Michail Bulgakov. LA GUARDIA BIANCA. Einaudi, 1967 Torino

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1 Michail Bulgakov. LA GUARDIA BIANCA. Einaudi, 1967 Torino Titolo originale: "Belaja gvardija" Traduzione di Ettore Lo Gatto

2 LA GUARDIA BIANCA "Cominciò a cadere una neve minuta e ad un tratto si mutò in grandi fiocchi. Il vento ululò; cominciò la tempesta di neve. In un attimo il cielo buio si confuse col mare di neve. Tutto scomparve. - Ah, Signore, - esclamò il cocchiere: - sventura: la tempesta di neve!" PUSKIN, "La figlia del capitano". "Ed i morti furono giudicati dalle cose scritte ne' libri, secondo l'opere loro..." PARTE PRIMA 1. Fu grande e terribile l'anno 1918 dalla nascita di Cristo, il secondo dall'inizio della rivoluzione. Fu ricco di sole l'estate e di neve l'inverno e particolarmente alte nel cielo stettero due stelle: la stella dei pastori, la Venere serotina, e il rosso, tremulo Marte. Ma i giorni volano come frecce sia negli anni di pace sia negli anni di sangue, e i giovani Turbin non si erano accorti come nel forte gelo era giunto il bianco velloso dicembre. Oh! nostro Babbo Natale sotto l'albero, scintillante di neve e di felicità! Mamma, regina luminosa, dove sei tu? Un anno dopo che la figlia Elena si era sposata col capitano Sergej Ivanovic Tal'berg, proprio la settimana in cui il figlio maggiore Aleksej Vasil'evic Turbin, dopo le dure campagne, il servizio e ogni sorta di disgrazie, era ritornato in Ucraina, in città, nel nido paterno, la bara bianca col corpo della madre era stata portata, per l'alekseevskij spusk (1) a Podol nella piccola chiesa di Nicola il Buono, che si trova a Vzvoz. Quando fu cantata la messa funebre in suffragio della madre, era maggio, i ciliegi e le acace avevano addirittura sbarrato le finestre ogivali. Padre Aleksandr, che incespicava spesso per la tristezza e l'emozione, brillava e scintillava vicino alle fiammelle d'oro, e il diacono, col viso e il collo paonazzi, d'oro battuto fino alle punte delle scarpe che scricchiolavano con le doppie suole, pronunciava con voce cupa e tonante le parole d'addio alla mamma che lasciava i suoi figli. Aleksej, Elena, Tal'berg e Anjuta, cresciuta in casa dei Turbin, e Nikolka, intontito dalla morte, con un ciuffo di capelli pendenti sopra il sopracciglio destro, stavano ai piedi d'un San Nicola vecchio e scuro. Gli occhi azzurri di Nikolka, messi ai lati di un lungo naso da uccello, guardavano smarriti, abbattuti. Di quando in quando egli li levava sull'iconostasi (2), sull'arcata dell'altare annegata nell'oscurità, dove si innalzava triste ed enigmatico il vecchio Dio, e batteva le palpebre. Perché una simile offesa? Una simile ingiustizia? Perché era stato necessario portar loro via la madre, proprio quando tutti s'erano riuniti, quando era arrivato un po' di sollievo?

3 Dio, che s'involava nel nero cielo screpolato, non dava risposta, e Nikolka non sapeva ancora che qualunque cosa succeda, succede sempre così come deve e solo per il meglio. Il servizio funebre finì, uscirono sulle lastre risonanti del portico e accompagnarono la madre attraverso tutta l'enorme città al cimitero, dove, sotto una croce di marmo nero, giaceva da molto tempo il padre. E la mamma fu seppellita. Ahimè... Molti anni prima della morte, nella casa n. 13 all'alekseevskij spusk, la stufa di maiolica olandese nella sala da pranzo aveva riscaldato e veduto crescere la piccola Elena, il primogenito Aleksej e l'ancora piccino piccino Nikolka. Quante volte accanto alla stufa di maiolica rovente era stato letto "Il carpentiere di Saardam" (3)', l'orologio aveva suonato la gavotta, e verso la fine di dicembre s'era fatto sentire l'odore della resina e le candele di paraffina multicolore avevano bruciato sui rami verdi! In risposta all'orologio di bronzo con la gavotta, che si trovava nella camera da letto della mamma ed ora di Elena, nella sala da pranzo aveva suonato l'orologio nero con la suoneria a torre. L'aveva comprato il babbo molto tempo prima, quando le donne portavano ancora quelle ridicole maniche a rigonfi vicino alle spalle. Queste maniche erano sparite, il tempo era fuggito via come un baleno, era morto il padre professore, tutti erano cresciuti, ma l'orologio era rimasto quello di prima e suonava con la suoneria a torre. Vi erano ormai tanto abituati tutti, che se esso per un miracolo fosse scomparso dal muro, li avrebbe presi la malinconia, come se si fosse spenta una voce cara; e nulla avrebbe potuto riempire il posto vuoto. Ma l'orologio per fortuna era immortale ed immortale era anche "Il carpentiere di Saardam", e la maiolica olandese, come una saggia roccia, era piena di vita e di calore proprio nel tempo più penoso. Ecco, questa maiolica e il mobilio di vecchio velluto rosso e i letti con i pomi lucidi, i tappeti logori, variopinti o di color lampone col falco in una mano dello zar Aleksej Michajlovic, con Luigi Quattordicesimo sdraiato in dolce ozio sulla riva di un lago di seta in un giardino paradisiaco, i tappeti turchi con le bizzarre spirali su uno sfondo orientale che apparivano al piccolo Nikolka nel delirio della scarlattina, la lampada di bronzo col paralume, gli scaffali più belli del mondo coperti di libri che mandavano un misterioso odore di cioccolata antica, con Natasa Rostova (4), con la "Figlia del capitano" (5), le tazze dorate, l'argenteria, i ritratti, le tende, tutte le sette stanze polverose e piene, tra le cui mura erano cresciuti i giovani Turbin, tutto questo, nell'epoca più penosa la madre aveva lasciato ai suoi figli dicendo, mentre già rantolava e le forze venivano meno ed essa si aggrappava alla mano di Elena piangente: - Vivete... d'accordo. Ma come vivere? Come vivere dunque? Aleksej Vasil'evic Turbin, il figlio maggiore, un giovane medico, ha ventotto anni. Elena ne ha ventiquattro. Suo marito, il capitano Tal'berg, ne ha trentuno, e Nikolka, diciassette e mezzo. La loro vita è stata stroncata all'alba. Già da un pezzo ha cominciato a infuriare il vento dal nord, infuria e non posa, e quanto più si va avanti tanto peggio diventa. Il maggiore dei Turbin è ritornato nella città natale dopo il

4 primo colpo che ha scosso i monti là sopra il Dnepr. Si pensava che sarebbe presto finito e sarebbe cominciata la vita di cui si parla nei libri dal profumo di cioccolata, ma essa non soltanto non comincia, ma si fa intorno sempre più terribile. A nord la tempesta piange ed urla senza tregua, e qui sotto i piedi rimbomba sordamente, brontola il ventre inquieto della terra. L'anno diciotto vola verso la fine e guarda di giorno in giorno sempre più minaccioso e furioso. Cadranno le mura, volerà via il falco allarmato dal guanto bianco, si spegnerà la fiamma nella lampada di bronzo, la "Figlia del capitano" sarà bruciata nella stufa. La madre ha detto ai figli: - Vivete. Ed essi dovranno soffrire e morire. Un giorno, al crepuscolo, subito dopo i funerali della madre, Aleksej Turbin, venuto da padre Aleksandr, gli disse: - Sì, c'è una gran tristezza da noi, padre Aleksandr. E' difficile dimenticare la mamma, e per di più si attraversa un momento così difficile... Io sono appena tornato; pensavo: adesso organizzeremo la nostra vita ed ecco che... Egli tacque e, seduto vicino al tavolo nella luce crepuscolare, rimase pensoso, guardando lontano. I rami nel cortile della chiesa chiudevano tutta la casetta del prete. Come se lì subito, dopo il muro del piccolo stretto studietto ricolmo di libri, cominciasse il bosco primaverile misterioso e intricato. Dalla città veniva il solito frastuono della sera, nell'aria si sentiva l'odore dei lillà. - Che vuoi farci, che vuoi farci? - borbottò come mortificato il prete. (Egli pareva sempre mortificato quando doveva discorrere con qualcuno). - E' la volontà di Dio. - Ma finirà, un giorno, tutto ciò? Sarà meglio più tardi? - domandò Turbin come rivolgendosi a un assente. Il prete si agitò nella poltrona. - Sono tempi difficili, assai difficili, non c'è che dire, - borbottò egli, - ma non bisogna lasciarsi abbattere... Poi, all'improvviso, posò la sua mano bianca, liberandola dalla manica scura della tonaca, su una pila di libri e aprì quello di sopra, là dove c'era un segnalibro ricamato. - Non bisogna lasciarsi prendere dallo scoraggiamento, - disse egli confuso, ma in un modo molto persuasivo. - Lo scoraggiamento è un grande peccato... Tuttavia credo che ci saranno ancora delle prove da superare. Sì, sì, delle grandi prove, - disse egli ancora più convinto. - Io, sapete, in questi ultimi tempi, me la passo sempre leggendo i libri della mia specialità, si capisce, soprattutto di teologia... Egli sollevò il libro, in modo che l'ultima luce dalla finestra cadesse sulla pagina e lesse: "Poi il terzo angelo versò la sua coppa ne' fiumi, e nelle fonti dell'acque: e divennero sangue". 2.

5 E così era giunto il bianco, velloso dicembre. Si avvicinava già impetuosamente alla metà. Sulle rive coperte di neve si sentiva già il riflesso di Natale. Sarebbe arrivata presto la fine del diciotto. Sulla casa n. 13 a due piani, una costruzione sorprendente (verso la strada l'appartamento dei Turbin era al secondo piano, ma verso il piccolo e comodo cortile in discesa era al primo), nel giardino, che era come appiccicato sotto una ripidissima collina, tutti i rami degli alberi erano diventati come grosse zampe e pendevano giù. La collina era come imbiancata, le piccole rimesse nella corte erano completamente coperte e formavano come una gigantesca testa di zucchero. La casa si coprì del suo berretto di generale bianco, e al piano inferiore (il primo verso la strada - verso il cortile, sotto la veranda dei Turbin, era già sottosuolo) le finestre si illuminarono di lumicini deboli e giallognoli - erano le finestre di Vasilij Ivanovic Lisovic, ingegnere e vigliacco, borghese e antipatico, mentre al piano superiore si accesero gaiamente le finestre dei Turbin. Al crepuscolo Aleksej e Nikolka andarono a prender la legna nella rimessa. - Ohilà, diavolo, n'è rimasta poca, di legna. L'hanno portata via di nuovo oggi, guarda. Dalla lampadina elettrica di Nikolka uscì un cono azzurro di luce, e in esso si vide che la rivestitura di tavole era stata strappata dal muro e inchiodata alla meglio dal di fuori. - Li piglierei volentieri a revolverate, quei diavoli! Lo giuro. Sai, questa notte li pigliamo in castagna. Lo so, sono i calzolai del n. 11. Ma che mascalzoni! Ed hanno più legna di noi. - Che vadano a... Andiamo. Prendi. Il catenaccio arrugginito cantò, un grosso strato di neve cadde sui due fratelli che trascinavano la legna per terra. Verso le nove della sera non era più possibile toccare le maioliche di Saardam. La straordinaria stufa sulla sua superficie lucida portava le seguenti storiche iscrizioni e figure, tracciate in vari momenti del diciotto dalla mano di Nikolka con inchiostro litografico e pieni di un significato profondo. "Se ti dicono che gli alleati corrono in nostro aiuto, non ci credere. Gli alleati sono delle carogne." Egli simpatizza per i bolscevichi." Disegno: il muso di Momus. Firma: ""L'ulano Leonid Jur'evic". Voci terribili minacciose: Avanzano le bande rosse!" Disegno a colori a olio: una testa con baffi pendenti, con un colbacco con la coda azzurra.

6 Firma: ""Dagli a Petljura (6)!"" Di mano di Elena e dei teneri e vecchi amici d'infanzia dei Turbin - Myslaevskij, Karas', Servinskij - con colori a olio, inchiostro di china, inchiostro e succo di ciliege, era scritto: "Elena Vasil'evna ci vuol molto bene. A chi - si, chi - no." "Lenocka, ho preso il biglietto per l'"aida". Bell'étage n. 8, parte destra." "Nel 1918 il 12 maggio mi sono innamorato." Voi siete grasso e brutto." "Dopo queste parole mi ucciderò." (Era disegnata molto esattamente una browning). "Viva la Russia, Viva l'autocrazia" "Giugno. Barcarola." "Non per nulla tutta la Russia ricorda Il giorno di Borodino." Con lettera a stampatello, di mano di Nikolka: "Io ordino di non scrivere cose fuori luogo sulla stufa, sotto pena di fucilazione di qualsiasi compagno e con la privazione dei diritti. "Il commissario del comitato rionale di Podol, sarto per signore, signori e dame, Abram Pruziner." "1918, 30 gennaio". Alitano calore le maioliche dipinte, l'orologio nero cammina, come trent'anni fa: dong-dang. Il più grande dei Turbin, rasato, coi capelli chiari, invecchiato e tetro dopo il 25 ottobre 1917, indossa una giubba con delle tasche enormi, calzoni azzurri di cavalleggero, ha delle morbide pantofole nuove ai piedi e se ne sta nella sua posizione prediletta - seduto con i piedi sulla poltrona. Ai suoi piedi, su di uno sgabellino, sta Nikolka che porta un ciuffo, e tiene le gambe allungate fin quasi alla

7 credenza, - la sala da pranzo è piccola. Egli porta stivali con le fibbie. La compagna di Nikolka, la chitarra, da dei suoni dolci teneri e sordi; tren, tren... Un indistinto tren, tren... perché, per ora, vedete, non si sa ancora nulla di preciso. Nella città c'è allarme, confusione, le cose vanno male... Nikolka porta le spalline di sottufficiale con ricami bianchi, e sulla manica sinistra ha un gallone triangolare a tre colori (prima legione di fanteria, terzo reparto. Si sta costituendo da quattro giorni, in vista degli avvenimenti che si preannunziano). Ma, nonostante tutti questi avvenimenti, nella sala da pranzo, in fondo, si sta magnificamente bene. C'è caldo, è tutto così comodo, le tende chiare sono abbassate. E il calore riscalda i fratelli, dà un senso di languore. Il fratello maggiore butta il libro, si stiracchia. - Via, suona un po'. Tren, tren, tren,... tren, tren... "Stivali eleganti, berretti sciccosi, Passano gli allievi ufficiali del genio!" Il fratello maggiore si mette a cantare sottovoce anche lui. Gli occhi sono cupi, ma in essi si accende una fiammella, nelle vene - il calore. Ma piano, signori, piano, pianino. "Buongiorno a voi, signori villeggianti Buongiorno a voi, signore villeggianti..." La chitarra va a tempo di marcia, dalle corde scorre la compagnia, gli allievi ingegneri marciano: un due, un due... Gli occhi di Nikolka ricordano: La scuola militare. Le scalcinate colonne del ginnasio, i cannoni. Gli allievi ufficiali si trascinano sulla pancia da una finestra all'altra, sparano. Le mitragliatrici alle finestre. Una massa di soldati ha assediato la scuola militare, sì, una vera massa. Che si può fare? Il generale Bogorodickij si è spaventato e si è arreso, si è arreso con gli allievi ufficiali. Vergogna... "Buongiorno a voi, signore villeggianti. Buongiorno a voi, signori villeggianti, E' da un pezzo che abbiamo cominciato." Si annebbiano gli occhi di Nikolka. Colonne d'afa sopra i dorati campi ucraini. Camminano nella polvere le compagnie degli allievi ufficiali incipriate di polvere. C'è stato, sì, c'è stato tutto questo ed ora non c'è più. Vergogna. Assurdità! Elena scostò la portiera e nello spazio nero apparve la sua testa dai capelli rossigni. Gettò un'occhiata tenera ai fratelli e una molto inquieta all'orologio. E si capiva perché. Dov'è dunque Tal'berg? La sorella è agitata.

8 Vorrebbe, per mascherarlo, cantare con i fratelli, ma si ferma d'un tratto e solleva un dito. - Aspettate. Sentite? La compagnia fermò il suo passo su tutte e sette le corde: alt! Tutti e tre ascoltarono e non ebbero dubbio: era il rombo dei cannoni. Pesante, lontano e sordo. Ecco, ancora una volta: bum... Nikolka posò la chitarra e si alzò in fretta; dietro di lui, ansimando, si alzò Aleksej. Nel salotto è buio pesto. Nikolka urta contro una sedia. Dalle finestre si vede una vera "Notte della vigilia di Natale" (7): neve e lumicini. Tremano e vacillano. Nikolka si accosta dappresso alla finestra. Dagli occhi sono scomparsi l'afa e la scuola, gli occhi sono ora come tesi ad ascoltare. Dove? Egli si stringe nelle sue spalle di sottufficiale. - Il diavolo lo sa. Ho l'impressione che sparino sotto Svjatosino. Strano, non può essere così vicino. Aleksej è nel buio, Elena più presso alla finestra, e si vede che i suoi occhi sono scuri per lo spavento. Che significa che Tal'berg non è ancora venuto? Il fratello sente la sua emozione e perciò non dice una parola, sebbene abbia una gran voglia di dire qualcosa. A Svjatosino. Non ci può essere dubbio. Sparano a dodici verste dalla Città, non più lontano. Che roba è questa? Nikolka appoggiò una mano alla maniglia della finestra e schiacciò l'altra sul vetro, come se lo volesse sfondare e uscir fuori; anche il naso è schiacciato contro il vetro. - Vorrei proprio andarci. Informarmi di che si tratta... - Già, ci manchi solo tu là... Elena parla agitata. E' una disgrazia. Il marito doveva ritornare al più tardi, sentite, al più tardi, oggi alle tre del pomeriggio e sono già le dieci. Ritornano in silenzio nella sala da pranzo. La chitarra tace, cupa. Nikolka porta dalla cucina il samovar che canta e sputa sinistramente. Sul tavolo sono preparate le tazze con dei fiori delicati al di fuori e dorate di dentro, delle tazze speciali che sembrano colonnette ornate. Ai tempi della madre, Anna Vladimirovna, era questo il servizio da festa, adesso è diventato quello di tutti i giorni. La tovaglia, nonostante i cannoni e tutta questa inquietudine, ansietà e assurdità, è bianca e inamidata. E' merito di Elena, che non può diversamente, merito dell'anjuta cresciuta in casa dei Turbin. I pavimenti sono lucidi, e sebbene sia dicembre, sul tavolo, in un vaso opaco a colonna, sono le ortensie azzurre e due rose cupe e calde, come a confermare la bellezza e la continuità della vita, benché alle porte della Città sia il perfido nemico, che può perfino distruggere la bella nevosa città e calpestare coi tacchi gli ultimi frammenti di quiete. I fiori sono un omaggio del fedele ammiratore di Elena, il tenente della guardia Leonid Jur'evic Servinskij, amico della commessa della famosa confetteria Marquise, amico della commessa del grazioso negozio di fiori La Flora di Nizza. All'ombra delle ortensie un piattino a rabeschi azzurri, qualche fetta di salame, il burro nel vasetto di vetro trasparente, nel cestino dei biscotti un coltello a sega e degli sfilatini di pane bianco. Si potrebbe fare un magnifico spuntino e prendere un po' di té. Se non ci fossero tutte queste circostanze tetre... Ahimè!...

9 Un gallo di lana variopinta cavalca sulla teiera, e nel lucido fianco del samovar si riflettono i tre visi alterati dei Turbin e le guance di Nikolka che sembrano quelle di Momus. Negli occhi di Elena è l'angoscia, e le ciocche di capelli dal riflesso dorato di fuoco penzolano tristi. Tal'berg è rimasto, si vede, in qualche posto col suo treno-tesoreria dell'etmano (8) ed ha rovinato la serata. Il diavolo solo sa se non gli è capitata qualche disgrazia!... I fratelli masticano fiaccamente i panini imbottiti. Davanti ad Elena è la tazza col té che si fredda e "Il signore di San Francisco" di Bunin. Gli occhi annebbiati guardano senza vedere, le parole: "... buio, oceano, tempesta." Non legge, Elena. Alla fine Nikolka non resiste più: - Vorrei sapere perché sparano così vicino. Non può essere... Si interruppe e, a un suo movimento, si deformò il riflesso nel samovar. Pausa. La sfera passa sopra il decimo minuto e, dong-dang, va verso le dieci e un quarto. - Sparano perché i tedeschi sono dei mascalzoni, - borbotta improvvisamente il fratello maggiore. Elena alzò la testa verso l'orologio e domandò: - Possibile, possibile che ci abbandonino al destino? - La sua voce era piena d'angoscia. I fratelli, come seguendo un comando, voltano la testa e cominciano a mentire: - Non si sa nulla, - dice Nikolka e stacca con i denti un boccone. - L'ho detto così, hm... come ipotesi. Sono voci. - No, non sono voci, - risponde ostinatamente Elena, - non è una voce, è la verità; oggi ho visto la Sceglova e mi ha detto che da Borodjanka hanno richiamato due reggimenti tedeschi. - Sciocchezze. - Pensa un po' tu, - comincia il fratello maggiore, - ti pare verosimile che i tedeschi lascino avvicinarsi alla città quel farabutto? Rifletti un po'! Io non riesco assolutamente a immaginarmi che essi possano andare d'accordo con lui per un minuto soltanto. Una vera assurdità. I tedeschi e Petljura. Essi stessi non lo chiamano altrimenti che bandito. E' ridicolo. - Ah, che dici. Li conosco adesso i tedeschi, io. Ne ho già visti certi con i nastri rossi. E un sergente ubriaco con una donna. E anche la donna era ubriaca. - E che importa? Singoli casi di disgregazione possono succedere anche nell'esercito tedesco. - E così, secondo voi Petljura non entrerà? - Uhm... Secondo me la cosa non è possibile. - "Absolument". Mi dai, per piacere, un'altra tazza di té? Non allarmarti. Conserva, come si dice, la calma. - Ma, Dio mio, dov'è Sergej? Sono convinta che il loro treno è stato assalito e...

10 - Che dici? Perché fantastichi senza ragione? Quella linea è completamente libera. - Dio mio! Sai benissimo come ci si muove adesso. Certamente saranno rimasti fermi quattro ore in ogni stazione. - Viaggio di rivoluzione. Vai per un'ora e ti fermi per due. Elena, con un sospiro profondo, guardò l'orologio, rimase un po' in silenzio, poi cominciò di nuovo a parlare: - Signore Iddio! Se i tedeschi non facessero questa vigliaccheria, andrebbe tutto benissimo. Bastano due loro reggimenti per schiacciare il vostro Petljura come una mosca. No, lo vedo, i tedeschi fanno un infame doppio giuoco. E perché non ci sono i tanto vantati alleati? Vigliacchi... Hanno promesso, promesso... Il samovar, che fino a quel momento aveva taciuto, cominciò a cantare improvvisamente e pezzetti di carbone, velati di cenere grigia, cascarono sul vassoio. I fratelli guardarono istintivamente la stufa. La risposta eccola. Prego: "Gli alleati sono delle carogne." La sfera si fermò sul quarto, l'orologio emise un suono rauco e grave e batté un colpo, e immediatamente all'orologio rispose un suono squillante e sottile sotto il soffitto dell'anticamera. - Grazie a Dio, ecco anche Sergej, - disse allegramente il fratello maggiore. - E' Tal'berg, - confermò Nikolka e corse ad aprire. Elena si colorì, si alzò. Ma non era Tal'berg. Si sentì del chiasso presso la porta e la voce sorpresa di Nikolka risuonò sorda sulla scala. Una voce rispose. Alle voci seguì sulla scala il rumore pesante di stivali ferrati e di un calcio di fucile. La porta che dava nell'anticamera lasciò passare una ventata di freddo, e davanti ad Aleksej ed Elena si presentò un'alta figura dalle spalle quadrate avvolta in un pastrano che scendeva fino ai calcagni, con le spalline grigioverdi e le tre stellette di tenente disegnate con una matita copiativa. Il cappuccio era coperto di neve gelata, e il pesante fucile con la baionetta brunita occupò tutta l'anticamera. - Salve, - cantò la figura con una voce rauca di tenore, e con le dita intirizzite cercò di togliersi il cappuccio. - Vitja! Nikolka aiutò la figura a sciogliere i lacci, il cappuccio scivolò, dietro al cappuccio il tondello del berretto di ufficiale con una coccarda diventata ormai scura e sopra le enormi spalle emerse la testa del tenente Viktor Viktorovic Myslaevskij. Era una testa assai bella, dalla strana malinconica ed attraente bellezza di una autentica razza antica e di un che di decadente. La bellezza era negli occhi arditi di diverso colore, nelle lunghe ciglia. Il naso con una lieve gobba, le labbra orgogliose, la fronte bianca e pura, senza segni particolari. Ma un angolo della bocca scende malinconicamente e il mento è tagliato un po' di sbieco, come se nello scultore, che aveva modellato il nobile viso, fosse nata la folle fantasia di portar via una striscia di argilla, lasciando al viso virile un piccolo e irregolare mento femmineo. - Di dove vieni?

11 - Di dove? - Piano, - rispose debolmente Myslaevskij, - non rompere. C'è una bottiglia di vodka. Nikolka appese con precauzione il pesante pastrano, dalla cui tasca sporgeva il collo di una bottiglia avvolta in un pezzo di giornale. Poi appese il pesante fucile dal fodero di legno, facendo barcollare l'attaccapanni ornato di corna di cervo. Soltanto allora Myslaevskij si voltò verso Elena, le baciò la mano e disse : - Vengo da Krasnyj Traktir (9). Permettimi, Lena, di pernottare qui da voi. Non arriverei fino a casa. - Ah, Dio mio, ma si capisce. All'improvviso Myslaevskij gemette, tentò di soffiarsi sulle dita, ma le labbra non gli obbedivano. Le sopracciglia bianche e il nero dei corti baffi coperti di brina cominciarono a squagliarsi, e tutto il viso si inumidì. Il maggiore dei Turbin gli sbottonò la giubba, seguì la cucitura, e tirò fuori la camicia sporca. - Ecco, sicuro... E' pieno. Formicolano. - Ho capito -. Elena spaventata si diede da fare, dimenticando per un momento Tal'berg. - Nikolka, là in cucina c'è della legna. Corri, accendi la stufetta. Ah, che peccato, che ho lasciato andare Anjuta. Aleksej, levagli la giacca, presto. Myslaevskij, dando libero sfogo ai lamenti cadde su una sedia vicino alla stufa di maiolica. Elena correva da tutte le parti e le sue chiavi tintinnavano. Turbin e Nikolka, in ginocchio, sfilavano dai piedi di Myslaevskij gli stretti ed eleganti stivali legati ai polpacci da fibbie. - Adagio... Oh, adagio. Le strisce di tela, ripugnanti, coperte di macchie, si svolsero. Sotto di esse si vedevano dei calzini di seta viola. Nikolka mise subito la giacca sulla fredda veranda per far crepare i pidocchi. Myslaevskij in una sudicissima camicia di batista, su cui si incrociavano le bretelle nere, e in pantaloni blu con tiranti, apparve sottile e nero, malato e misero. Le palme delle mani livide pel freddo si misero a battere la maiolica cercando il calore. "Voci... minaccia... Veri... band... Mi sono innamorato... Maggio..." - Ma che vigliacchi! - esclamò Turbin. - Non potevano darvi stivali di feltro e giacche di pelliccia? - Di... feltro... - gli fece il verso piangendo Myslaevskij, - di fel... Un dolore insopportabile a causa del caldo gli tagliò le mani e i piedi. Sentito che i passi di Elena si erano smorzati in cucina, Myslaevskij furioso e lacrimante esclamò: - Un casino! Cadde in terra rantolando e contorcendosi, e, indicando con le dita i calzini, gemette: - Levateli, levateli, levateli... Si sentì l'odore ripugnante dell'alcool denaturato, mentre nel bacile si squagliava una montagna di neve; con un solo bicchierino di vodka il tenente Myslaevskij s'ubriacò in un attimo fino a farsi diventar torbida la vista.

12 - Si dovrà amputare davvero? Dio mio... - egli si dondolò amaramente nella poltrona. - Ma che dici, aspetta. Non è nulla... Ti s'è gelato il pollice. Passerà. Passerà anche questa. Nikolka si accoccolò e cominciò ad infilare ai piedi di Myslaevskij dei calzini neri, puliti, mentre quegli ficcava le braccia indurite come pezzi di legno nelle maniche di un accappatoio. Sulle guance si accesero delle macchie scarlatte. Rattrappito nella biancheria pulita e nell'accappatoio, si placò e si rianimò alla fine l'intirizzito tenente Myslaevskij. Delle bestemmie terribili cominciarono a saltare per la camera, come la grandine sul davanzale di una finestra. Torcendo gli occhi, egli ingiuriava con parole oscene lo Stato Maggiore che viaggiava in vagoni di prima classe, un certo colonnello Sc tkin, il freddo, Petljura, e i tedeschi, e la tempesta di neve, e finì con l'insultare con le più volgari parole da trivio l'etmano stesso di tutta l'ucraina. Aleksej e Nikolka guardavano il tenente che, riscaldandosi, batteva i denti ed esclamava di quando in quando: "Ohi... ohi". - L'etmano, ah? figlio di p...! - ruggiva Myslaevskij. - Cavaliere della guardia? Nel Palazzo? Eh? E noi ci hanno mandato così come eravamo vestiti. Eh? ventiquattr'ore sulla neve, al freddo... Signore! Pensavo: "Ci resteremo tutti"... Porca...! Ogni cento "sazen'" (10) un ufficiale - questo si chiama una catena di sbarramento? Per poco non ci hanno sgozzati come tante galline. - Aspetta, - diceva Turbin stordito dalle ingiurie, - ma chi c'è là vicino a Traktir? - Accidenti! - Myslaevskij fece un gesto con la mano, - non si capisce niente! Sai quanti eravamo vicino a Traktir? Qua-ran-ta uomini. Arriva quel figuro del colonnello Sc tkin e dice, - (qui Myslaevskij contrasse il viso, sforzandosi di imitare l'odioso colonnello Sc tkin e cominciò a parlare con una sgradevole voce sottile e sibilante): - "Signori ufficiali, tutta la speranza della Città è riposta in voi. Giustificate la fiducia della pericolante madre delle città russe; nel caso che il nemico compaia - passate all'assalto. Dio è con noi! Dopo sei ore vi darò il cambio. Ma vi prego di risparmiare le munizioni...", - Myslaevskij tornò a parlare con la voce naturale, - e si dileguò sulla macchina col suo aiutante. Era buio come nel c...! Gelo. Come se ti pungessero degli aghi - Ma chi c'è dunque lì, Signore Iddio? Non può mica esserci Petljura vicino a Traktir. - Chi diavolo lo sa? Ti assicuro che verso il mattino per poco non siamo impazziti. Occupato il posto a mezzanotte, aspettiamo il cambio... Non ci sentiamo più né le braccia, né le gambe. Il cambio non viene. Accendere i bracieri è impossibile, il villaggio è distante due verste, Traktir una versta. Di notte pare che il campo si muova. Sembra che qualcuno avanzi strisciando... Cos'è? Alzi il fucile, pensi, sparare o non sparare? Un supplizio. Ululavamo come lupi. Dai la voce, da qualche parte nella catena si risponde. Finalmente, mi seppellii nella neve, mi scavai una tomba col fucile, mi sedetti, sforzandomi di non addormentarmi: se ti addormenti, sei fregato. Verso il mattino non ho potuto resistere, sento che comincio a sonnecchiare. Sai cosa mi ha salvato? Le mitragliatrici. All'alba sento che a una distanza di tre verste cominciano a sparare. Ma di alzarsi manca la voglia. Poi cominciò a tuonare il cannone. Mi alzai, mi pareva che ogni gamba pesasse un "pud" (11) e pensai: "Complimenti, Petljura si è degnato". Serriamo un po' la fila, ci diamo la voce.

13 Decidemmo di far così: in caso di bisogno, ci raggrupperemo e ci difenderemo con i fucili, retrocedendo verso la città. Ci ammazzeranno tutti, pazienza. Almeno creperemo tutti insieme. E, figurati, la sparatoria cessò. La mattina cominciammo a tre a tre a correre verso Traktir per scaldarci. Sai quando è venuto il cambio? Oggi alle due del pomeriggio. Duecento allievi del primo reparto. E figurati, magnificamente equipaggiati: berrettoni di pelo, stivali di feltro e un comando di mitragliatrici. Li condusse il colonnello Naj-Turs. - Ah!... il nostro, il nostro! - esclamò Nikolka. - Aspetta, non è un ussaro del reggimento Belgradskij? - domandò Turbin. - Sì, sì, è un ussaro... Capisci, ci guardarono e rimasero terrificati: "Credevamo", ci dicono, "che ci fossero qui almeno un paio di compagnie con mitragliatrici. Come avete fatto a resistere?" - Quelle mitragliatrici sparavano alla Serebrjanka, dove verso la mattina ci fu l'attacco di una banda di un migliaio circa di uomini. Per fortuna non sapevano che anche lì la catena era come la nostra, altrimenti, ti puoi immaginare, fin dalla mattina tutta questa marmaglia avrebbe potuto fare una visita in Città. Per fortuna quegli altri avevano un certo collegamento con Post-Volynskij, lo fecero sapere e di là da non so quale batteria si rovesciò loro addosso una pioggia di shrapnel e il loro ardore si spense; così, capisci, non portarono a termine l'attacco e si dispersero. Dio sa dove. - Ma chi erano? Petljura? Non può essere. - E chi diavolo li conosce. Io credo che fossero dei contadini del posto - dei "portatori di Dio" (12) alla Dostoevskij... mah!... Figli di p...! - Signore! Dio mio! - E così, - continuò a dire con voce roca Myslaevskij, succhiando la sigaretta, - ci hanno dato il cambio, grazie a Dio! Ci contiamo, siamo trentotto. Congratulazioni: due morti di freddo. Partiti. Altri due li abbiamo trasportati: gli amputeranno le gambe. - Come! Morti assiderati? - E che credevi? Un allievo e un ufficiale. E a Popelich, che è sotto Traktir, ce n'è capitata una ancora più bella. Il tenente Krasin ed io ci trasciniamo lì a prendere la slitta per portare i congelati. Il villaggetto sembrava morto: nemmeno un'anima. Vediamo finalmente che arranca un vecchio in pellicciotto, con un bastone. Figurati, appena ci vede è tutto contento! Io sentii subito che c'era qualcosa che non andava. "Che cos'è?" penso. "Perché mai si rallegra tanto questo barbogio portatore di Dio?" "Ragazzi, ragazzi!" Mi rivolgo a lui con una voce dolce dolce: "Salute, nonnino. Dacci presto una slitta". E lui risponde: "Non ce n'è. Gli ufficiali le hanno portate tutte a Post". Io strizzai l'occhio a Krasin e dissi: "Ufficiali? Benone. Ma dove sono i vostri giovanotti?" E lui fa: "Sono scappati tutti da Petljura". Che ne dici? Mezzo cieco com'era, non s'era accorto che avevamo le spalline sotto i cappucci e ci aveva preso per dei petljuriani. Allora io, capisci, non riuscii a frenarmi... Faceva un freddo... Andai su tutte le furie... afferrai il vecchio per il petto, ma così, che per poco non gli feci volar l'anima al Creatore e gridai: "Sono scappati da Petljura? Ti fucilerò subito, così imparerai come si scappa da Petljura! Farai una passeggiata in Paradiso, canaglia che non sei altro!" Ma qui, si capisce, il santo agricoltore, seminatore e

14 protettore nostro, - (Myslaevskij, come se scaraventasse una valanga di pietre, cacciò fuori una terribile bestemmia), - aprì in un momento gli occhi. Naturalmente si buttò ai miei piedi: "Ohi, vostra signoria, perdonate al povero vecchio; l'ho fatto per stupidità e cecità; vi darò i cavalli, subito, però non ammazzatemi!" E si trovarono la slitta e i cavalli. - E così, verso il crepuscolo raggiungemmo Post. Quel che succede lì è inconcepibile. Lungo la via ho contato quattro batterie: non sono neppure messe in linea, è che non ci sono munizioni. Stati Maggiori, quanti ne vuoi. Nessuno, si capisce, sa un corno. E quel che è più grave, non si sa dove cacciare i morti! Finalmente abbiamo trovato un'ambulanza; ci credi? abbiamo dovuto dar loro per forza i morti, non li volevano prendere: "Voi dovete portarli in Città". Allora diventammo come delle belve. Krasin voleva addirittura fucilare un tale dello Stato Maggiore. Quello disse: "Sono sistemi da Petljura". E se la squagliò. Soltanto verso sera trovai, finalmente, il vagone di Sc tkin. Prima classe, luce elettrica... E cosa credi? Allo sportello sta piantato un pelandrone di attendente e non mi lascia passare. Eh? "Dorme", mi fa. "Ordine di non far entrare nessuno". Io picchiai con forza col fucile contro la parete del vagone, e dopo di me tutti i nostri cominciarono un fracasso d'inferno. Son venuti fuori dagli scompartimenti come dei ceci da un sacchetto. Venne fuori anche Sc tkin e cominciò ad agitarsi: "Ah, Dio mio. Ma certo. Subito. Ehi, attendenti, della zuppa, del cognac. Troveremo subito posto per tutti. Riposo completo. E' un vero eroismo. Ah, che perdita! Ma che fare: sono vittime. Non ne posso più..." E a un chilometro di distanza puzza di cognac. A-a-a! - Myslaevskij improvvisamente sbadigliò, chinò la testa, borbottando come in sogno: - Al reparto diedero un carro bestiame e una stufa... O-oh! Io ebbi fortuna. Evidentemente aveva voluto disfarsi di me dopo quel fracasso: "Lei, tenente, la mando in Città addetto allo Stato Maggiore del generale Kartuzov. Farà il suo rapporto! Eh-e-e! Io vado sulla locomotiva... sono intirizzito... il castello di Tamara... vodka..." Myslaevskij lasciò cadere la sigaretta dalle labbra, si gettò indietro e d'un colpo s'addormentò. - Questa è bella, - disse Nikolka smarrito. - Dov'è Elena? - domandò preoccupato il fratello maggiore, - bisognerà dargli un lenzuolo; tu portalo a lavarsi. Elena intanto di là, nella camera accanto alla cucina, dove, dietro una tenda di cotonina, nella stufetta vicino alla vasca da bagno di zinco, crepitava la fiamma della secca betulla, Elena piangeva. L'orologetto rauco della cucina batté le undici. Ed ella si immaginò Tal'berg ucciso. Certamente avevano assalito il treno col denaro, uccisa la scorta e sulla neve erano sparsi sangue e cervello. Elena era seduta nella semioscurità, attraverso l'arruffata corona dei capelli brillava la luce della fiamma, giù per le guance scorrevano le lacrime. Ucciso. Ucciso... Ed ecco tintinnò la voce sottile del campanello e riempì tutto l'appartamento. Elena come un uragano si precipitò attraverso la cucina, attraverso la biblioteca oscura, nella sala da pranzo. Le luci diventarono più vive. L'orologio nero cominciò a battere più forte, come a rotta di collo.

15 Ma Nikolka e il fratello maggiore si calmarono rapidamente dopo il primo impulso di gioia. Veramente la gioia era per Elena. Le spalline cuneiformi del ministero della guerra dell'etmano sulle spalle di Tal'berg facevano sempre una cattiva impressione sui fratelli. Del resto, anche prima delle spalline, quasi dal primo giorno delle nozze di Elena si era incrinato il vaso della vita dei Turbin, e da questa incrinatura l'acqua buona era corsa via impercettibilmente. Il vaso era ormai asciutto. Forse la causa principale di questo era negli occhi a doppio fondo del capitano di Stato Maggiore Sergej Ivanovic Tal'berg... Ahimè... Comunque, in quel momento il primo fondo lo si poteva leggere chiaramente. Nel fondo superiore c'era la semplice gioia umana che viene dal tepore, dalla luce e dalla sicurezza. Ma un po' più in fondo era evidente l'inquietudine, e Tal'berg l'aveva portata con sé or ora. I sentimenti più profondi naturalmente erano, come sempre, nascosti. In ogni modo nella figura di Tal'berg non si rifletteva nulla. La cintura era larga e ferma. Tutti e due i distintivi, quello dell'accademia e quello dell'università, brillavano egualmente come testoline bianche. La figura scarna si voltava e si rivoltava sotto l'orologio nero, come un automa. Tal'berg aveva molto freddo, ma sorrideva a tutti benevolmente. Tuttavia anche in quella benevolenza traspariva l'inquietudine. Nikolka, tirando su col suo lungo naso, fu il primo ad accorgersene. Trascinando le parole in modo lento e allegro Tal'berg raccontava che il treno, che portava il denaro in provincia sotto la sua scorta, vicino a Borodjanka, a quaranta verste dalla Città, era stato assalito non si sa da chi! Elena terrificata socchiudeva gli occhi e si stringeva ai distintivi del marito, i fratelli esclamavano di continuo "e poi, e poi", mentre Myslaevskij, che dormiva come un sasso, ronfava mettendo in mostra tra le labbra tre capsule d'oro. - Ma chi erano? Petljura? - Se fosse stato Petljura, - dice Tal'berg, condiscendente, ma nello stesso tempo con un sorriso inquieto, - difficilmente io sarei qui con voi... a discorrere. Non so chi sia stato. E' probabile che siano stati i reparti disciolti dei "serdjuki" (13). Hanno fatto irruzione nel vagone, brandendo i fucili e gridando: "Di chi è il convoglio?" Io ho risposto: ""Serdjuki"", ed essi, pensa pensa, brontola brontola, hanno dato il comando: "Giù dal vagone, ragazzi". E sono scomparsi tutti. Io ritengo che cercassero degli ufficiali, probabilmente ritenevano che si trattasse non di un convoglio ucraino, ma di un convoglio ufficiali -. Tal'berg gettò uno sguardo espressivo sui galloni di Nikolka, sbirciò l'orologio e aggiunse ad un tratto: - Elena, vieni di là, ho da dirti due parole... Elena lo seguì frettolosamente nella camera da letto, dove sulla parete al disopra del letto era il falco sul guanto bianco, e sulla scrivania di Elena ardeva con luce tenue la lampada verde, e su di una colonnetta di mogano erano i pastorelli di bronzo del frontone dell'orologio, che suonava ogni tre ore la gavotta. Per svegliare Myslaevskij, Nikolka dovette fare degli sforzi enormi: quegli barcollò, urtò due volte contro la porta e finì con l'addormentarsi nel bagno. Nikolka dovette restargli accanto a fare la guardia perché non annegasse. Intanto il fratello maggiore, senza sapere egli stesso perché, era passato nel salotto buio e, accostandosi alla

16 finestra, s'era messo in ascolto: di nuovo, sordamente, come nell'ovatta, rombavano i cannoni, a intervalli e lontano. La fulva Elena sembrava invecchiata e imbruttita di colpo. Gli occhi erano rossi: con le braccia penzoloni, ella ascoltava tristemente Tal'berg. E lui la sovrastava come un'enorme colonna e diceva implacabile: - Elena, è assolutamente impossibile agire diversamente. Elena allora riconciliandosi con l'inevitabile disse così: - Bene, capisco. Tu hai certo ragione. Tra cinque o sei giorni eh? Forse la situazione si cambierà in meglio. Qui Tal'berg si trovò in difficoltà. E dal suo viso scomparve perfino l'eterno sorriso stereotipato. Il viso invecchiò e in ogni suo punto c'era un pensiero fermamente deciso. Elena... Elena. Ah, la falsa, incerta speranza... Cinque... sei giorni... E Tal'berg disse: - Bisogna andarsene subito. Il treno parte all'una di notte Dopo una mezz'ora tutto nella camera col falco era sottosopra. La valigia in terra col ripiano interno drizzato, Elena, smagrita e severa, con delle rughe presso le labbra, in silenzio riponeva nella valigia le camicie, le mutande, le lenzuola. Tal'berg in ginocchio presso il tiretto inferiore dell'armadio vi rigirava una chiave. E poi... poi, tutto nella camera era disgustoso, come in tutte le camere dove c'è il caos quando si fanno le valige e, peggio ancora, è stato tolto il paralume. Non togliete mai il paralume dalla lampada! Mai. Il paralume è sacro. Non fuggite davanti al pericolo andando verso l'ignoto a frettolosi passi di topo. Sonnecchiate, leggete presso il paralume - che la tempesta ululi pure -, aspettate che vengano loro da voi... Tal'berg invece fuggiva. Egli si ergeva, calpestando dei pezzi di carta presso la pesante valigia chiusa, nel suo lungo pastrano, coi ben aggiustati copriorecchi neri, la coccarda grigio-azzurra dei seguaci dell'etmano e la sciabola alla cintura. Alla prima stazione passeggeri della Città si trova già il treno, ancora senza la locomotiva, come un bruco senza testa. E' composto di nove vagoni illuminati da una luce elettrica d'un biancore abbagliante. In questo treno all'una di notte parte per la Germania lo Stato Maggiore del generale von Bussoff. Prendono con loro anche Tal'berg: Tal'berg ha trovato delle relazioni... Il ministero dell'etmano è una stupida e insulsa operetta (Tal'berg amava esprimersi in modo triviale, ma forte) come, del resto, l'etmano stesso è un burattino. Tanto più insulsa, in quanto che... - Comprendi, - (bisbiglio), - i tedeschi abbandonano l'etmano alla sua sorte, ed è assai probabile che Petljura entri nella Città... e questo, tu sai... Oh, Elena, sapeva! Elena sapeva benissimo. Nel marzo del 1917 Tal'berg era stato il primo, - comprendete, il primo, - a venire alla scuola militare con una larga fascia rossa sulla manica. Erano ancora i primi giorni, quando gli ufficiali ch'erano nella Città alle notizie provenienti da Pietroburgo diventavano di color mattone e si ritiravano nei corridoi oscuri per non sentire nulla. Tal'berg, come membro del Comitato rivoluzionario militare, proprio lui, aveva arrestato il celebre generale Petrov. Ma quando, verso la fine del famoso anno, nella Città si verificarono molti fatti eccezionali e strani e vennero alla luce certi tipi che non portavano stivali, ma che in compenso portavano larghe brache visibili sotto ai grigi pastrani militari, e

17 costoro avevano dichiarato che a nessun costo avrebbero lasciata la Città per il fronte, perché al fronte non avevano niente da fare, e che sarebbero restati qui in Città, Tal'berg era diventato irascibile e aveva dichiarato seccamente che non era quello che ci voleva e che si trattava di un'insulsa operetta. E fino ad un certo punto egli aveva avuto ragione: ne era venuta fuori per davvero un'operetta, ma non una qualunque, bensì con un grande spargimento di sangue. Gli uomini dalle larghe brache erano stati cacciati via in un batter d'occhio dalla Città da grigi reggimenti isolati giunti da oltre le foreste, dalla pianura che conduce a Mosca. Tal'berg aveva detto che quelli dalle larghe brache erano degli avventurieri, e che le radici erano a Mosca, anche se queste radici erano bolsceviche. Ma un giorno, in marzo, erano entrati nella Città in grige colonne i tedeschi: avevano in testa dei fulvi bacili metallici, che li proteggevano dalle pallottole di shrapnel e gli ussari portavano certi berretti pelosi e montavano certi cavalli che al solo vederli Tal'berg capì dove erano le radici. Dopo alcuni pesanti colpi dei cannoni tedeschi presso la Città, i moscoviti si erano dileguati oltre le fumide foreste a mangiar carogne, mentre gli uomini dalle larghe brache rispuntarono dietro i tedeschi. Era stata una grossa sorpresa. Tal'berg sorrideva smarrito, ma non temeva nulla, perché quelli dalle larghe brache in presenza dei tedeschi erano cheti cheti, non osavano ammazzare nessuno e giravano anzi per le vie con una certa cautela, con l'aria di ospiti non sicuri. Tal'berg aveva dichiarato che essi non avevano radici e per due mesi non aveva prestato servizio. Nikolka Turbin aveva sorriso, entrando un giorno nella camera di Tal'berg. Questi stava scrivendo su di un grande foglio di carta degli esercizi di grammatica, e aveva davanti un libriccino sottile stampato su carta grigia. "Ignatij Perpillo - Grammatica ucraina". Nell'aprile del '18, a Pasqua, nel circo ronzavano allegramente gli opachi globi elettrici e tutto era nero di gente fino alla cupola. Tal'berg, come una colonna, stava nell'arena allegro e battagliero e faceva il conto delle mani: quelli dalle larghe brache erano finiti, sarebbe sorta l'ucraina, ma l'ucraina degli "etmani". Si eleggeva infatti l'etmano di tutta l'ucraina. - Ci siamo staccati dalla sanguinosa operetta moscovita, - diceva Tal'berg e splendeva nella strana uniforme dei seguaci dell'etmano, lì a casa, sullo sfondo delle vecchie care tappezzerie. L'orologio emetteva uno sprezzante e strozzato dong-dang, e l'acqua uscì fuori dal vaso. Nikolka e Aleksej non avevano nulla da dire con Tal'berg. Del resto sarebbe stato difficile dire qualcosa perché Tal'berg si irritava molto ogni volta che si parlava di politica, soprattutto quando Nikolka, con assoluta mancanza di tatto, diceva: "Ma come, Ser za, in marzo dicevi..." Tal'berg metteva subito in mostra la fila superiore dei suoi denti radi, ma grandi e bianchi, nei suoi occhi apparivano delle scintille gialle, ed egli cominciava ad agitarsi. Così, le conversazioni erano uscite di moda di per sé. Sì, un'operetta... Elena sapeva che cosa significava tale parola su quelle baltiche labbra rigonfie. Ma adesso l'operetta minacciava non più quelli dalle larghe brache, non più i moscoviti, non più un qualunque Ivan Ivanovic, ma Sergej Ivanovic Tal'berg in persona. Ogni uomo ha la sua stella e non per nulla nel medioevo gli astrologi di corte facevano oroscopi, predicevano l'avvenire. Oh, come erano saggi!

18 Ebbene, Sergej Ivanovic Tal'berg aveva una stella infelice e sfortunata! Per Tal'berg sarebbe stato bello se tutto fosse andato diritto, su una determinata linea, ma gli avvenimenti in Città in quel frattempo invece di seguire una linea retta facevano degli zig-zag capricciosi e invano Sergej Ivanovic cercava di indovinare che cosa sarebbe accaduto. Non aveva indovinato. Lontano ancora, a centocinquanta, forse anche duecento verste dalla Città, sui binari illuminati dalla luce bianca c'era una vettura salone. Nella vettura, come un pisello nel guscio, un uomo rasato, con le gambe ciondoloni dettava ai suoi scrivani e ai suoi aiutanti. Guai a Tal'berg se quell'uomo fosse venuto in Città - ed egli poteva venire! Guai! Il numero del giornale "Le notizie" era noto a tutti come anche il nome del capitano Tal'berg che aveva votato per l'etmano. Nel giornale c'era un articolo dovuto alla penna di Sergej Ivanovic e nell'articolo erano contenute le seguenti parole: "Petljura è un avventuriero che con la sua operetta minaccia la rovina del paese..." - Elena, tu lo capisci, non posso prenderti con me quando dovrò errare verso l'ignoto. Non ti pare? Elena non rispose perché era orgogliosa. - Io credo che riuscirò ad arrivare senza ostacoli in Crimea e sul Don attraverso la Romania. Von Bussoff mi ha promesso il suo appoggio. Io sono apprezzato. L'occupazione tedesca si è trasformata in un'operetta. I tedeschi se ne vanno già, - (bisbiglio). - Petljura, secondo i miei calcoli, crollerà presto anche lui. La vera forza viene dal Don. E tu sai che io non posso non essere là, dal momento che vi si forma l'armata del diritto e dell'ordine. Non esserci significa rovinarsi la carriera, e tu sai che Denikin è stato a capo della mia divisione. Sono certo che non passeranno tre mesi, al più tardi in maggio, e noi verremo in Città. Non aver paura di nulla. In nessun caso tu sarai toccata, e alla peggio hai il passaporto col tuo nome di ragazza. Pregherò Aleksej di proteggerti. Elena ritornò in sé. - Aspetta, - disse ella, - bisogna avvertire subito i fratelli che i tedeschi ci hanno tradito. Tal'berg si fece di bragia. - Certo, certo, senz'altro io... Anzi, diglielo tu. Anche se questo cambia poco le cose. Uno strano sentimento balenò nell'animo di Elena, ma non c'era tempo di abbandonarsi alla riflessione: Tal'berg già baciava la moglie, e ci fu un istante in cui nei suoi occhi a doppio fondo si rifletté un sentimento solo: la tenerezza. Elena non seppe trattenersi e si mise a piangere, ma piano piano: era una donna forte, non per nulla figlia di Anna Vladimirovna. Poi nel salotto ebbe luogo il congedo con i fratelli. Nella lampada di bronzo si accese una luce rosea che illuminò tutto l'angolo. Il pianoforte mostrò i suoi denti bianchi così familiari e lo spartito del "Faust" aperto là dove gli scarabocchi neri delle note formano una fitta fila nera e il variopinto Valentino dalla barba rossa canta: "Per la sorella mia ti prego

19 Abbi pietà di lei! Proteggila." Perfino a Tal'berg, che per natura era alieno da ogni sentimentalismo, rimasero impressi nella memoria gli accordi neri e le pagine logore dell'eterno "Faust". Ahimè!... Egli non avrebbe sentita più la cavatina sul dio possente, non avrebbe sentito più Elena accompagnare il canto di Servinskij! Eppure, quando i Turbin e Tal'berg non ci saranno più al mondo, di nuovo suoneranno i tasti e sulla scena uscirà il variopinto Valentino, e nei palchi si sentirà l'effluvio dei profumi e a casa le donne, rischiarate dalla luce, accompagneranno al piano perché il "Faust", come "Il carpentiere di Saardam" è immortale. Tal'berg raccontò tutto lì vicino al pianoforte. I fratelli risposero con un cortese silenzio, sforzandosi di non batter ciglio. Il minore per orgoglio, il maggiore perché era un debole. La voce di Tal'berg tremò. - Proteggete Elena, - il primo fondo degli occhi di Tal'berg esprimeva preghiera e inquietudine. Egli rimase per un momento incerto, gettò smarrito un'occhiata all'orologio e disse preoccupato: - E' ora. Elena attirò a sé il marito, lo benedì con un rapido e sghembo segno della croce e lo baciò. Tal'berg punse i due fratelli con le spazzole dei suoi corti baffi neri. Diede un'occhiata al portafoglio, verificò il fascio dei documenti, ricontò nella tasca semivuota le banconote ucraine e i marchi tedeschi e, sorridendo, sorridendo d'un sorriso forzato e voltandosi, uscì. Zin... zin... nell'anticamera la luce dall'alto, poi per la scala il rumore della valigia. Elena si sporse fuori della ringhiera e per l'ultima volta vide la cima puntuta del cappuccio. All'una di notte, dal quinto binario, uscendo dall'oscurità stipata dai cimiteri di vagoni merci vuoti, prendendo subito con un rimbombo velocità e alitando una rossa calura dalla ciminiera, grigio come un rospo partì un treno blindato che lanciava terribili urli. Percorse otto verste in sette minuti, arrivò a Post-Volynskij tra il fragore, lo strepitio, il rimbombo e i lampioni, senza fermarsi, attraverso gli scambi scattanti deviò dalla linea principale e, suscitando nell'animo degli allievi e degli ufficiali intirizziti, rannicchiati nei carri bestiame e nelle postazioni presso Post, una vaga speranza ed un senso d'orgoglio, - arditamente, senza temere nessuno, corse verso la frontiera tedesca. Dietro di esso, dopo dieci minuti, attraversò Post, luccicando coi suoi numerosi finestrini, un treno passeggeri con un'enorme locomotiva. Le sentinelle tedesche, impalate, massicce, infagottate fino agli occhi balenarono sulle piattaforme dei vagoni con le loro larghe baionette nere. I guardiascambi soffocati dal gelo, videro barcollare sulle giunture delle rotaie i lunghi vagoni pullman i cui finestrini gettavano su di loro fasci di luce. Poi tutto scomparve e gli animi degli allievi ufficiali si riempirono di invidia, di rabbia e di angoscia. - Uh... carogne!... - si sentì urlare nei pressi di uno scambio e un rovente vortice di neve si abbatté sui carri bestiame. Quella notte Post fu tutto coperto di neve. Intanto nel terzo vagone dopo la locomotiva, in uno scompartimento foderato di stoffa a righe, sorridendo con aria cortese e insinuante, Tal'berg sedeva di fronte a un tenente germanico e parlava in tedesco.

20 - Oh, ja, - profferiva di quando in quando il grosso tedesco e masticava il sigaro. Quando il tenente si addormentò, le porte di tutti gli scompartimenti si chiusero, e nel vagone caldo e abbagliante dominò il borbottio monotono del treno in moto, Tal'berg uscì nel corridoio, scostò la pallida tendina con le iniziali trasparenti F.S.O. (Ferrovie sud-occidentali) e guardò a lungo nel buio. Saltellavano in disordine le scintille, saltellava la neve, e la locomotiva correva ululando così minacciosamente, così sgradevolmente, che persino Tal'berg ne rimase sconcertato. 3. In quell'ora della notte nell'appartamento del padrone di casa, l'ingegnere Vasilij Ivanovic Lisovic, al piano di sotto, c'era un completo silenzio, che soltanto un sorcio nella piccola sala da pranzo interrompeva di tanto in tanto. Il sorcio rosicchiava, rosicchiava, importuno e alacre, una vecchia crosta di formaggio nella credenza, maledicendo l'avarizia della consorte dell'ingegnere, Vanda Michajlovna. La maledetta gelosa e ossuta Vanda dormiva profondamente nel buio della piccola camera da letto del fresco ed umido appartamento. L'ingegnere invece era sveglio e si trovava nel suo studiolo adorno di tende, pieno zeppo di libri, e perciò assai confortevole. Una lampada a piedistallo, che raffigurava una principessa egiziana riparata da un ombrello verde a fiori, abbelliva tutta la camera con una luce delicata e misteriosa, e anche l'ingegnere era misterioso nella profonda poltrona di cuoio. Il mistero e la duplicità di quell'instabile epoca si manifestavano prima di tutto nel fatto che l'uomo in poltrona non era Vasilij Ivanovic Lisovic, ma Vasilisa (14)... Cioè, lui si chiamava Lisovic e molte delle persone con le quali si incontrava lo chiamavano Vasilij Ivanovic, ma soltanto in faccia. Alle spalle, in terza persona, nessuno chiamava l'ingegnere altrimenti che Vasilisa. Questo era avvenuto perché dal gennaio 1918, da quando cioè nella Città era cominciata chiaramente la serie degli avvenimenti portentosi, egli aveva alterata la propria chiara scrittura e invece del preciso "V. Lisovic", per paura di qualche futura responsabilità, aveva cominciato a scrivere nei moduli, nei certificati, nei documenti, negli ordini e nelle tessere, "Vas. Lis.". Nikolka, che aveva avuto dalle mani di Vasilij Ivanovic una tessera per lo zucchero il 18 gennaio 1918, invece dello zucchero aveva ricevuto un terribile colpo di pietra nella schiena, lì sul Krescatik (15) e aveva sputato sangue per due giorni di seguito. (Il proiettile era scoppiato proprio sopra la fila che aspettava lo zucchero, composta tutta da gente impavida). Ritornato a casa appoggiandosi ai muri, tutto verde in viso, Nikolka aveva egualmente sorriso, per non impressionare Elena, e al grido di Elena: - Signore! Che cos'è successo?! Aveva risposto: - E' lo zucchero di Vasilisa, che il diavolo se lo porti, - e, fattosi bianco bianco, era piombato giù su un fianco. Quando si era alzato due giorni dopo, Vasilij Ivanovic Lisovic non esisteva più. Dapprima la casa n. 13, poi tutta la Città aveva cominciato a chiamare l'ingegnere Vasilisa e soltanto il possessore di questo nome femminile continuava a presentarsi come il presidente del comitato degli alloggi Lisovic.

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