SPIGOLANDO NEI RICORDI ( ). DIARIO DI MARCELLA GALMOZZI

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1 SPIGOLANDO NEI RICORDI ( ). DIARIO DI MARCELLA GALMOZZI PREMESSA - Nel mese di ottobre 1998, il Museo Storico della Città, in collaborazione con l Istituto per la Storia della Resistenza e dell Età Contemporanea, propone presso il Chiostro di S. Agostino la mostra La menzogna della razza ; a tale mostra è collegata un esposizione riguardante la persecuzione anti ebraica a Bergamo. La mostra, come sempre per il Museo Storico della Città, è anche l occasione per avviare ricerche storiche volte ad approfondire i temi in oggetto e a preparare le future sezioni del Museo stesso. In particolare, il Museo ha avviato uno studio sui periodici bergamaschi del periodo , che troverà ospitalità sulla prestigiosa rivista Studi e ricerche di storia contemporanea di dicembre; inoltre, è iniziata anche una ricerca presso l Archivio Comunale e l Archivio di Stato volta a studiare i provvedimenti presi a livello locale dopo l approvazione delle leggi razziali nel Il diario stupendo che pubblichiamo in questo numero dei Quaderni del Museo Storico della Città si pone in questa direzione di studio e ricerca e, ci auguriamo, possa diventare uno strumento anche a livello didattico. Il gruppo di ricerca del Museo, che stiamo studiando di trasformare in Laboratorio permanente di studi sull antisemitismo, è composto da: Simone Gamba, Marco Rotoli, Chiara Adobati, Barbara Crotti, Mauro Gelfi, Gruppo Culturale Didattico del Museo Storico. Un particolare ringraziamento alla Sig.ra Emanuela Sacerdote e al Prof. Angelo Bendotti. Mauro Gelfi

2 INTRODUZIONE - Oggi mi è venuta tra le mani una vecchia lettera che la mamma mi aveva scritto in tempo di guerra. E' stata trovata fra vecchie carte, un foglietto vecchio e sbiadito che mamma mi aveva spedito da Gandino, ove si era rifugiata, nascosta in un convento di suore, perché di origine ebraica. Era una lettera che doveva essere strappata appena letta e che, invece, non era stata distrutta; il caso ha voluto che rimanesse per parecchi anni nascosta. Alla vista di quello scritto così caro, è scattato in me qualcosa che mi ha spinto a realizzare ciò che da tempo pensavo di fare: raccogliere i miei pensieri, i miei ricordi. Voglio fissare sulla carta, quasi fossero dei flash, quello che oggi è ancora vivo nella mia memoria perché non vadano smarriti i miei tanti ricordi, ricordi più o meno lieti, più o meno tristi, che illustrano periodi della mia vita ma che possono illustrare anche un epoca ormai tramontata e dimenticata. Non voglio tralasciare niente di ciò che di vivo mi è rimasto. Voglio ricordare per me, voglio ricordare insieme a Camillo, tutti i momenti della mia vita, desidero lasciare questi ricordi ai miei figli, perché attraverso questi scritti conoscano meglio la loro mamma, la loro mamma bambina in tempi tanto lontani; perché conoscano i loro nonni, Elisabetta che non hanno mai visto, Ferruccio che hanno conosciuto da bambini; perché anch essi abbiano a rivivere un mondo lontano così diverso dal mondo di oggi. E' un mondo un po' da "Albero degli zoccoli". Pare impossibile, ma il modo di vivere oggi è talmente cambiato, che il mondo della mia infanzia sembra un mondo veramente lontano. Milano, 7 Ottobre 1989 Marcella

3 LA LETTERA RITROVATA DI MAMMA ELISABETTA - La lettera viene trascritta con gli stessi errori con cui l'ha scritto la mamma. Mamma era russa e benché si trovasse in Italia da parecchi anni e fosse laureata in medicina, quando parlava o scriveva, commetteva degli errori. Direi quasi che per noi figli i suoi errori erano vezzi che non volevamo correggere. Cara Marcella, ti scrivo dall'alto del mio... solaio. Ecco dove mi trovo oggi e non mi dispiace. Star nella stanza fredda, gelata? meglio qua. Vedo le colline, le montagne, coperte anche dalla neve e mi sembra di essere a F. sù quel piano superiore e veder davanti la Gaiana, monte Bronzone, San Giovanni delle F... E' un ballatoio sopra il portico dove sto sempre. Da questo solaio scrivevo a Carlo quella famosa lettera che ha fatto piangere e lei e Carlo. Domenica con voi ho passato così bene e speravo di vivere dolcemente almeno una settimana nel caro ricordo, ma subito lunedì dopo sono cominciati i guai. La pulizia che hanno fatto qua!!! Dal solaio fino al fondo delle cantine, persino hanno chiamato un uomo con la scala lunga, lunga, con la pertica lunga, lunga a pulire...i muri e la ragnatela sotto i cornicioni del tetto!... Puoi immaginare come mi sentivo spostata. A papà ho descritto tutto, per non ripetermi continuo. Sono contenta, che almeno la messa la posso sentire spero tutti i giorni e fare la mia Comunione. La M.G. (Madre Generale) è molto gentile con me. Siccome il predicatore ha usurpato il mio salottino per tutto il giorno, io pranzo in quell'altro salottino (mi accendono per quel momento la stufetta elettrica) e scendo giù adagio, adagio in punta di piedi, mentre lui mangia, poi sono venuta sù, perché lui va dormire in una stanza vicina a me. Vedi come debbo fare io? Tu mi scrivi che eri offesa per la mancia. Io avrei preso questa cosa con più spirito, avrei accettata la mancia e o avrei tenuto i soldi per tutta la mia vita come un ricordo o avrei dato al primo povero che entrava in casa a cercare l'elemosina, sarebbe l'umiltà offerta al Signore. Ma è lo stesso, tu già hai offerto la umiliazione per me ed il Signore l'ha accettata. Io ragiono adesso così, perché mi sono cambiata, forse nei tempi passati avrei fatto lo stesso. Come vedi ho troncato di scriverti a riprendo adesso. Non sto neppure nel solaio. Mi hanno scoperta le suore di D. Come vedi in che condizioni di umiliazioni mi trovo io. Non mangio due pasti della giornata nello stesso posto, non sto due ore nel medesimo sito. Appena vedo da lontano una cuffia nera di una suora o l'abito caffè del frate, scappo. Ogni piccolo scricchiolio della porta, o un passo leggero mi fa battere cuore forte, forte, mi fa venire le vampate alla faccia... E corri, corri povero uccelletto sperduto nella tua gabbia dorata! Qualche volta capita anche che la suora mia comincia a ridere, ridere, che finisco a ridere anche io, che poi quel riso si trasforma in un pianto dirotto e povera suora non sa come domandarmi scusa. No, non potrei lamentarmi di loro, fanno tutti per diminuire la mia brutta umiliante posizione. Non hanno colpa loro. E' il destino mio così. Pensare che la M.G. mi ha mandato parecchie volte un pezzo di torta paradiso la mia damigella mi porta ogni tanto un minuscolo mazzettino di viole profumate, raccolte nell'orto... Io che mi sono capitata tra i piedi non certo desiderata. Ti assicuro che sono così stanca dopo tutta la giornata di correre (mi sembra di giocare a nascondiglio!) che da qualche giorno vado veramente contenta a coricarmi sul letto. Almeno per un po' di tempo il cuore non mi palpita tanto, ed il cervello riposa un po'. Se potessi almeno dormire 5-6 ore di seguito. Sono 5-6 ore nelle 24 che non penso niente. Ma invece non ci riesco. Pazienza, tutto, tutto offro al Signore. Manda la pace! Manda la pace o Signore. Poi mi si è aggiunta la preoccupazione per Nicola. Sono quasi sicura di aver capito bene, quello che parla il giornale. Povero Nicolotti. Poveretto papà! Non basta di avere la moglie via, adesso anche N. Perché certamente non potrà non presentarsi, per le condizioni mie. Rispondi per Nicola e per l'esame di Luciano. Se c'è a Bergamo mandami il mio vestito nero con fascia - se puoi subito, altrimenti lunedì massimo, presto viene qua la M.S. manda con lei anche vostre notizie -Ti ringrazio di tutto, il pane è eccellente -Mandami una coroncina qualunque. L'altra si è rotta subito e poi in tanti pezzi. Ti hanno pagato le suore? Saluta Marussia. Non ho tempo adesso di scriverle, perché devo consegnare oggi questa lettera. Fammi piacere dopo aver preso la nota, strappa questa lettera bruciala -Saluti e baci a Andrea, Luciano, Gian M. M-a tua. Anche io ho detto lo stesso al Signore; ancora 100 giorni, ma non di più! Non ne posso più. 1) Avevo ricevuto una mancia perché mi avevano presa per la cameriera di papà.

4 CONCLUSIONE Questa è una raccolta di ricordi fissati sulla carta così come si sono affacciati alla mia memoria. E una raccolta forse un po disordinata, i ricordi si accavallano e si sovrappongono; non sono altro, come ho già detto, che dei flash. Sono stati scritti, per lo più, alla sera al termine di intense giornate di lavoro; sono stati scritti durante notti senza sonno. Sono stati scritti senza curare la forma e qualche volta, forse, nemmeno la grammatica e la sintassi. Non poche volte periodi e frasi sono stati interrotti nel bel mezzo della stesura, perché in casa si presentava la necessità di qualche intervento più necessario e non rimandabile; e ripresi dove erano stati interrotti, senza fare troppa attenzione a quello che già era stato scritto, lasciando che la memoria vagasse libera. Non sono stati né corretti, né revisionati per non far perdere loro immediatezza e freschezza. Ricordi revisionati possono diventare falsi. Questa raccolta non è stata scritta con intendimenti letterari e non vuole avere intendimenti letterari. E semplicemente una raccolta spontanea e sincera. Il modo di vivere oggi è talmente cambiato, che il mondo della mia infanzia sembra lontanissimo, incomprensibile. Chi non ha vissuto quegli anni non può nemmeno immaginare come fosse allora la vita. I libri la possono descrivere, ma credo che solamente i diari possano illustrarla compiutamente. Perché più vivi, più attendibili. Questa raccolta di ricordi è destinata ai miei figli, perché i miei figli, attraverso questi miei ricordi, abbiano a conoscere quella vita. Vita di famiglie comuni, di famiglie contadine, di persone semplici ma piene di dignità e meritevoli di pieno rispetto e anche, perché no, vita di una città. Questa raccolta termina con il ricordo del mio matrimonio; sono passati quarant'anni e più di vita insieme a papà Camillo. Anche nella nostra vita, come del resto succede a tutti, gioie e dolori si sono alternati, momenti sereni si sono alternati con momenti difficili; anche noi abbiamo saputo godere dei momenti felici, abbiamo saputo superare i momenti difficili. Di questi non ne parlo perché sono troppo nostri. E, d altra parte, i figli ben li conoscono. Milano, 11 Giugno 1991 Marcella

5 CAPITOLO I I primi sbiaditi ricordi - I primi ricordi risalgono a questo periodo. Una bambina di quattro anni, fra tanti fratellini: Luciano, Marussia, Andrea, io, Nicola, Lisetta. Tutti vicinissimi; allora era così. Eppure mamma faceva la dottoressa a Torre Boldone. Non ricordo questo periodo. Ricordo benissimo, invece, la casa di Bergamo. Mamma aveva avuto due gemellini GianFranco e GianCarlo e aveva lasciato il posto presso l'ospedale di Torre; e ci eravamo trasferiti a Bergamo. Papà era medico all'ospedale di Bergamo, perciò il sacrificio di andare avanti e indietro in bici da Torre (di macchine non se ne parlava) non era più necessario. Ecco tutti a Bergamo con mamma in casa, mamma a tempo pieno con otto figli; Luciano, il primo, aveva otto anni. Viale Santuario 1. La casa vicino alla Chiesa del Santuario, in Borgo S. Caterina, c'è ancora, ora è un po' trasformata ma è rimasta all'esterno come allora. Abitavamo al primo piano, si saliva per una scala lunga e buia, si entrava in una sala, questa la ricordo bene, che aveva due finestre che davano sul Borgo, sotto le finestre un po' in rientranza, c'era il nostro angolino preferito. Si giocava, si rideva, come tutti i bambini di questo mondo. Quando suonava il campanello, perché tornava papà, ricordo che tutti si correva incontro, e mamma, sempre con un piccolo in braccio, ci invitava a star calmi. Il Baratto - Due bambini nell' angolino preferito, sotto la finestra della sala che guarda sul Borgo. Lui a mala pena tre anni, lei quattro. Stanno contrattando mezza pasta dolce. "Io ti do un po' della mia, tu mi dai un po' della tua."e' domenica e come al solito papà Ferruccio ha portato a casa un pacchetto, ma piccolo, di paste. Forse otto paste, una intera per papà e mamma. Le altre, secondo un gran rito, venivano diligentemente divise a metà. Ognuno sceglieva una metà, ma erano così perfette queste metà che era impossibile che una fosse più grande dell'altra. Vedo ancora gli occhi di noi fratellini su quelle paste, che difficoltà scegliere! Sembrava sempre di sbagliare nella scelta. Finalmente soddisfatti si andava con le nostre due mezze paste a goderci il nostro dolce tra il sorriso compiacente di mamma e di papà, convinto di averci fatti contenti, ma anche di aver rispettato il suo senso di imparzialità. Ecco noi, Marcella e Nicola, con le nostre mezze paste in mano avviarci verso l'angolo preferito. Ci sediamo e, a nostra volta, barattiamo la nostra pasta "Io ti do questa, tu mi dai quella" ecc., ecc., oppure dividiamo di nuovo a metà la nostra mezza pasta.chissà perché, anche questo rito si ripeteva metodicamente. Mi sembra di rivivere una di quelle domeniche. Rivedo il volto di papà divertito, di mamma allegra. Come eravamo felici con poco. Il tenente medico Ferruccio Galmozzi

6 Lisetta e i gemellino - Di Lisetta, purtroppo, ricordo molto poco. So che era bionda, bella, vispa, allegra. Ricordo vagamente il suo canto preferito "La bella lavanderina" e il giro tondo che facevamo con lei. Poi la malattia, l'ansia di papà e mamma, medici tutti e due, impotenti davanti al male della loro piccola di due anni e mezzo ed insieme all'ansia, le preoccupazioni, le notti insonni di genitori che avevano due gemellini di pochi mesi da crescere e come tutti i piccoli rubavano ore di giorno e sonno di notte. Eppure papà, tornato dal lavoro, quando si sedeva a tavola, aveva sempre il più piccolo in braccio e i due gemellini, a turno, sedevano sulle sue gambe. Il resto, le preoccupazioni, le ansie ed anche le soddisfazioni che potevano dare la numerosa schiera di bimbi, le posso solo immaginare. Poi improvvisa la tragedia. Quasi non bastasse la preoccupazione per Lisetta ammalata gravemente di meningite, i due piccoli che non avevano nulla, si ammalarono anche loro e in otto giorni la morte passò tre volte da questa casa felice per rapire tre angioletti. Gli ultimi, i più piccoli, quelli che avevano più bisogno di tutto, i fiori più freschi e più belli, sparirono. Mamma e papà si aggiravano per casa come inebetiti. Ricordo molto bene il funerale. Fiori bianchi, gente, gente che piangeva, gente che ci accarezzava. Noi fratellini vestiti della festa. Cosa potevamo capire? Io avevo quattro anni. A me tutta quella gente, tutti quei fiori mi facevano pensare ad una festa. Ricordo solo che guardavo il mio grembiulino (o vestito) bianco forse era il vestito dell'asilo, il mio nastrone bianco sui capelli; ero solo compiaciuta di essere ammirata, accarezzata. Dei tre piccoli non ho altro ricordo. Eppure al cimitero a distanza di tanti anni porto un fiore sempre anche per loro. A casa li ricordavamo come i nostri angioletti. E' un anno molto importante. Ho finito di andare all'asilo. L'asilo del Borgo, c'è ancora oggi, uguale. A quel tempo era veramente bello, stanze ampie, corridoi vasti dove i bambini potevano giocare senza pericoli. In fondo al corridoio c'erano i gabinetti, i piccoli lavabi, gli spogliatoi. Dell'asilo ricordo molto poco. Vagamente Suor Lucia, un' istituzione per il borgo. Era un po' la mamma di tutti quei bimbi. Probabilmente noi eravamo contemporaneamente in tre all'asilo. C'era anche un grandissimo giardino con l'altalena ed altri giochi molto semplici. Certamente avrò trascorso ore liete e spensierate, anche perché mamma con tutti quei bimbi non poteva portarci molto a passeggio e in casa eravamo sacrificati. Ottobre Marcella ha sei anni e va a scuola. Dicono tutti che il primo giorno di scuola non si dimentica mai. Io non lo ricordo affatto. Ricordo e vagamente mi tornano alla mente le mie prime compagne. Allora la maestra era sempre quella dalla prima alla quinta. La maestra la ricordo bene. La Signora Milesi era la moglie del direttore didattico. Un omone grande e grosso (almeno così mi pareva) che nelle grandi feste si metteva in divisa fascista. Lo ricordo con l'orbace e il fez in testa. Pareva un gran condottiero, incuteva timore a tutti, eppure era buono come il pane. La maestra non aveva figli e riversava su di noi tutto il suo affetto.

7 Le compagne erano le stesse che avevo avuto all'asilo, che incontravo nel Borgo e con le quali trascorrevo qualche ora domenicale in Oratorio. Nossa, Coffetti, Minelli, Conti, Broggi, Gentili, Carminati, qualche nome mi ritorna alla mente, qualche vecchia compagna la ritrovo ancora quando vado a Bergamo, magari ancora in S.Caterina. Si sono sposate con compagni del Borgo ed abitano ancora li. Della scuola ne parlerò ancora, man mano che i ricordi riaffiorano. Un avvenimento molto importante per la nostra famiglia. Dopo la tragedia della morte dei tre fratellini, papà e mamma si erano dati da fare per cambiare casa. Era diventata troppo triste e troppo piena di mesti ricordi la casa del Santuario. Papà voleva una casa grande, un giardino dove i suoi bambini potessero sfogarsi, ma non voleva nemmeno abbandonare il Borgo dove la nostra famiglia si era bene inserita ed era tanto amata. Ed in Borgo Santa Caterina n.6 trovammo la casa giusta. Questa è la casa più bella che io ricordi. Gli anni trascorsi qui, nessuno di noi fratelli la può dimenticare. Cercherò di descrivere questa casa e il suo magnifico giardino. Mi piacerebbe avere la mano magica di Luciano e fare un bello schizzo (ecco una delle deficienze di cui ho tanto sofferto, avrei sempre voluto disegnare e non sono mai stata capace). Un grandissimo giardino dava sul borgo. Un grande cancello per entrarvi con la macchina (quando arrivò) o con il carro; vicino al cancello un grandissimo portone che immetteva in un grande atrio, poi un gran viale ed in fondo la casa. Le stanze del pianterreno davano tutte sul giardino, e sul giardino davano anche il garage, la cantina e altre stanze adibite a rustico. Dall'entrata si saliva al primo piano con una scala molto ampia. Al primo pianerottolo una grande statua. Era l'italia, una donna formosa col petto nudo. Subito mamma fasciò il petto con la bandiera d'italia. I bambini non dovevano scandalizzarsi. Eppure ricordo ancora io e Nicola sforzarci a salire fino al petto della statua ed alzare la bandiera. Chissà cosa credevamo di vedere. Da questo pianerottolo si entrava in un piccolo appartamentino dove era stato ricavato il gabinetto, una grande stanza da bagno che serviva da lavanderia, da deposito ecc. Altri gradini sette o otto e si arrivava in un lungo corridoio che portava alle camere da letto. Erano cinque. Quindi una magnifica casa, ampia, spaziosa che certamente procurava anche molto lavoro. Fortunatamente allora c'erano le donne di servizio: Lucia, Maria, Rosina, ne sono passate tante da casa nostra. Belle ragazzotte di campagna che venivano in città a lavorare e che, contrariamente a quanto si pensa oggi, vivevano in armonia nelle famiglie dove si integravano. C'era chi era allegra, chi meno, ognuna aveva il proprio carattere, ma tutte in casa nostra si trovavano bene, perché in casa nostra tutte erano trattate con gentilezza e generosità. Descrivere il giardino è una cosa che faccio con tanta gioia. Mi pare di sentire il profumo del gelsomino e del caprifoglio quando in maggio e giugno fiorivano. I muri della casa ne erano ricoperti. Qua e là rose fiorite in tutte le stagioni, e fiori, fiori piccoli e grandi, dalle grandi peonie alle zinnie, dalle primule ai fiori profumatissimi del paradiso, alle piante di serenelle. Ogni stagione ci offriva i suoi colori, i suoi profumi. Ma la cosa più bella del giardino era quella magnifica secolare pianta di magnolie. Quando fioriva, i suoi fiori bianchi emanavano un profumo indescrivibile, ma era bellissima anche senza fiori perché le sue foglie lucide e verdi erano stupende. La pianta era altissima e ricordo che i fiori venivano staccati con una lunga pertica che finiva con un uncino.

8 Una metà del giardino, prima incolto, venne trasformato in orto. Li cresceva di tutto, dalle patate ai pomodori, dalle insalate ai piselli, fagioli e via dicendo. Questo orto faceva fronte alle necessità della numerosa famiglia. Inoltre in mezzo al giardino e all'orto c'erano alberi da frutta, ciliegie, albicocche ma soprattutto prugne. Era talmente tanta la frutta che maturava tutta insieme che un po' tutti, nel Borgo, ne godevano. Mi ricordo che veniva specialmente donata all'asilo. E come dimenticare l'uva spina, il ribes, le fragole. Quanta ricchezza in quel piccolo regno. Al giardino e all'orto accudiva un uomo di nome Francesco, un'istituzione nella famiglia Galmozzi. Era un povero contadino di Torre Boldone rimasto vedovo giovanissimo con cinque figli. In casa nostra faceva di tutto, tagliava la legna, infiascava il vino e non poche volte si ubriacava. Lo rivedo ancora con quelle vecchie brache che scendevano sotto la pancia. Ancora oggi noi fratelli quando vediamo un paio di calzonacci sformati e sdruciti diciamo "I braghe del póer Francesco". Questa casa e questo giardino hanno una parte molto importante nella nostra famiglia. Oggi, quando passo davanti a quel giardino, a quella casa dei nostri giochi, dei nostri sogni, mi viene un'indicibile tristezza. Sono cresciute quattro brutte villettine con giardinetti disordinati, c'è un'officina di macchine, tutto messo in qualche modo e persino quello che era l'atrio d'entrata sotto il portone è diventato un negozio. Quando passo davanti, quasi corro per non vedere questa trasformazione e torno col pensiero ai miei tempi, alla mia infanzia per tornare a sognare. In questa casa ci siamo vissuti quasi dieci anni, in questa casa sono passate le persone più care alla mamma, lo zio Volodia, fratello di mamma che abitava a Parigi e veniva spesso a trovarci, la zia Nina, sorella di mamma che trascorse con noi quasi sei mesi. Venuta dalla lontana Romania, trovò in noi figlioli una compagnia allegra, lei che, senza figli, aveva tanto affetto da dare. In questa casa veniva a trovarci tante volte un'altra persona cara a mamma. La dott.ssa Rosina Filchevich, anche lei come mamma non aveva più potuto tornare in Russia, ma mentre mamma aveva una grande famiglia, lei era rimasta sola. Cartolina di auguri natalizi da mammma Elisabetta a papà Ferruccio

9 In questa casa passarono momenti felici anche una vecchia zia di papà, la zia Caterina rimasta vedova e sola, il dottor Rabbeno, amico di papà, professore all'università di Torino. Non era sposato, perciò veniva spesso in casa nostra. E ancora altre persone a noi care frequentavano questa casa. E in questa casa, a noi tanto cara, nacque GianMaria, l'ultimo nostro fratello, nato tre anni dopo la morte dei tre fratellini. Ne parleremo più avanti di questo grande avvenimento nella nostra famiglia. Ed ora descritta più o meno bene questa casa, mi sembra giusto parlare del trasloco. Il trasloco, lo ricordo benissimo. Su un carretto, tirato da un cavallo, venne trasportata la masserizia. Penso che il viaggio con tutti i mobili da una parte all'altra del Borgo, il cavallo lo abbia fatto più volte perché, sebbene i mobili non fossero stati tanti, la famiglia era numerosa e almeno otto letti e i rispettivi materassi ci saranno stati. Io ho presente questa scena. Un carro stracolmo di mobili, in alto i materassi e sui materassi felici e trionfanti due fratellini, Marcella e Nicola. Abbiamo attraversato tutto il Borgo così, che felicità! E pensare che una trentina di anni dopo si ripeteva la stessa scena con mio figlio Giorgio. Solo che il trasloco avveniva in Inghilterra in quel di Guildford. FORESTO SPARSO (1927) - L'anno 1927 è stato proprio l'anno delle grandi novità. Oltre aver cambiato casa ed essere andata a vivere in una casa grande, bella, circondata da un grande giardino, papà, dopo la terribile disgrazia della morte dei tre bambini, cercava disperatamente una casa in campagna ove si potesse vivere nei giorni estivi. Non so come trovò questa casa a Foresto Sparso; apparteneva a un medico che, innamorato della caccia, aveva dedicato tutte le sue cure ad un'uccellanda che si trovava nel bosco di sua proprietà. Come posso parlare della casa di Foresto senza un senso di commozione? Lì abbiamo trascorso le estati più belle della nostra infanzia e giovinezza. Lì abbiamo anche trascorso i terribili anni della guerra. Era una vecchia casa padronale, caratteristica casa padronale di campagna di fine Posta su quattro piani, in fin dei conti non aveva che otto stanze, due su ogni piano. Stanzoni enormi che davano su porticati altrettanto enormi. Poche stanze con una grandissima cucina e una altrettanto grande sala, ognuna con il camino, poche stanze, dicevo, ma capaci di contenere moltissima gente. Mentre la parte inferiore era adibita a rustico, per una scaletta si saliva in cortile e di qui si entrava in un portico a tre archi. Praticamente qui si svolgeva la nostra vita. Poiché si viveva d'estate, la vita era sempre all'aperto. In cucina si lavava, si stirava, si cucinava, si facevano i nostri bagni di bambini (nel famoso semicupio), in sala si entrava a pranzare solo quando pioveva o nella prima stagione autunnale quando incominciava a far freddo. Due scale, una dalla cucina e una dal portico esterno portavano al primo piano. Altro grandissimo portico che introduceva in due camere da letto. Dal secondo portico si saliva per una scala al terzo portico, altrettanto grande, che introduceva in altre due camere da letto. Dal retro, dalla cucina a pian terreno si usciva su un'altra terrazza che dava in una stanza che chiamavamo il pozzo. Non c'era né luce né acqua, quando papà ha comperato la casa.

10 L'acqua piovana veniva raccolta in una cisterna. Veniva poi messa nei secchi e depositata nella stanza di cui ho parlato, perché doveva servire per tutti i vari servizi. L'acqua potabile si doveva andarla a prenderla ad una fonte distante non meno di un quarto d'ora da casa. Erano i contadini, uomini o donne, che andavano a prenderla. La raccoglievano nei soliti secchi e venivano portati a due a due sulle spalle tramite un lungo bastone (si chiamava ol bàsol) che nella estremità aveva due spacchi nei quali si introducevano i manici dei secchi. Mi ricordo con quale gioia, quando ottenevamo il permesso, andavamo alla fonte anche noi coi contadini, magari con un fiaschetto per raccogliere l'acqua fresca per papà quando arrivava da Bergamo. Quella fontana ora non c'è più. C'erano dei gradini lucidi e scivolosi per scendere alla sorgente, ma aveva un che di poetico. E la luce?, anche quella non c'era ancora. Si andava avanti con le candele e le lampade a petrolio. L'arrivo della luce elettrica, qualche anno dopo, fu una cosa importantissima. Mi ricordo ancora che qualche volta alla sera queste lampade a petrolio accese riflettevano sui muri strani disegni. Tutti avevano un po' di paura, ma forse più di tutti mamma che però non voleva farsi vedere impaurita dai suoi bambini. L'arrivo della luce fu un sollievo e una gioia per tutti. Parlare della casa e non dei campi è impossibile. La casa era circondata da ben cinquanta pertiche (misura bergamasca) quasi tutte coltivate a vite. C'erano pure molte piante di frutta, ma tutto era piuttosto in stato di abbandono. Cominciò così per papà un nuovo lavoro di cui conosceva ben poco. Fu presa una famiglia di contadini che doveva far andare a mezzadria questo appezzamento di terreno e si cominciò a lavorare la terra. Più di vanghe, badili, rastrelli, secchi, canestri non c'era. Il lavoro veniva svolto tutto a mano. Ricordo il lavoro duro dei contadini e delle donne, lavoravano sodo da mattina a sera e la terra qualche volta era generosa, qualche volta avara. Anche le giovani donne andavano nei campi, mentre le nonne curavano la casa alla bell e meglio e allevavano i piccoli. Non sono favole da "Albero degli zoccoli", è pura realtà di cinquanta anni fa o poco più. Rivedo i contadini partire presto all'alba con la gerla e il forcone, rivedo la vecchia Maria ninnare eternamente con il piede la piccola "cúna" ove stava l'ultimo nato e intanto fare andare le mani per aggiustare vecchi calzoni o per sferruzzare le grosse calze che dovevano servire per l'inverno. Vicino alla casetta dei contadini c'era anche una stalla con tre mucche, "la Bionda", "la Formenta", "la Garofala", di cui ricordo persino il nome. Mangiavano l'erba dei campi, in compenso, ci davano latte fresco che serviva per tutti. Si facevano persino burro e ricotta. E la stalla serviva anche per scaldarci d'inverno. Noi non passavamo l'inverno a Foresto, però quando in autunno incominciavano le giornate fredde si scendeva noi ragazzi, specialmente di sera, nelle stalle per scaldarci. Allora per noi era un divertimento, oggi penso a quanta miseria e a quanta semplicità c'era nella vita dei contadini di allora.

11 Eppure c'era tanta legna del bosco, non mancavano i camini e le stufe, ma l'idea dell'economia e del risparmio era una fissa di allora. Come dicevo, c'era la legna del bosco. Sì, perché la casa, i campi non erano tutto, c'era annesso a questo possedimento un bel pezzo di bosco ricco di castagni. Nel mezzo di questo bosco si trovava un'uccellanda e una piccola casa in legno verde ove il cacciatore viveva nel periodo di cacciagione. Ma né il papà, né i contadini erano cacciatori, per cui per noi questa casetta era diventata la casetta dei nostri sogni. Ogni tanto noi bambini andavamo con la mamma per passare la giornata e pranzare al sacco. Che bella quella piccola casa verde, per noi era la casetta delle fate. Quanti giochi in quella piccola terrazza cui si accedeva con tre gradini pure di legno. Quello era il nostro tram. Cosa può fare la fantasia dei bambini. La legna del bosco era tanta, serviva per i lunghi inverni cittadini. Non c'era calorifero allora. Perciò ogni autunno partiva da Foresto un carro, carico di legna, più o meno grande e fino a Bergamo un povero cavallo lo trainava. Non vi dico la festa a Bergamo quando arrivava il carro con il cavallo. Allora il nostro "póer Francesco" dava una mano al contadino per scaricare la legna, le eventuali damigiane del vino nuovo e qualche sacco di frutta, in genere castagne, noci e mele che servivano per tutto l'inverno. Quante cose abbiamo imparato vivendo in campagna. Intanto abbiamo imparato ad apprezzare il duro lavoro dei contadini, abbiamo imparato a conoscere le bestie, dal cavallo alle mucche, delle galline ai conigli. Abbiamo visto mungere le mucche, pulire le stalle, andavamo anche noi a dar da mangiare ai conigli e alle galline. Abbiamo visto nascere i piccoli pulcini ed abbiamo conosciuto cosa sono le ansie dei contadini per una mucca ammalata o la loro gioia per la nascita di un vitello. Esperienze che non dimenticheremo mai, e pensare che i miei figli hanno imparato a conoscere gli animali solamente dalle figure dei libri. Parlerò ancora tanto di Foresto, troppo legata ai miei ricordi d'infanzia. Parlerò dei contadini che hanno vissuto con noi, parlerò degli ospiti che hanno allietato le nostre vacanze.. LA NASCITA DI GIANMARIA (1929) - I ricordi si susseguono. Uno dei più cari è certamente il ricordo della nascita di GianMaria. Dopo la morte dei tre piccoli, in mamma e papà era rimasto un vuoto profondo ed anche se cinque figlioli erano pur tanti, il vuoto rimasto fu solo colmato dalla nascita di GianMaria, nato a tre anni di distanza dalla morte degli altri. Mamma non era giovane per una nuova gravidanza, eppure fu questa nuova gravidanza a riportare gioia e sorriso nella nostra casa. Non ricordo bene come mamma ci aveva preparato a questa sua nuova maternità. I discorsi su certi argomenti allora non si facevano, ricordo bene i preparativi di un nuovo lettino e qualcosa di vago ancora. Ricordo assai bene invece il giorno della nascita, il 29 maggio. Per tutti noi bambini fu trovata una sistemazione presso case di conoscenti. Allora i bambini nascevano in casa, perciò i fratellini venivano allontanati.

12 Io ero in casa della Signorina Maria Benvenuto, una buona amica della mamma, giovane maestra ventenne, che fu poi mia madrina di Cresima. La Signorina Maria, voleva molto bene ai bambini e veniva spesso a dare una mano in casa a mamma. Diciamo era, la "baby-sitter" di allora. Aveva passato con noi a Foresto le prime due estati, quando tutti così piccoli davamo pensieri e preoccupazioni in questa casa così grande, ma anche così solitaria. La Signorina Maria era un'istituzione in casa nostra, teneva tanta compagnia a mamma, ci allietava con le sue fiabe, con la sua preziosa mano ci confezionava golfini e calzini ed i suo ricami ornavano la nostra casa. Bellissime le tende di rete che aveva ricamato per la casa di Foresto. Dunque, in occasione della nascita di GianMaria, mi ero trasferita nella casa dei Signori Benvenuto, in via Vezza d'oglio 4. Fui accolta in casa come una reginetta. La famiglia era composta da papà e mamma, due fratelli che studiavano medicina e un'altra sorella, Anna, che studiava da maestra. Io mi sentivo, piccola piccola fra tanti adulti, ma non mi dispiaceva certo, essere coccolata. Ma, come spesso succede quando non dovrebbe, mi ammalai in casa loro. Febbre molto alta, spavento degli ospitanti e arrivo di corsa di papà. Non era altro che la reazione ad una certa vaccinazione che avevo fatto, ciò non toglie che tutti si spaventarono e come conseguenza, la Signorina Maria di ritorno dalla scuola dove insegnava, mi comprò un bellissimo ferro da stiro. Me lo ricordo ancora, era piccolo, ma in ferro (o ghisa) come quelli veri e si apriva sopra per mettervi la carbonella accesa. Quanti vestiti di bambola ho stirato con quel ferro! Passati i giorni cruciali per mamma, tornai a casa, e insieme a me tornarono anche gli altri fratellini. Accogliemmo tutti con gioia GianMaria; non vi dico come io e Marussia ci contendevamo il nuovo fratellino per tenerlo un po' in braccio. A mamma e papà ritornarono il sorriso e la gioia, per mamma ricominciò una nuova giovinezza, sempre ridente, sempre contenta pur fra tanto lavoro. Papà ricominciò a tenere a tavola, in braccio, durante il pranzo l'ultimo nato. I giorni passavano sereni e felici pur fra tanto trambusto. Non posso ricordare GianMaria piccolo, senza accennare al vecchio caro signor Luigi Valoti. Abitava anche lui in Borgo S. Caterina n.6. Le stanze da letto di casa nostra al primo piano confinavano con l'appartamento del signor Valoti. Un unico terrazzo univa i due appartamenti, separati solamente da una cancellata in ferro. Non so come, un bel giorno, la cancellata fu tolta e così liberamente si passava da un appartamento all'altro. Veramente strana l'amicizia fra due famiglie così diverse. Da una parte papà e mamma con sei figli, dall'altra una famiglia composta da un'unica persona, appunto il Signor Valoti. Noi lo consideravamo molto vecchio, forse non aveva più di sessant'anni, piuttosto alto, magro camminava con un bastone, ma il più delle volte lo trovavamo seduto su una poltrona a causa della sua malattia. Aveva la gotta, per cui portava degli stivaletti alti, sformati probabilmente per le grandi malformazioni che aveva ai piedi.

13 Ricordo che il nostro sguardo di bambini arrivava sempre a quei piedi deformati. Viveva con lui una donna sui quarant'anni che era a suo servizio, Felice. Felice di nome e di fatto, una bella donna con una faccia sempre sorridente. Questo signore, molto ricco perché viveva di rendita, era proprietario di tutta quella casa che noi abitavamo, aveva conosciuto papà in Parrocchia perché fabbriciere l'uno e l'altro. Divenne poi cliente di papà ed infine amico di famiglia. Tanto amico che fece togliere la cancellata in ferro perché potessimo andare a casa sua quando e come volevamo. Era molto solo e la compagnia dei bambini gli faceva tanto piacere. Non vi so dire la sua gioia, quando, nato GianMaria, papà nostro gli propose di diventare suo padrino di battesimo. La vicinanza di GianMaria lo rendeva felice, e così quando Gian cominciò a sgambettare, non poche volte se lo prendeva fra le braccia, lo posava sulle sue ginocchia e se lo coccolava come un nipotino. La sua casa, vuota di bambini, ma piena di mobili, ninnoli e ninnoletti era tenuta alla perfezione dalla buona Felice. Felice era anche una brava cuoca e non poche volte i suoi dolcetti finivano nelle nostre tasche. A questo punto non posso non raccontare un episodio che ha dell'incredibile. Un giorno papà, come al solito, presa la macchina dal garage uscì di casa per andare a fare una visita. Dal garage al cancello in fondo al giardino c'era un lungo viale. Quando papà usciva, bisognava perciò andare ad aprire il cancello mentre egli si preparava alla manovra, e poi richiuderlo. Anche quel giorno qualcuno aprì il cancello, papà uscì, ma il cancello rimase aperto, qualcuno dimenticò di chiuderlo. Così, in un attimo Gian che probabilmente si trovava in giardino, visto il cancello aperto, uscì di casa. GianMaria aveva solo due anni e balbettava le prime parole. Iniziò la sua grande avventura di esploratore. Mamma e noi tutti per un po' non ci accorgemmo della scomparsa di Gian. Probabilmente ognuno pensava che fosse con l'altro. Quando ci si accorse che veramente GianMaria non era né in casa, né in giardino e si vide il cancello aperto, allora fummo colti tutti dal panico. Tutti fuori strada a cercare in preda al terrore questo bambino. Quale fu la sorpresa di mamma d'incontrare in Via Pitentino, non molto lontano da casa, Gian accompagnato dal Signor Valoti. Ma il fantastico era che il Signor Valoti non aveva riconosciuto il suo amato figlioccio, incredulo all'idea che fosse scappato da casa, e aveva preso per mano questo bimbo, trovato solo per strada, con l'idea di portarlo da noi e decidere il da farsi. Tutto finì in un grande abbraccio di gioia, ma i momenti di panico furono grandi se a tanti anni di distanza ricordo l'episodio con grande emozione. Per noi fratelli il ricordo del Signor Valoti è legato a questo episodio. Fu proprio in quell'anno 1929 che venne in Italia, fin dalla lontana Romania, una sorella di mamma. La zia Nina. Era una giornalista, sposata ad un giornalista, non aveva figli; era venuta per trascorrere un po' di tempo in casa nostra. Anche lei, come mamma, aveva dovuto scappare dalla Russia e rifugiatasi in Romania, conduceva una vita abbastanza tranquilla. Non so dire come abbia potuto venire dalla Romania in Italia. Era apolide, come del resto lo zio Volodia.

14 Io la ricordo ancora con in braccio Gian, le piaceva tanto ninnarlo e intanto cantava le ninna nanne russe, "Aluli...", le stesse che poi ho cantato ai miei figli. Se lo stringeva al petto come se fosse suo figlio. Forse con GianMaria aveva provato anche lei la gioia di un bimbo da ninnare, forse in cuor suo immaginava di essere mamma. Cara zia Nina chissà che fine avrai fatto! Ti rivedo pettinata con un chignon dietro la nuca, con la schiena leggermente incurvata, vestita di nero. E mi ricordo di te anche a Foresto; avevi passato un'estate con noi in campagna e parlavi e parlavi con mamma in russo e mamma finalmente poteva sfogarsi con te a parlare la sua lingua che non parlava mai. E noi bambini incantati a guardarvi, senza capire niente. Aveva voluto mamma insegnarci un po' di russo e quando eravamo a tavola ci faceva ripete in russo gli oggetti che vedevamo. Ma eravamo troppo piccoli e troppi, per cui ogni fine pranzo facevamo gli stupidini e finivamo a storpiare le parole e tutto finiva in gioco. A questo punto prima di andare avanti nei ricordi, mi sembra giusto presentare la mia mamma con la sua storia passata, la storia di mamma, giovane russa arrivata in Italia. STORIA DI MAMMA ELISABETTA - Aveva 18 anni mamma, quando, piena di speranze e di voglia di studiare, arrivò in Italia. Eliisabetta Ghelfenbain nel suo studio medico Già dal 1905 una violenta campagna antiebraica era in atto in Russia. Gli Ebrei non potevano iscriversi all'università. Ed allora, ecco la giovane Elisabetta pensare di venire in Italia per iscriversi alla facoltà di medicina. Non so la ragione per cui sia andata a Torino, diciamo il destino, lì doveva incontrare papà Ferruccio. Se penso che nel primo novecento mamma si preparava ad un viaggio lungo, avventuroso, mi pare impossibile. Erano tre le studentesse ebree, che abbandonata la Russia si preparavano all'impresa di seguire il difficile corso di medicina senza sapere una parola di italiano. So che prima dell'iscrizione dovettero sostenere un esame integrativo, latino compreso. Il viaggio durava due giorni. In treno, dalla lontana Odessa armate di bagagli e di tanta buona volontà si preparavano alla difficile impresa. Ci raccontava mamma, con quanto amore

15 la sua mamma le preparava tutto il cibo per il lungo viaggio. Sarà stata anche una bella avventura, ma che coraggio! Lasciava là papà, mamma e sei fratelli e non sarebbe tornata in Russia che per l'estate. A Torino si sistemò in una pensione insieme alle sue amiche e cominciò l'avventura. Penso alle difficoltà che avrà incontrato, esami di chimica, patologia, istologia ecc. ecc...tutto in italiano. Furono aiutate, questo sì. Si può immaginare cosa volesse dire per degli studenti universitari trovarsi con delle ragazze per di più straniere (non bisogna dimenticare che le studentesse in medicina erano allora assai rare). Mia mamma poi era veramente bella, dalle foto che ci sono rimaste possiamo immaginare quanto fascino suscitasse nei suoi compagni. Elisabetta Ghelfenbein Ed ecco mamma studentessa, superare piano piano i suoi esami. Gli anni scorrevano ed ogni estate mamma riprendeva il lungo viaggio verso Odessa. Fra i compagni di scuola, il più solerte ad aiutarla e a farle compagnia fu papà Ferruccio. Era bravissimo a scuola, si distingueva fra tutti e perciò aiutare mamma gli fu facile. Si frequentarono sempre di più. Ma quale diversità fra loro. Nazionalità diverse, religione diversa. Papà allora era un giovanotto, impegnato non solo nella scuola, ma anche nelle organizzazioni cattoliche: universitari cattolici, animatore ne era Mons. Pini amico di papà, movimento popolare di Don Sturzo. Da una parte papà, impegnato nella scuola, sempre bravo, sempre primo, disposto ad aiutare chi era in difficoltà, dall'altra parte mamma, intenta nei difficili studi, impegnata ad imparare la lingua, a conoscere usi e

16 costumi di un'altra nazione. Due vite diverse che correvano parallelamente e nello stesso tempo s'incrociavano. I primi approcci non solo scolastici, le prime gite insieme, li accomunavano. Papà rispettoso delle usanze di mamma, della sua diversità religiosa, non voleva assolutamente influire sulle sue scelte.. Mamma sempre più affascinata di questo giovanotto che non voleva disturbare ed intromettersi nell'intimità delle sue scelte, maturava qualcosa. Forse fu proprio questo rispetto, questa non ingerenza nelle cose altrui, che affascinarono mamma. Volle incominciare a capire gli interessi di questo suo compagno nel campo religioso. Lei, ebrea non praticante, volle conoscere il cristianesimo, volle andare a lezione di religione, imparare, capire. E piano piano si avvicinò alla nostra religione e ne fu entusiasta. Raccontava la nostra mamma di avere avuto in casa da bambina come cameriera una "babusca", così era chiamata la cameriera, che all'insaputa dei genitori portava qualche volta la piccola Elisabetta in Chiesa, e mamma ricordava di essere stata fin da piccola affascinata dalle cerimonie religiose a cui qualche volta aveva assistito. Mamma Elisabetta sposa, 12 febbraio 1917 Era la Chiesa ortodossa quella che qualche volta frequentava, non la sinagoga, perché la famiglia non era praticante. E così mentre si preparava alla laurea in medicina, si preparava anche alla conversione. Deve essere stato bello e solenne il giorno del matrimonio di papà e mamma. In quel giorno Mons Pini, amico di papà Ferruccio, prima di unire in matrimonio Elisabetta e Ferruccio, battezzò, cresimò e diede il sacramento della Comunione a mamma. Nelle foto vediamo mamma vestita di bianco vicino a papà. Che bella sposa! Penso all'emozione di questi sposi, di mamma soprattutto, sola qui in Italia, lontana da tutti i parenti.

17 Perché era avvenuto un fatto grave durante la permanenza di mamma in Italia per gli studi universitari. In Russia era scoppiata la rivoluzione e mamma rimase in Italia, tagliata fuori per sempre dal suo mondo. Povera mamma. Penso a quanto avrà sofferto così lontana da tutti. Per quanto tempo non ebbe notizie dei suoi. Per fortuna la Provvidenza le ha fatto incontrare papà, si sposarono e formarono una bella e grande famiglia. Ma le radici della propria terra non si possono dimenticare e nel corso della sua esistenza, tanto spesso travagliata, molte volte avrà provato nostalgia della sua terra, dei suoi cari. La conversione al cattolicesimo deve essere stata molto importante nella sua vita, noi figlioli abbiamo imparato da lei tantissimo anche nel campo religioso. La sua fede così viva la trasmise a noi, i suoi insegnamenti religiosi e morali furono insieme a quelli di papà esempi per tutta la nostra vita. I RICORDI RIAFFIORANO - La prima bugia. Avrò avuto sette o otto anni, me lo ricordo come se fosse oggi. Stavo facendo in cucina i miei compiti, le operazioni erano il mio tormento. Ho sempre avuto una avversione per l'aritmetica fin da bambina. Un gran tramestio nel rustico; erano corsi fuori di casa tutti i fratellini per vedere la nascita dei pulcini. Finalmente la chioccia aveva finito di covare. Anch'io ero corsa per vedere ed assistere all'avvenimento, dimentica che mamma mi aveva detto di non muovermi finché non avessi finito le operazioni. La curiosità era più forte di me. Ed ecco che mamma mi domandò perché ero uscita di casa. Ed io subito a dire che avevo fatto tutto, il compito era finito, e... non era vero. Non ricordo se ebbi un castigo per questa bugia, so però con certezza che alla prima confessione questa bugia ritornò in mente. A proposito di bugia vorrei rammentare un gesto tanto caro a noi fratelli. Quando si discuteva di qualcosa e si voleva convincere l'altro della verità di ciò che si diceva usavamo un'espressione strana, mai sentita da altri "Mano sul cuore" dicevamo, mentre appoggiavamo sul serio la mano sul cuore. E anche a mamma e papà quando volevamo confermare di aver detto la verità, ripetevamo le stesse parole con lo stesso gesto. Un'altra volta invece avvenne (per me bambina) un miracolo. Stavo facendo un compito e la mamma mi chiese un favore; andare a comperare il latte dalla lattaia che aveva il negozio dirimpetto a casa nostra. Non ne avevo voglia, ma la mamma me lo chiese con tanta insistenza di farle questo piacere che io uscii sebbene a malincuore. Cosa successe: tornai a casa e trovai il compito fatto. Era l'angioletto che lo aveva fatto perché ero stata brava. Non credo che fossi così sciocca di crederci, ma alla mamma faceva piacere pensare che lo credessi ed io accettai il compromesso. Piaceri a mamma devo dire ne facevo parecchi. Un po' perché mamma voleva che imparassimo fin da piccoli che non si deve essere serviti, un po' perché mi piacevano i lavori di casa. Si apparecchiava e sparecchiava la tavola a turno, io, Marussia e qualche volta i fratelli. Spolveravo qualche volta, ma soprattutto mi piaceva andare a fare la spesa. Andavo dal Fornaio Pirotta e dalla lattaia Maria. Si comperava tanto pane ai nostri

18 tempi. Due o tre chili al giorno. Buon pane fresco e durante la strada se ne mangiava uno magari appena sfornato, ancora caldo. Qualche rara volta, forse a Natale e a Pasqua per la colazione del mattino si mangiavano delle ottime veneziane piene di zuccherini sulla crosta. La latteria era una piccola bottega fredda, dove oltre il latte si vendevano le uova, il burro e qualche caramellina o liquerizia. Le liquerizie si chiamavano stringhe per le forme che avevano. La vecchia Maria, portava sempre uno scialle sulle spalle. Nella botteguccia c'erano due o tre bidoni di latte contenenti cinquanta litri. Noi si andava a prendere il latte con la pentola che la lattaia riempiva con i suoi misurini di un quarto o mezzo litro che venivano immersi nel bidone e travasati nella pentola. Parlando di liquerizie, legno dolce e caramelle, non posso dimenticare le mie domeniche pomeriggio all'oratorio femminile. Merita proprio un discorso a parte l'oratorio. Questa istituzione che fortunatamente esiste tutt'ora, era di grande aiuto per le mamme. Esisteva l'oratorio femminile e maschile. Uno era condotto dalle suore e l'altro dai sacerdoti. Io e Marussia frequentavamo volentieri l'oratorio. Si passava tutto il pomeriggio della domenica. Prima si faceva lezione di catechismo, poi si giocava e verso le cinque si andava alle "operine". La dottrina era tenuta dalle stesse suore che conducevano l'asilo, aiutate da alcune signorine, fra le quali c'era la Giuseppina Mometti, un'istituzione nella nostra famiglia. Giuseppina, "Peppina" per tutti, era la figlia di un infermiere di papà e veniva in casa nostra ad aiutare mamma nei servizi. Non era la vera donna di servizio (la colf di oggi); veniva solo nel pomeriggio per lo studio di papà. Riceveva i clienti, rispondeva al telefono e intanto aggiustava le calze, o meglio si addormentava sulle calze da aggiustare. Conosceva tutta la gente del Borgo, e tutta la gente conosceva lei, perciò a lei si raccomandavano quando occorreva qualcosa presso il dottore. Alla domenica, dunque, Giuseppina ci accompagnava all'oratorio, i fratellini li affidava all'oratorio maschile mentre noi con lei rimanevamo a quello femminile. Pensate come si sentiva importante. Lì era la signorina maestra. L'insegnamento del catechismo, consisteva allora, nello studio a memoria del famoso "Catechismo di Pio X". Domande e risposte di pagine e pagine. Oggi uno studio così mnemonico sarebbe incomprensibile. Eppure quante cose sapevamo. Attraverso questo studio si imparavano a conoscere le verità di fede. Quando da adulta diventai anch'io insegnante di dottrina di bimbe più piccole, usai un altro metodo perché si cambiò sistema; anche dopo sposata insegnai ai miei figli con altri metodi più razionali, ma non disprezzerò mai quello che imparai da piccola. Quante cose ancora oggi ricordo per averle imparate allora. Alla fine dell'anno il Parroco veniva ad interrogarci e le alunne più brave venivano mandate al Centro Diocesano dove un altro sacerdote le interrogava e alla fine veniva consegnato un diploma. Era un orgoglio per le maestre di dottrina riuscire ad inviare al centro Diocesano parecchie allieve, perciò la nostra Peppina si raccomandava tanto a noi. E io e Marussia riuscivamo a farla contenta prendendo il diploma. Dopo un'ora di catechismo e dopo la Benedizione Eucaristica che si riceveva nella nostra cappella, si andava nel grande cortile a giocare. Si giocava tanto a corda, a mondo, si correva come matti sotto la sorveglianza delle Suore e delle signorine.

19 A proposito di corse non posso dimenticare uno scontro frontale di Marussia con una sua compagna di gioco. Fu tale la violenza dello scontro che Marussia svenne e fu accompagnata a casa con un occhio gonfio e tumefatto che la fece soffrire parecchio. Cose che succedono da che mondo è mondo ma che non possono non lasciare un segno. Verso le cinque di sera, quando cominciava a farsi buio aveva inizio lo spettacolo, le cosiddette "operine". In un teatrino, non proprio infame a dire il vero, venivano presentate delle commedie e persino delle tragedie. Il vecchio parroco, Don Garbelli, amante di spettacoli era il direttore e la compagnia era formata tutta da signorine che svolgevano anche le parti maschili. Erano operaie, impiegate, ragazze comuni che, con una passione immensa, passavano tutte le sere all'oratorio per studiare le parti e fare le prove. Chi può dimenticare la Pedrali, la Coffetti, ma soprattutto la Chigioni che faceva sempre la parte dell'uomo, il bello o il principe che veniva a salvare dalle situazioni drammatiche? "Il Padrone delle Ferriere", "I miserabili", "I tre moschettieri" per ricordare soltanto qualche titolo fra i più importanti presentati. Ricordando il teatrino dell'oratorio rivedo le mie vecchie compagne di scuola e di giochi, rivivo quei momenti gioiosi della mia infanzia e risento il profumo tipico di mandarini, arachidi e carrube che si mangiavano durante lo spettacolo e che si vendevano insieme a liquerizie e legno dolce. NATALE IN CASA GALMOZZI - Era una festa grande molto importante e molto sentita. Le solite preghiere di ritiro, così si chiamavano, le riunioni nei vari oratori in preparazione alla Messa di Natale. Finché si era piccoli si andava tutti insieme alla Messa con papà e mamma non solo il giorno di Natale ma anche tutte le domeniche alle 6.30 del mattino. Era una vera levataccia e vi assicuro che facevamo tutti una grande fatica. Ma papà ci teneva molto che si andasse tutti insieme e, poiché lui, domenica o non domenica, doveva essere all'ospedale al mattino presto, questo rituale si svolgeva tutte le domeniche. Va bene che la famiglia Galmozzi era additata ad esempio in Parrocchia, ma oggi da adulta penso che fosse una richiesta inutile di sacrificio a bambini così piccoli. Solo più tardi e più grandi, quando incominciammo a frequentare altre associazioni, cambiammo gli orari della Messa. Penso che papà di questo fatto ne soffrisse. Dunque anche il giorno di Natale andavamo a messa alle A casa ci aspettava una colazione speciale. Cioccolata e veneziane, fresche, croccanti che papà comperava in pasticceria. Poi tutti in fila si andava davanti al presepe. I doni non li portava Gesù Bambino, perché qualche giorno prima arrivava Santa Lucia: 13 dicembre. Avvenimento speciale nella città di Bergamo. Non pensate che i doni fossero come quelli di oggi.

20 Un cavallo a dondolo, una bambola, una palla magari fatta di fili colorati di lana e parecchi zuccherini dai colori variopinti e mandarini e arance. Eppure eravamo contenti. Vorrei anche dire che noi bambini, eravamo particolarmente fortunati perché papà Ferruccio riceveva a Natale un mucchio di doni dai suoi clienti che lo adoravano. E, poiché sapevano che la casa era piena di bambini non vi so dire quante leccornie arrivavano; panettoni, panettoni, caramelle, cioccolatini e non dimenticherò mai il cestone di arance e mandarini splendidi che ogni anno arrivava dalla Sicilia. La preparazione del presepio richiedeva un lavoro lungo. Noi avevamo una cucina molto ampia, praticamente uno stanzone diviso da un arco che formava due stanze. Da una parte c'era la vera cucina con lavandino, stufa e tavolone ecc., dall'altra parte un lungo tavolone e i mobili da tinello. In un angolo su un gran tavolo (evidentemente i tavoli non mancavano) si faceva il nostro presepio. Il tavolo era coperto di muschio vero che il nostro Francesco ci procurava, rametti di pino componevano gli alberi, e cartapesta e carta azzurra a stelle dorate formavano le montagne e il cielo. Non mancavano pezzi di legna che servivano per comporre le varie stalle e non ultima la capanna. Era tutto un lavoro artigianale fatto con tanto impegno; ogni anno era nuovo anche se apparentemente sempre uguale. Ai fratelli più grandi era concesso preparare il fondo e il lavoro di base, ai più piccoli era concesso deporre le statuine. Come in tutti i vecchi presepi oltre al Bambino, San Giuseppe, la Madonna, l'asino e il bue, gli zampognari, i pastori e le pecorelle, non mancavano l'arrotino, il fabbro, il calzolaio, il mugnaio ecc., non mancava il laghetto fatto con la carta d'argento e le ochette. Il mio bel presepio non lo dimenticherò mai. Questo presepio deve essere finito in casa di GianMaria, il più piccolo dei nostri fratelli, che, una volta sposato, mantenne le stesse usanze della casa paterna. Ma, cosa strana ai quei tempi, in casa nostra esisteva anche un gigantesco albero di Natale. Un vero gigantesco pino che alla fine delle feste veniva poi piantato in giardino. La mamma dalla Russia aveva portato questa usanza, veramente originale a quei tempi e l'albero con tutti i colori, le palline, le candeline le ricordavano la sua lontana Russia. Oltre ai vari aggeggi natalizi, con filari d'oro e d'argento, venivano appesi tanti piccoli doni. Torroncini, soldini di cioccolato, pupazzi di cioccolato, zuccherini ecc. A Natale veniva sempre a trascorrere un periodo di riposo in casa nostra un fratello di mamma, lo zio Volodia. Era uno zio, anche lui fuggito dalla Russia, che viveva a Parigi e lavorava in borsa. Caro, povero zio Volodia, era ricco, molto ricco e quando arrivava ci riempiva di doni di una certa consistenza. Si godeva con noi le feste Natalizie, familiarizzava con tutti, ed era tanto portato alle lingue che in pochi giorni non solo parlava bene l italiano, ma persino parlava il bergamasco con le nostre donne di servizio e coi contadini che scendevano in città per gli auguri natalizi. Lo zio aveva una voce bella e intonata, sapeva brani di musica operistica a memoria, individuava immediatamente un brano musicale e si metteva a cantare.

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