IL SACERDOTE: UOMO DELLA PREGHIERA



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ARCIDIOCESI DI NAPOLI - ASSEMBLEA DEL PRESBITERIO - 2 MARZO 2010 Riflessione di S. E. R. Mons. MAURO PIACENZA Segretario della Congregazione per il Clero IL SACERDOTE: UOMO DELLA PREGHIERA Eminenza Carissima, Eccellenze, cari Confratelli, in questo Tempo di Quaresima, che ci richiama, attraverso le opere di penitenza, alla memoria reale dell Evento pasquale, è bello condividere una sosta che ci rinfranca nel cammino e ci dona nuove energie per poter ripartire rinnovati, sia personalmente, sia per il servizio ministeriale. Il clima quaresimale dell Esodo, del cammino verso la Terra promessa e della lotta e della vittoria sulla tentazione, non è certo estraneo a noi sacerdoti e, in generale, alla spiritualità sacerdotale. La stessa nostra esistenza di presbiteri si configura, infatti, come una condizione di esodo [1], poiché noi siamo separati dal resto del mondo e, nel contempo, a servizio del resto del mondo, e la nostra condizione esodale coincide, paradossalmente, con la nostra stessa liberazione. Si configura come pellegrinaggio verso la Terra promessa [2], sia in senso escatologico, personale e universale, sia in quell anticipo di Terra promessa che è l esercizio del nostro Ministero, in particolar modo nella Celebrazione Eucaristica. Si configura come cammino di preghiera, a misura del cuore di Cristo [3], voce della Sua Voce, cuore del Suo Cuore ed amore del Suo Amore. Si configura, infine, come lotta contro le tentazioni [4], per quella necessaria battaglia, che quotidianamente il Ministero domanda, e che oggettivamente i fedeli laici si aspettano di vedere esemplarmente nella vita del Ministro. Sono questi i punti della spiritualità sacerdotale che vorrei declinare in questa meditazione, ponendo, per ciascuno, particolare attenzione all elemento esistenzialmente costitutivo della preghiera, quale condizione imprescindibile di ogni percorso. 1. Uomini in esodo orante Oltre ad essere un evento storico, ampiamente documentato dalle Scritture vetero e neotestamentarie, l esodo è una preziosa dimensione spirituale.

2 Come nella sua dimensione storica e salvifica, l Esodo del popolo di Israele ha rappresentato la liberazione dalla schiavitù dell Egitto e la possibilità di mettersi in cammino verso la Terra promessa, guidati da Mosè e, attraverso di lui, dallo stesso Signore che ha liberato il popolo, così, per ciascun uomo, l esodo dalla schiavitù del peccato ed il cammino di progressiva liberazione spirituale, per opera della grazia, rappresenta il cuore ed il significato di un intera esistenza. Siamo tutti nella permanente condizione dell esodo, siamo pellegrini che, liberati dalla schiavitù del peccato, camminano, non senza stanchezze, fiduciosi e certi della meta. In questa fiducia e in questa certezza della meta consiste la differenza tra il pellegrino e il viandante, l uomo dell esodo e il girovago. Talvolta, la cultura contemporanea favorisce una mentalità e un esperienza da viandanti e girovaghi, apparentemente o realmente privi di punti di riferimento, per i quali ogni meta potrebbe equivalere ad un altra lo chiamiamo relativismo, oppure ogni meta è buona, purché appaghi i propri sensi e le proprie voglie lo chiamiamo edonismo. Il girovago ed il viandante, tuttavia, dopo una prima ebbrezza di apparente libertà, non fanno che trovarsi soli e sperduti, senza meta e senza compagnia, stremati anche nelle loro forze. Il cuore dell uomo non è fatto per vagare inutilmente, il popolo di Israele non avrebbe potuto resistere quarant anni, vagando inutilmente; il cuore dell uomo è costitutivamente creato da Dio per una meta, per camminare, pellegrino gioioso, verso un compimento, sia storico sia interiore. La condizione dell esodo, dunque, non è principalmente da guardare per le fatiche che essa comporta, ma per la meta che sottintende ed implica. Certamente, attraversare il deserto non è impresa facile, né lo è permanervi per quarant anni. Chiunque scapperebbe dal deserto se esso fosse l orizzonte ultimo, se non fosse la condizione di passaggio, di esodo, per raggiungere la Terra promessa. Anche la nostra vita spirituale, talvolta, può sembrare un deserto, sia per l aridità che il Signore, permette per guidarci alla Terra promessa, stimolando la nostra sete di Lui, sia per quell aridità nella quale noi stessi ci autoconfiniamo ogni qualvolta ci separiamo dalla piena comunione con Lui. La condizione che permette di stare nel deserto e di attraversarlo è la ferma intuizione che esso non è la meta, ma, al massimo, la condizione per raggiungere la meta. Nessuno potrebbe vivere nel deserto che, anche storicamente, è luogo di morte e non di vita. Nel deserto, nell aridità spirituale, la prima autentica medicina è la memoria delle promesse di Dio, la fede nel compimento di tali promesse e la conseguente preghiera che, costantemente, alimenta sia la memoria sia la fede.

3 Nel giorno della nostra Vocazione, sacramentalmente confermato dal giorno della nostra Ordinazione, ci è stata promessa una terra : la nostra Terra promessa. Come nel popolo di Israele, la tribù di Levi non prese parte alla suddivisione della terra, poiché la sua eredità era il Signore, così nel Sacerdozio neotestamentario, interpretato come radicale novità, ma anche in continuità, rispetto a quello veterotestamentario, il Sacerdote non ha una terra in questo mondo, ma sa che il Signore è sua parte di eredità e suo calice (cf. Sal 16,5). La promessa di Dio, il Quale «anche se noi manchiamo di fede [...] rimane fedele, perché non può rinnegare Se stesso» (2Tm 2,13), non è, per il Sacerdote, semplicemente una terra, né un bene o una condizione. L eredità del Sacerdote è Dio stesso; è Lui la nostra Terra promessa; è Lui la sola ragione per la quale vale la pena l esodo, con la sua fatica e, talvolta, il suo deserto. La chiarezza su ciò che ci è stato promesso e su ciò che, oggi, ci è promesso perché Dio, fuori dal tempo, e Cristo Risorto, eterno presente, rendono attuale, con la forza dello Spirito, ogni promessa è fondamentale per comprendere adeguatamente la nostra identità sacerdotale e, conseguentemente, orientare correttamente tutta la nostra azione missionaria e pastorale. A quale terra aneliamo davvero? Quale meta è di fronte a noi? Qualunque terra promessa che non sia Dio stesso e, per conseguenza, la nostra santità, che è Suo dono ed implica la vicinanza a Dio attraverso l adempimento della Sua Volontà, è troppo poco e non permette di vivere l esodo, né di attraversare i deserti. Siamo Sacerdoti, partecipi del Ministero di Cristo, capaci di agire nella Sua Persona e, pertanto, aventi come meta la glorificazione del Padre. Nel compimento di quest opera, la nostra stessa esistenza trova significato e i nostri deserti fioriscono. La Quaresima, come esperienza esodale, ci associa al popolo di Israele, ci permette di immedesimarci con Mosè che lo guidava, ci rende partecipi del cammino di Cristo, il Quale, «fu condotto dallo Spirito nel deserto» (Mt 4,1). Ciò che permise al popolo di non perdersi nei quarant anni di pellegrinaggio nel deserto fu, innanzitutto, la preghiera di Mosè. Lo stesso Cristo, nel deserto, sceglie di non sottrarsi alla prova della tentazione, per condividere davvero in tutto la nostra esperienza umana. Anche nel deserto che Gesù sceglie di abitare per quaranta giorni, la preghiera è protagonista, significando il Suo stesso rapporto col Padre, l adempimento pieno della Volontà del Padre. Carissimi sacerdoti, solo la preghiera permette di attraversare il deserto, solo la preghiera può sostenere il nostro esodo e custodire in noi la memoria delle promesse

4 del Signore. Essa è, ben lo sappiamo, non appena un dovere, seppure la legge canonica, per esempio per l Ufficio divino, sostiene la nostra fragile libertà, ma è la condizione di possibilità di ogni autentica fedeltà e della efficacia del nostro Ministero. La preghiera è nota caratteristica dell amante, di colui che davvero ama sia il Signore, sia il popolo. Mosè pregava il Dio di Abramo nell esperienza dell Esodo, intercedendo, in tal modo, per il popolo e divenendo profezia e figura del Signore Gesù, nel Quale l incontro tra Dio e l uomo è pieno e definitivo. La preghiera non è solo l esperienza dell amante, ma anche il bisogno dell amato: chi si sente davvero prediletto dal Signore, chi fa l esperienza di essere stato scelto e amato in modo particolare, anche attraverso la Chiamata ed il Ministero ricevuto, avverte la preghiera come un bisogno costante ed irrinunciabile, come il respiro per la vita, come la sola vera possibilità di stare con l Amato. Il deserto è anche un luogo di separazione, talvolta di solitudine, e, in questo senso, icona della nostra condizione sacerdotale. La parola greca cleros indica quella parte del popolo separata, non per scelta propria, ma perché chiamata da Dio e, in tal senso, altra terra, altra eredità, anzi, nuova terra, nuova eredità. Siamo chiamati, come presbiteri, a vivere un esodo continuo da noi stessi, per servire Dio e, in Lui, il Popolo che ci è affidato. In questo esodo, che è affidato alla nostra libertà, ma è opera di Dio in noi, consiste fondamentalmente la nostra liberazione. L abbandono dell uomo vecchio e di ogni schiavitù conduce, in un primo momento, nel deserto, ma è una condizione transitoria, carica di promessa e, di fatto, sollevata dal giogo del male e della schiavitù. Sino all ultimo giorno della nostra vita saremo chiamati a questo esodo, a questo abbandono dell uomo vecchio, schiavo del peccato, che sempre, nonostante il dono di grazia, alberga in ciascuno di noi. Per quanto dolorosi possano apparire alcuni tagli, essi non solo sono necessari, ma determinano la guarigione, permettono alla libertà di esprimersi pienamente e, speriamo, definitivamente a favore della grazia e della sua azione salvifica e liberatrice. Oltre all esodo da noi stessi, siamo chiamati, paradossalmente, ad un esodo continuo dal popolo, per preservare la nostra condizione sacerdotale ed essere quella guida, che il popolo stesso attende. Attraverseremo così, come Mosè, il deserto non nonostante il popolo, ma insieme al popolo; non separati dal popolo, ma guidando il popolo, che condivide la nostra stessa esperienza. Certamente abbiamo una responsabilità in più, quella di chi conosce la meta, l ha vista in quella Trasfigurazione che è la propria Vocazione ed è chiamato costantemente a testimoniarla e ad indicarla, anche nel tempo della prova e delle lamentazioni. Ma c è anche un grande privilegio in più: quello di chi ha

5 già conseguito la meta, ha già ricevuto la Terra promessa, il compimento, proprio nell Ordinazione sacerdotale che configura a Cristo. In questo senso è possibile anche amare il deserto, poiché, dopo Gesù Cristo, esso non è più semplicemente l aridità necessaria per giungere alla Terra promessa, né solo luogo di morte o di distanza ; con Cristo, anche il deserto fiorisce, divenendo luogo di ristoro dell anima, di silenzio, di nascondimento e di pace. Anche il deserto diventa luogo di incontro salvifico e, in certo senso, Terra promessa. Il deserto, abitato dalla presenza del Signore, riconosciuta e riconoscibile per mezzo dell anima sacerdotale orante, diviene luogo da abitare, vera e propria dimora sottratta alla frenesia del tempo e nella quale è ricostituita e ci viene restituita la stessa identità sacerdotale. Per queste ragioni dobbiamo amare il deserto, custodirlo, desiderarlo; soprattutto quel deserto che non è isolamento desolante ma solitudine abitata dalla nostra libertà, che respira della preghiera, e dalla presenza del Mistero, il Quale, proprio attraverso la preghiera, si rende riconoscibile. 2. L opera del cammino Se l esodo ha come meta la Terra promessa, tale meta si raggiunge attraverso un cammino, il quale non è altro dalla nostra vita, ma coincide con essa, ed è vera e propria opera, nel senso latino del termine, cioè opus, operazione, atto che qualifica un ente. Il battezzato prima, e il Sacerdote poi, non sono mai fermi, ma, proprio per quella dinamica che è dynamis, forza di movimento che proviene dallo Spirito, essi sono perennemente in cammino, consapevoli della propria origine, coscienti del proprio pellegrinare e certi, nella fede, della meta. Come per ogni cammino umano è necessario compiere, passo dopo passo, un tragitto, così per il cammino spirituale, anch esso profondamente umano, è necessario il movimento della libertà, la quale, con passi progressivi, segue il percorso tracciato dalla Volontà divina. Per noi sacerdoti, per quel mirabile disegno provvidenziale, che è lo stesso Ministero ordinato, la nostra vita non è altra cosa dal nostro cammino, ma le tre dimensioni dell esistenza, del cammino di santificazione e del Ministero, tendono a coincidere in un unico grande disegno. Lo stesso Benedetto XVI, nella Lettera d indizione dell Anno Sacerdotale, ha indicato l identificazione tra la persona del Sacerdote ed il suo Ministero, come punto fondamentale della santità del Curato d Ars, che l 11 giugno prossimo sarà proclamato Patrono di tutti i sacerdoti. Una tale identificazione è ciò che permette di evitare ogni perico-

6 loso funzionalismo, ogni tentazione di proporsi o auto-concepirsi come la risposta ai problemi dell uomo e della società. Nel Sacerdozio, l opera ministeriale che siamo chiamati a compiere è essa stessa il cammino spirituale che dobbiamo percorrere. Del resto, sarebbe piuttosto strano un sacerdote che, compiendo gli abituali atti di Ministero, non pregasse incessantemente anch egli proprio attraverso di essi. È una grazia straordinaria che ciò a cui siamo stati chiamati coincida con il cammino della nostra santificazione e divenga, progressivamente ma realmente, l opera della nostra stessa purificazione e perfezione. Al vertice del Ministero, ben lo sappiamo, troviamo la Celebrazione Eucaristica, la quale, tra i molti significati, è anticipo di quel compimento definitivo al quale tutti siamo chiamati. In tal senso l Eucaristia è, per ogni fedele, ma in particolare per il Sacerdote che la celebra, Terra promessa, piena realizzazione qui in terra della Sovranità di Cristo Risorto sugli uomini e sul cosmo. L Eucaristia, che noi quotidianamente celebriamo, che dovremmo celebrare, sempre spiritualmente preparati e liturgicamente attenti, per favorire sia la nostra personale preghiera che quella del popolo, non disgiuntamente ad una sana devozione, è, nel medesimo tempo, Presenza e Meta. Come Presenza, l Eucaristia diviene cibo, nutrimento, sostegno per il nostro cammino, indispensabile alimento, perché si compia in noi l opera della salvezza, secondo la parola del Signore: «Se uno mangia di questo Pane, vivrà in eterno» (Gv 6,51). Come Meta, Essa ci attrae continuamente a quel cammino di trasfigurazione e di divinizzazione, che per noi è cristificazione, cammino promesso dall Eucaristia stessa. Anche in questo caso, la preghiera non è cosa differente dal Ministero, ma, come insegnano i Padri della Chiesa, essa è Opus Dei, opera di Dio. Il Sacerdote che celebra fedelmente, ogni giorno, le Ore del divino Ufficio, unendo la propria preghiera a quella della Chiesa e pregando a nome della Chiesa per tutto il popolo, - anche quella parte di esso che sta purificandosi nello stato di purgatorio - compie una vera e propria opera di cammino, percorrendo egli stesso parte del proprio tragitto di santificazione e permettendo al popolo, per il quale egli prega, di compierlo. Dobbiamo domandare continuamente allo Spirito Santo il dono della fedeltà all orazione, della lucidità nel giudizio di riconoscimento di ciò che Egli opera nel concreto nostro Ministero, di stupore profondo e reale, per i grandi prodigi che, dentro la limitatezza oggettiva delle nostre persone, il Signore è capace di manifestare. La preghiera, che è opera del cammino, diviene nel contempo, frutto di tale cammino. Il modo di pregare negli anni cambia, nel senso che si perfeziona, si appro-

7 fondisce. Pur restando non immune a battute d arresto, imperfezioni e distrazioni, esso cresce come cresce la spiritualità della persona, è testimonianza costante del Mistero e permette quella giusta umiltà verso se stessi e verso gli altri, che è la radice di un rispetto comune, il quale permette potentemente allo Spirito di agire. 3. Pregare a misura del Cuore di Cristo Non si può essere testimoni di Cristo senza la preghiera. Cristo, infatti, discese sulla terra per portarvi il canto che risuona nel Cielo, così, nella Costituzione sulla Sacra Liturgia leggiamo: «Il Sommo Sacerdote della Nuova ed Eterna Alleanza, Cristo Gesù, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terreno l Inno che viene eternamente cantato nelle sedi celesti» (SC 83). La vita di Cristo fu vita di preghiera. La preghiera animava lo stesso l esodo pasquale di Gesù, come si legge nella Institutio generalis de Liturgia Orarum, al n. 4: «Prima della Sua Passione, la Domenica delle Palme, pregava: Ora l anima mia è turbata... Padre, glorifica il Tuo Nome (Gv 12,27-28); pregò all Ultima Cena, con la magnifica preghiera sacerdotale (cf. Gv 17,1-26). Quindi si recò nell Orto degli Ulivi dove: pregava più intensamente (Lc 22,44); pregò sulla Croce: Padre perdona loro (Lc 23,34); spirò con la preghiera: Padre, nelle Tue mani consegno il mio Spirito (Lc 23,46)». Cristo portò sulla terra l inno che in Cielo è cantato a Gloria di Dio, e volle che questo inno fosse cantato da tutti gli uomini. Pertanto «Egli unisce a Sé tutta la comunità degli uomini, se l associa nell elevare questo divino canto di lode» (SC 83). Cristo ci inserisce nella Sua preghiera per mezzo del Mistero del Suo Corpo Mistico: Preghiamo Gesù Cristo come Dio nostro, Gesù Cristo prega per noi come nostro Sacerdote, ma ciò non basta: Gesù Cristo prega in noi, come scrive Sant goststino (Enarrationes in Psalmos, 85). Gesù Cristo è il Capo del Corpo Mistico e noi ne siamo le membra, quando ci rivolgiamo a Dio, è il nostro Capo, Cristo, che parla a Dio di noi. Perciò riconosciamo la nostra voce in Cristo e la voce di Cristo in noi (ivi). Dio non poteva fare agli uomini un più grande dono, grida in estasi Sant Agostino! Questa estasi di Sant Agostino dobbiamo viverla noi, specialmente quando prendiamo tra le mani il nostro Breviario. Perché Cristo «ha introdotto in questo esilio terrestre quell inno che viene eternamente cantato nelle sedi celesti... specialmente con la Celebrazione dell Ufficio divino» (SC 83). Il Breviario è la «preghiera di Cristo, che, in unione al Suo Corpo, eleva al Padre» (SC 84). Il Breviario «è veramente la voce della Sposa stessa che parla allo Sposo» (ivi). Da ciò bene si comprende la particolare dignità della preghiera del Breviario: la voce del Sa-

8 cerdote che celebra la Liturgia delle Ore è la voce di Cristo! La voce del Sacerdote è la voce della Chiesa! Non esiste un Sacerdozio privato, perché c è solamente il Sacerdozio di Cristo, di cui noi partecipiamo: così non c è un Breviario privato: il nostro Breviario è la preghiera di Cristo in noi, che formiamo il Suo Corpo Mistico, che è la Chiesa, e quindi è la preghiera pubblica della Chiesa. Per questo il Breviario ci obbliga alla testimonianza del cuore dilatato, della preghiera comunitaria e della preghiera incessante. Christus orat in nobis. La Liturgia delle Ore è Anamnesi del Mistero di Gesù. Le singole Ore commemorano singole azioni salvifiche: le Lodi ricordano la Risurrezione; l Ora Terza, l invio dello Spirito Santo o la Crocifissione; l Ora Nona, la morte in Croce, etc. Nei Salmi, Gesù - scrive Sant Ambrogio - non solamente è preannunciato nella Sua nascita per noi, ma accetta anche la Sua Passione, come causa di Salvezza. Per noi muore, risorge, sale al Cielo, siede alla Destra del Padre. Come Anamnesi e celebrazione dell Opera salvifica di Cristo, il Breviario ci obbliga e incalza i nostri cuori perché si dilatino a misura del Cuore di Cristo, perché Egli prega in noi, nei nostri cuori. È Cristo a pregare in noi, quel medesimo Cristo, il cui Cuore non negava nulla al Padre. Prega in noi con le parole del Salmo: «Signore mio Dio (...), ecco io vengo. Sul rotolo del Libro di me è scritto che io faccia il Tuo volere. La tua legge è nel profondo del mio Cuore» (Sal 39,6-9). Perciò il Breviario deve essere la preghiera del nostro cuore dilatato, aperto come il Cuore di Cristo per compiere tutta la volontà di Dio. Cristo prega in noi, e nel Suo Cuore trovano posto il pubblicano, la Maddalena, il Ladrone, i persecutori e i peccatori; il Suo Cuore è aperto a tutti i bisogni della Chiesa e dell umanità. Ogni qualvolta prendiamo tra le mani il Breviario, noi prendiamo in mano due miliardi di uomini fedeli; prendiamo nelle mani il fratello delle Chiese di tutto il mondo. Il Breviario non è una preghiera privata, è preghiera ufficiale, quindi gravata da tutto il fardello della Chiesa. Fino a quando non ci rendiamo conto di esprimere la preghiera di tutta la Chiesa, non ne comprenderemo né la bellezza, né il peso specifico, né la gravità dell obbligo, che è obbligo di carità pastorale e di amore. Non c è dubbio che Dio faccia dipendere, in un certo modo, dal nostro Breviario le sorti della Chiesa e delle anime, soprattutto le anime dei Sacerdoti. Perciò non è lecito trascurarne la Celebrazione sine gravi causa, come stabilisce l Institutio generalis. E ciò perché la Celebrazione quotidiana è gravis obligatio. Non tralasciamo il Breviario! Non ce ne dispensiamo con facilità, perché da esso dipendono troppe cose; esso è la preghiera ufficiale e porta su di sé il fardello di tutta la Chiesa.

9 Christus orat in nobis! Per questo il Breviario deve essere testimonianza di preghiera incessante. Cristo pregava incessantemente: «al mattino, in un luogo deserto» (Mc 1,35); «sul monte... venuta la sera» (Mt 14,23-25); «la notte passò in orazione» (Lc 6,12). Supera le nostre forze comprendere fino in fondo l incessante unione del Figlio con Dio Padre nel Mistero dell Unione ipostatica; ma Cristo vuole pregare incessantemente in ciascuno di noi. «Perciò disse una parabola sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi» (Lc 18,1ss). Immersi nelle parole di questo mandato di Cristo, grandi spiriti come Antonio, Benedetto, Agostino affrontarono il fondamentale problema: cosa fare per pregare sempre? La Chiesa ha risposto con la Liturgia delle Ore, che trabocca di lodi da mane a sera. Le Lodi e i Vespri sono veluti cardo, sono i punti fondamentali (cf. Institutio generalis, n. 29). Le Ore medie innalzano a Dio la nostra attività quotidiana ricordandoci le ore dell opera salvifica di Cristo e le ore del lavoro e della preghiera di Pietro e degli Apostoli; l Ufficio delle Letture, recitato in qualunque momento della giornata, è una Celebrazione della Parola di Dio, che ci illumina e guida; la Compieta è il coronamento dell Opus Dei, prima del riposo. Il Breviario, quindi, è la realizzazione per noi della preghiera incessante, della preghiera esistenziale. Così la nostra Liturgia delle Ore, qui in terra, si trasformerà un giorno nell incessante Liturgia celeste, piena di ineffabile felicità. 4. Atleti vittoriosi nella lotta contro il maligno La terza ed ultima dimensione del cammino quaresimale, che mi ero proposto di sottolineare, riguarda la lotta contro il maligno e le tentazioni da esso proposte; lo stesso Signore ha scelto di partecipare della nostra condizione di esseri limitati ed e- sposti ad ogni attacco. Da questo punto di vista, con realismo ed umiltà, non dobbiamo mai dimenticare che, come ricorda il racconto evangelico, il demonio non si ritirò da Gesù se non «dopo aver esaurito ogni specie di tentazione» (Lc 4,13). Allo stesso modo, a ciascun cristiano, ed in particolare a noi sacerdoti, non è risparmiato nulla della fatica e del travaglio della tentazione. Come per Gesù, il demonio non si ferma, finché, anche con noi sacerdoti, non esaurisce ogni specie di tentazione. Forse le tentazioni più volgari, nel senso di comuni, le abbiamo superate: il potere, il danaro e il sesso possono non avere più alcun fascino sulla nostra vita, perché ne abbiamo già compreso (e magari sperimentato) l inutilità, la menzogna, il danno, e, soprattutto, la totale inadeguatezza e non corri-

10 spondenza ai reali bisogni del nostro cuore e alla profonda statura della nostra persona, creata a immagine e somiglianza di Dio. Sia bene inteso, ho detto forse, perché anche da queste più comuni tentazioni nessuno, mai, può dirsi totalmente immune e contro di esse è necessario costantemente vigilare, perché, come ricorda l Apostolo, «chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (cf. 1Cor 10,12). Ci sono tuttavia, nella vita e nel Ministero dei presbiteri, tentazioni più sottili, meno eclatanti, che possono essere coltivate per lungo tempo, senza apparente scandalo, le quali tuttavia minano, anche profondamente, il nostro percorso di santità ed efficacia del Ministero a noi affidato. Una di queste è l autosufficienza, il ritenere che, come uomini e come sacerdoti, pur non ammettendolo esplicitamente, ci sentiamo, in fondo, autonomi, cioè non dipendenti da Dio, né dal legame costitutivo con il Vescovo nel Presbiterio. La tentazione dell autonomia, più che nella diretta ed esplicita disobbedienza, si documenta, in maniera particolarmente grave, in quella sottile autonomia di giudizio, che spesso abita i nostri cuori ed è coltivata, con mille infinite riserve e sfumature, dalle nostre menti. Quando esprimiamo riserve, soggettive ed infondate, sul Magistero pontificio, sulle scelte e sull operato del Santo Padre e della Chiesa, del Vescovo e dei nostri superiori, in realtà anteponiamo noi stessi al Signore, il nostro piccolo e determinato punto di vista alla sintetica e globale visione della Chiesa. L autonomia, oltre che nel giudizio, si manifesta specialmente nell operare, che, quando parte da criteri non comunionali, diviene particolarmente infecondo, se non oggettivamente dannoso. La Chiesa è un Corpo, nel quale ciascun membro ha il proprio posto, e che funziona come un organismo vivente: l ordine, l armonia, il rispetto dei ruoli e l attività di ciascun organismo garantiscono, a questo Corpo, non tanto l esistenza, la quale dipende da un dono assolutamente gratuito della grazia e dall assistenza soprannaturale dello Spirito, quanto piuttosto la capacità di accogliere e, soprattutto, non sprecare quella vita che lo Spirito dona al Corpo ecclesiale. Vivere il Ministero concependosi autonomi dalla Chiesa è una sottile tentazione. È una tentazione da prevenire, alimentando l amore, la conoscenza e la comunione con la Chiesa; è una tentazione, come ogni altra tentazione, da evitare e combattere intensamente e, ove vi si cada, dalla quale guarire. Non c è nulla di più bello ed edificante, di più efficace e missionario, di un sacerdote profondamente teonomo, la cui norma

11 (nomos) del pensare, dell agire, dell operare e della stessa vita è Dio, accolto, amato e seguito nella comunione ecclesiale. Particolarmente preoccupante, mi si permetta ancora di sottolineare, è l autonomia, o la presunzione di autonomia, nella predicazione, nella catechesi e nella liturgia, soprattutto rispetto agli insegnamenti magisteriali e agli stessi esempi del Sommo Pontefice. Essa, oltre a rendere illegittima tale predicazione, rischia di separare i fedeli da quel ricco deposito della fede, a cui essi hanno il diritto di alimentarsi, e che costituisce il presupposto di ogni autentico servizio pastorale. Ci sono duemila anni di continuità. L esegesi della continuità è il più ovvio ed elementare criterio ecclesiale! Una seconda tentazione, oggi particolarmente diffusa, e sulla quale desidero soffermarmi, è quella dell attivismo sia teorico, sia pratico. Esso è figlio dell autonomia e segno di un uomo che rischia di confidare più in se stesso che in Dio. La giusta operosità e lo zelo missionario che sempre siamo chiamati a vivere e che affonda le proprie radici nello stesso mandato apostolico «Andate in tutto il mondo annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15), non devono mai trasformarsi in agitazione disordinata e presuntuosa, che, cioè, presume di risolvere naturalmente, e non per via soprannaturale, i problemi. Anche nelle situazioni di maggiore emergenza culturale, sociale e pastorale, non possiamo mai ridurre il nostro Ministero ad un orizzontalistico agire sociale, il quale, per quanto animato da lodevoli intenzioni, rimarrebbe muto, nel senso che non direbbe Dio al mondo. I santi hanno sempre operato come se tutto dipendesse da loro, agendo in modo tale che trasparisse dalla loro esistenza un chiaro ed inequivocabile teocentrismo, la certezza che tutto dipende sempre assolutamente da Dio. Da questo esempio siamo chiamati e a questo modello dobbiamo conformarci, non mancando in nulla, in ordine all impegno e allo zelo missionario, ed annunciando sempre, in ogni istante, la centralità e l efficacia dell azione di Dio. A tale riguardo, e concludo, mi si permetta di ribadire che la più autentica, feconda, efficace, e gradita a Dio tra le azioni pastorali del Presbitero, è la preghiera, il sapere innalzare le braccia al Cielo, intercedendo per il popolo come Mosè, nel cammino dell Esodo, pellegrini verso la Terra promessa e resistendo di fronte ad ogni tentazione. La Beata Vergine Maria, alla quale ogni mattina vogliamo consacrare noi stessi, il nostro popolo e ogni azione, sostenga questo nostro cammino con il popolo e davanti al popolo; Lei che di tutti i popoli è la Signora, l Avvocata e, lasciate che vi dica, con tanto affetto fraterno, con il Vostro grande Arcivescovo: a Maronn v accumpagn!