scheda tecnica nazionalità: anno: 2015

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2 Dopo il rilascio in libertà, a causa della proibizione da parte del governo iraniano di fare film, Panahi trova un escamotage e realizza Taxi Teheran guidando lui stesso un taxi, con all'interno una videocamera nascosta. Orso d'oro a Berlino, per questo ritratto dell'iran attraverso le conversazioni dei passeggeri di un...videotaxi! scheda tecnica titolo originale: TAKSOJUHT durata: 82 MINUTI nazionalità: IRAN anno: 2015 regia: soggetto: sceneggiatura: fotografia: montaggio: musiche: distribuzione: CINEMA interpreti: * * Taxi Teherab è stato realizzato quasi interamente da Jafar Panahi. Tuttavia al film hanno collaborato molte persone, inclusi alcuni attori, i cui nomi non compaiono nei crediti a causa del divieto imposto all'autore e della sua situazione giuridica e politica. premi e nomination: 2015 BERLINALE Orso d'oro e Premio Fipresci sezione concorso; Fribourg IFF, Nomination Grand Prix; Melbourne IFF Nomination Premio del Pubblico e Miglior Film Narrativo; Sydney Film Festival, Nomination Miglior Film. Jafar Panahi Jafar Panahi nasce a Mianeh in Iran, nel Dopo la laurea all Università di Cinema e Televisione di Teheran, realizza numerosi cortometraggi, documentari e film per la televisione. In seguito, diventa auto regista di Abbas Kiarostami sul set di Sotto gli ulivi (1994). Nel 1995, realizza il suo primo lungometraggio per il cinema, Il palloncino bianco, di cui scrive la sceneggiatura a quattro mani insieme ad Abbas Kiarostami. Il film viene selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes dove vince la Caméra d Or. Subito dopo gira il suo lungometraggio successivo, Lo Specchio, che viene presentato in concorso al Festival di Locarno nel 1997 dove conquista il Leopardo d oro. Tre anni dopo, crea un evento alla Mostra del Cinema di Venezia con Il Cerchio che ottiene il Leone d oro e il Premio Fipresci. Il film mette in discussione in modo diretto la condizione della donna in Iran attraversi una serie di ritratti che sconvolgono gli spettatori di tutto il mondo. Ciò nondimeno viene bandito dalle sale cinematografiche in Iran. Nel 2003 Jafar Panahi torna a Cannes con Oro Rosso che gli vale gli onori della selezione ufficiale. Questo film drammatico che sconfina nel giallo viene presentato nella sezione competitiva Un Certain Regard e vince il Premio della Giuria. Scelto inizialmente per rappresentare l Iran agli Oscar per il Miglior film in lingua straniera, Oro Rosso viene alla fine vietato dalle autorità iraniane che in questo modo ne impediscono la distribuzione nei cinema del paese.

3 Jafar Panahi decide di esplorare nuovamente la condizione femminile nel suo paese con il suo film seguente, Offside. Presentato al Festival di Berlino nel 2006 dove viene premiato con l Orso d argento per la Migliore regia, il film narra la storia di alcune giovani iraniane che sfidano le interdizioni per assistere clandestinamente a una partita di calcio. Neanche Offside otterrà l autorizzazione per la distribuzione in Iran. Nel luglio 2009, Jafar Panahi viene arrestato una prima volta dopo avere assistito a una cerimonia in commemorazione di una giovane manifestante uccisa nel corso delle dimostrazioni seguite alla controversa rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad. Qualche mese più tardi, si vede rifiutare il visto per recarsi al Festival di Berlino. È arrestato una seconda volta il primo marzo Trascorre 86 giorni nel carcere di Evin prima di essere rilasciato su cauzione il 25 maggio. Invitato come giurato al Festival di Cannes, la sua poltrona resterà simbolicamente vuota durante tutta la durata della manifestazione. Ottiene il sostegno di numerosi artisti e cineasti di tutto il mondo. Nel 2010, Jafar Panahi viene condannato a non poter più realizzare film, scrivere sceneggiature, concedere interviste alla stampa e uscire dal suo paese per un periodo di tempo indeterminato, pena 20 anni di incarcerazione per ogni divieto violato, ovvero una pena complessiva potenziale di 80 anni di prigione. La condanna viene confermata in appello nell autunno del Malgrado queste interdizioni, con l aiuto di Mojtaba Mirtahmasb, realizza a quattro mani This is not a film. Il film è girato all interno del suo appartamento e descrive la sua vita quotidiana di artista e uomo a cui è stato impedito di lavorare. This is not a film viene presentato fuori concorso al Festival di Cannes nel maggio del Nel 2012, Jafar Panahi ottiene il Premio Sakharov per la libertà di pensiero del Parlamento europeo. Sarà la figlia a riceverlo al suo posto nel corso di una cerimonia alla quale egli non può assistere. Nella scia dell evento, corealizza clandestinamente insieme a Kambuzia Partovi, un nuovo film intitolato Closed Curtain che gli varrà l Orso d argento per la sceneggiatura al Festival di Berlino nel Nel 2015, durante il Festival di Berlino, Jafar Panahi rivela al pubblico Taxi Teheran. Si tratta del primo film che gira da solo e in esterni dal Osannato unanimemente dalla critica di tutto il mondo, Taxi Teheran viene acclamato anche dalla giuria presieduta dal cineasta americano Darren Aronofsky e ottiene l Orso d Oro oltre al Premio Fipresci. Il film è stato venduto in oltre 30 paesi. Il Ministero della Cultura e dell Orientamento Islamico convalida i titoli di testa e di coda dei film «divulgabili». Con mio grande rammarico, questo film non ha titoli. Esprimo la mia gratitudine a tutti coloro che mi hanno sostenuto. Senza la loro preziosa collaborazione, questo film non sarebbe mai venuto al mondo. (Jafar Panahi) approfondimento Ci si illude qualche volta che scrivere di cinema, prima di tutto una passione, preservi dai conflitti, allontani dalla vita reale, con le sue drammaticità. Un'illusione, appunto. Come tutte le forme di espressione di un singolo o di un gruppo, anche il cinema sa essere politico, quindi strumento di interpretazione della realtà. A volte infastidisce solo perché riesce a raccontarla. Jafar Panahi, classe 1960, è un regista che dà fastidio perché fa semplicemente il suo lavoro. In un paese, l'iran, che ha una cinematografia nobile e magnifica, ma i cui slanci verso la modernità sociale sono ancora a singhiozzo. Nel marzo 2010 Panahi viene arrestato per avere partecipato a proteste pacifiche contro il governo di Teheran, allora guidato da Ahmadinejad. Condannato a sei anni di carcere, commutati in arresti domiciliari, riceve la più pesante delle sanzioni: non potrà più scrivere, dirigere, produrre film. Per vent'anni. Essere costretti a non lavorare e a non potersi esprimere nei modi che ci sono propri: una pena inconcepibile e insopportabile per chiunque. Per Panahi lo strazio è doppio e travolge in pieno la comunità cinefila internazionale che non manca negli anni di far sentire la sua protesta. Jafar Panahi è allievo di Abbas Kiarostami, di cui è stato aiuto e assistente e del quale ha elaborato luoghi (ad esempio l'abitacolo della macchina concepito come microcosmo dove molto, se non tutto, può accadere) e temi. In modo personale però, con coraggio, restando a stretto contatto con le storie che racconta (Kiarostami vive da anni tra Parigi e Tokyo, città che ultimamente l'ha come adottato). Ha vinto un sacco di premi ( ) Fino all'orso d'oro a Berlino di quest'anno a Taxi Teheran (...), girato in clandestinità con una micro macchina da presa collocata sul cruscotto di un taxi guidato dallo stesso regista "sotto mentite spoglie". Dietro, entrano ed escono

4 come normali clienti personaggi diversissimi per sesso, estrazione sociale, persino fedina penale. Dalle loro chiacchiere il ritratto di un paese, l'iran, che gestisce in maniera contraddittoria i grandi cambiamenti, non senza dover fare i conti con il retaggio arcaico della propria cultura religiosa. Ma Panahi, nonostante la gravità della situazione (prima di tutto sua: peraltro è geniale che lui, il conducente, si dimostri autista tutt'altro che abile), sceglie per questo ultimo film sofferto e vitale la chiave dell'ironia, forse necessaria per poter anche solo pensare a un'opera-mondo così complessa realizzata con mezzi di fortuna. Un premio, quello della Berlinale, all'arte più resistente che si possa immaginare. Taxi Teheran è anche il primo film distribuito dalla neonata Cinema di Valerio De Paolis. Anche rispetto ad altri autori iraniani della sua generazione, Panahi ha sempre avuto un'attenzione particolare per la questione femminile. A partire da Lo specchio, al centro delle sue storie ci sono una o più donne tenaci, in grado di risalire anche al contrario la corrente. Come la protagonista Mina, straordinaria bambina che avendo mancato l'appuntamento con la mamma fuori da scuola decide di tornare a casa da sola, pur non sapendo bene come fare. Per la prima volta, attraverso i suoi incontri di volta in volta divertenti o preoccupanti, si dipana la narrazione corale cara al regista fino all'ultimo film: l'affresco che partendo da uno sguardo arriva a lambirne tanti, l'immagine che riesce a cogliere accadimenti simultanei. Più programmatico, ma lo stesso incisivo, Il cerchio, con le sue otto donne costrette a fronteggiare colpe sociali inesistenti. Altrettanto da non perdere Offside (2006, ma distribuito solo nel 2011) dove alcune donne si travestono da uomini per poter andare a vedere una partita della nazionale di calcio. (Mauro Gervasini, Mymovies.it) Recensioni Paolo Mereghetti. Corriere della Sera Sono ormai più di cinque anni che il regista iraniano Jafar Panahi vive sotto la minaccia di un condanna a sei anni di prigione, comminata ma mai davvero eseguita. Era stato processato nel 2010 per l appoggio dato al movimento «verde» che l anno precedente si era opposto alla rielezione di Ahmadinejad: sei anni di reclusione più l interdizione di lasciare il Paese e concedere interviste oltre all impossibilità di girare film. Ma il movimento d opinione internazionale che si è schierato in suo favore ha favorito il rinvio dell incarcerazione (che però pende sulla testa di Panahi come una spada di Damocle perché potrebbe essere eseguita in qualsiasi momento) e gli ha permesso di girare piccoli film semi-clandestini che hanno preso la strada dei festival occidentali (...). L idea alla base di Taxi Teheran è di una semplicità sconcertante: una piccola telecamera messa sul cruscotto dell auto permette a Panahi nei panni di un occasionale tassista di registrare i passeggeri che salgono a bordo e di registrare i loro discorsi. Che si tratti di un «film» e non di un «documentario» lo veniamo a sapere quasi subito, quando un simpatico pusher di dvd riconosce il regista alla guida (...) e smaschera i due clienti che sono appena scesi a Teheran il taxi è un istituzione collettiva come attori che recitavano una parte, quella del forcaiolo qualunquista lui, quella della democratica progressista lei. Ma anche lo spacciatore di film proibiti è un attore che recita una parte, anche se molto credibile e realistica, ed ecco che la distinzione film/documentario, vero/falso perde il suo significato e Taxi Teheran diventa un film che riflette su se stesso, sulla propria natura e su quella della messa in scena. Tutti i clienti/personaggi che chiedono un passaggio al taxi guidato da Panahi interpretano un «ruolo», cioè recitano, ma nello stesso tempo danno vita a una delle tante facce dell Iran, sono cioè realistici (se non proprio veri) e molto credibili. Qualcuno, poi, come l autentica avvocatessa che arriva quasi alla fine del film e sembra addirittura sorpresa di incontrare Panahi, gli racconta il caso reale a cui sta lavorando (...) complicando ancora di più il gioco di rimandi tra vero e falso. Che è poi quello che sta particolarmente a cuore al regista iraniano: capire cioè come si può gestire il sottile limite tra finzione e realtà, limite intorno al quale si sono mossi i suoi film (...) e il suo lavoro di cineasta. Il cuore del film diventa allora l incontro con la nipotina Hana, che deve girare un filmino come esercitazione scolastica e per questo chiede aiuto allo zio regista. La lunga scena in cui Hana legge le regole perché un film sia distribuibile sembra uscito dalla miglior letteratura surrealista (oltre all assoluto rispetto per il

5 velo e la proibizione di ogni contatto tra uomo e donna, «non bisogna mai usare la cravatta per i personaggi positivi» e «non bisogna usare nomi persiani per i personaggi positivi, meglio preferire i sacri nomi dei profeti»). Ma quando prova a mettere in pratica quello che ha imparato finisce per scontrarsi con una realtà che non può entrare nelle regole l ambulante che non vuole restituire i soldi trovati per terra al loro proprietario e così manda a monte un possibile film sulla riconoscenza e l onestà e non può che concludere, di fronte a «realtà che hanno creato loro ma loro non vogliono che vengano viste», con uno sconsolato (e verissimo): «Continuo a non capire!». Ne esce un film che interroga lo spettatore, per niente limitata dalla ristrettezza dei mezzi e dalle costrizioni della censura, e che non può che terminare sul nero di un futuro, dove la repressione è sempre in agguato (come i due poliziotti in borghese che rubano la telecamera sull auto) ma l intelligenza e la passione sono sempre sveglissime. Giancarlo Zappoli. Mymovies.it ( ) Panahi è stato condannato dalla 'giustizia' iraniana a 20 anni di proibizione di girare film, scrivere sceneggiature e rilasciare interviste, pena la detenzione per sei anni. Ma non c'è sentenza che possa impedire ad un artista di essere se stesso ed ecco allora che il regista ha deciso di continuare a sfidare il divieto e ancora una volta ci propone un'opera destinata a rimanere quale testimonianza di un cinema che si fa militante proprio perché non fa proclami ma mostra la quotidianità del vivere in un Paese in cui le contraddizioni si fanno sempre più stridenti. I passeggeri che salgono sul taxi esprimono posizioni differenti nei confronti della società in cui vivono. Si va da chi vorrebbe applicare pene capitali 'esemplari' a chi invece difende giovani donne 'colpevoli' di essersi fatte trovare non dentro ma solo nei pressi di uno stadio (il cui accesso è consentito unicamente agli uomini). Ma ci sono anche anziane signore con pesci rossi al seguito o bambine intellettualmente vivaci. Ad un certo punto l'auto carica un ferito accompagnato dalla giovane moglie. L'uomo, sentendosi vicino alla morte, vuole fare testamento per impedire che alla consorte venga sottratta la casa in cui vivono. La telecamera incorporata in un telefonino ne riprende quelle che dovrebbero essere le ultime volontà. In questo gesto si può cogliere un valore simbolico: grazie alle più recenti tecnologie è sempre più difficile per i regimi impedire agli individui di fare testimonianza di quanto accade. Jafar Panahi è uno di loro e con quella leggerezza che nasce solo da una lettura profonda della società ci racconta la realtà che lo circonda facendo uso della finzione (i passeggeri sono attori che a loro volta rischiano nel partecipare al film che infatti è privo di credits). Ma raramente la finzione è stata così 'vera' al cinema. Paolo D'Agostini. Repubblica Torna in mente una questione abbastanza imbarazzante. Possibile che la censura imposta agli artisti dai regimi dittatoriali, come è ancora oggi quello di Teheran, risulti in una certa maniera anche se è difficile ammetterlo, anzi quasi indicibile stimolante, produttiva, feconda, addirittura portatrice di ispirazione? Viene sempre alla mente, per esempio, il caso di un cineasta importante come lo spagnolo Carlos Saura il quale ha lasciato probabilmente un segno più incisivo con la sua prima produzione anni 60-70, cioè con Francisco Franco ancora abbastanza saldamente al potere, che non con quella successiva anche se copiosa e di notorietà molto più vasta. Ma di casi potremmo farcene venire in mente tanti altri, in particolare riguardanti la parte di Europa già costretta sotto il tallone sovietico, e ancora più in particolare la Polonia che nel suo cinema nazionale, dopo la riconquistata libertà democratica, non ha più conosciuto la vivacità di prima. E questo porta a considerare la contraddizione tra repressione e, più o meno tollerati o subiti (da parte degli apparati statali repressivi), fama, prestigio, riconoscimenti internazionali all'opera e alla personalità di artisti perseguitati in patria. In un'altalena che di volta in volta fa di loro una vergogna nazionale e un fiore all'occhiello, perché comunque portano riscontri significativi per la bandiera che rappresentano. Il caso dell'iraniano Jafar Panahi (55 anni) ha dell'assurdo. A partire dal suo primo film Il palloncino bianco non ha fatto che collezionare un costante alternarsi tra premi prestigiosi e pesantissimi condizionamenti censori. (...) Alla fine del decennio Duemila il gioco si fa ancora più duro. Una catena di arresti, processi- farsa, condanne, proibizioni non impedisce a Panahi di realizzare clandestinamente ( e fortunosamente far uscire dai confini) altri film, fino a questo Taxi Teheran, Orso d'oro a Berlino Mentre intanto la sua poltrona di giurato a Cannes (2010) resta vuota sotto i riflettori come un segnale di solidarietà e un monito per tutta la durata del festival, poi il Premio Sakharov del Parlamento Europeo viene ritirato da sua figlia, e ora Taxi Teheran realizzato del tutto "illegalmente" riceve un altro Orso d'oro dalle mani del presidente di giuria Darren Aronofsky. Talento sicuramente, e poi resistenza da vendere.

6 Lo stesso Panahi, che nel film è proprio lui con la sua riconoscibile e riconosciuta identità, guida un'auto pubblica in giro per le congestionate strade e superstrade della capitale iraniana, facendo una quantità di incontri con gente comune (che lo riconosce e lo ammira) e gli racconta i fatti suoi, lo coinvolge, gli chiede consigli e pareri. Una girandola di piccola vera umanità che, con il sorriso anche quando la fatica di vivere è evidente, dà la misura piena di un paese e di un popolo stracarico non solo di storia e cultura ma anche di potenzialità che non aspettano altro che di potersi esprimere pienamente. Roy Menarini. Mymovies.it Jafar Panahi sta costruendo una intera, nuova filmografia, a partire dalla propria condizione di prigionia. Almeno fino a quando (speriamo mai, viste anche le recenti novità nel rapporto tra Iran e Occidente) il regime non darà seguito alla condanna in carcere, per ora sospesa, al regista persiano è impedito "solamente" di fare film per vent'anni. Divieto che Panahi aggira ogni volta con idee sempre nuove e clandestine, mettendo a rischio la propria incolumità, rischiando quella cella fin qui evitata, e riuscendo al tempo stesso a mettere a prova gli elementi fondamentali della poetica del cinema iraniano. Panahi, infatti, è stato forse il più teorico nel mettere in scena strutture narrative e simboli visivi in grado di trasformare in idee cinematografiche le contraddizioni della propria nazione, ma i suoi film vanno intesi come un tassello di un mosaico ben più ampio, nel quale anche - soprattutto - Abbas Kiarostami e Mohsen Makhmalbaf hanno lavorato con estetiche non dissimili ( ). Non è dunque un caso che Taxi Teheran ribadisca che il cinema può sfuggire a ogni censura, e vale la pena ricordare che un regista turco imprigionato, Yilmaz Güney, riuscì a far girare un intero film al suo assistente dandogli precise indicazioni, per poi evadere dal carcere e concludere il montaggio in clandestinità a Parigi (il film era Yol, 1982). E non è nemmeno un caso che Taxi Teheran raccolga l'idea di Dieci, del collega e amico Kiarostami. In quel caso, l'autore aveva usato il medesimo stratagemma della piccola camera digitale ad altezza cruscotto, e mostrato - attraverso alcuni giri in automobile della protagonista - uno spaccato del mondo femminile arabo contemporaneo. Ma il taxi è da sempre facile schema narrativo, basti pensare al Sordi ormai tramontante di Il tassinaro o Taxisti di notte di Jim Jarmusch: chi sale sul taxi permette di intessere tanti piccoli episodi, chi guida offre il collante del racconto. La differenza dunque sta tutta nel contesto. Panahi non è libero, ma inventa un paradossale viaggio nella sua città fingendosi quel che non è, un tassista. I suoi clienti, spesso parenti e amici, ragionano con lui sul ruolo della verità e della finzione. Lo scontro politico e sociale entra letteralmente nella sua automobile, in un Iran che vive immerso nell'illegalità: ladruncoli di portafogli, importatori di dvd pirata e di cd censurati, vittime di rapine pronte a graziare gli assalitori, e così via. Il tutto in un reale che, per essere raccontato, ha bisogno di una filosofia del guardare. Taxi Teheran è punteggiato di riprese, da quella della telecamera sullo specchietto del taxi agli smartphone dei clienti, dalla fotocamera della nipote di Jafar al tablet del vecchio amico, con conseguente moltiplicazione dei punti di vista. Ma, senza sapere che cosa e come narrare, servono a poco. Panahi crede nelle nuove tecnologie, le considera un arricchimento linguistico, ma se ne serve come sorgente poetica e come strumento di libertà. Non c'è un momento del film che non sia segnato dal tema del cinema e della libertà, senza che questo venga offerto allo spettatore in termini didascalici o dimostrativi. Da qualche parte del mondo, insomma, il cinema è ancora in grado di emancipare il soggetto Fabio Ferzetti. Il Messaggero E tre. Da quando il tribunale iraniano lo ha condannato a non fare il regista per almeno vent'anni, sono ormai tre i film che Jafar Panahi ha realizzato in clandestinità. La novità (...) è che stavolta il grande regista iraniano è uscito di casa. Anzi si è concesso un lungo giro nelle strade di Teheran alla guida di un taxi (...). Ma il bello è che quest'impresa apparentemente 'tardo-neorealista' - riprendere da un'auto in movimento tutto ciò che la censura di Stato impedisce di mostrare - diventa una riflessione vivacissima e traboccante di idee sui meccanismi della censura e i dispositivi di messa in scena. Realizzata da un cineasta che è anche protagonista di questo docufiction così sapiente che tutto sembra incredibilmente vero ma tutto è probabilmente ricostruito con attori non professionisti (e senza nome nei titoli, per non metterli nei guai) e con palpitante spontaneità. Protagonista o meglio spettatore, proprio come noi, dello spettacolo incessante che si svolge dietro il parabrezza, nelle strade della capitale. Ma soprattutto dentro il taxi di Panahi, su cui salgono personaggi che potrebbero nutrire un romanzo anche se hanno solo poche scene a disposizione. (...) la figura più memorabile è ancora una volta quella

7 di una ragazzina, nel film la (vera?) nipote del regista, che essendo una cineasta in erba permette al regista di porsi una serie di interrogativi morali elementari quanto inquietanti. Come si riconosce, ammesso che sia possibile, un 'cattivo'? Come si ferma, e come si rappresenta il male? Perché certi film sono 'indistribuibili', come sentenzia la nipote saputella, pur mostrando ciò che si vede tutti i giorni? Nei battibecchi tra zio e nipote, e nelle scene che lei stessa riprende dal vero con la sua telecamerina, soffrendo perché sa che non le potrà mostrare (che attrice!), sta il cuore di questo film dall'andatura scanzonata che però non smette di porre domande scomode. E gela il sangue con un finale impassibile affidato a un piano sequenza degno di Antonioni. Anche in piena era digitale insomma si può fare un film che riflette sulle immagini (sul loro potere, e sul Potere in generale) fino a dare le vertigini, con mezzi semplicissimi. Malgrado ciò che il film denuncia, è una buona notizia. Nicola Falcinella. L'Eco di Bergamo Un regista che si deve inventare tassista per realizzare un film di nascosto. È l'iraniano Jafar Panahi, uno dei cineasti più importanti del suo Paese (...). Dopo due opere filmate dentro casa, piene di invenzioni dettate dalle circostanze e dalle limitazioni, il regista ha scelto l'automobile, uno dei luoghi topici e più riconoscibili del cinema persiano contemporaneo, un piccolo spazio di libertà che diventa un micromondo. (...) La novità rispetto ai precedenti 'This Is Not a Film' e 'Closed Curtain' (...) è che Panahi è uscito dalla depressione nella quale la privazione della libertà l'aveva spinto e ritrova il sorriso aperto che lo contraddistingue. Attraverso i diversi passeggeri che salgono e scendono, racconta tra ironia e denuncia la situazione dell'iran. (...) Un film ribelle, pieno di voglia di essere se stesso fin dal suo esistere, dove realtà e finzione si confondono e diventano arte e vita. Una pellicola anomala anche nell'essere priva di titoli di testa e di coda, in quanto senza permesso del ministero della Cultura. Il finale può lasciare sorpreso lo spettatore ma contiene il senso di un lavoro che cerca di osservare e capire, di intervenire nelle cose, di essere empatico e pure rabbioso, di essere insieme pessimista e ottimista, ma mai rassegnato, di stare sul chi va là, pronto a reagire e possibilmente a tirare fuori il meglio delle situazioni. Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa (...) Panahi, affrontando con levità temi gravi, ottiene un risultato artistico autoriale di assoluta freschezza e autenticità. A turno diversi passeggeri salgono e scendono dalla vettura e dall'insieme dei loro discorsi emerge il quadro di un Paese con la sua varia umanità e le sue contraddizioni, ovvero quello che le autorità non vogliono venga raccontato. Il tutto si svolge con naturalezza, ma sornionamente Panahi orchestra le cose in modo che il film si strutturi come una commedia, anche divertente a dispetto dei risvolti amari; mentre di pari passo usa il cinema per far trapelare scomode, indicibili verità su un potere repressivo. Anna Maria Pasetti. Il Fatto Quotidiano (...) il film è mirabile metafora della prigionia artistico/intellettuale a cui è costretto Panahi dal 2010: da quell'abitacolo si ascolta, osserva ed elabora l'iran di oggi, contraddittorio e martoriato, perennemente inquieto. In 'Taxi Teheran', lontano dall'essere film pretestuoso e 'a tema', si avverte il talento puro e profetico del 55enne autore iraniano, intatto nonostante la tragedia che sta vivendo. Un triplice salto visivo da un unico punto di vista, una poesia che accarezza l'arte e la Libertà. (...) Da non perdere. Goffredo Fofi. Internazionale Jafar Panahi è un caso più unico che raro nel cinema contemporaneo: condannato dal regime iraniano a non fare film, ne ha già diretti clandestinamente tre, ed è riuscito a farli arrivare ai festival e mandarli in giro nel mondo. Le costrizioni hanno aguzzato il suo ingegno, e il cinema è diventato come dovrebbe essere, se non sempre, almeno quasi uno strumento di conoscenza e di lotta: l arte è anche questo. Confrontato con le melense e tranquille storielle di tanto cinema che vorrebbe affrontare i mali dell uomo e del mondo in quest era di mutazioni così profonde, e che è di fatto una delle mistificazioni più astute di un sistema delle comunicazioni come strumento del dominio (il buonismo è la peggiore delle ipocrisie inventate dal sistema che ci domina, forse la più odiosa), il quotidiano eroismo e la quotidiana ostinazione di Panahi sono tanto più efficaci in quanto sanno comunque farsi spettacolo, cinema, film. Tutto girato in un taxi per evitare controlli e censure, un taxi di cui il regista si improvvisa gestore, dunque attoreregista. Un taxi che è una perenne invenzione di situazioni anche da commedia, di personaggi costruiti da un bozzettista sapiente. Nella prima parte del film si è sconcertati: sì, va bene la trovata postzavattiniana, ma che cosa si vuol ricavare da questa sorniona insistenza nel voler parlare di cinema dichiarando la finzione? Passata la

8 curiosità e la sorpresa, questa marginale rassegna che sa più di bizzarria che di sociologia dove può andare a parare? Di storie di taxi frequentati da personaggi un po strambi se ne ricordano tante, e nella sostanza questa non sembra diversa. Ma ecco che lentamente il gioco si svela quando entra in gioco la nipotina vera o presunta del regista-tassista, a cui a scuola fanno fare cinema e che ripete le formule del cinema del regime: l invito a un realismo in tutti i sensi bigotto e autoritario, negazione di ogni confronto vero con la realtà. E qui si perdonano tutte le trovate tardoneorealiste a cui il regista ha fatto ricorso, perché si chiariscono l impronta fortemente autobiografica, però giocata con un ironia e autoironia che allontanano ogni retorica e quanto di tragico nasconda questa commedia. (...)