I bambini e le bambine nella Shoah



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Transcript:

I bambini e le bambine nella Shoah Milena Cossetto, Elena Farruggia Non penso a niente: non a ciò che sto perdendo, non a ciò che ho appena perduto, non a quello che mi aspetta. Non vedo le strade davanti a me, la gente che passa. Sento solo che sono terribilmente stanco, sento che un offesa, una ferita mi brucia dentro. Yitskhok Rudashevski, 14 anni Ghetto di Vilna La condizione dei bambini, come scrive il filosofo Umberto Galimberti, «non è una faccenda di lacrime o di buon cuore, ma il sintomo di un umanità che, senza accorgersene, sta abdicando alla condizione della propria conservazione e alla conservazione della propria identità. Questa condizione si chiama trasmissione culturale che ha proprio nei bambini i loro destinatari. Dimenticarlo significa avviarsi rapidamente alla fine del mondo con cui l umanità ha finora conservato e propagato se stessa». 1 Secondo gli studi più recenti, si stima che i nazisti abbiano ucciso circa 2 milioni di bambini (di età tra 0 e 14 anni) tra ebrei, zingari e slavi. Ma non solo. I crimini del nazismo vanno pensati in termini persino più ampi dello sterminio nei Lager. «Infatti - scrive lo storico Bruno Maida le forme dell oppressione, della persecuzione e dell imbarbarimento nazionalsocialista sono molte e alcune in apparenza poco visibili. Sono sicuramente vittime dell incubo millenario di Hitler i bambini tedeschi, primi a subire un regime che li vuole tutti uguali e pronti sia alla guerra sia all intolleranza. Sugli stessi banchi di scuola sui quali siedono i bambini ariani, vi sono sebbene per ancora poco tempo i loro compagni ebrei. La maggior parte di questi piccoli tedeschi - ebrei e ariani non sa cosa significhi dire Jude ma gli viene insegnato l odio e il disprezzo che deve accompagnare questa parola mentre gli altri imparano la paura, l emarginazione e infine la violenza che porta con sé questa etichetta. Per molti bambini ancora, le loro vite sono ritenute indegne d essere vissute perché accompagnate dalla malattia, si prepara l eutanasia di Stato, in sostanza il loro sterminio pianificato, vera e 61 propria palestra per i futuri aguzzini dei Lager. Ma l ideologia nazista della razza pura conosce anche altri sviluppi. Uno di questi è costituito dal Lebensborn,ambigua e per alcuni versi criminale organizzazione interna alle SS posta alla difesa delle madri ariane affinché possano partorire, sotto l egida e la protezione dello Stato, figli di sangue puro ; ma anche organizzazione rivolta nei territori occupati dall esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale al rapimento e alla germanizzazione dei bambini ritenuti ariani» 2. Il libro di Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida ricostruisce queste vicende, cercando di riportare il punto di vista dei bambini; una seconda parte ripercorre i momenti drammatici della loro deportazione e del loro sterminio, lasciando grande spazio alle testimonianze, sempre accompagnate da una contestualizzazione storica rigorosa sul piano storiografico e scientifico. Il grande impatto che ha avuto il Diario di Anne Frank sui lettori di tutto il mondo, la straordinaria capacità che ancora oggi hanno le parole di Anne nel coinvolgere lettori e visitatori del Museo a lei dedicato ad Amsterdam e delle mostre itineranti in Europa, sono il segno più evidente della forza dirompente dello sguardo infantile. È un punto di vista che lascia sgomenti gli adulti per la capacità di comprendere la realtà, per la lucidità del pensiero, per avere ancora la forza di stupirsi e, talvolta, la speranza in un cambiamento. Il diario di Anne è il più famoso e probabilmente il più completo (nonostante le polemiche sulle modifiche apportate dal padre), ma molti sono gli scritti di bambini chiusi nei ghetti dell est Europa, o ai lavori forzati nei Lager nazisti. In Italia nel 1996 viene pubblicato per la casa editrice il 58 storiae

Saggiatore, Ragazzi in guerra. Diari segreti di adolescenti europei nel secondo conflitto mondiale, a cura di Laurel Holliday; il testo raccoglie diari scritti da bambini e ragazzi durante la seconda guerra mondiale nei ghetti della Lituania, della Polonia, della Lettonia e dell Ungheria, nei campi di concentramento di Terezin, Stutthof e Janowska, nelle strade bombardate di Londra e Rotterdam, nella prigione nazista di Copenaghen. Un terzo degli autori aveva meno di dodici anni. I nove ragazzi e le quattordici ragazze di questa raccolta descrissero ciò che i nazisti fecero alle loro famiglie e alle loro città, dando sfogo così ai loro sentimenti più segreti. Molti di questi diari sono andati perduti, non sono mai stati pubblicati, oppure sono conservati in poche copie superstiti nelle biblioteche più importanti del mondo. Questi diari raccontano il continuo incubo della Gestapo, la fatica quotidiana di provvedere ai bisogni essenziali e il terrore di vedere amici e parenti deportati verso una morte sicura. Molti scrissero per consegnare al futuro la testimonianza sulla brutalità del nazismo. Non era facile scrivere a lungo, di frequente: c era bisogno dell occorrente per scrivere (carta e penna erano difficili da trovare nei ghetti e nei Lager) e bisognava essere al sicuro dal controllo nazista o dalle spie. Infine era necessario trovare un nascondiglio sicuro per il diario, in modo che non venisse sequestrato durante le sistematiche perquisizioni della Gestapo. Allora perché scrivevano i bambini, i ragazzi, gli adolescenti? Per combattere la solitudine: senza amici, senza familiari, non avevano nessuno con cui condividere ciò che stavano vivendo. Tenere un diario per Mary Berg, quindici anni, a Varsavia significava per lei resistere all umiliazione e all oppressione a cui era sottoposta ogni giorno. Per la maggior parte di loro i diari furono un occasione per sfogare lo sdegno e la rabbia, ma anche un modo «per non essere sopraffatti dal caos da cui erano circondati. Mentre lottavano contro gli orrori che stavano vivendo, i diari davano loro l opportunità di esprimere il proprio dolore e cercare di dargli un senso [ ] Tutti i diari forniscono una visione dall interno di come i ragazzi possano vivere un trauma e sopravvivere. È certo che conservarono la salute mentale, l intuito e persino lo humor, nonostante la loro vita fosse costantemente in pericolo. Molti riconobbero con gratitudine che in questo li avevano aiutati proprio i diari.» 3 Le considerazioni finali della curatrice ci aprono a considerazioni pedagogico-didattiche, a mio parere, molto importanti: «In breve, questi ragazzi e queste ragazze non diventarono automi privi di personalità come i nazisti volevano. Credo che scrivere i diari li abbia aiutati a mantenere un senso fondamentale della propria identità e integrità personale anche quando i loro nomi erano stati sostituiti da numeri. Nel leggere oggi questi diari, spero che il coraggio e l integrità in essi racchiusi ci aiutino a chiarire i nostri valori e a combattere ovunque il pregiudizio e l ingiustizia. Alcuni lettori potrebbero esitare ad esporre se stessi o i propri figli alle vivide descrizioni di ciò che questi bambini soffrirono. Spinti dal desiderio di proteggere noi stessi e i nostri cari, potremmo voler volgere lo sguardo altrove. Dopo tutto, non siamo stati forse spinti a credere che l esposizione alla violenza possa causare incubi e pervertire le coscienze sensibili? I diari sono invece la testimonianza del fatto che dire la verità sulla violenza non è dannoso. Quanto maggior dolore avrebbero sofferto questi bimbi se non avessero scritto dei raccapriccianti eventi che stavano vivendo? Credo che ben più pericoloso che leggere di atrocità sia pretendere che le atrocità non siano successe. Distogliere lo sguardo o rifiutare di vedere, o di far vedere ai nostri figli, ciò a cui portano il pregiudizio e l odio significa veramente pervertire la nostra psiche collettiva. È importante per tutti noi, adulti e bambini in ugual misura, riconoscere l esistenza degli abissi in cui l umanità può sprofondare. Facendoci condividere la loro esperienza diretta della sopraffazione, questi ragazzi ci insegnano che niente ha più valore della libertà dell uomo. Questa sola lezione costituisce una ragione sufficiente per leggere e incoraggiare i loro coetanei a leggere questi diari» 4 Pubblichiamo pagine tratte da alcuni diari di bambini/bambine e di ragazzi/ragazze che hanno attraversato o sono scomparsi negli abissi dell umanità in Europa tra il 1938 e il 1945. I testi sono preceduti da brevi note biografiche dell autore/autrice (se disponibili). Note 1 GALIMBERTI U., Che cosa sono oggi i bambini?, La Repubblica, 24 marzo 1997. 2 BECCARIA ROLFI L., MAIDA B., Il futuro spezzato. I nazisti contro i bambini, Firenze 2000, p. 9. 3 HOLLIDAY L.(a cura di) Ragazzi in guerra. Diari segreti di adolescenti europei nel secondo conflitto mondiale, Milano 1996, 1999, pp. XIII-XIV. 4 Ivi, p. XVI. 62 61. Il Ghetto. 62. Zeldis Malcah, Cena di Pasqua. storiae 59

I diari ritrovati Dai Ghetti della Lituania, della Polonia, della Lettonia e dell Ungheria, ai Lager di Terezin, Stutthof e Janowska, alle prigioni naziste, questi diari ci raccontano che cosa significava per dei ragazzi vivere ogni giorno con la consapevolezza che quello avrebbe potuto essere l ultimo giorno della loro vita. Gli autori dei diari ritrovati avevano tra i 9 e i 12 anni quando iniziarono a raccontare la loro esperienza quotidiana e descrissero ciò che i nazisti facevano alle loro famiglie e alle loro città. I loro scritti rivelano coraggio, talvolta persino humour e notevoli doti letterarie. Gran parte dei diari non sono stati pubblicati, ne esistono alcune copie anastatiche, conservate nelle biblioteche più importanti del mondo. Eppure le loro parole sono come pietre incise nel tempo. Dal diario di Janine Phillips, 10 anni, Polonia Janine Phillips cominciò il diario il giorno del suo decimo compleanno, nel maggio 1939. Viveva nella campagna polacca con la sua famiglia numerosa e benestante, che sfuggì alla 63 persecuzione nazista nella vicina Varsavia. [...] Nonostante questo, erano sempre consapevoli di quanto fosse precaria la loro situazione. La famiglia ascoltava una radio clandestina per sentire tutte le notizie su quello che stava succedendo nel resto dell Europa e a Varsavia. Janine era una reporter avida di notizie sia dall interno sia dall estero. Nel suo diario ha descritto efficacemente le stranezze e i piccoli difetti della gente, in modo così umoristico da farci quasi dimenticare che la sua famiglia stava vivendo in una Polonia lacerata dalla guerra e che la ragione per cui aveva così tanto tempo per scrivere era che andare a scuola era pericoloso. Durante il suo decimo anno Janine riempì un quaderno di mille pagine. In seguito, a undici anni, smise di scrivere il diario e tornò a scuola a Varsavia, occupata dai nazisti, dove frequentò una scuola clandestina in cui venivano insegnate la storia e la letteratura della Polonia. Quando vi fu la rivolta del ghetto di Varsavia, Janine allestì un posto di pronto soccorso per i feriti. Per questo fu arrestata e portata in Germania come prigioniera di guerra. Fu liberata nel 1945, quando aveva sedici anni. Completati gli studi in chimica, Janine lavorò a Londra come ricercatrice per una grande impresa. Si sposò e, nel 1965, tornò in patria per una breve visita, ventun anni dopo che aveva lasciato la Polonia. In questa occasione una zia le dette una scatola contenente il suo diario d infanzia. 23 agosto 1939 Il babbo dice che la guerra è inevitabile. Gli ho chiesto perché Hitler vuole attaccarci e lui ha detto che è perché è un prepotente. Spero solo che sappia che la gente pacifica non lo considera molto simpatico. Il babbo è andato a trovare padre Jakob e gli ha chiesto una messa per salvarci dalla guerra. Il nonno ricorda molte guerre e dice che una guerra non uccide solo le persone, ma uccide anche le loro anime. È per questo che il nonno pensa che Dio dovrebbe intervenire, dato che non rimarranno molte anime nel suo paradiso. Sono del tutto d accordo con il nonno. 1 settembre 1939 Hitler ha invaso la Polonia. Abbiamo sentito le brutte notizie alla radio pochi minuti dopo aver visto due aeroplani che volavano in cerchio uno intorno all altro. Poco prima di colazione, alle dieci meno dieci circa, stavo tornando dal gabinetto quando ho sentito gli aeroplani in cielo. Pensavo che facessero delle esercitazioni. Poi ho sentito delle mitragliatrici e tutti sono usciti di casa per vedere che cosa stava succedendo. Il nonno ha detto «Mio Dio, è la guerra!», e si è precipitato dentro ad accendere la radio. Le notizie importanti sono arrivate nel corso di un annuncio speciale che diceva che le forze armate tedesche hanno attraversato il confine polacco e i nostri soldati stanno difendendo il paese. Tutti erano sbalorditi. Con le orecchie incollate all altoparlante cercavamo di afferrare le parole che diventavano sempre più fioche. Le batterie oppure l accumulatore, o forse tutte due, si stavano scaricando. Non riuscivamo a sentire neppure un sussurro dalla radio, il nonno ha spento l interruttore e ha guardato le nostre facce angosciate. Si è inginocchiato davanti all immagine di Gesù Cristo e si è messo a pregare a voce alta. Noi ripetevamo dopo di lui: «Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome...». Poco dopo il tè, lo zio Tadeusz, la mia nuova zia Aniela e il babbo sono arrivati con altre brutte notizie. E babbo ha detto che non saremmo ritornati a Varsavia perché era più prudente rimanere qui in paese. Ha affittato un carro per portare i nostri vestiti invernali e le nostre cose. Mi sono chiesta che ne sarà della nostra istruzione, ma la mamma ha detto che, quando un paese combatte per la propria sopravvivenza, non c è tempo per l istruzione. Per tutta la sera il babbo ha cercato di far funzionare la radio, ma non ci è riuscito. Domani cercherà di raggiungere Varsavia per vedere che cosa si può fare per la radio che in questo momento è per noi di vitale importanza. Ti prego, mio caro Dio, fa che i nostri coraggiosi soldati sconfiggano i cattivi tedeschi. 3 settembre 1939 La scorsa notte il babbo e la mamma sono tornati tardi da Varsavia portando le nostre cose. Hanno noleggiato un carro tirato da un cavallo e ci hanno messo molte ore per arrivare qui. Le 60 storiae

strade erano piene di soldati e di mezzi militari. La gente a Varsavia è piena di entusiasmo e veramente pronta a combattere. Anch io vorrei essere a Varsavia, perché se mi ci metto so combattere molto bene. Grazie al cielo, il babbo ha portato una nuova batteria e ci sta trafficando proprio in questo momento, Lo zio Tadeusz e la zia Aniela torneranno domani o dopodomani perché lo zio ha avuto da fare per trovare qualcuno che si occupi del suo negozio. Notizie fantastiche! L Inghilterra sconfiggerà i tedeschi in un batter d occhio. Chamberlain ha detto che l Inghilterra ha dichiarato guerra alla Germania. Queste gradite notizie sono arrivate dall altoparlante come una benedizione dal cielo. Sono così felice di sapere che abbiamo dei buoni amici all estero. Il babbo ha detto che la Gran Bretagna è una grande potenza con una forza aerea e una flotta molto potenti. Tutti si sentono davvero sollevati e abbiamo festeggiato con un goccio del nostro vino speciale d annata. Dovrò imparare un po d inglese perché so solo una parola, «Goodbye», e non è certo sufficiente per tenere una conversazione con i soldati inglesi. Il babbo ha detto che in tre o quattro settimane saranno qui. Quando arrivano voglio ringraziarli per averci aiutati a sconfiggere Hitler, ma se non ho imparato abbastanza inglese per dirglielo, li abbraccerò e basta e loro capiranno che cosa voglio dire [...]. 20 settembre 1939 Dei proiettili che mi fischiavano intorno. All inizio non ho capito che cosa stava succedendo, finché non ho visto delle nuvole di polvere nella strada. Mi stavano sparando addosso. Mi sono sdraiata subito per terra, troppo spaventata per muovermi. Il cuore mi batteva all impazzata. Dopo un po la sparatoria è cessata. Non sapevo che cosa fare. I tedeschi devono essere piuttosto vicini, ho pensato. Ho cominciato muovermi carponi, strisciando quasi come una biscia. Il mio vestito, le mie ginocchia e le mie mani erano pieni di polvere. Dopo vari minuti, ho sentito una mucca che muggiva. Un proiettile le aveva trapassato la zampa posteriore. Il sangue usciva a fiotti e la povera bestia era in agonia. A quel punto ero davvero spaventata. Mi sono alzata e ho corso più veloce che potevo. Quando sono arrivata a casa, sporca e senza fiato, la mamma si è arrabbiata con me. Prima che avessi la possibilità di spiegare che cosa era successo, mi ha sculacciato. Sono andata nella mia stanza e ho pianto a dirotto. Poi però mi sono ricordata della povera mucca ferita. Così sono andata a dirlo al nonno. Lui mi ha lodato e ha detto che è stato un atto divino a far sì che vedessi l incidente, altrimenti la mucca, che appartiene alla cognata di Anton, avrebbe potuto morire dissanguata. Immediatamente Anton è andato dalla mucca con la borsa del pronto soccorso. Dopo, mentre la mamma mi aiutava a cambiarmi e a lavarmi, credo fosse dispiaciuta per avermi sculacciato in modo così impulsivo, perché mi abbracciava, mi baciava e diceva che avevo fatto una stupidaggine. E babbo era davvero preoccupato quando ha saputo quanto sono vicini i tedeschi. È andato nell attico a nascondere la radio. Per il momento, l ha messa sotto un mucchio di biancheria sporca. Dopo il tè, lo zio Tadeusz è andato nell attico, ha estratto parecchi mattoni dalla canna fumaria e ha costruito un comodo nascondiglio per la radio nel lato verso il tetto. È un pannello mobile ed è quasi invisibile. Lo zio Tadeusz ha detto che va bene finché nessuno accende il fuoco nella parte sud della casa. 21 settembre 1939 La nostra capitale è in fiamme. Durante la notte vediamo il cielo colorato di fumo e fiamme. I cannoni tacciono. Le truppe tedesche hanno quasi completamente circondato Varsavia. Il babbo dice che è solo questione di giorni. Ci sentiamo veramente avviliti, abbandonati dalla giustizia. Perché, perché i nazisti stanno vincendo la guerra? 25 settembre 1939 Solo brutte notizie. La gente è preparata al peggio. Un abitante del villaggio ha detto di aver visto un convoglio di truppe tedesche sulla strada principale di Varsavia. Il nonno è in uno stato di continua ansia. La mamma è preoccupata per la sua salute. Ha preparato una pozione di erbe per i suoi nervi. L odore della valeriana ha riempito tutta la casa e il babbo ha detto che chiunque riesce a sopravvivere a quel cattivo odore può sopravvivere a tutto. La mamma ha fatto l infusione in una brocca e ha insistito perché il nonno la bevesse tutta. L effetto è stato indiscutibile. Il nonno è stato depresso per tutto il resto del giorno. La mamma si è preoccupata e si chiedeva se non l aveva curato troppo e voleva chiamare il dottore. Ma lo zio Tadeusz ha detto che, prima di stare meglio, era naturale per chiunque passare attraverso un brutto momento. La mamma non era del tutto convinta, ma è stata d accordo che, almeno, i nervi del nonno si riposavano. Dopo molte ore, il nonno stava ancora attraversando il suo brutto momento. È rimasto a letto, dormendoci sopra, per due giorni. Quando i tedeschi sono arrivati, il nonno era al di là di ogni paura, ma il resto di noi tremava, davvero letteralmente, dalla paura. All alba un intero camion carico di tedeschi si è riversato davanti al nostro cancello. Hanno picchiato con forza alla porta d ingresso, quasi gettando per terra lo zio Tadeusz, e imperversato per la casa come una torma di banditi. Con i loro fucili carichi, hanno ficcato il naso ovunque e perquisito tutto e niente. Probabilmente, non avendo trovato niente di quello che cercavano, se ne sono andati, lasciando tutti vivi, grazie a Dio, ma la casa in una confusione terribile. Dopo la visita ci sentivamo tutti come una goccia della valeriana della mamma. storiae 61

26 settembre 1939 Borowa-Góra pullula di tedeschi. Ci sono almeno due soldati per ogni abitante del paese. Le loro uniformi sono azzurro-verdastre e indossano stivali neri, alti fino al ginocchio. Alcuni hanno gli elmetti sulla testa, altri solo dei berretti, ma tutti portano pistole appese alla cintura. La cosa sorprendente è che si sentono a loro agio nel nostro paese [...]. 26 novembre 1939 [...] Il nonno ha detto che se i tedeschi vincono la guerra non varrà la pena di vivere. Se vincono la guerra, la Polonia sarà finita per sempre, questo è quello che ha detto il nonno, e mi ha fatto sentire molto triste. 14 dicembre 1939 Il babbo dice che i francesi e gli inglesi attaccheranno i tedeschi in primavera. Dobbiamo aspettare, sperare e tenere le dita incrociate. Nel frattempo la gente nei villaggi sta escogitando nuovi modi per nascondere il cibo al tedeschi. La gente dice che apparentemente il loro esercito è come uno sciame di locuste. Lo zio Tadeusz ha fatto un nascondiglio sul retro del granaio. Il granaio è stato diviso e l entrata del deposito del cibo è stata mascherata con dei fasci di paglia. Questo per il caso che la cantina venga saccheggiata dai tedeschi. Più viviamo con i nostri nemici, più cose impariamo sul loro disprezzo per la vita e per i diritti umani. 16 dicembre Quando mi sono alzata questa mattina e ho guardato fuori, sono rimasta sbalordita dal lucente splendore. Dieci centimetri di neve sono caduti durante la notte e sembrava morbida e luminosa come la lanugine di un anatra. Dopo una frettolosa colazione sono andata fuori a meravigliarmi e a toccare la neve. Per me è l ottava meraviglia del mondo. Solo la neve ha la capacità di decorare e trasformare ogni cosa spiacevole a vedersi in un oggetto di vera e propria bellezza. Inoltre purifica l aria. Il sole si è già arrampicato al di sopra delle cime dei pini, ansioso di dare un occhiata al nuovo scenario. Gli stessi tigli che poco fa tremavano nei loro tronchi stavano diritti, così immobili, come se temessero di perdere il loro addobbo nuovo. Ogni ramo e ogni ramoscello è stato cosparso di bianco. Che gioia. Ero titubante a camminare sulla sua infinita perfezione. Quasi timorosa di rovinare la mia visione. C erano sfumature di blu nell ombra e, dove il sole accarezzava la neve, la luminosità del rosa. Sono rimasta in piedi in mezzo a quel paese delle meraviglie ipnotizzata dalla sua bellezza, finché la mamma non ha rotto l incantesimo. Ha detto che senza cappotto sarei morta. 19 dicembre 1939 Sono così indolenzita che riesco a muovermi a stento. La mamma ha detto che mi sta bene. A volte la mamma può essere molto dura. Poteva dimostrarmi almeno un po di comprensione. Il ghiaccio è diminuito e sta arrivando il disgelo. Wojtek ha fatto un omino di neve che assomiglia molto a Hitler. Ha fatto i baffi con una vecchia scopa, gli occhi con una bottiglia di birra rotta e ha messo una svastica sul braccio sinistro. Il braccio destro era alzato nel saluto nazista. Sulla testa, aveva il vecchio vaso da notte della nonna. Abbiamo riso tutti così tanto. Il nostro Wojtek è davvero molto bravo. Lo zio Tadeusz comunque ha detto a Wojtek di demolirlo. Ha detto che assomigliava troppo al Führer ed era troppo pericoloso. Ci ha ricordato che cosa è successo al piccolo Gabriel. Così ci siamo armati di bastoni e bottiglie e abbiamo picchiato Hitler con incredibile piacere. Sono franati prima il braccio, poi la testa. La sua pancia rotonda è stata colpita con un manico di scopa e finalmente è crollato, ridotto a un mucchio di neve. Wojtek ha conficcato una piccola bandiera bianca e rossa in cima al mucchio come segno della nostra vittoria. Tutti e tre ci siamo messi sull attenti e abbiamo cantato l inno nazionale polacco. [...] Janine Phillips Tradotto dalla stessa Janine, il testo fu poi pubblicato a Londra nel 1982 PHILIPS JANINE, MySecret Diary, Shepheard-Walwyn Ldt., London 1982. Edizione tedesca: Polen, Mai 1939: Ein Tagebuch, Ravensburg, O. Maier 1982. Dal diario di Ephraim Shtenkler, 11 anni, Polonia Il racconto di come Ephraim Shtenkler sfuggì ai nazisti è straordinario sotto ogni aspetto. Aveva non più di 11 anni quando scrisse del periodo, dai due ai sette anni di età, in cui era stato costretto a vivere in un armadio nella 64 casa di una donna polacca, che gli dava solo quanto era necessario perché non morisse. Al termine di questa orribile e solitaria segregazione, in uno spazio in cui non riusciva neppure a stare diritto, i piedi di Ephraim erano girati all indietro. Ci vollero mesi di cure mediche prima che fosse finalmente in grado, all età di sette anni, di imparare a camminare. Dopo la liberazione fu mandato da un orfanotrofio all altro, e infine nel villaggio dei bambini di Hadassim vicino a Tel Aviv, in Israele. Durante una visita al villaggio il professore israeliano Edwin Samuel seppe dell undicenne Ephraim e del testo che aveva scritto e intitolato «Ciò che mi 62 storiae

è successo nell infanzia». Edwin Samuel tradusse in inglese la storia di Ephraim, dall ebraico biblico in cui era scritta, e la fece pubblicare nella rivista ebraica «Commentary» nel maggio 1950. A Bialisk la mia famiglia era ricca e avevamo anche un negozio e la vita era piacevole. Ma quando vennero i tedeschi presero il negozio e ci cacciarono di città in città, come successe agli ebrei della Diaspora, finchè arrivammo a Zvirdje. Qui presero una parte di noi per massacrarla e una parte fu tenuta in vita. Mentre io, mio padre e mia madre ci trovammo nella parte che era tenuta in vita, mia zia era in quella che doveva essere portata al massacro. Ma si è salvata, poiché avevamo un conoscente tedesco e mio padre gli chiese di far trasferire mia zia nella nostra parte e lui parlò con l ufficiale e lei fu trasferita nella parte dove eravamo noi. Quelli che furono portati al massacro morirono e a quelli che rimasero in vita furono dati dei posti dove vivere, mio padre ricominciò a lavorare e ci guadagnavamo il nostro pane. Dopo qualche mese vennero i tedeschi e fecero un ghetto: allora mia madre si ammalò gravemente. Un giorno si venne a sapere che i tedeschi stavano arrivando, aprimmo un varco nei muri del ghetto e alcuni ebrei scapparono. Mio padre venne a sapere che avevano aperto un passaggio nei muri del ghetto, mi prese e mi dette a una certa donna polacca e le disse «Dopo la guerra verrò a prendere mio figlio». I tedeschi vennero a casa nostra, mia madre era a letto e le dissero «Alzati!» e lei disse «Come posso alzarmi? Non ho più forza». La uccisero nel suo letto e i vicini lo seppero e lo dissero a mio padre e mio padre lo disse alla donna polacca, e la donna polacca, quando mi mandò via, me lo disse. Nel frattempo, mentre mio padre mi accompagnava dalla donna polacca, fu trattenuto dai nostri vicini e io andai da solo dalla donna polacca. Non so che cosa si dissero mio padre e i suoi amici, ma il giorno dopo mio padre venne e mi disse che avevano ucciso mia madre e assassinato donne e bambini e che adesso i tedeschi stavano prendendo quelli che restavano e li mettevano in sacchi di tela cerata e li caricavano su un treno in una carrozza chiusa dove morivano soffocati. E mio padre disse «È bene che mio figlio non soffra come soffrono gli altri bambini, ma è male che tutti gli ebrei soffrano; perché devono essere incolpati gli ebrei?». La donna polacca non disse niente, ma in ogni caso non le piacevano gli ebrei e quando mio padre andò via disse «Maledetto ebreo, quando te ne andrai di qui?» e si inginocchiò davanti alla Vergine Maria. Il giorno dopo che ero nascosto nell armadio mio padre ritornò. Non parlò molto. Disse solo «Verrò ogni giorno a mezzogiorno», ma quelle furono le parole più gradevoli che potesse dire. E venne davvero. Una volta mi portò un coltellino e una volta una palla. La donna polacca mi toglieva tutte queste cose e le dava alle sue due figlie, una delle quali aveva dodici anni e l altra circa sedici. Mio padre veniva in silenzio ogni giorno. Un giorno mio padre non venne e quel giorno la donna polacca mi voleva mandar via perché disse «Il padre del bambino non mi dà i soldi, quindi lo terrò nascosto finché si prenderà un malanno». E mi mise sotto il letto. D improvviso si sentì una voce, dei passi e suonare alla porta. La donna polacca era contenta e aprì la porta e vide lì un amico di mio padre e quando gli chiese «Hai delle notizie?» lui disse «Sì, le ho» e lei disse «Parla» e lui cominciò a parlare e disse «Il figlio di Shtenkler, non so dov è» e quando sentii il nome della mia famiglia, sbirciai fuori e vidi che la faccia della donna polacca era pallida. Allora capii che era spaventata, perché disse «C è qualcos altro che non va?» perché voleva cambiare argomento. E lui disse «Sì, c è qualcos altro», la faccia della donna diventò pallida e disse «Parla» e lui disse «Un altro dannato ebreo è morto». Quindi lei chiese «Chi?» e lui disse «Il signor Shtenkler». La donna polacca restò a bocca aperta, Non chiuse la bocca: chiuse solo la porta in faccia all uomo, mi prese e mi colpì con la cintura di suo marito dicendo «Ti affogherò nel pozzo oggi stesso». Alla fine vide che i tedeschi non se ne stavano andando, così aveva paura che potessero prendermi e chiedermi dove ero stato. Sapeva che allora avrei detto che era stata proprio lei che mi aveva tenuto e avrebbero impiccato lei e me. Allora voleva farmi morire di crepacuore, di modo che lei avrebbe potuto dire ai tedeschi che mi aveva trovato morto. Ma, per mia fortuna, non ci riuscì, perché io ero allora solo un bambino, non potevo capire che cos era la morte e non ne avevo paura. Settimane, mesi e anni passarono e non successe niente. Io stavo sdraiato o nell armadio o sotto il letto. Un giorno la figlia maggiore della donna polacca arrivò terrorizzata, entrò in fretta e spalancò la porta e disse «Mamma!». E la donna polacca, che stava cucinando, chiese «Che c è?» «Mamma, mamma!» gridava sua figlia «Ho visto una madre ebrea e un bambino che camminavano mano nella mano e un tedesco ha detto al bambino di lasciare andare la mano di sua madre ed entrare nel sacco. La madre ha cominciato a implorarlo e il bravo tedesco ha sparato alle due mani unite, ha preso il bambino e lo ha messo nel sacco e lo ha buttato su un carro e la madre...». E la ragazza smise di parlare. E la madre disse «Perché non vai avanti?» E lei disse «Ho paura che questo succederà anche a te, mamma. Nel nome della Vergine Maria e di Gesù suo figlio, non ci puniranno?». E continuò dicendo «E la madre, l ha pugnalata». Io ero terrorizzato. Avevo già sei anni e capivo molte cose e pensai che quello era forse ciò che avevano fatto a mia madre e diventai bianco come un cencio. Dopo che la figlia maggiore era andata a giocare fuori avevo voglia di piangere, perché la invidiavo: erano ormai tre storiae 63

o quattro anni che non ero andato fuori. E così gli anni passarono e non successe niente e io avevo già sette anni, ma non sapevo camminare. Un giorno, quando la guerra era quasi finita, la donna polacca invitò un certo ebreo che di solito faceva cose di lana, calzini, pantaloni, maglioni e così via. Lei pensava che le avrebbe fatto molti maglioni, così lo invitò a entrare. Quando sentii che qualcuno era venuto sbirciai fuori e così facendo spostai delle bottiglie nell armadio. L uomo chiese «Che è?». lo ero terrorizzato: pensavo che fosse un tedesco. La donna polacca, che allora voleva davvero affogarmi nel pozzo, disse «È un topo!». Poi l uomo sentì ancora quel rumore e la interrogò di nuovo e lei rispose «Un topo!», finché alla fine sbirciai fuori e lui mi vide. Allora si infuriò con lei e disse «Ma come, quello è il figlio del mio amico Shtenkler!». La donna polacca diventò pallida. L uomo mi portò a casa sua nella strada accanto e mi chiese che cosa volevo indossare e io dissi «Vestiti». Lui rise e disse «Bene». Tirò fuori dei calzini, alcuni maglioni e andò al mercato e io lo aspettai a casa sua. Dopo un po di tempo arrivò con un pacco in mano. Mi tolse i miei stracci e mi vestì con gli abiti che si usano normalmente in questo mondo. Il giorno dopo quel conoscente decise di cercare un dottore che mi curasse per farmi camminare. Così prendemmo un treno e andammo a Katowitz. Ma all improvviso arrivò un uomo e parlò con lui. In seguito a quello che aveva detto, fui portato su un altro treno e, come una freccia, il treno andò diritto a un orfanotrofio. Lì gli dissero di aspettare un po. Lui aspettò pazientemente, alla fine andò nell ufficio e telefonò e dopo poco apparve un dottore, quello che effettivamente mi ha curato. Passarono mesi e mesi prima che imparassi a camminare. Non era facile per il dottore curarmi e per me camminare. Dopo che avevo imparato a camminare discretamente, mi portarono in un posto in alta montagna e insegnarono a camminare a me e ad altri bambini. Gli altri bambini mi prendevano in giro perché non sapevo camminare correttamente. Camminavo con le gambe curve: i miei piedi erano girati all indietro. I bambini mi picchiavano e facevano quello che volevano di me. Gli insegnanti non mi proteggevano, quindi si facevano beffe di me. Così passò un mese intero. Un giorno si sentì suonare il telefono. Era una donna che aveva conosciuto mio padre. Voleva portarmi via, a casa sua; ma questo non era possibile perché avevano paura che potesse succedere qualcosa alle mie gambe. Solo dopo un po di tempo mi ci mandarono. La donna mi stava già aspettando. Era contenta di vedermi arrivare - sano e forte - e mi portò a casa sua. Rimasi lì per un po di tempo. Un giorno, venne il migliore amico di mio padre e mi portò a casa sua e, in seguito, mi portò in un orfanotrofio. Lì trascorsi un bel periodo. Un giorno, vennero tre conoscenti di mio padre, mi dissero delle cose e dettero delle caramelle ai bambini che erano nella stanza. Mi dissero che ero già un bambino grande e che non potevo rimanere ancora in questo orfanotrofio. I tre uomini mi presero e mi misero nel movimento [giovanile] e io ci rimasi per vari mesi. L amico che era nell esercito polacco pensò di portarmi via di lì e mi tenne per un giorno. E quando vide che non c era posto, mi portò in un altro posto lì vicino e mi disse «Vai a dire alla direttrice che tornerò nel pomeriggio e le parlerò». lo andai e glielo dissi, e la direttrice disse «Vai via di qui!» e mi cacciò in malo modo. Allora andai al mercato. Lì incontrai il mio conoscente e gli dissi che cos era successo. Lui disse «Va bene, allora andiamo», e andammo. Quando arrivammo lei non voleva riceverlo e non voleva aprire il cancello. Così lui le disse che mi avrebbe messo in un movimento [giovanile] rivale. Lei gridò e strillò ma non ci fu niente da fare. Infatti avevamo già preso un treno: così viaggiammo insieme e si arrivò a una stazione. Lì incontrammo una certa donna che era diretta in uno di quei posti dai quali era possibile arrivare dove io dovevo andare. Questo era un villaggio per bambini in Polonia. Il posto era incantevole. Vicino c erano boschi e colline: su una collina c era un cimitero. E il tempo passava piacevolmente. Rimasi lì a lungo. I bambini non mi prendevano in giro come facevano negli altri orfanotrofi. Oramai sapevo già camminare. Un giorno chiesero quali erano i bambini orfani. Io ero fra quelli. Tutti volevano sapere perché ce lo chiedevano. In seguito si seppe che saremmo stati i primi ad andare in Palestina. Eravamo molto contenti. I bambini danzavano e cantavano. Il giorno seguente tutti noi bambini orfani salimmo su una macchina e andammo alla stazione. Si viaggiò in due gruppi diretti a un posto in Polonia. Qui successe qualcosa di strano. Si aspettò tutta la notte e la macchina non arrivò. Il giorno dopo tutti erano in agitazione. Il giorno dopo ancora, andarono a prendere il gruppo che aveva viaggiato con noi e ci dissero di aspettare ancora un paio di giorni. Alla fine di questi due giorni venne una macchina a prenderci. Viaggiammo per molte ore; nel frattempo io dormivo. Finalmente si arrivò. Sentii delle grida. In quel posto ci aspettava una piccola nave - dovrei dire piuttosto una grande barca - e ci misero tutti dentro e siamo partiti. La nave dondolava sulla superficie delle onde calme. Improvvisamente la barca sbandò da una parte. Tutte le cose sulla coffa caddero giù e ci salvammo per miracolo. Sulla barca c era un soldato dell esercito russo. Sapeva cosa fare in momenti simili. Il giorno finì e cominciò a diventare buio finché venne la notte. Noi stavamo dormendo e il soldato non riusciva a dormire, andò sulla coffa e d improvviso vide qualcosa che brillava nell acqua. Tirò fuori la pistola, prese la sua torcia e guardò e vide che c era una lunghissima fila di mine! In quell istante cacciò un grido. Al suono di quel grido ci svegliammo tutti. 64 storiae

Il pilota voleva far fare alla nave una deviazione intorno a Berlino e così stava per scontrarsi con le mine. Ma l uomo che aveva la pistola in mano saltò diritto giù nella sala macchine. Irruppe dal portello di boccaporto e saltò addosso al pilota. Il pilota fece un passo indietro e pensò: banditi! Si sedette davanti al soldato e fece un lungo giro fino a Berlino. Noi eravamo infelici. Io e altri bambini ci ammalammo. Fummo costretti ad andare in ospedale. Gli altri bambini andavano a scuola, giocavano e saltavano per la gioia e, per molti giorni, noi si rimase sempre in ospedale. Questo continuò, e dopo quei giorni tristi lasciammo l ospedale. A quell ora tutti i bambini erano andati a scuola e quando tornammo non ci fu permesso di andare nelle loro stanze: e non solo, fummo rinchiusi in una stanza speciale. Dopo tre o quattro giorni ci fu permesso di uscire con gli altri bambini. Quanti giochi c erano in quel posto! Non si contavano! E anche un sacco di feste di partito! Lì si andava quasi sempre al cinema. E durante gli spettacoli, tutti gli ebrei piangevano. Anche gli adulti nascondevano la faccia nei cappotti. Era chiaro che ogni movimento giovanile odiava gli altri. Ogni tanto scoppiava una lite con coltelli e bastoni. In quel posto davano punizioni terribili: come, per esempio, passare tutta la notte sul balcone. Dopo giorni di punizioni e di botte per ogni piccola cosa lasciammo Berlino e andammo in un posto terribile dove ogni bravata finiva in una battaglia con coltelli e bastoni usati con grande disinvoltura. Alla fine, quando videro che il nostro movimento era il più tranquillo di tutti, ci dettero un posto che meritava davvero un premio per la bellezza - boschi dove c erano terribili bestie feroci. In quel posto ogni gruppo viveva nella propria casa ed erano soliti picchiarci per ogni stupido minimo attacco agli altri gruppi. I nomi dei gruppi erano Trumpeldor, Nitzanim, Bar Kochba, Nishrim, Ariye. Io ero nel gruppo Trumpeldor. Un bel giorno tutti noi orfani partimmo per la Palestina. Allora ci raccontarono molte storie, in continuazione. Ci svegliarono a mezzanotte e, al mattino, arrivò una macchina. La macchina era come la crisalide di una farfalla. Finalmente si arrivò a uno dei campi. Il giorno dopo viaggiammo e viaggiammo senza fine. Ma ricordo che, con il treno, arrivammo finalmente in Francia: non ricordo il viaggio. Durò tre giorni e tre notti. Dalla Francia salimmo a bordo di una nave e sulla nave nessuno soffrì di mal di mare. Quando arrivammo in Palestina ognuno di noi fu obbligato a tenere sempre con sé tutti i pezzi di carta, persino i numeri delle nostre stanze. Nel nostro gruppo c era un bambino, lsaiah Zelik, che mise tutte le sue carte su una delle panche, e se non fosse stato per uno dei nostri insegnanti, Moshe, sarebbe ritornato in Germania. Come eravamo eccitati quando finalmente ci passarono in rivista e ci fecero sbarcare dalla nave! Arrivammo quindi a Ahuza, il villaggio per bambini sul monte Carmel, e da lì a quello di Hadassim. Dopo un po arrivarono altri bambini. Un giorno ricevetti una lettera da una donna in Canada: Caro Ephraim, ho trovato il tuo nome al dipartimento per l emigrazione degli ebrei e voglio sapere chi sei. Porti lo stesso mio cognome. Da dove vieni e chi erano i tuoi genitori? Scrivi tutto ciò che riesci a ricordare, così possiamo dimostrare che fai parte della mia famiglia. Ricordi il nome del tuo nonno? Scrivi tutto quello che puoi ricordare. Se sei uno dei miei parenti, ti scriverò di me. Scrivi presto. Tua Sarah Quella volta mi fu dato un pezzo di carta e c era scritto questo: Organizzazione internazionale sionista delle donne, Villaggio dei bambini, Hadassim. 21 gennaio 1949 Al direttore generale dell American Jewish Joint Distribution Committee P.O.B. 640, Gerusalemme Oggetto: Il bambino Ephraim Shtenkler Signore, in risposta alla Sua lettera n. 18871/40/1 del 22/12/48 siamo in grado di fornirle dei dettagli sul bambino sopracitato e sulla sua famiglia. Il nome del bambino è Ephraim Shtenkler, nato a Bialisk. Il nome del padre è Jacob, quello della madre Bilha. Figlio unico. Il bambino ha dieci anni e mezzo. È stato nelle mani dei polacchi a Zvirdje dai due anni ai sette. Dopo l occupazione russa, un ebreo andò a prenderlo e lo mise in un orfanotrofio. Ha saputo il nome di suo padre e di sua madre da un amico del padre che è nell esercito polacco. Questo è quanto il bambino ricorda. Le saremmo molto grati se volesse essere così gentile da informarci qualora venisse rintracciato qualcuno dei parenti del bambino. In fede Il segretario del villaggio dei bambini Un mese dopo l arrivo della lettera, trovai mio zio. Come era felice tutto il villaggio! Ma ognuno racconta la storia in modo diverso. Uno dice che mio zio venne da me e fece delle ricerche. Una volta raccontai ad alcuni bambini tutto questo e furono loro che mi suggerirono di scriverlo. Ephraim Shtenkler Il prof. Edwin Samuel tradusse in inglese la storia di Ephraim, dall ebraico biblico in cui era scritta, e la fece pubblicare nella rivista ebraica Commentary nel maggio 1950, con il titolo What Happened to Me in My Childhood. 65 storiae 65

Dal diario di Werner Galnik, 12 anni, Germania Werner Galnik aveva otto anni quando, nel 1941, lui e la sua famiglia furono deportati dalla Germania al ghetto di Riga, in Lettonia. Il racconto di quello che gli successe 66 lì e poi nei due campi di concentramento vicino a Danzica non è un diario in senso stretto. Non ci sono annotazioni datate singolarmente, e sembra che Werner abbia aspettato fino alla sua liberazione, nel 1945, per descrivere gli orrori che aveva sopportato nel ghetto e nei campi di concentramento. Si sa che di tutta la sua famiglia sopravvisse solo lui insieme al fratello. Di sua madre non si è avuta più notizia. Arrivai al ghetto dì Riga il 12 dicembre 1941. La nostra famiglia era composta da cinque persone: mio padre, mia madre, mio fratello, io e mia sorella. Mio padre, Schmuel, ha quarantotto anni e dì lavoro fa il sarto. Mia madre, Irma, ha trentanove anni e fa la commessa. Mio fratello Horst, di undici anni, va a scuola, come me che ho otto anni; mia sorella Vera ha quattro anni. Abbiamo vissuto in sette stanze: il negozio da sarto, la sala di prova, l ufficio, la cucina, la camera da letto, la sala da pranzo e la stanza della domestica. D improvviso abbiamo ricevuto la comunicazione dalla Comunità ebraica di Cassel che dobbiamo presentarci l 8 dicembre 1941 allo scalo ferroviario dove si sono già raccolti migliaia di ebrei, uomini, donne e bambini. Allo scalo c erano anche mia zia Bertha Klurman, di trentaquattro anni, che faceva la modista, e mio cugino di nove anni, studente. C erano anche i miei amici, maschi e femmine della mia età. Avevo già sentito parlare vari mesi prima del ghetto a Lodz. Pensavo che anche noi saremmo dovuti andare in un ghetto così, dove ci sono delle baracche e dove avremmo dovuto lavorare. Pensavo così: Hitler ama solo i tedeschi, non gli altri popoli e in particolare non ama noi ebrei. Ne consegue forse che perché siamo ebrei dobbiamo essere prigionieri? Mio padre ha forse rubato o ucciso per dover essere arrestato? E che cosa ha fatto la mia cara mamma? E che cosa abbiamo fatto noi bambini? Il 9 dicembre, quando siamo andati alla stazione ferroviaria sotto scorta, ero molto depresso. Eravamo ammucchiati tutti insieme. Molti ebrei piangevano, specialmente quelli che avevano lasciato i loro parenti malati a Cassel. Anch io piangevo: perché i vecchi non possono andare con i loro cari? Durante il viaggio per Riga l acqua era pochissima. Avevamo molta sete. Quando ci siamo fermati a una stazione tutti gli ebrei sono corsi a prendere dell acqua. Ma la polizia tedesca è venuta, ci ha picchiati e ci ha riportati indietro. Quando siamo arrivati a Riga ci hanno detto che chi aveva del denaro o dell oro doveva consegnarlo. Altrimenti sarebbe stato fucilato. Il denaro e l oro sono stati consegnati. Anche il bagaglio pesante, nel bagagliaio, è stato portato via. Potevamo portare nel ghetto solo il bagaglio leggero che avevamo con noi. Siamo arrivati al ghetto sotto scorta. Avevamo una stanza, sudicia, e anche la cucina lo era - sudicia. Quelle stanze erano state lasciate da ebrei che se ne erano andati durante una retata dei tedeschi. Abbiamo pulito le due stanze e abbiamo vissuto lì. Ogni giorno mio padre andava a lavorare e io andavo a scuola. Mia sorella andava a un asilo nel ghetto e mio fratello studiava per diventare barbiere nel ghetto. Gli ebrei lettoni ci hanno detto che c era già stata una retata nel ghetto. Ma io non ho potuto crederci finché non ci sono passato io stesso. Le SS spesso picchiano o fucilano chiunque dal lavoro porta a casa pane, burro o altro cibo. Se veniva scoperta, quella persona veniva fucilata, oppure messa in isolamento o punita con percosse. Quando siamo stati liberati, ho visto anche i bunker di Hanover e di Vienna. Se qualcuno scambiava qualcosa durante il lavoro o scappava dal ghetto, veniva fucilato o impiccato. Un ebreo fu impiccato perché era scappato dal campo di concentramento e andato nel ghetto dai suoi parenti. È rimasto appeso per tre giorni, e ogni ebreo del ghetto doveva guardarlo. È stato impiccato sotto la supervisione dell ufficiale delle SS Kreuze, e anche il suo cane era nei paraggi. L ebreo era un uomo grosso, con i capelli neri, le mani legate dietro la schiena, la lingua che penzolava giù e la testa da una parte. È rimasto appeso così per tre giorni, cominciando a puzzare. 67 66 storiae

La sera quando gli ebrei tornavano dal lavoro, dovevano marciare davanti all uomo impiccato e il comandante lo indicava e diceva: «Questo è quello che succederà a ogni ebreo che cerca di scappare». Il 2 novembre 1943 mio padre è partito per andare al lavoro. Ma è tornato a casa e ha detto: «Oggi l aria nel ghetto è pesante. Ci sono molte automobili e molti ufficiali superiori delle SS vicino al comandante. Temo che ci sarà una retata nel ghetto». Mia sorella e mia madre si sono nascoste in cantina, io, mio padre e mio fratello abbiamo aspettato vicino alla porta di casa. Improvvisamente sono arrivate cinque automobili con soldati di cavalleria delle SS. Sono andati in giro nel ghetto dando la caccia a tutti gli ebrei. Nel luogo dell adunata il comandante stava a guardare. Tutti gli ebrei, uomini, donne e bambini sono passati davanti a lui. Ogni ebreo è stato esaminato: i vecchi, i deboli e i bambini sono stati presi nella retata. Anche mia zia e suo figlio furono arrestati. I giovani che non erano stati presi sono andati nella stanza centrale di lavoro e dopo sono stati mandati a casa. Io, mio padre e mio fratello, quando abbiamo visto arrivare le SS, ci siamo nascosti in cantina. Mio fratello è stato trovato da un soldato delle SS ed è stato portato all adunata. È arrivato davanti al comandante e ha detto: «Ho diciotto anni». «Che cosa fai?» gli ha chiesto il comandante. «Faccio il barbiere.» Il comandante ha detto: «A destra, con quelli che sono in grado di lavorare», Mio padre, io, mia sorella e mia madre siamo rimasti in cantina un giorno e una notte. Era molto buio. Nella cantina sentivamo le SS che gridavano: «Venite fuori, voi ebrei. Fuori all adunata!». Io stavo sdraiato sulla paglia e volevo addormentarmi, così non avrei sentito la confusione. Ma avevo paura. Questa era la prima notte della mia vita che non mi riusciva di dormire. La notte durò tanto che pensavo che non sarebbe finita mai. Mio fratello tornò a casa e disse: «Venite fuori, la retata è finita». Pensavo: la retata è davvero finita. Ma la notte che avevo appena passato non era finita. Non posso dimenticare che gli ebrei venivano fucilati per niente. Venivano scortati fino al cimitero e lì erano costretti a stare in piedi con la faccia al muro e da dieci piedi di distanza il comandante sparava. Non lo dimenticherò mai. Nel febbraio 1942, c è stata un altra retata nel ghetto. Agli ebrei era stato detto che dei volontari sarebbero stati mandati agli stabilimenti del pesce a Dinamunde. Ma non furono mandati agli stabilimenti del pesce. Furono fucilati. È stato terribile, perché nessuno sapeva se restare o offrirsi volontario. Il ghetto fu chiuso nel novembre 1943, e noi siamo stati mandati nel campo di lavoro di Obea. Lì mio padre lavorava sul molo e mia madre in una lavanderia. Io e mio fratello spingevamo le carriole. Il lavoro per noi bambini era molto duro. Il nostro segno di riconoscimento nel campo era una stella di David e il numero di prigioniero 13.228. Il 22 aprile 1944 tutti i bambini al di sotto dei dieci anni di età, che non potevano lavorare, furono portati via in macchina e mandati ad Auschwitz. Lì morirono nelle camere a gas e poi furono bruciati. Tornai a casa dal lavoro e cercai mia sorella, ma lei non c era più. lo, mio padre e mia madre abbiamo pianto per giorni e giorni. Pensavo: perché la mia sorellina non dovrebbe vivere? La mia sorellina aveva sette anni quando fu portata via nella retata dei bambini. La mia sorellina era una bella bambina. Aveva dei bei capelli biondi. È un peccato che non abbia più una fotografia della mia sorellina. Tutte le fotografie di mio padre e di mia madre sono state portate via. Se qualcuno portava del cibo - burro o pane - dal gruppo di lavoro, e il capo del campo, il sottufficiale Miller, lo veniva a sapere, quella persona riceveva venticinque colpi sul sedere con un tubo di gomma ed era obbligato, per giunta, a lavorare duramente e quella notte a dormire in cantina. La gente veniva punita per niente. Il corpo di uno che era stato punito era bluastro. Un giorno, il 5 agosto 1944, mentre tutta la gente tornava dal lavoro, lui ha ordinato a tutti gli uomini di presentarsi. Significava che c era un altra retata. La retata era stata ordinata dal capo delle SS Dottor Krebsbach. Tutti gli uomini si dovevano spogliare completamente e lui esaminò attentamente ognuno di loro. I vecchi, gli ebrei malati con delle ernie, e quelli che avevano gli occhiali furono portati via nella retata. Quando mi esaminava avevo molta paura. Pensavo che avrebbe detto: nella retata! Ma io ero di costituzione robusta, e ha lasciato stare me e mio fratello. Quando ebbe finito con gli uomini, ordinò alle donne di presentarsi. Anche le donne dovevano spogliarsi, e lui esaminò ognuna di loro. Annotò i nomi di quelle che erano mandate via nella retata. Io sono stato liberato e anche mio fratello. Ma mia madre non era stata ancora esaminata. Era nella corte dove si svolgeva l esame delle donne robuste. Le donne deboli e quelle anziane venivano portate via nella retata. Ero molto preoccupato per la mamma che non era di costituzione molto robusta. Ci volle molto tempo prima che mia madre tornasse a casa, perché era fra le ultime donne da esaminare. Ma la mamma si presentò con un arla molto decisa e il capo dei soldati del reparto d assalto l ha lasciata andare. Ero molto felice quando ho visto la mamma ritornare libera dalla retata. Un bambino che conoscevo, Wolfgang Katz, di 14 anni, la cui mamma fu presa nella retata - aveva 55 anni - pianse amaramente perché lei morì insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Sua madre lavorava e gli portava sempre qualcosa da mangiare dal suo posto di lavoro. Adesso era storiae 67

rimasto completamente solo. Un ebreo, Joseph Strauss di Cassel, si prese cura di lui e gli dava sempre qualcosa da mangiare in aggiunta alla sua razione. Mio padre fu preso con un po di pane e burro sul molo nel dicembre 1943; fu portato via lontano da noi e mandato nel campo di concentramento di Kaiserwald, dove lavorava molto duramente, e noi si rimase senza il babbo. Si pianse molto perché il babbo non era più con noi. Quando il babbo non era più con noi, mia madre doveva lavorare ancora di più, per darci un po da mangiare - prima lo aveva fatto mio padre. La sera, dopo che era tornata dal lavoro, mia madre lavava sempre dei panni per guadagnare un po più di cibo. Il 25 settembre 1944, quando l Armata Rossa non era lontana da Riga, i tedeschi mandarono noi ebrei al campo di concentramento di Stutthof vicino a Danzica. Durante il tragitto, sul mar Baltico, arrivarono degli aviatori russi e bombardarono tre navi: una nave con le munizioni, una con le provviste e una con i soldati tedeschi. Tre navi furono affondate. Per fortuna non bombardarono la nave su cui eravamo noi ebrei. La nave era molto affollata. C erano più di 3000 ebrei pigiati in poco spazio, e c era pochissima aria. Nessun gabinetto era utilizzabile. La maggior parte degli ebrei ebbe il mal di mare. Ci fu un epidemia di tosse. La sete era così forte che si poteva soffocare. Se qualcuno voleva prendere un po d acqua per sé, veniva colpito alla testa con il calcio di un fucile. Quando arrivammo a Danzica, eravamo sorvegliati con le baionette puntate. Qui prendemmo una piccola nave per Stutthof. Su una nave che poteva portare solo cinquanta persone ce n erano centocinquanta. Per due giorni non ci dettero niente da mangiare. Ma quello non era il peggio. Il peggio era che tutti volevamo dell acqua e non c era niente da bere. A Stutthof ci fu portato via tutto. Ci erano permessi solo gli abiti della prigione che avevamo addosso. Si dovette andare all adunata ed essere contati. Poi ci furono mostrati i nostri dormitori. Quattro persone dovevano dormire su un lettino lungo sei piedi e largo venti pollici. Io ero lì da solo con mio fratello. Mia madre era nel campo delle donne, e io in quello degli uomini. Potevo vedere mia madre solo attraverso un recinto. Quando prendevo un pezzo di pane in regalo perché ero così piccolo, ero solito buttarne con attenzione un pezzo a mia madre al di là del filo spinato. Se una guardiana lo avesse visto, mia madre sarebbe stata picchiata con una cinghia. Una volta una guardiana vide che davo un piccolo pezzo di pane a mia madre. Mia madre fu punita in modo terribile. Li pregai di non picchiare mia madre, ma loro la picchiarono ancora di più. Non volevo separarmi da mia madre. Riuscii a diventare fuochista delle caldaie nello stesso posto dove la mamma lavorava nel negozio da sarto. Il lavoro era duro, ma ero contento perché potevo darle del pane senza paura che venisse picchiata. Ogni giorno, quando tornavo stanco dal lavoro, dovevo ancora andare per tre ore all adunata. E quando l adunata finiva, dovevo ancora correre in giro per cercare di guadagnare un pezzo di pane in più. Non si poteva vivere con la razione. Per un giorno intero si ricevevano a malapena duecento grammi di pane e un quarto di gallone di zuppa acquosa. Eravamo infestati dai pidocchi e per questo molti si ammalarono di tifo, e la maggioranza morì. C erano così tanti malati e morti che nessuno si preoccupava di loro. I malati ricevevano solo metà razione in modo che morissero prima. I morti, sparsi qua e là, erano così tanti che nessuno se ne curava. A tarda sera, dovevamo lavarci sotto una doccia fredda. Lì dovevamo anche immergere i nostri vestiti nel disinfettante, metterli addosso mentre erano ancora bagnati e andare a lavorare. Per questo molti si ammalarono. Ogni giorno ci si doveva alzare alle quattro e mezzo e lavorare come schiavi tutto il giorno. Quando l Armata Rossa giunse non lontano da Stutthof, i tedeschi ci trasferirono di nuovo. Io e mio fratello eravamo molto deboli, perché non eravamo ancora guariti dalla malattia che avevamo preso. Ma non abbiamo detto a nessuno che eravamo deboli. Altrimenti ci avrebbero costretto a rimanere a Stutthof e ci avrebbero bruciato. Marciammo ma non sapevamo per dove. Avevo marciato per trenta miglia quando persi le forze e rimasi disteso in una casa colonica. Ero congelato. Nella casa del contadino c erano dei prigionieri di guerra inglesi. Mi massaggiarono per far muovere dì nuovo le mie mani e i miei piedi. Durante questa marcia, mio fratello ebbe tutte le dita congelate. Non ho mai più visto mia madre perché anche lei fu portata via da Stutthof. In seguito, su un carro tirato da un cavallo, i malati e i deboli furono trasportati al campo dove noi avremmo dovuto andare, Proist, vicino a Danzica. Di 580 bambini ebrei che eravamo rimanemmo in quattordici, tutti gli altri furono mandati a Osweicz nell ottobre del 1944. Lì morirono nelle camere a gas e cremati. Noi quattordici ci salvammo perché si corse alla colonia di lavoro e ci nascondemmo lì lavorando. I tedeschi dissero a noi ragazzini di andare nello stabilimento del pesce a pulire pesce. Ma io mi dissi che preferivo rimanere lì e non pulire il pesce. Quello non era pulire pesce. Era morire bruciati. Più tardi, quando tutti i ragazzi erano partiti, il comandante mi chiese perché non ero andato con gli altri a pulire il pesce dello stabilimento. Gli dissi che io lavoravo al campo. Mi disse: «Qui c è lavoro solo per gli adulti». Al che gli risposi: «Ho già quindici anni e sono capace di lavorare fra gli adulti». Il primo giorno, quando ai ragazzi successe questo, al lavoro avevo molta paura. 68 storiae

Al campo Proist vicino a Danzica la situazione era molto brutta. Per molto tempo non ci dettero pane, solo una minestra due volte al giorno. C era un epidemia di tifo. Molta gente morì. A molte persone si congelarono alcune parti del corpo durante il lavoro. Questi venivano portati in macchina a Stutthof e lì uccisi. Quando l Armata Rossa circondò Danzica, i tedeschi non ci poterono mandare via. Si poteva sentire sparare molto vicino. Una mattina, quando ci svegliammo, non riuscivamo a trovare un solo uomo delle SS. Cercammo e cercammo: ma era vero. Non c era un solo uomo delle SS. La sparatoria diventò molto forte. Noi scendemmo giù in cantina. Il 23 marzo 1945 uscii dalla cantina e vidi i primi due russi. Ero molto felice. Diventai una persona libera. Corsi indietro e gridai agli ebrei: «Venite, venite, i russi sono qui, siamo liberi». Tutti loro corsero dai russi e li baciarono felici. In seguito noi quattordici andammo in un villaggio tedesco. Lì ci mettemmo vestiti tedeschi e prendemmo maiali e vacche per mangiarli. Poi buttammo i tedeschi a calci fuori dalla corte e noi ragazzi abbiamo vissuto lì. Siamo rimasti in quel posto per quattordici giorni. Poi lasciammo Danzica per andare in un ospedale dove fummo ripuliti e disinfettati in modo che le malattie che avevamo al campo non si diffondessero nell ospedale, dove rimasi per tre settimane. Poi andai in macchina al centro di smistamento a Grodenz. Qui rimasi per sei settimane. Poi andai a Riga con alcuni ebrei che conoscevo, Glazer, Sverdlov, Gutkin e Bloch. Adesso vorrei avere i miei genitori e vorrei vivere ancora con loro come prima. Spero tanto che la mia mamma sia ancora viva, e di poterla incontrare di nuovo. Riga, 26 agosto 1945 Werner Galnik La traduzione completa dell opera di Werner è stata pubblicata per la prima volta sulla rivista Jewish Life, vol. 6, 4 aprile 1947, con il titolo Diary of a Ghetto Boy. Dal diario di Janina Heshele, 12 anni, Polonia Janina Heshele aveva quasi dodici anni quando cominciò a scrivere il suo diario il giorno che i tedeschi occuparono Lvov, la città polacca dove viveva. Poco dopo, suo padre fu preso dai 68 nazisti e non tornò più. Lei e sua madre cambiarono nome e cercarono di nascondersi alla Gestapo, ma alla fine furono scoperte e imprigionate nel campo di sterminio di Janowska. Sapendo gli orrori che l aspettavano, Janina pregò sua madre di lasciarle prendere una capsula di cianuro e morire. Ma sua madre rifiutò fermamente di permetterle di suicidarsi. Janina sopportò situazioni terribili a Janowska, ma in seguito, nel 1943, avvenne un miracolo. Un gruppo di prigionieri che erano rimasti molto impressionati dai suoi scritti, e in particolare dalle sue poesie, decisero che il suo talento era così notevole che non potevano permettere che venisse distrutto nei forni nazisti. Riunendo i loro sforzi, riuscirono ad aiutarla a scappare nella parte ariana di Cracovia, dove sopravvisse alla guerra e riuscì a vedere pubblicato il suo diario. Originariamente il diario di Janina era stato pubblicato in polacco da una delle donne che l avevano salvata, Maria Hochberg Marianska, ma oggi il libro non si trova in nessuna biblioteca. 1941-1943 [date sconosciute] Il secondo giorno dell invasione, io e il babbo andammo a vedere Lvov dopo il bombardamento nemico. La città era irriconoscibile; i negozi erano stati distrutti e saccheggiati dalla gente. Le case erano decorate con bandiere blu e gialle. Automobili e biciclette ornate con fiori giravano per le strade, con i loro conducenti e i loro compagni passeggeri esultanti. Il babbo, accorgendosi che era in grave pericolo, mi baciò e disse «Yanya, ormai sei cresciuta e d ora in avanti devi essere indipendente, del tutto autosufficiente. Non fare caso a quello che gli altri dicono o fanno. Sii forte e molto coraggiosa». Mi baciò di nuovo e stava per separarsi da me quando cominciai a capire che cosa sarebbe successo e mi misi a piangere. Ma il babbo disse con fermezza «Se mi ami, lasciami. Sii coraggiosa. Non piangere mai. Piangere è degradante. Torna a casa subito e lasciami qui». Detti al babbo un ultimo bacio. All angolo della strada guardai indietro e vidi che mi rimandava un bacio con la mano. [Il padre di Janina viene preso nella retata dei condannati e non torna più. Janina va a vivere in un sotterraneo e prende un nome polacco.] Un giorno venne a trovarmi una strana donna. Pensavo che avesse un messaggio da Yadjah [un amica cristiana], ma non era così. Mi disse «Sono al servizio della Gestapo. Il tuo nome è Janina Heshele, ma ti fai passare per Lydia Wirischinska. Se non mi porti 5000 fiorini per le cinque, verrai mandata a morire nel campo di Janowska». Corsi a informare mio zio, e lui comunicò il messaggio alla mamma. La mamma sapeva per intuito che la donna era una strozzina. Dopo una breve contrattazione, la «signora» andò via con 100 fiorini. [Janina e sua madre si nascondono ma vengono prese.] Fummo portate in prigione e spinte in una cella storiae 69

piccola, affollata, dove trovammo sessanta persone rannicchiate sul pavimento, una sopra l altra. Quando fummo spinte dentro qualcuno borbottò rabbiosamente «Un altra aringa!». Un altro rispose «Due in una». La mamma non permise che mi sdraiassi sul pavimento, e si rimase in piedi per tutto un giorno e una notte. Al mattino vennero portati del caffè e del pane. Tutti dovevano pagare per il mangiare e il bere. Ma la mamma ed io non potevamo inghiottire il nostro cibo. Sebbene fosse il mese di febbraio, la cella era calda e puzzolente. Nell angolo c era un secchio rotto dove le donne e gli uomini facevano i loro bisogni. Non avevo più la forza di stare in piedi, ma la mamma non voleva che mi sdraiassi per paura che fossi contagiata dai pidocchi. Io ho litigato con lei, dicendo che volevo prendere il tifo, perché non potevo sopportare di vivere più a lungo. Mi sdraiai sul pavimento. Anche la mamma si sdraiò, ma dato che non c era posto per tutte due, mi fece sdraiare sopra di sé. Arrivò il giorno della deportazione. Sapevamo che la nostra fine era vicina. L attesa era insopportabile. Desideravamo farla finita. Sapevamo di essere condannate. Persi completamente il controllo di me stessa e piansi a dirotto. Non avevo tanto paura della mia morte, e neppure della fucilazione dei bambini, ma era troppo forte il terrore di vedere dei bambini bruciati vivi. Alcuni pregavano e salmodiavano in ebraico. Alcuni di noi pregavano di essere fucilati subito. La mamma mi calmò e promise che mi avrebbe bendato gli occhi all inizio delle sparatorie. Mi sentii più tranquilla e mi unii al canto con le altre vittime. Verso le tre del mattino arrivò un poliziotto e chiese alla mamma di uscire con lui. Chiese se c era una bambina con lei. Andammo insieme fuori nel corridoio e fummo portate in un altra celletta. Ci fu proibito di parlare a voce alta e non potevamo neppure starnutire. Il sabato, alle sette di mattina, arrivò un automobile per trasferire quelli condannati a morte... Sistematicamente, cinque di noi venivano portati nel sottosuolo, dove sentivamo degli spari. Noi ci salvammo. Quando ci portarono fuori e respirai l aria fresca, caddi per terra come se fossi intossicata. [Janina si ammala di tifo e viene portata nell ospedale dove lavora sua madre.] La mamma, che era molto pallida, stava a letto. Mi sdraiai vicino a lei e le chiesi «Perché sei così avvilita? Io sono ancora viva». Lei rispose «Non m importa di quello che succede a me. Ho una compressa di veleno che darà una morte istantanea. Ma che ne sarà di te?». Scoppiò in forti singhiozzi, mi implorò: «Anula, risparmiami altre angosce. Vai via. Non ti voglio vicino a me. Non voglio vedere che cosa ti succederà». Ma io mi rifiutai, dicendo «Per che cosa devo vivere? Senza documenti non posso vivere da sola. Mamma, vuoi prolungare la mia agonia? Non è meglio metter fine alla mia vita una volta per tutte? Voglio morire con te, fra le tue braccia. Perché continuare a vivere?». La mamma mi implorava: «Devi continuare a vivere! Devi vivere per vendicare la morte del babbo e la mia!». La lotta con la mamma mi lasciò senza forza. Non potevo guardare la faccia della mamma perché durante la notte era diventata una rete di rughe. Assomigliava alla nonna. Potevo sentire forte i battiti del suo cuore. Mi arresi a condizione che mi desse una pillola di cianuro di potassio, ma si rifiutò. Mi dette 2700 fiorini, mi accompagnò all uscita e mi sussurrò «Fatti coraggio per amore di tua madre». Comincio a capire perché i miei compagni di sventura vanno a morire senza opporre resistenza. Ho perso il desiderio di vivere e provo un profondo disgusto per la vita... Un giorno prima del Capodanno ebraico tutti i pazienti malati furono mandati alla camera della morte. Urland, il poliziotto, ci disse a voce alta «Auguro a tutti un nuovo anno di libertà». Tutti noi, Urland incluso, si pianse... A tavola sedeva la signora Jacobowitz, che aveva acceso due candele che le stavano davanti. Intorno le si affollavano delle donne che si scambiavano gli auguri di buon anno piangendo forte. Con calma, la signora Jacobowitz ricambiò gli auguri a tutte. Non potevo sopportare di essere presente a quella scena e uscii. Un giorno prima del grande digiuno [Giorno dell Espiazione], organizzammo una festa con canti e balli senza allegria. Urland preparò per ognuno di noi un pasto con minestra, due fette di pane e una mela. Quando tornammo ai nostri dormitori, si era fatta notte. Le donne accesero le candele e accolsero lo Yom Kippur con le benedizioni appropriate, accompagnate da lacrime abbondanti. Io guardai da vicino le candele, gli aloni che circondavano gli stoppini che bruciavano e d improvviso ebbi la profonda intuizione che, nonostante tutto, Dio è ancora con noi. Egli vede come Gli siamo grati per essere vivi, nonostante gli orrori intorno a noi. Credevo che alla fine non avrebbe lasciato che i pochi resti di Israele venissero cancellati. Stavo sdraiata nella mia cuccetta e mi chiedevo «Devo digiunare?», Ero dubbiosa. Digiunare era un rituale religioso ebraico e io sono ebrea. Non volevo pensare troppo, perché sentivo che, se lo avessi fatto, avrei riaffermato la mia incredulità in Dio. Ero persuasa che la fede in Dio porta con sé la speranza di vivere. Decisi di digiunare... Dalle docce i prigionieri vanno a mangiare. Sulle tavole ci sono pentole di minestra, ma nessuno ne assaggia una cucchiaiata. Dieci uomini [un quorum religioso per la preghiera] entrano. Urland apre la porta, e gli ebrei cominciano il rituale delle preghiere. Alcune donne tirano fuori dei fogli di carta - resti di libri di preghiere - e declamano lo Yizkor [il servizio di commemorazione dei morti]. Altre ripetono dopo di loro, e tutte piangono insieme. Ma per quanto mi riguarda, i miei dubbi si risvegliano e mi riassalgono. Perché dovrei digiunare? Dio esiste davvero? I miei 70 storiae

dubbi precedenti ritornano e distruggono la mia fede di un tempo. L inverno è arrivato, feroce e massacrante. Sono fredda come il ghiaccio e non riesco a dormire. I miei protettori mi danno la forza per andare avanti e mi consolano dicendo che per ora troverò salvezza nella parte ariana di Cracovia. Non riesco a convincermi a credergli. Tutta l umanità è egoista. Pensano prima a se stessi e al loro benessere. Non ho più forza per continuare, per sperare, per vivere. Ma nelle mie orecchie c è ancora l eco delle ultime parole di mia madre. «Vai avanti, non disperare, per amore di tua madre.» Solo queste parole tengono accesa in me la scintilla della vita. Janina Heshele Il diario è stato pubblicato in polacco da una delle donne che aveva salvato Janina, Maria Hochberg Marianska, oggi però il libro non si trova in nessuna biblioteca. Un parte del diario di Janina è stato tradotto in ebraico e poi in inglese e pubblicata nel libro di Azriel Eisenberg, The Lost Generation: Children in the Holocaust, Pilgrim Press, New York 1982. 69 Dal diario di Helga Kinsky-Pollack, 13 anni, Austria Nata a Vienna nel 1930, 70 Helga Kinsky-Pollack fu deportata all età di tredici anni nel campo di concentramento di Terezín (in quella che è oggi la Repubblica Ceca). Fu separata dai genitori e patì condizioni disumane, la fame, la malattia, e il sovraffollamento. Da Terezín, Helga fu mandata ad Ausckwitz e costretta a lavorare molto duramente nel campo di concentramento di Flossenbürg. Infine, poco prima della liberazione, fu rimandata a Terezín. Helga sopravvisse a tutto questo e riuscì a conservare il diario che aveva scritto durante la prima prigionia a Terezín. Quelle che seguono sono alcune annotazioni scritte nel 1943, che sono state tradotte in inglese e pubblicate nel libro dedicato a Terezín nel 1965. Martedì 16 marzo 1943... sono andata a trovare mio zio nelle baracche Sudeten, ho visto gettare delle bucce di patate e dieci persone buttarsi su quel piccolo mucchio e lottare per quelle bucce... Venerdì 2 aprile 1943 Questa giornata è stata piena di gioia. I tedeschi ammettono le loro perdite al fronte. Questo pomeriggio mi sono trasferita in un altro lettino nella fila in fondo, vicino a Ella Steiner. Sono felice. Avevo una vicina antipatica, Marta Kenderová, che mi rimproverava sempre se mi sedevo sul suo lettino... Martedì 6 aprile 1943 Domani viene l SS Guenther e nessun bambino potrà uscire per strada domani. Il babbo non lo sa e per stasera sarò morta di fame... Mercoledì 7 aprile 1943 Oggi ho sentito la mancanza del babbo, ma non mi sono lasciata andare alla tristezza perché altri bambini non potevano vedere i loro genitori e non li vedranno per tutto il giorno. Sabato 10 aprile 1943 Non ci è permesso uscire dalle baracche. Non si può andare nella strada senza permesso e i bambini non possono averlo. Dicono che questo può durare una settimana e persino vari mesi. Pensavo che non avrei visto il babbo per molto tempo, invece è venuto a tro- storiae 71

varmi due volte. Sembro un uccello in gabbia. Tutto questo succede perché due prigionieri sono scappati dal ghetto... Giovedì 6 maggio 1943 È terribile qui a Terezín. Una vera e propria torre di Babele. Ci sono tedeschi, austriaci, cechi, olandesi, alcuni francesi, conosco persino una ragazza finlandese, ecc. Ci sono ariani, ebrei e nati da matrimoni misti. Vicino alla mia cuccetta c era una ragazza, Antonie Michalová, con la quale il destino è stato crudele. E arrivata tre settimane fa da Brno; suo padre è ariano e sua madre ebrea. È completamente sola, abbandonata e non si sente a suo agio in un ambiente ebreo. Piange quasi tutto il giorno. A suo padre è stato permesso di accompagnarla a Praga dove, a quanto racconta la ragazza che è venuta con lei, la separazione è stata terribile. Sabato 31 luglio 1943 Questo è il secondo giorno che dormo nel corridoio a causa delle cimici. Noi ragazze, in sette abbiamo dormito fuori e tutte siamo state morse. Abbiamo il permesso di dormire in giardino, perché nel corridoio è impossibile. Spruzzarsi di Flit non è servito a niente. Oggi ho acchiappato sei pulci e tre cimici. Non è una buona caccia? Non ho neppure bisogno di un fucile e subito ho pronta la cena. Un topo ha dormito nella mia scarpa. Walter, il capo della nostra baracca, lo ha ucciso. Adesso vado a piantare una tenda per la notte con Ella ed Irca. Giovedì 26 agosto 1943 In questo momento è terribile qui. C è molta tensione fra i ragazzi più grandi e più maturi. Verranno deportati in un altro ghetto - nell ignoto. E c è dell altro, arriveranno stanotte 1500 bambini. Vengono dalla Polonia. Stiamo facendo per loro dei giocattoli, piccole borse e lavori a maglia. Ho la diarrea. Di ventisette bambini, diciannove hanno la diarrea e sedici sono a letto malati. Due gabinetti per cento bambini non sono sufficienti quando c è la diarrea infettiva in ogni «casa»... Che cosa sono quei gabinetti!!! Venerdì 2 7 agosto 1943 I bambini sono arrivati questa mattina alle tre. Sono pieni di pidocchi. Hanno solo ciò che indossano. Stiamo raccogliendo delle cose per loro. Sabato 4 settembre 1943 Domani caricano il convoglio. Finora della nostra stanza solo Zdenka andrà via. Li mandano in vari gruppi. Zdenka si sta comportando coraggiosamente. Domenica 5 settembre 1943 È stata una giornata campale, ma adesso è finita. Sono già nella «slojska». Della nostra stanza vanno via Pavla, Helena, Zdenka, Olila e Popinka. Tutti hanno dato qualcosa a Zdenka, è una creatura così disgraziata! Le ho dato mezza pagnotta di pane, della carne in scatola, del tè al tiglio e dello zucchero. Il suo babbo è venuto a impacchettare le sue cose e Zdenka gli ha dato del pane, zucchero e un pomodoro. Lui non voleva prendere quelle cose, ma lo abbiamo obbligato e gli abbiamo detto che porteremo altro cibo a Zdenka. Lui ha pianto e ha ringraziato i bambini e gli assistenti per le cure prestate a Zdenka. Piangevamo tutti. Suo padre, sua madre e suo fratello non avevano neppure un pezzo di pane. Li abbiamo sistemati in modo che, dall avere niente, in poco tempo avevano una valigetta e una piccola borsa piene di cibo. Alle sei del pomeriggio hanno chiamato per il trasferimento. Ognuno in un posto diverso. La separazione è stata dura. Dopo le sei di sera sono andata a cercare Zdenka. Stava seduta sul suo bagaglio e piangeva e rideva allo stesso tempo, era così felice di vedere qualcuno prima di partire. Ho dormito tutta la notte, ma ho fatto sogni terribili e al mattino avevo gli occhi cerchiati. Lunedì 6 settembre 1943 Mi sono svegliata alle sei per vedere ancora Zdenka. Quando sono arrivata alle baracche Hamburg le ultime persone stavano attraversando i cancelli sul retro e salendo sul treno. Tutto era chiuso intorno con assi in modo che nessuno potesse andare da loro e loro non potessero scappare via. Le ho saltate, e sono corsa a raggiungere le ultime persone che stavano attraversando i cancelli. Ho visto il treno che stava partendo e, in una delle vetture, Zdenka che se ne andava. Helga Kinsky-Pollak Brani scelti dal diario di Terezin della dodicenne Helga Kinsky di Vienna, in Terezin, a cura di Frantisek Ehrmann, Otta Heitlinger e Rudolf Iltis, Concilio delle Comunità Ebraiche i Cecoslovacchia, Praga 1965, pp. 103-105. Dal diario di Eva Heyman, 13 anni, Ungheria Eva Heyman, una ragazzina ebrea che viveva con la sua famiglia in Ungheria, cominciò a tenere il suo diario il giorno del suo tredicesimo compleanno, nel 1944, mentre assisteva 71 all invasione del suo paese da parte delle truppe di Hitler. Sapendo quello che succedeva a Budapest, che chiamava affettuosamente «Pest», poteva capire che le incursioni aeree e la grande persecuzione degli ebrei 72 storiae

avvenivano a una distanza di pochi giorni da Nagyvárad, la città in cui viveva e che chiamava con il suo diminutivo, «Várad». Dato che la famiglia di Eva era molto attiva politicamente, si attendeva il peggio. E fu quello che successe. Eva fu uccisa ad Auschwitz nell ottobre del 1944 insieme ai suoi nonni. Mariska, l affezionata e fedele domestica cristiana di Eva, tenne il suo diario al sicuro dopo che lei fu deportata nel campo di sterminio. Infine lo dette alla mamma di Eva, Agi Zsolt, che era stata internata a Bergen-Belsen e poi liberata e mandata in Svizzera. Tre anni dopo la fine della guerra, Agi si adoperò per far pubblicare il diario di sua figlia. Poi, sopraffatta dal dolore, si suicidò. Accanto al suo corpo fu trovata una fotografia di Eva. Eva aveva più volte predetto la propria morte. Da quando i nazisti avevano sparato alla sua migliore amica, Marta, uccidendola, era sempre stata convinta che, per quanto volesse disperatamente vivere, i nazisti avrebbero ucciso anche lei. Il suo diario, che chiamava «il mio migliore amico», le dette il coraggio di continuare a vivere affrontando la morte ogni giorno. 31 marzo 1944 Oggi è stato dato l ordine che d ora in poi gli ebrei portino addosso un pezzo di stoffa gialla a forma di stella. L ordine dice esattamente quanto deve essere grande la stella e che deve essere cucita su qualunque indumento esterno, giacca o cappotto. Quando la nonna lo ha saputo ha cominciato di nuovo ad agitarsi e noi abbiamo chiamato il dottore. Le ha fatto un iniezione. Ora dorme. La nonna non sa ancora che i telefoni sono stati tagliati. Agi voleva telefonare al dottore, ma non ha potuto. Allora il nonno le ha detto che agli ebrei è stato tolto il telefono, e che sarebbe andato a prendere il dottore. 1 aprile 1944 Siamo gli unici nel quartiere che non sono stati ancora buttati fuori dalla propria casa. Finché non entra in vigore l ordine di indossare la stella, mi trasferisco nella casa di Anikó. Ora la nonna Rácz ha i suoi attacchi molto spesso. Quando succede, io mi metto a tremare, e Agi non vuole che li veda. La zia Bora oggi era qui e ha chiesto ad Agi se posso stare con Anikó perché Anni è così triste, praticamente in uno stato di depressione. Dio, oggi è il primo di aprile; a chi dovrei fare degli scherzi? Chi pensa più a queste cose? Caro diario, presto vado a casa di Anikó e mi porterò la valigetta che mi ha preparato Mariska e il mio canarino in gabbia. Ho paura che Mandi muoia se lo lascio a casa, perché adesso tutti pensano ad altre cose e sono preoccupata per lui. È un così caro uccellino. Ogni volta che mi avvicino alla sua gabbia se ne accorge subito e comincia a cantare. Mariska mi porterà dagli Anikó, perché è ariana e con lei per strada è più sicuro. Caro diario, ti sto portando a casa di Anikó. Non ti preoccupare, non resterai solo; tu sei il mio migliore amico. 7 aprile 1944 Oggi sono venuti per la mia bicicletta. Sono stata quasi la causa di una grande tragedia. Vedi, caro diario, avevo terribilmente paura solo per il fatto che i poliziotti erano venuti in casa. So che i poliziotti non portano che guai dovunque vadano. La mia bicicletta aveva la piastrina di autorizzazione giusta e il nonno aveva pagato la tassa per averla. È così che i poliziotti l hanno trovata, perché è registrato in municipio che io ho una bicicletta. Ora che è tutto finito, mi vergogno molto di come mi sono comportata davanti ai poliziotti. Dunque, caro diario, mi sono buttata per terra, tenendo la ruota di dietro della mia bicicletta, e urlavo ogni genere di cose ai poliziotti: «Vergogna, portare via la bicicletta a una bambina! Questo è un furto!». Avevamo risparmiato per un anno e mezzo per comprare la bicicletta. Avevamo venduto la mia vecchia bicicletta, il mio corredino e il vecchio cappotto del nonno e aggiunto i soldi che avevamo messo da parte. I nonni, Juszti, gli Agi, la nonna Lujza e il babbo avevano tutti contribuito per comprare la mia bicicletta. Non avevamo ancora l intera somma, ma Hoffmann non ha venduto la bicicletta a nessun altro, e ha detto persino che potevo portarla a casa. Il babbo avrebbe pagato, o il nonno. Ma io non potevo portare a casa la bicicletta finché non avessimo avuto tutto il denaro. Ma nel frattempo correvo al negozio ogni volta che potevo e guardavo per controllare se quella bicicletta rossa era ancora lì. Quando finalmente ci fu tutta la somma, come rise Agi quando glielo raccontai! Andai al negozio e portai la bicicletta a casa, solo che non ci andai sopra, ma la portai a mano, come si tratta un bel cane di grossa taglia. Guardavo la mia bicicletta con ammirazione, e le detti persino un nome: Venerdì. Ho preso il nome da Robinson Crusoe, ma va bene per la bicicletta. Prima di tutto perché la portai a casa un venerdì e poi perché Venerdì è il simbolo della fedeltà, dato che lui era così fedele a Robinson. Ero convinta che la bicicletta Venerdì sarebbe stata fedele a «Eva Robinson» e avevo ragione, perché per tre anni non mi ha dato nessun problema, cioè non si è mai rotta e non c è stata nessuna spesa di riparazione. Anche Marica e Anni hanno dato un nome alle loro biciclette. Quella di Marica è stata chiamata Cavallino e quella di Anni, Berci, solo perché è un nome così buffo. Uno dei poliziotti era molto seccato e ha detto: «Manca solo che una bambina ebrea faccia una scena del genere quando portiamo via la sua bicicletta. Nessun bambino ebreo ha più diritto ad avere una bicicletta. Gli ebrei non hanno diritto neanche al pane; non dovrebbero ingozzarsi di tutto, ma lasciare il cibo ai soldati». Puoi immaginarti, caro diario, il storiae 73

mio stato d animo mentre mi dicevano in faccia queste cose. Avevo sentito qualcosa del genere solo alla radio, o lo avevo letto in un giornale tedesco. Però è diverso quando leggi qualcosa e quando ti viene sbattuto in faccia. Specialmente se succede quando stanno portando via la mia bicicletta. Che cosa pensa veramente quel cattivo poliziotto? Che abbiamo rubato la bicicletta? L abbiamo comprata in contanti da Hoffmann, e il nonno e tutti gli altri hanno lavorato per avere quei soldi. Comunque sai, caro diario, credo che l altro poliziotto si sia dispiaciuto per me. Dovresti vergognarti di te stesso, collega, ha detto, hai il cuore di pietra? Come puoi parlare così a una ragazzina tanto carina? Poi mi ha accarezzato i capelli e ha promesso di prendersi cura della mia bicicletta. Mi ha dato una ricevuta e mi ha detto di non piangere perché alla fine della guerra avrei riavuto indietro la mia bicicletta. Alla peggio avrà bisogno di alcune riparazioni da Hoffmann. Agi ha detto che questa volta siamo stati fortunati, ma che la prossima dovremo lasciargli prendere tutto quello che vogliono. In ogni caso non ci si può far niente, e noi non avremmo dovuto lasciar vedere a queste canaglie puzzolenti quanto si soffriva. Comunque non la capisco. Che ci importa se sanno o no che soffriamo. Non è difficile capire che, quando tutto quello che possiedi ti viene portato via e che presto non avrai neppure il denaro per comprare il cibo, si soffre. Ma che importa? 9 aprile 1944 Oggi hanno arrestato mio padre. Sono andati da lui di notte e hanno messo i sigilli alla sua porta. Da molti giorni ormai abbiamo saputo che alcune centinaia di persone sono tenute prigioniere nella scuola in via Koros, ma finora hanno preso solo le persone molto ricche. Ho saputo dalla zia Lili che il babbo è stato portato via e rinchiuso nella scuola elementare di via Koros. La zia Lili era terribilmente agitata. La nonna Lujza l ha mandata da noi perché ha saputo che è possibile portare il pranzo al babbo e vogliono che sia io a portargli il cibo, perché, se lo portano degli adulti, i poliziotti non permettono loro di avvicinarsi, oppure fanno finta che sia successo un incidente e che il cibo si sia rovesciato per terra, mentre il prigioniero fa la fame! A mezzogiorno il pranzo era pronto. Ho preso della minestra di patate, polpette con la zucca e una torta Linz. Per strada molte persone mi hanno fermato per chiedermi se il nonno era in prigione e se gli stavo portando il pranzo. Ho detto: «No, lo sto portando a mio padre». Ma ero molto spaventata, perché dalle loro domande mi è venuto in mente che anche il nonno può essere messo in prigione e allora non so davvero che cosa sarà di noi, che cosa farò con la nonna Rácz e Agi. Dal ponte vedevo già una folla aspettare in piedi davanti all edificio della scuola elementare di via Kórós. Quando sono arrivata li, ho visto che conoscevo quasi tutti. A quanto sembra, la nonna Lujza aveva ragione quando diceva che è meglio sia un bambino o una bambina a portare da mangiare. Una folla di bambini e bambine aspettava in piedi davanti alla scuola, portando d i contenitori di cibo. Mentre aspettavo di entrare, ho scoperto che il babbo era tenuto in ostaggio. Mentre aspettavamo, la zia Agi mi ha spiegato che ostaggio significa pegno, cioè mio padre è diventato un pegno; solo che non capisco come un essere umano possa essere un pegno. Alla fine mi hanno lasciato andare dentro da mio padre. La maggior parte di quei pegni stava seduta per terra nel cortile. Quelli malati stanno sdraiati in classe sul pavimento nudo. Il babbo ha detto che non era così terribile, ma che era noioso e scomodo perché non c era posto per stare seduti da soli, e non aveva voglia di parlare con nessuno, così non poteva far altro che camminare avanti e indietro nel cortile della scuola elementare. Quando l ho lasciato, mi è venuto in mente che quando andavo alla scuola elementare, noi bambini stavamo dietro il cancello e i genitori aspettavano fuori del recinto per portarci a casa dopo la scuola. Ora soltanto degli adulti, persino dei vecchi stanno dentro il recinto della scuola, e noi bambini siamo fuori. Non si può negarlo: il mondo è sottosopra. 10 aprile 1944 Ho scoperto solo poco fa, caro diario, che a Mariska è stato ordinato di lasciarci entro il 15 aprile. Gli ebrei non possono avere aiuto domestico. Mi dispiace tanto che Mariska ci lasci. È veramente tanto buona con me, specialmente quando la nonna ha i suoi attacchi. Naturalmente, ora avremo un sacco di lavoro. Il punto è che la nonna lavora in continuazione, ma fa sempre le stesse cose. Per esempio, lava il pavimento della veranda quindici volte, o pulisce la stessa finestra per tre volte, ma non si ricorda della polvere in salotto. Agi non conta, perché riesce appena a stare in piedi e anche quando sta bene è del tutto incapace. Agi non capisce davvero niente riguardo al mandare avanti una casa. Lo zio Béla dice che sa risparmiare e che anche quella è una buona qualità. 18 maggio 1944 La notte scorsa, caro diario, mi è successa la stessa cosa che era successa a Marica. Non riuscivo a dormire e ho sentito quello che dicevano gli adulti. All inizio sentivo solo Agi e lo zio Bándi Kecskeméti, che sanno tutto dall ospedale. Dicevano che allo stabilimento Dreher la gente non viene solo picchiata, ma gli fanno anche l elettroshock. Agi piangeva mentre lo raccontava, e se non lo avesse raccontato lei, avrei pensato che tutto era semplicemente una storia di un terribile incubo. Agi ha detto che dal Dreher la gente viene portata all ospedale sanguinante dalla bocca e dalle orecchie, e alcuni di loro con dei denti mancanti e le piante dei piedi così gonfie che non 74 storiae

riescono a stare in piedi. Caro diario, Agi ha raccontato anche altre cose, come quello che i gendarmi fanno alle donne, dato che anche le donne vengono portate lì, cose che sarebbe meglio non scrivessi qui. Cose che non riesco a esprimere con le parole, anche se tu sai, caro diario, che per te non ho avuto finora nessun segreto. Ho sentito addirittura - ma questa volta era il nonno che lo raccontava, al buio - che qui nel ghetto ci sono molte persone che si suicidano. Nella farmacia del ghetto c è veleno a sufficienza, e il nonno ha detto che sarebbe meglio prendere del cianuro e darne un po anche alla nonna, Sentendo questo Agi ha cominciato a piangere. L ho sentita che si trascinava per terra al buio fino al materasso del nonno e e gli diceva piangendo: Pazienza, caro babbo, questo non può durare a lungo! Anche la nonna ha detto: io non voglio davvero morire, perché forse vivrò ancora tanto da vedere un mondo migliore, e tutti quelli che ora sono così disumani e cattivi saranno puniti. 29 maggio 1944 E così, caro diario, ora è davvero arrivata la fine di tutto. Il ghetto è stato diviso in blocchi e saremo tutti portati via da qui. 30 maggio 1944 Quelli del blocco uno sono stati portati via ieri. Tutti dovevano essere nelle loro case nel pomeriggio. Siamo stati chiusi qui per tanto tempo, ma ora non possono più uscire neppure quelli con i permessi speciali. Sappiamo anche che possiamo portare uno zaino ogni due persone. È proibito metterci più di un cambio di biancheria; niente coperte e materassi. Corre voce che il cibo sia permesso, ma a chi è rimasto del cibo? I gendarmi hanno preso il cibo di tutti gli altri quando hanno preso il nostro. Il silenzio è tale che si può sentire ronzare una mosca. Nessuno piange. Non ci preoccupiamo neppure del fatto che solo il nonno e lo zio Béla possono prendere uno zaino. Caro diario, tutti dicono che andremo a stare in Ungheria; da tutto il paese gli ebrei vengono portati nella zona del lago Balaton, dove lavoreremo. Ma io non ci credo. Probabilmente quel treno merci è terribile e ora nessuno dice che veniamo portati via, ma che ci deportano. Non ho mai sentito prima questa parola e ora Agi dice allo zio Béla: Béluska, non capisci? Veniamo deportati! C è un gendarme che cammina avanti e indietro davanti a casa. Ieri sera era nel Rédey Park, da dove vengono deportati gli ebrei. Non dalla vera stazione ferroviaria, perché allora tutta la città lo vedrebbe, dice il nonno. Come se alla città importasse qualcosa. Se gli ariani avessero voluto, avrebbero potuto evitare che noi si fosse messi nel ghetto. Ma loro ne erano addirittura contenti, e anche ora non si preoccupano di quello che ci capita! Quel gendarme davanti a casa, che lo zio Béla definisce gentile, perché non ci strilla mai e nemmeno parla con familiarità alle donne, è venuto in giardino e ci ha detto che dovrà lasciare la gendarmeria, perché quello che ha visto a Rédey Park non è uno spettacolo per esseri umani. Hanno stipato ottanta persone in ogni carrozza e per così tante persone non hanno dato altro che un secchio d acqua. Ma quello che è ancora più terribile è che chiudono le carrozze con dei catenacci. Con questo caldo terribile soffocheremo là dentro! Il gendarme dice che non capisce questi ebrei: neppure i bambini piangevano, erano tutti come degli zombie, come dei robot. Entravano nella carrozza così meccanicamente, senza fare un rumore. Il gendarme gentile non ha dormito per tutta la notte, anche se, ha detto, di solito si addormenta appena la testa tocca il cuscino. Era uno spettacolo così terribile che neppure lui riusciva ad addormentarsi, diceva. E, dopotutto, è un gendarme! Agi e lo zio Béla stavano dicendo a bassa voce qualcosa riguardo al rimanere qui in qualche tipo di ospedale per il tifo, perché pensano di dire che lo zio Béla ha la febbre tifoidea. È possibile, perché, quando era in Ucraína, l aveva. Tutto quello che so è che non credo più in niente, penso solo a Marta e ho paura che quello che è successo a lei succederà anche a noi. È inutile che tutti dicano che non andiamo in Polonia, ma al Balaton. Nonostante tutto, caro diario, io non voglio morire; voglio vivere anche se questo significa che sarò l unica persona a cui sarà permesso rimanere qui. Aspetterei la fine della guerra in una cantina, sul tetto, o in qualche luogo nascosto. Permetterei persino che il gendarme strabico, quello che ci ha portato via la nostra farina, mi baciasse, solo che non mi uccidano, solo che mi lasciassero vivere. Ora vedo che il gendarme gentile ha lasciato entrare Mariska. Non posso più scrivere, caro diario, ho gli occhi pieni di lacrime, corro da Mariska... [Fine del diario] Eva Heyman (NB foto a p. 152 bis) Il suo diario fu pubblicato per la prima volta in lingua ungherese. Non si conosce il luogo dove è depositato il manoscritto originale. Nel 1964 fu pubblicato in ebraico dallo Yad Vashem in Israele e poi tradotto in inglese da Moshe M. Kohn e pubblicato dallo Yad Vashem a Gerusalemme nel 1974, con il titolo The Diary of Eva Heyman. Edizione americana: Shapolski Publishers, New York, 1974 e 1988. Dal diario di Tamarah Lazerson, 13 anni, Lituania Nel 1941 la tredicenne Tamarah viveva con i suoi genitori a Kovno, in Lituania, quando i nazisti occuparono la sua città. Suo padre, uno psichiatra, la convinse a tenere un diario degli eventi storici di cui era testimone. 72 storiae 75

Nell agosto 1941, gli ebrei di Kovno furono costretti a trasferirsi in un ghetto. Duemila intellettuali furono uccisi immediatamente e quattromila persone furono costrette ai lavori forzati. Alla fine l intero ghetto di 30000 ebrei fu completamente dato alle fiamme e Tamarah fu separata dai suoi genitori. Riuscì a sfuggire ai nazisti, ma era così provata dalla guerra e dalla perdita dei genitori che non aveva più desiderio di vivere. Si considerava un orfana, e infatti la morte di ambedue i genitori fu in seguito confermata. Nel maggio del 1945 i nazisti si arresero e Tamarah ricominciò a sperare e a ritrovare la sua voglia di vivere. Concluse il suo diario nel settembre di quell anno con un proponimento: «aprire una nuova strada per me stessa nel futuro». Tamarah riuscì a portare a termine i suoi studi di chimica e sposò un compagno di studi. 14 dicembre 1942 Per caso sono stata arruolata in un battaglione di lavoro ebraico. Con mia sorpresa le conversazioni si concentravano su come contrabbandare «pacchi» nel ghetto, nonostante la minaccia di punizioni severe. La nostra gente mette in pericolo la propria vita per avere del cibo. Nascondono i loro acquisti sotto i vestiti e li fanno passare di nascosto dal cancello o dal recinto del ghetto. Anche se vengono perquisiti, ce la fanno in qualche modo. Siamo un popolo notevole, indistruttibile. Nessun decreto o bando ci spezzerà. Dichiaro che questo popolo non sarà mai distrutto nonostante la sua indescrivibile sofferenza. 20 maggio Sono molto contenta di me stessa. Mi sembrava di essermi smarrita e di aver vagato senza meta... E ora finalmente ho trovato uno scopo nella mia vita. Non sono più disperata, una persona senza una patria e senza un popolo. No! Ho trovato uno scopo: lottare, studiare, dedicare la mia energia ad aumentare il benessere della mia gente e della mia patria. Sono orgogliosa di questo. Non sono più cieca: Dio e il destino mi hanno aperto gli occhi. Vedo ora che i miei scopi nella vita erano falsi, e ho rimediato. Il cuore mi dice che sono sulla strada giusta. Credo che non sarò più cieca di nuovo. Evviva! Lunga vita alla nostra patria, alla nostra speranza e alla nostra fede... 15 agosto Sto lavorando nel negozio di un sarto e continuo i miei studi di ebraico. Sono assorbita dalla vita culturale del ghetto. Molti giovani partecipano e sono desiderosi di imparare. Meritano di essere lodati. Anch io prendo parte a tre circoli di studio e sono contenta. Come si poteva prevedere, ci sono due tipi di giovani nel ghetto. Alcuni sono pieni di amore e di desiderio per Eretz Ysrael e per tutto quello che implica l ideale sionista. Sono desiderosi di imparare e perseguono attività idealistiche, di grande significato. Gli altri sono senza freni e completamente dediti alla soddisfazione dei loro desideri smodati. Questo è assolutamente disgustoso e per me molto doloroso a vedersi. Sono dei degenerati. 73 8 settembre Sono occupata più che mai e ho poco tempo per scrivere. Ora faccio parte di quattro circoli di studio, e ne dirigo due. Sono impegnata in un lavoro importante. Io e Celia ci siamo affezionate ai poveri bambini di Zezmier. Li aiutiamo; sono così dipendenti da noi. Li consoliamo, insegniamo i valori ebraici e diamo loro delle ragioni per vivere. Sono viva e dinamica. Sento che sono utile e necessaria. [Durante questo periodo il ghetto veniva svuotato e molti dei suoi abitanti venivano deportati.] Sono molto preoccupata per il futuro della nostra generazione. Vorrei scrivere una poesia, «La madre e il bambino», ma non ho il tempo né l ispirazione. Non ho libri e sono molto annoiata, specialmente la domenica. Nessuno mi viene a trovare e non sono più impegnata nell attività culturale. I grandi casamenti stanno diventando bui e vuoti. Fa freddo. Sta piovendo. I miei piedi sono gelati; sono molto depressa. 5 dicembre Sto lottando con me stessa. La ferita nel mio cuore si è aperta di nuovo. Tre anni perduti. Oh, Dio, il passato mi torna in mente. Andavo avanti di classe in classe, sempre più in alto, e poi, d improwiso, il divieto: un colpo fatale per il mio futuro. Tre anni. E dura da accettare. Sia come sia, se sarò viva mi rimetterò di nuovo in pari. So di poter essere una persona di valore per l umanità. Mi sento oppressa dalla mia schiavitù e non ho tempo né forza di scrivere, di pensare e neppure di leggere. Sono impantanata in una palude nella quale affondo mentre lavoro ogni giorno dalla mattina presto alla sera con la squadra dei miei compagni di schiavitù. C è il buio intorno a me. Ho sete di luce... 76 storiae

7 aprile 1944 Sono passati cinque mesi. Il paesaggio è cambiato. Il ghetto è andato in fiamme, lasciando rovine e devastazioni che fanno inorridire. Non si vede una sola costruzione. Dove una volta si ergevano superbi edifici, non sono rimasti altro che camini anneriti. Ora il ghetto è un cimitero. Gli scheletri anneriti si protendono verso il cielo invocando vendetta per l oltraggio compiuto contro di loro e contro i loro abitanti di un tempo. Ora siamo liberi. Sono cinque mesi che mi sono liberata dalle catene. I soccorritori sono venuti a salvarmi, ma, ahimé, solo un piccolo gruppo è scappato, tizzoni senza fiamma sopravvissuti alla grande conflagrazione. Ora la mia vita ha preso una nuova direzione. Sono un orfana abbandonata, una pietra smarrita. I miei genitori sono stati strappati via durante i dorati giorni d estate. Sono stati messi a morte. Ah, il mio povero babbo, la mamma condannata. Non potevano scappare. Io sono rimasta con un dolore straziante e un cuore sofferente. Solo il piccolo Vitas, il mio adorato fratellino, è rimasto vivo! Con lui non mi sento così sola. Come sono fortunata che sia riuscito a scappare! Siamo gli unici componenti rimasti di una stirpe veneranda. Rivedo le scene del nostro passato felice. Perché dico «passato felice»? Anche se i miei piedi e le mie mani erano incatenati, il mio cuore era libero. Ora anche il mio povero cuore è incatenato. Sola nella fitta foresta, cerco la strada verso un cuore comprensivo, quello di mia madre. Fisicamente esisto, ma spiritualmente?... Imparo, vivo; ingoio cibo disgustoso. Mi tengo in vita. «Figlia mia, di che altro hai bisogno?» «Di te, madre mia» rispondo in silenzio in un angolo del mio cuore. Oggi ho visto un uomo morto. Un essere umano bello e nel fiore degli anni, improvvisamente stroncato dalla morte, che giaceva in una bara. Era il dottor Stokes. Le mani, bianche come la neve, riposavano sul suo petto, e sembrava che le labbra bluastre stessero per sorridere. Sta sorridendo, ma non alla vita. Ha provato la morte, ma sembra che sia ancora vivo. È morto. Spiegami, o mondo, è possibile che un uomo sia così indifeso davanti alla sua fine fatale? Se è così, perché lottare e soffrire? Il destino dell uomo è di finire in una bara, lungo e tirato, senza vita. Non una lacrima ti accompagnerà nel tuo ultimo viaggio. Ma perché lacrime? È più facile vedere l indescrivibile angoscia di una madre davanti al corpo morto di suo figlio? No, cento volte no! La terra vi accoglierà, voi stanche creature, nel suo seno. E, proprio alla fine, i cieli lasceranno cadere una lacrima e così si concluderà la vostra vita. Perché sprofondare nella disperazione? Perché portare il lutto? Perché amare e odiare? Non è necessario! Evidentemente non siamo altro che erba secca nei campi aridi della vita. 29 dicembre Mi accorgo con dispiacere che sto cominciando a dimenticare lo yiddish, che mi è caro. Che ti succede, Tamarah? Hai già dimenticato il dolore che hai sopportato insieme alla tua gente? Ora che vivi tra i gentili hai cancellato il giuramento che hai fatto in quella notte buia e sinistra? Ricorda! C è ancora tempo. Apri gli occhi e guarda lo strazio della tua gente. Una voce chiama dall oscurità: sia fatta giustizia. Sento quella voce e il mio cuore è lacerato. Mi sveglio. Intorno a me la notte è avvolta nell oscurità. Vedo l orribile devastazione della guerra e sento il pianto dei bambini. O popolo d Israele! Non posso dimenticarti. Una voce da dentro mi chiama a te. Sto arrivando. Sono pronta a strisciare sulle ginocchia e a baciare il tuo sacro suolo. Dimmi solo che senti il mio richiamo. Di che non rifiuterai la figlia che desidera ardentemente tornare a te. Lotto con me stessa. Sono tutta sottosopra. Sono consumata dalle paure. Aspetto la tua risposta. 14 gennaio 1945 Noia e freddo; è buio fuori e nel mio cuore. Tamarah Lazerson Il suo diario di Terezin fu pubblicato a Tel Aviv dalla Casa dei Combattenti del Ghetto nel 1966 con il titolo Tamarah s Diary. 74 storiae 77