UNA GIORNATA COME UN'ALTRA. Anna Ciampolini Foschi



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Transcript:

UNA GIORNATA COME UN'ALTRA Anna Ciampolini Foschi Qualcuno picchiava con violenza alla porta. O forse era l'ultima sparatoria contro gli invasori, le immagini di quel sogno convulso faticavano a dissolversi nell'aria già ardente della stanza. "Mastah! Mastah! Presto, svegliati!" "Che diavolo c'è? Ma che ore sono?" urlò l'ingegner Andrea Filippi balzando dal letto ancora mezzo intontito e brancicando alla ricerca dei pantaloni. Toufik, il boy che faceva le pulizie ed i lavori nel giardino urlò di rimando: "Il cuoco sta male, devi venire subito, lo ha punto lo scorpione!". Filippi corse al bungalow dove dormiva il cuoco insieme agli altri del personale. Sulla branda mezza sfatta Husaini ansimava con la fronte imperlata di sudore; il suo faccione nero era diventato grigio per lo spasimo e la gamba destra era già gonfia, enorme, con la pelle tesa come un tamburo. Un maledetto incidente: mentre andava in bagno, aveva messo il piede su un intero nido di scorpioni nascosti fra le tavole marce dell'impiantito, bestie lunghe quasi venti centimetri, capaci di spedire un uomo all'altro mondo prima che avesse il tempo di raccomandarsi al Creatore. "Prepara la Jeep" disse Filippi al boy, "bisogna fare una corsa a Yola. Avverti l'ingegner Cusano, digli che tornerò dopo pranzo". L'ospedale più vicino era a Yola, a circa sessanta chilometri dal campo dove la ditta italiana per cui Filippi lavorava stava eseguendo perforazioni per ricerche d'acqua nell'interno della Nigeria; ma erano sessanta chilometri di pista gialla e polverosa, costellata di buche e sassi che spaccavano la schiena e nonostante fossero appena le sei e mezzo del mattino, saliva dalla terra un calore tremendo. La stagione delle piogge era ormai vicinissima, ma quel refrigerio bisognava pagarlo caro, perché prima dei temporali liberatori, il clima diventava rovente e l'harmattan, il vento che veniva dal Sahara, sollevava nuvole di polvere rossastra che penetrava dappertutto. Come Filippi aveva previsto, ci sarebbe voluta tutta la mattinata prima che Husaini potesse essere riportato al campo fuori pericolo, sempre che se la cavasse. Intanto, pensò Filippi, potrei sbrigare qualche commissione in città. Aspettò una mezz'ora prima di poter parlare con il funzionario del Ministero dei Trasporti per garantirsi il rifornimento di benzina per gli automezzi del campo; si informò dal segretario dell'emiro su come ottenere i permessi per fare dei sondaggi preliminari su terreni di proprietà privata, poi guardò l'orologio: c'era appena il tempo di passare all'ufficio postale e di andare a salutare Dianne. Nel sacchetto di tela che costituiva la casella postale della SIPE, la sua ditta, trovò una decina di lettere. Riconobbe subito la calligrafia della moglie su due di esse e ne trovò un'altra, indirizzata a lui, che lì per lì non riuscì ad identificare. Il resto era per i colleghi al campo, le avrebbe consegnate al ritorno. Come sempre, non aprì

subito le lettere: le infilò nel portafoglio, cercando di non sgualcirle, per leggerle la sera, dopo il lavoro. Per tutto il giorno avrebbe pensato alle buste ancora chiuse, alle parole che potevano contenere ed avrebbe prolungato il piacere e l'illusione di un dialogo impossibile. Per arrivare all'edificio della CIDA, la Canadian International Development Agency, bisognava traversare il quartiere vecchio, dove c'era il mercato, con i venditori accoccolati per terra davanti alla coperta su cui esponevano frutta e verdura e le ceste piene di polli vivi accanto alle bancarelle dei macellai con i pezzi di carne coperti di garza bianca macchiata di sangue per difenderli dall'assalto delle mosche che ronzavano inferocite. Al solito angolo c'erano i venditori ambulanti che smerciavano carne cotta e speziata, topi arrostiti e yam bollito. Il vocio incessante, la gente che si spintonava per guardare meglio la merce, l'aria calda e greve di odori fecero girare la testa a Filippi, che si affrettò a cercare la strada d'uscita, inseguito dai richiami speranzosi dei venditori con il loro inglese gutturale: "Sah! Sah! Here!", che si spegnevano in un sorriso bianchissimo, fra il deluso e il derisorio, al vederlo camminare senza voltarsi. Dianne abitava in un minuscolo appartamento nell'edificio nuovo e squadrato della CIDA, dove lavorava come dietista e teneva corsi di nutrizione. Stava tagliando delle foglie di basilico da un vasetto sulla finestra, quando lo vide arrivare. "Andrea! Che sorpresa!" sorrise " Cosa fai qui?" "Uno dei miei uomini si e` fatto male" rispose Filippi " lo ha punto uno scorpione e l'ho dovuto portare all'ospedale. Fra un paio d'ore lo vado a riprendere". Dianne lo guardò: "Quanto tempo hai?" "Oh, un'ora, un'ora e mezzo. Pranziamo insieme? Non cucinare, basta uno spuntino!" "O.K., fra cinque minuti è pronto". Filippi si rese conto di puzzare, un odore acre di sudore e di polvere, tanto più penetrante e sconveniente in quell'appartamentino tirato a lucido, fresco di aria condizionata e profumato di bosco e felci per mezzo di quattro deodoranti da parete, situati negli angoli strategici. Un grande manifesto raffigurante un lago azzurrissimo, circondato da una magnifica foresta sullo sfondo di cime nevose occupava la parete contro la quale era appoggiato il tavolo da pranzo. Sembrava che il profumo di bosco emanasse da lì. "Se permetti, mi farei una doccia mentre prepari." Dianne acconsentì con entusiasmo. Tornò ristorato e sorseggiando una birra ghiacciata osservò: "Il tuo basilico è diventato bellissimo; il mio invece si e` seccato, il boy deve avergli danneggiato le radici mentre zappettava l'orto, ed io non ho più semi da piantare, almeno finché non torno in Italia a prenderli." "Te ne darò io una pianta" disse Dianne, poi aggiunse guardandolo intenta: "Quando torni in Italia?".

Filippi finì di masticare un boccone, prima di rispondere. "Non ho deciso. Mi spetterebbe il rientro fra sei mesi, a novembre, ma se il progetto, come credo, non è terminato e dura per un altro paio d'anni, penso di firmare il nuovo contratto. Sono sempre due anni di lavoro. Mia moglie farà l'inferno, credimi, magari chiede il divorzio. E tu, cosa farai?" "Torno a casa. Un anno di questa esperienza è sufficiente. Quando sarò a Toronto posso far carriera, cominciare come assistente universitaria". "Beata te. Io non so se farò carriera o se invece mi sono tagliato le mani a seppellirmi quaggiù." "Allora, perché pensi di restare? Torna in Italia. Oppure vieni in Canada. Non è difficile avere il visto per una persona come te. Sarebbe una buona soluzione. Pensaci, Andrea. Puoi sempre portare tua moglie, se il posto ti piace." Filippi si versò una tazza di caffè, poi dette un'occhiata al manifesto col paesaggio montano. "Dev'essere un bel paese, il tuo". Dianne sorrise: "You bet." "Ragazzina" pensò Filippi, "poco più di vent'anni e già programmata come un calcolatore. Io alla sua età ero tutto confuso, avevo la testa piena di sogni, troppi sogni...". Dianne sospirò e insinuò il viso fra il collo e la spalla di lui. "Non rinnovare il contratto, Andrea. Se verrai in Canada, potremo stare un po' insieme. Niente problemi, stai sicuro. Vorrei solo vederti in un ambiente diverso: qui siamo tutti e due stranieri, è facile scambiare per sentimento ciò che magari è solo solitudine...ci penserai, Andrea?" "Certo, honey, ci penserò", e la baciò per non continuare il discorso. "Devo andare ora, ho fatto tardi. Per oggi non riesco a combinare più niente in ufficio. Mannaggia!" "Allora, resta ancora!" "No, tesoro, non posso: ci sono più di due ore di pista per tornare al campo." Finì di rivestirsi e si chinò a deporre un ultimo bacio sulla spalla della ragazza. "Ci vediamo sabato. Vengo a prenderti, se non hai di meglio da fare." La sentì ridere, mentre si chiudeva la porta alle spalle "This is good enough!". 1 Arrivò al campo nel tardo pomeriggio, accompagnò Husaini, ancora debole e silenzioso, al suo bungalow, raccomandandogli di starsene tranquillo finché non si sentiva meglio, poi entrò in ufficio. C'era solo Cusano, un napoletano grassottello e pacioccone, intento a farsi il caffè. Peppino, come va? dove sono gli altri?" "Il topografo sta in missione, non e` ancora rientrato. Galletti sta in camera sua e non si e` visto." "Cosa gli succede?" 1 "Meglio di questo?"

"E chi o' sape? Chillu guaglione non mi piace, credi, non ce la fa, secondo me dovrebbe rientrare in Italia, prima che si rovina...sta sempre chiuso in camera, nun parla co nisciuno!" " Ho capito, lo andrò a trovare. Lo so, l'ho visto anch'io, non si può andare avanti così, non va bene per lui e non va bene per noi. Il lavoro ne soffre, a fine mese arriva il capo da Milano e se le relazioni non sono pronte, son dolori, lo sai. "E statte tranquillo, stara` tutto bello che pronto quando arriva lui. Qui, non siamo a Milano, ma pure noi sappiamo lavorare! Eh, vene accà, fatte nu cafè!" Filippi non si sentì per niente tranquillizzato dall'ottimismo di Cusano. Ne aveva viste troppe, in quegli anni di contratti all'estero. L'idea era di fare soldi in fretta, costruire strade o fare ricerche per i pozzi pagava tre volte di più di quanto un tecnico avrebbe potuto guadagnare in circostanze normali. Ma le sistemazioni che la ditta forniva erano così rudimentali che solo gli uomini del cantiere potevano viverci, non c'era posto per le famiglie, per i bambini. Stanze disadorne in prefabbricati che erano poco più di baracche, ogni tanto urla e bestemmie per le attrezzature che si rompevano e non c'erano mai i pezzi di ricambio. "Già, lo dicono che noialtri siamo capaci di riparare la Jeep con la gomma da masticare." pensò Filippi "ma questo a lungo andare ti stanca." Le notizie sui giornali: "Orribile massacro: tecnici e operai italiani periscono durante un attacco dei guerriglieri". Qualcuno come te, che lavorava duro per mettere da parte i soldi, morto ammazzato a marcire al sole o negli acquitrini, in qualche angolo del mondo. Lo capiscono questo, quelli che sono rimasti in Italia, cenando davanti al televisore con la famiglia? "Il glorioso lavoro italiano all'estero! buono per i telegiornali e per quei quattro politicanti che ci inondano di retorica standosene tranquilli a Montecitorio. La verità è questa invece, colleghi che si beccano la malaria e ti muoiono sotto gli occhi senza che tu possa far niente, o se ne escono pazzi come Galletti, che non parla più poveraccio, a furia di pensare a quando potrà tornare a casa col gruzzolo. E come fai a tenere in piedi un matrimonio se vedi tua moglie una volta ogni sei mesi, per due settimane!". Era entrato nel "giro" dei contratti all'estero con l'idea di farsi sei mesi di vacanza esotica e tanti soldi. C'era dentro da quasi dieci anni. Anni in cui l'euforia collettiva, i contratti che fioccavano da tutte le parti dai paesi che il petrolio aveva reso di colpo ricchi avevano acceso fantasie di portarsi via una fetta di quella ricchezza, e qualcuno c'era anche riuscito, stando ai racconti mirabolanti che aveva sentito. Ma il sogno aveva cominciato a incrinarsi presto, in certi posti stava diventando pericoloso lavorare, ti offrivano soldi a palate per andarci, come in Iran, dove tirava brutta aria di rivoluzione, chissà cosa sarebbe successo quando lo Shah Reza

Pahlevi avrebbe dovuto fare fagotto. "Meno male che almeno in quell'occasione non mi sono lasciato tentare e sono venuto qui, dove ci sono altre grane ma se si sta attenti, la pelle per il momento non te la fanno, ci mancherebbe anche questo." si disse l'ingegnere. Si alzò con uno sforzo di volontà. Voleva andare a dare un'occhiata a Husaini, prima di terminare la giornata. Si affacciò nella stanzetta: il cuoco era immobile sul lettino, immerso in un sonno profondo, il respiro ancora sibilante, ma regolare. "Bene, almeno questa parrebbe risolta" e Filippi si diresse verso il suo bungalow. Tutte le sere, dopo la cena, si concedeva una sosta, seduto in veranda, nella poltrona di vimini. Era la "sua isola", l'occasione per stare con se stesso, con i propri pensieri. Contemplava i colori straordinari del tramonto, il rosso, il viola, gli sprazzi di verde e arancio, prima che il buio subitaneo, denso, delle notti africane cancellasse il mondo intorno a lui, lasciandogli la sensazione di essere su una fragile zattera alla deriva su un oceano sconosciuto. Ricordò il profumo ed il calore del corpo di Dianne, il breve smemoramento dei momenti d'amore che erano la sua fragile difesa contro il vuoto e la solitudine che tornavano ad assalirlo troppo presto, troppo spesso. Con una pantofolata schiacciò un grosso scarafaggio che cercava di salirgli sulla gamba e si mise a leggere le lettere della moglie. Non c'erano grandi novità: la festina per il compleanno di Monica, la loro bambina, qualche commento su un film appena uscito che Silvia era andata a vedere. La seconda lettera aveva impiegato più di un mese ad arrivare: la data era ancora quella del 3 maggio 1978. " Caro Andrea..., la mia Fiat 124 sta andando a pezzi, forse dovrò comprare una nuova macchina. Una spesa che proprio non ci voleva, anche perchè quest'anno non credo che potrò insegnare. Ho trovato soltanto una supplenza che neanche vale la pena. E ho dovuto prenotare le vacanze al mare: non ti immagini come sono saliti i prezzi! ma la bambina, lo sai, non sopporta il caldo della città, con quell'asma che le toglie il respiro in questo inquinamento. Sai che l'altro giorno la banca vicino casa nostra è stata rapinata? Pare siano stati quelli delle Brigate Rosse. Adesso si ha paura perfino ad andare a depositare un assegno. Comunque, per quest'inverno forse ho trovato un lavoro, ho conosciuto gente simpatica che ha due negozi in città. Sempre che Monica non ricominci con le sue bronchiti continue, quei soldi ci farebbero comodo." Erano letterine fredde, piene di conti e di cifre. Finivano con abbracci e saluti, in una c'era un disegnino scarabocchiato dalla bambina, ciao papà. Le prime lettere erano traboccanti di nostalgia, quando quando torni? La prima volta che era tornato a casa, dopo sei mesi di assenza, stanco stravolto dal viaggio, quando lei aveva aperto avevano fatto l'amore contro la porta, con le valigie buttate di furia a terra e senza neanche parlare. Poi, forse, Silvia si era convinta che lui aveva trovato la scusa per starsene lontano da casa. "Proprio, per la bella vita che faccio!" pensò

Filippi con l'amaro in bocca. Acchiappò la scarpa e schiacciò altri due enormi scarafaggi rossastri, con rabbia. A 37 anni, dirigere un progetto del genere in Africa gli era parsa l'occasione della sua vita e magari era stata una illusione e basta, come era successo ad altri: quando torni in sede in Italia, e non hai un "santo protettore" se vuoi continuare a lavorare ti offrono un altro progetto a casa del diavolo, e devi ripartire. Non appartieni più al loro mondo e non riesci a costruirtene un altro. Che idee assurde, si disse, ma non riuscì a smettere di pensarci. "Chi emigra ricomincia da capo, una nuova vita. Gente come noi è come un uccello di passo, le valigie sempre pronte e mai un posto, una casa, una donna che puoi sentire veramente tua." Anche per chi ti ama, piano piano diventi una immagine, senza vita, come le foto spavalde che mandi a casa, a cavalcioni sulla Jeep con l'aria da pioniere o insieme al gruppo con la solita bicchierata di Natale di chi è rimasto al campo. Senza vita come le lettere, che sono solo carta, non possono sostituire lo sguardo, le parole, il tenersi per mano. Qualcosa si spezza, come stava succedendo fra lui e Silvia. Filippi si maledisse ancora una volta per aver ceduto ai suoi momenti di pessimismo. Se riusciva a non mettere il piede nella trappola dei rimpianti e della nostalgia, ce l'avrebbe fatta. Se riusciva a sentirsi ancora "Andrea, quel tipo duro, quel fico..." come si era un poco fatto la fama fra gli amici della partita, allora era salvo. "Fra qualche mese li vado a trovare...ne ho di storie da raccontare!", ma si sentì ad un tratto stranamente distaccato, come pensasse ad un' altra realtà, troppo lontana per essere credibile. " L'ho fatto per lei, i soldi erano buoni, ci facciamo la villa se resisto ancora un poco in questo posto di merda. Se resistiamo insieme ancora un poco. E poi, non è nemmeno vero che l'ho fatto per lei: che stronzo, volevo essere qualcuno, volevo l'avventura, come un ragazzino. Eccola, l'avventura!". Buttò in un angolo la terza lettera, disgustato. Il collega Ripetti, che è rimasto a Milano, scriveva che si era fatto la barca, "Va a finire che me lo ritrovo dirigente, mentre io me ne sto qui come un cretino...". Filippi si scosse dal suo soliloquio, si alzò e lavorò ancora per un'ora nell'ufficio deserto, a scrivere rapporti. Poi fece il giro del giardino. Abdul, il guardiano, lo salutò sottovoce, tutto nero contro il nero della notte. Lentamente, tornò verso il suo bungalow. Ad un tratto gli tornarono in mente le parole di Dianne. "Andare a vivere in Canada...che sciocchezza! quella ragazzina non si rende conto...no, non potrei ricominciare da capo, così alla ventura. Almeno qui con la SIPE ho un lavoro sicuro. Però... forse, un paese dove piantar radici sarebbe una soluzione, una via d'uscita per me e Silvia...la bambina è così piccola, si adatterebbe. No, non pensiamoci più, meglio andare a dormire, è già tardi.". L'ingegner Filippi, morto di stanchezza, si buttò sul letto e sprofondò nell'abisso di un sonno pesante e compatto come una condanna. Domani sarebbe cominciata un'altra giornata. - - -

Il racconto Una giornata come un'altra è stato pubblicato nell' antologia Racconti dal Mondo (Finalista del Premio Internazionale Pietro Conti-FILEF, Ed. FILEF 1998). Fu letto al pubblico italiano per la rubrica letteraria della RAI (l' Ente Radio Televisivo di Stato). - - - Anna Ciampolini Foschi, nata a Firenze, vive a Vancouver, BC. Co-fondatrice dell' Associazione Scrittori/Scrittrici Italo-Canadesi e del Premio Letterario F.G. Bressani del Centro Culturale Italiano di Vancouver. Ha curato la pubblicazione di tre antologie,sulla letteratura italo-canadese fra cui "Writers in Transition" ( Guernica Editions, 1990) e pubblicato racconti in italiano e inglese in antologie pubblicate in Italia e Canada. Collabora a giornali e riviste letterarie in Canada, Costarica e Stati Uniti. Ha vinto premi letterari in Canada e Italia. Figura nella Hall of Fame del Centro Italiano di Vancouver.