre di più dentro me, come qualcosa di grande e unico. Presi non senza paura la decisione di combattere per il mio Paese oltre a stare vicino a Giacomo. Qui però successe qualcosa di inaspettato. Per il mio essere. Davvero morii dentro. Capii che l impulsività non faceva per me. Vidi il mio amato stare con un altra donna e non era né ubriaco, né confuso, né pazzo, né malato, era soltanto felice senza di me. Capii tutto: la sua decisione inaspettatamente determinata, il suo orgoglio prima di tutto, le sue false parole, la sua grinta codarda, le sue frasi senza alcuna dolcezza, con freddezza, con egoismo, con violenza. D altronde ci conoscevamo solo da quattro mesi, che stupida, pensai, che illusa che sono, e mi auto convinsi che forse dovevo combattere solo per me stessa, per affermarmi. Ero per la seconda volta sconvolta, ma decisi di continuare e così marciammo verso Catalafimi dove ci aspettavano circa 4000 soldati borbonici. Iniziarono a sparare con cannoni e fucili e noi facemmo lo stesso, al perfido rullo di tamburi. C era un gran fracasso, un acuto rumore di artiglieria, pozzanghere di sangue affiancate ad anime senza vita e tanti cuori trafitti da lame lucenti. La terra possedeva gli spari, i botti, le urla, la tristezza, l esaltazione del coraggio e soldati che pensavano falsamente che la guerra è bella anche se fa male. Non so come riuscioi a uccidere, mantenere un fucile fra le dita è difficile soprattutto per la tua dannata morale. Vedere il dolore e la disperazione negli occhi delle persone che può essere soprannominata nemico, non sapevo se era giusto. Può essere giustificata una guerra, se pur di conquista? E un tradimento? E una morte ingiusta? Solo portare avanti le proprie idee e le proprie aspirazioni? Ma quasi inconcepibilmente sentii tra gli speri e le mine vaganti un dolore sempre più lento e sempre più presente, nella mia spalla. Vidi la guerra al rallentatore, pian piano, le azioni si facevano sempre meno piacevoli, sempre meno, quasi da diventare pesanti. Che orrore pensai! Che ingiustizia pensai! Rividi tutti gli ultimi sette giorni, solo per portare avanti il mio desiderio di stare con Giacomo, così come quello di portare l Italia all unità Osservai, distrattamente, prima di chiudere le pesanti palpebre, Garibaldi che veniva salvato da Giacomo che insanguinato,,,. cadeva dolcemente al suolo. Riaprii gli occhi e mi ritrovai meravigliosamente in un luogo stupendo, lussuoso e osservai vicino a me un uomo di bell aspetto che mi disse: qual è il tuo nome ragazza? Rimasi letteralmente di stucco, era l unico che mi aveva riconosciuto come donna, che mi aveva curato e portato nella sua bella dimora, non curandosi del fatto che ero una sconosciuta. Ma non solo,

era l unica persona che aveva visto oltre l apparenza Risposi: Non importa il mio nome, invece conta se la missione di conquista è terminata Annuì. Fui pazza di gioia, immensamente felice e da quel giorno restai lì con quell uomo italiano che sarebbe diventato il mio futuro marito. Ora a letto figlia mia, ti ho raccontato la storia più avvincente della mia stessa esistenza, e ricorda devi dare un senso alla tua vita Dico alla bambina. Ma mio padre? Purtroppo è caduto per salvare un grande uomo - Dico guardando il caloroso tramonto di Catalafimi! 3 Premio al racconto CARO BIMBO AFRICANO di TERESA QUARTUCCIO - Scafati (Salerno) Scuola Media via Martiri d Ungheria di Scafati (Salerno) Determinazione e forza di volontà, affetto e rispetto reciproco, speranza ed ottimismo, sono questi gli ingredienti per un futuro migliore? Leggendo questa lettera potremmo dire di sì. Se ogni uomo è artefice del proprio destino la sola differenza che c'è tra chi realizza i propri sogni e chi non vi riesce è la convinzione di farlo. Caro bimbo africano, un giorno scoprirai che hai la pelle nera, e i denti bianchi, e il palmo delle mani bianco, la lingua rosa e i capelli crespi come liane della foresta. Non dire nulla mentre leggi questa lettera perché se scoprirai che tu, proprio tu, hai il sangue del mio stesso colore, allora scoppierai a ridere come ho fatto io, batterai le mani, proprio come me fino a quando non ti stancherai, mostrerai la tua gioia a chi ti vuole vedere infelice e diverso da me. Quando il momento di gioia sarà finito prendi un aria seria e grida a chi ti sta intorno, alle persone che non ti capiscono, a quelle che non ti vogliono capire: il sangue che scorre nelle mie vene basterà a convincervi che sono un essere umano?. Almeno io penso che sia questo quello che gli dovresti dire. Dì loro anche che gli animali, tutti quanti, hanno il sangue rosso nelle vene..e che te ne infischi della loro opinione, perché tu credi in te stesso mentre loro non hanno capito nulla della tua forza creatrice. Amico mio, combatterò insieme a te, anche se sono distante, per la vita che devi vivere e affrontare tutti i giorni, e per gli insulti della gente che devi subire. Ma adesso non pensiamo a questo, pensiamo invece all amore fraterno e pacifico che ci unisce. Pensiamo come dovrà essere il nostro futuro, per il momento non pensiamo al presente né al passato perché in fondo siamo solo dei ragazzi e abbiamo tutta una vita da vivere, amico mio! Forse proprio perché siamo adolescenti possiamo ancora sognare Sognare un mondo diverso, un mondo perfetto in cui i problemi di tutti i giorni volino via per un istante, accompagnati da una lieve brezza, verso nuovi orizzonti. L importante è che questi orizzonti siano i nostri comuni orizzonti! Amico mio, questo mondo è irrealizzabile? Spero di no. Continuiamo a sognare, finché possiamo, ma restando sempre con i piedi per terra. Continuiamo a lottare per cercare di realizzare i nostri obiettivi, uniamo le nostre forze e non smettiamo mai di credere in una vita migliore senza disuguaglianze con l aiuto e la volontà di tutte le persone che come noi, seppure ai due poli opposti del mondo, si vogliono un gran bene. Spero di abbracciarti presto e di incrociare il tuo sguardo orgoglioso, un giorno 1 Premio al racconto FIORI DI MASHID di CRISTINA PINNERI Reggio Calabria Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Reggio Calabria Cercare uno spioncino per guardare una cultura diversa dalla nostra che sbigottisce e terrorizza. La curiosità di chi non riesce a comprendere un mondo di violenze, soprusi e privazioni. Cosa c'è sotto il burqa, quale mondo si nasconde in quegli occhi incarcerati? Questo racconto è una prova di forza, si presenta come la ricerca della chiave che riesca ad aprire la serratura di una realtà sconcertante. All uscita dall aeroporto, stremato per le troppe ore di volo, mi affretto a salire su un taxi e, in un inglese convenzionale, comunico all autista l indirizzo dell albergo. Sono alquanto irritato per l eccessivo ritardo rispetto all ora convenuta per l arrivo. Avrò appena il tempo di darmi una ripulita e dovrò, in tutta fretta, recarmi in ospedale, dove sono atteso già da qualche ora. Lavoro come operatore volontario presso una Onlus che, per ragioni umanitarie, mi ha inviato qui a Herat per prestare la mia opera di medico chirurgo. Mentre l auto sfreccia lungo le strade della città, volgo lo sguardo con indolenza fuori dal finestrino e resto per qualche istante senza parole, sconvolto. Alla mia vista si offre lo spettacolo desolato di una città ferita; ovunque cumuli di macerie, resti di una guerra condotta nella speranza di un cambiamento democratico che, a quanto pare, non è riuscito finora a far sentire la sua efficacia. Mentre considero gli esiti devastanti della distruzione bellica, a destra, sul marciapiede, passano leste, in atteggiamento quasi furtivo, due donne coperte dalla testa ai piedi da una veste nera, che guardano al mondo attraverso un invisibile fessura all altezza degli occhi. Da quegli abiti sembra provenire un sottile profumo di oscuri segreti, celati in corpi femminili che il burqa tiene al riparo dai miei sguardi curiosi, insistenti. Che strana atmosfera! Quelle due figure misteriose, senza identità, senza volto, attraenti come due corpi alieni, giunti da un altro pianeta, occultate da quelle scure uniformi, mi appaiono quasi

essenze astratte, anime tormentate che vagano per la città come fantasmi. Sotto il burqa tutto è segreto. A queste sventurate la reticella permette appena di vedere dove mettere i piedi, mentre un osservatore riuscirebbe a malapena a intuire la forma degli occhi. Mi chiedo come ci si possa innamorare in questo dannato paese. Noi occidentali ci riconosciamo dai volti, dagli sguardi, dai sorrisi, dai lineamenti. Sono abituato a vedere le donne che passeggiano allegre per strada, mi piace udire le loro chiacchiere, vederle sorridere reclinando il capo all indietro, amo seguire il movimento dei loro capelli che ondeggiano sotto la luce del sole, raggianti di riflessi color miele. Indossano con disinvoltura gonne molto corte, orgogliose del loro corpo, si mostrano anche allo sguardo maschile più indiscreto, fiere della loro bellezza, usano magliette anche troppo attillate che non lasciano nulla al mistero; questo è il loro modo di gridare silenziosamente che si sentono libere, affrancate dai pregiudizi che gravavano sulle loro madri solo fino a qualche decennio prima. Nel 68 si diceva che non servivano le guerre per cambiare radicalmente una società; anche un rossetto e un paio di forbici, per accorciare gli orli delle gonne, potevano essere armi di rivoluzione, più che di seduzione, un mezzo per cambiare la cultura, la mentalità. Le ragazze rifiutavano l idea di coprirsi per proteggersi da certi sguardi e certi pericoli; sentivano il bisogno di sentirsi libere, volevano uscire da questa gabbia culturale, che le rendeva più prigioniere che mai. Mentre osservo queste donne indistinte, prigioniere del buio, mi vengono in mente certe descrizioni delle donne di Sicilia del secolo scorso: il copricapo nero che mortificava il viso e nascondeva i capelli, a volte anche gli occhi, le pesanti calze nere indossate persino in estate, le braccia da nascondere con pudore, la camminata dimessa e umile, lo sguardo sempre rivolto verso il basso, che non osava incrociare occhiate indiscrete e licenziose, sempre tentate dal desiderio di spezzare le catene. Eppure, mentre a pochi anni di distanza, altrove molto è cambiato, qui, a Herat, nel 2011, mi ritrovo a respirare un atmosfera da lontano Medioevo. Avverto una grande, incolmabile distanza tra me e le donne che mi stanno di fianco, non solo a causa di quei vestiti neri, del viso nascosto, ma anche per un pesante senso di oppressione, di staticità, d inerzia e oscurantismo che respiro intorno. Percepisco chiaramente che la stessa incolmabile distanza che esiste fisicamente tra me e quelle donne, si frappone tra me e la loro cultura, la loro religione, incomprensibili per me, uomo occidentale. Più tardi, dopo appena 10 ore di lavoro senza sosta nell ospedale da campo, decido di prendermi una pausa ed esco con un collega che sta lì da un anno e mezzo. Questi mi racconta di una quotidianità fatta di orrori, dopo l arrivo dei talebani. Riferisce di bambini che, per sopravvivere, sono costretti a diventare adulti in fretta e, soprattutto, mi racconta storie di bambine, episodi di segregazione, di violenze sessuali anche in tenera età, di torture, mutilazioni e abusi di ogni genere. Apprendo che da queste parti, quasi tutte le donne sono analfabete; quelle ancor più sfortunate, nate in famiglie poverissime, già a dieci anni diventano mogli di sconosciuti molto più grandi, perfino anziani; impossibile rifiutarsi, perché, una volta trasferita la proprietà allo sposo, non si può tornare indietro per non arrecare disonore a chi ha concordato lo scambio. Mi dice che vendere le figlie e comprare le mogli in Afghanistan è normale, fa parte di una terribile tradizione accettata e condivisa. I genitori si prestano alla vendita per uscire dalla miseria, ricevono denaro e doni, assicurando la sopravvivenza ai figli maschi più piccoli. Se la moglie bambina scappa, viene riportata indietro con la forza dagli stessi genitori; se maggiorenne, viene denunciata per abbandono del tetto coniugale, anche se è scappata per non essere uccisa a botte, per non subire violenze sessuali di ogni genere. La morte sembra essere quasi l unica via d uscita; ecco perché, in questi paesi, le donne spesso preferiscono cospargersi di benzina e darsi fuoco. Rimango impressionato dinanzi a tali orrori. Oggi ho conosciuto Mashid; è alta, scheletrica, scura di carnagione, delicata e con due grandi occhi scuri, nei quali si legge la stanchezza di chi ha sofferto. Sembra molto più anziana dei suoi quasi trent anni. Fu venduta a soli 10 anni, ne aveva 11 quando ebbe la prima gravidanza. Sottoposta ad ogni genere di violenza, viveva in schiavitù nella sua casa, controllata, notte e giorno, dalla tirannica suocera. Ad ogni tentativo di fuga veniva picchiata in modo selvaggio; a causa di tale brutalità aveva perso il terzo figlio ed era anche diventata quasi sorda. Con lo sguardo disperso nel vuoto mi ha raccontato: Mi sono data fuoco perché mi torturavano, mi picchiavano crudelmente. Non avevo altra scelta che il fuoco per sfuggire da loro. Volevo porre fine a questa orribile esistenza, ma sono stata salvata, purtroppo. Ha compreso il mio sgomento, ha colto il turbamento attraverso i miei occhi, senza aspettare che le rivolgessi altre domande mi ha rivelato: E un inferno che dura pochi minuti, quasi una liberazione, se confrontato all'inferno in cui sto vivendo tutta la mia vita. Quando ti viene tolto tutto, non desideri più vedere la luce del sole, la linea dell orizzonte sembra lontana ed insignificante, non senti dentro di te alcuna speranza che riesca ad incoraggiare i tuoi passi, rimani completamente impietrita dall orrore della tua esistenza e sopravvivere al dolore che viene da dentro non ha più alcun senso. Ho compreso che l ingiustizia islamica in Afghanistan ha sempre favorito gli uomini, il divorzio è quasi impossibile: una donna deve potere provare che suo marito non soddisfa i suoi bisogni vitali per un periodo sufficientemente lungo o che abusa di lei al punto da mettere in pericolo la sua vita; ha inoltre bisogno di testimoni e deve, ultima beffa, chiedere l'accordo del coniuge per divorziare. Naturalmente non avrà mai la custodia dei suoi bambini ed è questa crudele separazione che spesso conduce le donne al suicidio. Il destino di Mashid è tragico; purtroppo è comune a tante altre donne nel mondo. In Bangladesh, Cambogia, Pakistan, Uganda, India, molte diventano vittime di questa ancestrale violenza del fondamentalismo islamico contro le donne. Spesso il viso delle donne disubbidienti viene sfregiato con l acido, perché scegliere il proprio uomo contro il volere dei genitori o chiedere il divorzio, scatena l aggressione di padri e fratelli che considerano la congiunta indegna. Sotto il burqa si celano storie di sofferenza e coraggio, storie di fiori calpestati e strappati

all innocenza, ignorate dalla società civile. Queste rivelazioni mi hanno permesso di non avvertire più quella distanza ed indifferenza che ho sentito quel giorno ad Herat; per non provare la vergogna di essere uomo, mi sono impegnato a dare voce a queste donne, ridotte all invisibilità, al silenzio, ad una vita senza volto, senza identità, senza sorriso. Non ho girato lo sguardo altrove, come se il problema non mi riguardasse; ho creato una fondazione che realizza molti progetti interculturali, che aiuta donne e bambine ad imparare a leggere e scrivere. E un primo passo per iniziare a combattere pacificamente per il rispetto dei diritti delle donne, partendo dal diritto ad un infanzia serena, ad un apprendimento delle nozioni culturali di base, per acquisire la capacità di esercitare incondizionatamente il potere di scegliere cosa fare della propria esistenza. Oggi Mashid ha ritrovato se stessa, ha scoperto di avere dei diritti e che nessuno ha il permesso di tenerla alla catena. Lavora alla fondazione, che ho voluto prendesse il suo nome. Sono molto orgoglioso di Mashid. Non solo ha imparato a leggere e scrivere, ora usa anche il computer, ha una sete insaziabile di conoscere, di approfondire; per raccogliere fondi sta curando la pubblicazione di un libro: I fiori di Herat. All interno della Fondazione MASHID questi fiori saranno sempre curati, assistiti e tutelati finché diventeranno forti e saranno in grado di curare, assistere e prendere in tutela altri fiori e così si andrà avanti su questa strada fino a quando si riusciranno a mutare le cose. Questa terra ha cambiato Mashid, ha cambiato me; ci vorrà del tempo, molto impegno, molta speranza, ma anche le donne di questo paese avranno giustizia, avranno il diritto di andare a scuola, di lavorare, di imparare ad esercitare i loro diritti, anche quello più banale di guidare un auto, un treno, un aereo. La linea dell orizzonte ora è densa di traguardi da raggiungere, di sogni da realizzare; presto quei fantasmi velati di nero non vagheranno più per la città e ad Herat, ovunque, sarà possibile vedere immense distese di fiori bellissimi e colorati. 2 Premio al racconto I LUOGHI DELL ANIMA di LUDOVICA MISEO - Perugia Liceo Ginnasio A. Mariotti di Perugia I luoghi dell'anima, rifugi nascosti per sospendersi un po'. La mente è il mezzo più potente che sa ricreare ambienti, situazioni, necessità anche quando il corpo non risponde. Che mondo può aprirsi dinanzi agli occhi di chi resta in bilico? Finalmente sono arrivata. Ce ne son voluti di tempo e fatica per arrivare fin qua. L unico posto, il migliore, il mio: ogni mia cellula sa che è speciale, poiché so per certo che nessuno è mai stato qui prima di me. Mi siedo, di modo da avere tutto il panorama a mia completa disposizione. Amo questo luogo, per il semplice motivo che qui posso essere io, nessun personaggio, nessuna maschera e nessuna falsa risata. Al resto del mondo potrebbe anche sembrare un luogo scontato, banale: un prato immenso, pieno di ogni genere di fiori, dove tutti i sensi sono acuiti ed amplificati. I profumi ed i colori mi si impongono, lucenti, disarmanti e vellutati. Potrei vivere qui per sempre, senza obblighi, doveri, o addirittura desideri. Mi sdraio. Il sole mi accarezza il volto, accompagnato da una brezza leggera: la mia smorfia di fatica finalmente si distende in un sorriso sereno, tipico di quelle persone che hanno trovato la pace. Credo. Non ho mai conosciuto nessuno che sia perennemente in pace con il mondo. Sarà che io solitamente sono una ragazza collerica e poco cedevole al dialogo o al compromesso: dare sempre il cento per cento, rimanendo delle proprie idee. Questo era il mio motto, fino a poco tempo fa. Nessuno poteva mettermi i piedi in testa, si faceva quello che volevo io. Da bambina, questo atteggiamento mi conferì ben presto una sorta di titolo tra i miei coetanei ed amici: io ero il capo, io prendevo le decisioni importanti. Che poi, cosa era importante a sette anni? Ricordo questo periodo quasi come i miei anni di gloria, prima di esser costretta ad abbassare la cresta. Dio, quanto amo questo posto. Perché? Perché non ha assolutamente nulla a che fare con la realtà, o meglio, con la mia realtà: è nuovo, bello, unico ed inesplorato. E mio, soprattutto. Non c è traccia dei binari. Quei binari che sono ormai diventati la mia ossessione, la mia più grande paura. Sono i binari della mia vita che scorre, come un treno, ma il mio treno non si ferma a nessuna stazione. Ecco, sono proprio un idiota. Appena trovo un briciolo di serenità lo distruggo con i miei pensieri grigi: non c è niente da fare, questo mio lato masochista non mi abbandona. Perché nei momenti felici ci appaiono più netti quelli tristi, disperati ed angosciosi? No. Ho deciso che non voglio binari qui. Mi hanno perseguitato ovunque, sempre, ma non qui. Questo è il mio posto. Sono incompatibili: i binari sono paralleli, prestabiliti, già tracciati da abili mani appositamente per me. E soprattutto, anche se ancora non riesco a vederlo, so che infondo da qualche parte c è il mio capolinea, dove il mio furioso ed inarrestabile treno alla fine si fermerà. Il luogo in cui mi trovo invece è selvaggio, senza strade o sentieri, libero ed accarezzato dal vento. Immobile, sempre lo stesso ma in qualche modo sempre diverso, immenso ed eterno. Si impone da solo con la sua sgargiante bellezza e ineffabilità, nessuno lo può imporre a qualcuno. Mossa da queste profonde convinzioni, ho ritrovato la mia tranquillità, quasi tirando su una staccionata nel mio cervello, che i binari non possono valicare. E di nuovo sorrido: questa volta è un sorriso pieno, senza incertezza, vero. La speranza entra a fiotti in me senza controllo, con un inesprimibile desiderio di rivelarsi al mondo. - Come va la flebo della ragazza della 142?- Il medico si informa diligente da una delle

sue infermiere sulla salute della paziente che aveva curato più a lungo: erano quasi quattro anni che quella ragazza si trovava sdraiata su quel letto d ospedale. Immobile, alimentata artificialmente da molti macchinari. Figlia unica, visitata assiduamente dai genitori che, nella personale opinione del dottore, erano mossi da una assai irrazionale speranza, o morboso attaccamento, che gli impediva di proseguire con la loro vita. Non si era mai soffermato a pensare a come lui avrebbe gestito una situazione del genere. I suoi figli erano sanissimi. - Dottore, la stavo cercando proprio per parlarle di quella ragazza Lo so, è impossibile, lei non ci crederà mai e mi prenderà per un ingenua - L infermiera è titubante, sa che quello che sta per dire non può essere accaduto, non ad uno stadio così avanzato della malattia della giovane, praticamente impossibile era la definizione giusta. La ragazza le giuro che non ho idea di come sia potuto accadere dottore, ma l ho visto con i miei occhi Ha sorriso -. 3 Premio al racconto E DOPOTUTTO, NON MI ACCONTENTO di LAURA SANTOMAURO - Trani (Bari) Liceo Classico Francesco De Sanctis di Trani (Bari) Questo racconto ci obbliga a soffermare lo sguardo verso un mondo parallelo, che a volte s'incrocia, ma che spesso rimane inesplorato: quello di chi vive una situazione di disabilità. La forza, il coraggio, la determinazione di chi, nonostante tutto, ama la vita e non si accontenta. 5 aprile Cara Maria, ti scrivo, perché non so parlare. Ti scrivo perché quando i miei occhi incrociano i tuoi ho un sussulto che mi fa vibrare le corde nella gola come un arpista che suona il suo strumento. Ho un fremito che mi blocca le articolazioni, una scossa che annienta ogni mia forma di pensiero razionale. Ti insinui dentro, come un intuizione primordiale, qualcosa che da sempre mi appartiene. Elementare, ovvia. Oggi abbiamo fatto l amore per la prima volta e ho dimenticato tutto : l angoscia, il pregiudizio, le convenzioni. Ti ho sussurrato ti amo e mi hai risposto anche io con una leggiadria che sa solo appartenere al tuo essere così distante dal mio. Nel modo più semplice e diretto possibile, con una frequenza di suoni così poco articolata mi hai concesso le chiavi dell infinito. E stata la cosa più naturale che possa succedere. Come l innata consuetudine che le rondini hanno di volare verso sud. Come le formiche che raccolgono provviste nell inverno. Come i bruchi che si trasformano in farfalle leggere. Mi è bastato chiudere gli occhi e spalancare la mente sull universo dei sogni. Quelle visioni così surreali, ma così vicine alla mia figura instabile. Non compatirmi se mai leggerai quello che ti sto scrivendo. Nella mia vita sono sempre stato abituato ad immaginare. Ho imparato con il tempo che il sapere, il conoscere, senza l immaginazione, il genio, non sono nulla.ciò che non abbiamo scelto non possiamo considerarlo ne un nostro merito ne una condanna. Io il 14 giugno di diciassette anni fa non ho mai deciso di venire al mondo. Di sconvolgere l esistenza dei miei genitori. Occupare per nove mesi quel grembo materno scarsamente fertile che più del dovuto si è teso come la pelle di una rana, per ospitare il mio corpo malato. A volte davvero mi sento come uno di quei quadri metafisici di cui papà si ostina a capirne il significato. Il corpo fatto di stoffa e legno, un fantoccio abbandonato a se stesso, sospeso nell infinito di un tempo ingrato con mille orologi crudeli che ticchettano sulla sua testa scandendo i giorni che gli restano da vivere. Immerso in un mondo distante, estraneo.e lacerante. Ma vado avanti, la vita mi piace. 15 giugno Cara Maria, ieri è stato il mio compleanno. Eri bellissima nel tuo vestito verde. Gli orecchini dorati dalla forma ellittica conferivano alla tua figura diafana e surreale un aspetto incantevole. Come sempre non sono riuscito a parlarti. Ero nel parco con papà,mi ha portato a fare una passeggiata tra gli alberi secolari, con la storia del mondo scolpita tra i solchi delle loro rughe. Ridevi con le tue amiche, ed il tuo sorriso perlato si sgranava al sole. Non avresti potuto farmi regalo più bello. Sembravi una donna indiana agghindata per il giorno più bello della sua vita in un mattino d estate, fresca, pura, leggera. Il sole filtrava tra le foglie smeraldine come la stoffa che ti fasciava, e gli occhi color dell ebano brillavano intensamente come tanti prismi contrapposti l un l altro. Hai preso la bicicletta e hai iniziato a pedalare. Correvi felice, spensierata,ridevi. E ho pensato alla prima volta che il fato ha voluto che poggiassi il capo e gli arti sulla carrozzella. Anche io allora, corsi a perdifiato. O si. Correvo, incespicavo, urlavo, saltavo. La brezza della radura mi scompigliava i capelli e l unica forza in grado di trasportarmi era quella delle sensazioni. Il pesco in fiore. Il muschio che scricchiola. Lo scoiattolo che sussulta. Le fragole che profumano di rugiada. Il cavallo che nitrisce. La sabbia che si bagna. Le stelle che pigolano. Assaporai ogni essenza, ogni piccola rimembranza. Tra me e la natura c erano corrispondenze che neanche la poesia di Baudelaire ha saputo cogliere. Picchiavo la vita, afferravo l esistenza, e mi gettavo a capofitto nella speranza di una corsa contro la convenzione. Bastava solo chiudere gli occhi.vorrei tanto poterlo fare proprio ora in questo momento, come un tempo. 3 ottobre Cara Maria, chi sono? Assurdo. Non so dirti di preciso chi io sia. Sono Francesco naturalmente. Ma chi

sono? Se mi chiamassi con un altro nome, se fossi un Marco, un Nicola, un Roberto, sarei sempre lo stesso? No non sarei quello di sempre. Eppure invece sarei ugualmente me stesso. Dopotutto i nomi sono solo un modo che abbiamo che avete voi normali dotati dell uso della parola- per chiamare, catalogare, selezionare, dividere l universo illudendovi di rendere tutto più infinitamente semplice, o tutto infinitamente più complicato. Ciò che per me son spine per gli altri sono rose e viceversa. Se dirò di essere creativo, altruista, intelligente, curioso, attivo e logorroico si anche questo malgrado la mia passività, la mia scarsa autonomia, la mia afasia, lo sono- per voi, che con l occhio esterno della critica mi giudicherete, sarò solo un anormale. Un disabile. Sono stanco delle occhiate insistenti della gente, delle false premure. Non contenti tutti si voltano sempre due volte per ammirarmi. Vorrei cambiare, allontanarmi da questa carcassa che mi porto dietro da troppo tempo e che lentamente si sgretola come sabbia in una clessidra. Ma cosa potrei essere? Me stesso se non altro. Potrei mutare in qualcosa di diverso, condurmi all estremo del mio essere. Diventare un giaguaro, un colibrì, una rondine, una cavalletta. Potrei smetterla di considerare la musica come un tumulto orgiastico e liberatorio. Potrei smetterla di associare la parola vita alla potenza dell immaginazione. Potrei lasciarmi andare alla mia antitesi. Ma cosa rimarrebbe di me? Un mucchietto di ossa, parole inconsistenti, roccia che si frantuma e scivola tra le dita. Vorrei discostarmi dal mio Io, lasciar fluire il mio Es, mandare al diavolo il Super Io. Ma non mi è concesso. 1 gennaio Cara Maria, perdonami se non ti scrivo da molto. In questi mesi ti ho pensata intensamente. Il tempo con il suo fare impassibile ha voluto che oggi inizi un nuovo giorno, il primo nuovo giorno del nuovo anno. Ma la realtà vuole che a questa novità non se ne aggiungano altre. Il Natale non mi ha portato nulla se non dolore e indifferenza. Un bambino in chiesa durante la messa mi ha additato e si è rivolto alla madre sdegnoso definendomi un handicappato. La madre ha risposto non guardarlo tesoro. Perché non dovrei essere guardato? Cosa rappresento dunque? Aiutami perché da solo non riesco a capirlo. Eppure credo di essere così tanto simile al mondo dei normodotati. Anche io viaggio, scherzo, mangio, respiro, penso, vivo. Amo. Si io amo. Delle palpebre socchiuse, delle labbra che si schiudono come un battito d ali. Per quanto i miei sentimenti possano essere acerbi, per quanto la mia condizione possa impedirmi di farlo, io ti amo. L ho detto. Ecco si. Ti amo perché non so far altro. Potrei disegnare. Potrei scrivere. Potrei suonare. Ma disegnerei, scriverei, suonerei d amore. Ancora una notte abbiamo dormito assieme. Abbracciarti, respirare il soffio vitale, inalare il tuo profumo, sentirmi sicuro tra le tue braccia. Avvertire il tuo cuore battere all unisono con il mio, e sentire che attraverso il coniugarsi delle nostre frequenze cardiache ed i nostri respiri le barriere si annullano. Cos è che esattamente mi fa dire di amarti così incommensurabilmente? Sarò sincero, non sei poi questa poetessa che mi affascina tanto. Non componi musica alla luna, non incanti le platee, non commuovi le stelle. Non sei bella. Ma per me sei la creatura più meravigliosa che possa essere stata creata. Adoro l antitesi che si crea tra la tua leggerezza e la mia pesantezza. Ne troppo leggeri da librarci liberi nel cielo, ne troppo pesanti da rimanere ancorati sul fondo. E questo che mi piace di noi. Ma tu non sai neanche che esiste un noi. Che abbiamo dormito assieme e fatto e fatto e rifatto l amore. Non sai che morirei per te. Sai solo quello che sono. Un malato compassionevole affetto da chissà quali gravi disabilità che non gli conferiscono nemmeno la possibilità di parola. Lo vedo come mi scruti, fingendo di non fissarmi all uscita da scuola. Di sottecchi passi sotto le tue iridi perfette ogni mia mancanza, ogni mia debolezza. E mi spogli, mi metti a nudo. Te lo leggo in quelle pupille quanto ribrezzo provi per me. Ma Maria non preoccuparti. Tu non dovrai mai leggere tutto ciò. Capisco. Io vivo di emozioni visionarie, di frammenti sparsi per la mente, schegge che si incastrano tra i miei neuroni. Vivo di sole, di mare, di sete, di fame, di aria, di sabbia, di fuoco, di acqua, di terra, di spiaggia, di sassi, di foglie, di vento, di rughe, di fiori, di petali e di serpenti, di stambecchi, di tulipani, di rose e di papaveri, di gatti, di cani, di movimenti e di percezioni, di energie e di colori. Vivo per strappare il tempo a quel Dio che spero che non esista. Ho un sasso in gola che non mi permette la parola. Ho un macigno in fondo al petto che mi impedisce di camminare. Ho la pesantezza di uno sguardo puntata addosso. Ho l orrore di una lama nera che mi attraversa la carne. E ho una malattia rarissima. Gli altri. Ma vivo,e non mi accontento Premio Speciale UNITÀ D ITALIA al racconto: 150 ANNI D ITALIA di MATTEO TACCOLA - Livorno (Napoli) Liceo Classico Niccolini di Livorno La necessità di ricordare, di ripercorrere a piccoli passi le strade dei patrioti, per ritrovare forza e slancio, passione e orgoglio verso un paese che ha saputo lottare per conquistare la propria libertà. Quel giorno era così freddo per me, le lacrime mi stavano rigando il volto per il vento che mi sferzava impietoso, la mattina mi ero svegliato con il cuore pesante per il mio futuro, sapevo già cosa sarebbe successo di lì a poco. Mi trovavo vicino a Quarto in Liguria da lì sarei partito per la Sicilia, insieme ad altri giovani che come me erano pieni di speranze per un futuro migliore; si diceva che avremmo fatto l Italia. Mi ricordai allora

quando in una notte, durante un temporale, i fulmini e i tuoni mi svegliarono di soprassalto; mi alzai, presi un bicchiere di acqua e mi sedetti in cucina su una vecchia sedia, riflettevo sugli avvenimenti che sarebbero accaduti, le lacrime incominciarono a scendermi sul viso bagnando quella lontana notte, sapevo che la mia patria sarebbe nata anche grazie a me, ma che forse non l avrei mai vista unita; ero convinto che sarei morto in quell impresa, sotto i colpi dei fucili, senza nome, senza essere riconosciuto, sfregiato dalla crudeltà della guerra, ma non era quello che mi spaventava di più, ciò che mi preoccupava era il futuro per quei miei due figli: avrebbero potuto vivere finalmente in una patria unita, liberi dall oppressione dello straniero, legati da comuni intenti, da speranze simili, non sarebbero stati nemici gli uni con gli altri abitando uno al Nord e l altro al Sud? Mi ricordai, mentre stavo salendo sulla nave per Marsala, dei racconti che mio nonno prima di addormentarmi ogni sera mi faceva, parlava di tempi remoti, in cui i Romani avevano reso grande e meravigliosa questa nostra patria, mi parlava di un fiorentino che, come me, molti secoli prima, sognava sospirando una patria unita, ma afflitto dal fatto che era diventata, dal meraviglioso giardino di ingegni che era, una misera bettola di prostitute. Nuovamente i miei occhi divennero rossi a quei pensieri, cercando di trattenere quel pianto, che ognuno di noi dalla camicia rossa, fermava; il pianto mio era uguale a quello delle mille madri che vedevano i propri figli partire, ma consolate dal sapere che i giovani avrebbero versato il loro sangue per l italico suolo. Non dicemmo loro di non piangere, le loro lacrime più di mille lapidi, più di mille libri, più di mille parole ci avrebbero ricordato, onorato, e non avrebbero reso vano, qualunque fosse stato, il risultato di quell impresa. Quando salutai quella mattina i miei figli gli detti un fazzoletto, un po lacero, che portavo ormai da qualche anno sempre con me, i suoi colori erano verde, bianco e rosso; mi chiesero come mai avesse quei colori, gli risposi che il verde era la speranza che ci cingeva per quell impresa, il bianco la purezza dei nostri intenti, e il rosso l amore per questa futura patria, e il sangue che tutti avremmo versato. Ricordatevi gli dissi figli miei, voi non siete figli del Regno di Sardegna, ma figli di quell Italia che è ancora a venire e che verrà, voi siete fratelli di coloro che vivono sotto i Borboni, fratelli di coloro che abitano lo Stato Pontifico, o che sono sotto gli Austriaci, non pensiate che un confine possa divedere la vostra fratellanza, dobbiamo essere uniti, e come io sono pronto alla morte anche voi dovete esserlo per la vostra patria, la mia patria, per la nostra patria. Nei giorni che seguirono durante la navigazione verso la meta designata, incominciai a immaginare come sarebbe stata la mia futura Italia; era come una donna bellissima, luminosa mi abbagliava e la sua vicinanza faceva crescere in me un ardore incontenibile, perfetta nelle sue sembianze, sapevo di essere figlio suo, per lei avrei combattuto, per lei sarei morto senza alcun timore, mi vedevo moribondo fra le sue braccia, delicata mi accarezzava, avrei esalato l ultimo respiro fosse stato necessario per renderla libera da quelle sudice catene che le avevano imposto i traditori, i corrotti e gli stranieri oppressori, cercando di nasconderla nei più remoti antri oscuri, lontana dagli occhi dei suoi figli che ora sofferenti volevano liberarla. L avevano derisa, oltraggiata, quella Madre che sovrani ottusi laceravano per il potere e per l avidità. Ora però mi accingevo a liberarla, a rendere libera la madre mia, stavo giungendo in Sicilia per renderle ciò che era sempre stata sua di diritto: la libertà. Poco prima di raggiungere le coste Siciliane un ultimo pensiero ancora si affacciò alla mia mente, mi apparve di nuovo, dolce come quella famosa Beatrice di Dante, delicata come la Laura del Petrarca, forte come le divinità Romane, stava per sorgere, Madre di tutte le madri. Ero preso ormai da travolgente desiderio di azione, eccoci finalmente sbarcati. Quel suolo che calpestavo non mi sembrava tanto diverso da quello che mi generò, trovai anzi una certa familiarità con il luogo, come se fosse stato da sempre legato al mio, io che ero Toscano, non sentivo disagio, ma anzi armonia, come se le stesse pietre, le stesse valli, lo stesso suolo ci avesse chiamato a sé, ormai stanco di questa divisione atroce, desideroso di tornare unito con la sue terre sorelle. Non incontrammo resistenza e ci inoltrammo facilmente nell isola, pochi ma duri furono successivamente alcuni scontri. Arrivammo dopo molti mesi di battaglie, dove vidi il sangue di giovani versarsi come il vino, e i corpi dei miei stessi amici oramai pallidi, senza più vita, onorare i campi di battaglia e i cimiteri; notando sempre però come sul loro viso vi fosse una sorta di vittoriosa serenità. Pensavo ogni volta che li vedevo che in fondo sapessero che il loro sacrificio non sarebbe stato inutile, e non erano preoccupati di essere morti in quelle terre che i sovrani tiranni avrebbero considerato un luogo straniero, erano anzi paghi di essere caduti in quella che era la loro terra. Giungemmo nei pressi di un fiume, chiamato Volturno, non sapevo che le sue acque limpide sarebbero state macchiate del sangue dei miei amici, e del mio stesso sangue; qui si diffuse la voce che la battaglia sarebbe stata decisiva per le sorti dell Italia stessa. Poco prima che iniziasse la battaglia, ero schierato in seconda linea, pensai alla mia futura Madre e le chiesi che, se non poteva proteggermi dalla morte, almeno mi accogliesse fra le sue braccia e non mi lasciasse in quelle del Regno Borbonico come allora si chiamavano quelle terre che calpestavo. Un tuono di cannone, i combattimenti erano iniziati fulmineamente, senza che me ne rendessi conto, le urla mi avvolsero come la nebbia al mattino, ma non erano di terrore, bensì di gioia, giovani che come me non combattevano per la gloria, ma per la libertà, non si sacrificavano per il denaro, ma per l unità, non davano il loro sangue per se stessi, ma per l Italia; un dolore lancinante mi prese la gamba, caddi, sentivo il sangue caldo, come un torrente furioso, scendermi giù per la gamba, la vista incominciò ad annebbiarsi, un mescolarsi vorticoso di immagini dominava la mia mente, passava di fronte ai miei occhi tutta la mia vita, i miei due figli, mia moglie, l Italia, e dal cuore, una follia potreste pensare, giungevano fin sulle mie labbra tremanti queste parole Fratelli d Italia, l Italia s è desta; dell elmo di Scipio s è cinta la testa. Dov è la Vittoria? La porga la

chioma; chè schiava di Roma Iddio la creo, stringiamoci a coorte! Siam pronti alla morte; Italia chiamò. Giace presso il Volturno il mio corpo, sperando che il sacrificio della carne mortale non sia stato vano, che nel futuro prossimo e lontano l Italia unita e gli Italiani sappiano convivere rispettandosi a vicenda, ricordandosi di aver sacrificato il loro sangue, i loro corpi per un progetto, per una patria, una nazione splendente, sperando che non marciscano, come invece avveniva sotto il dominio straniero, la nostra cultura, il nostro popolo, i nostri valori, siamo fratelli e sorelle gli uni agli altri, figlie e figli di una stessa Madre, una nobile madre, che ha avuto, ha e avrà bisogno di noi sempre, non possiamo abbandonarla ora, nè poi, sempre fedeli a lei, facendo sì che possa poggiare sulle nostre forti spalle, come quando noi deboli infanti, incapaci ancora di camminare, ci appoggiavamo alle sue. Morì in quella battaglia il mio corpo, non morirono i miei ideali, non morì la voglia che era in me di chiamarci tutti fratelli, non morì in me il bisogno di chiamarci Italiani, di poterci capire con una lingua comune, di poterci identificare in una sola cultura, non morì il desiderio di chiamare casa la mia Italia. Non morì allora, non morì poi, non morirà adesso con voi.