ANNO I NUMERO 1 PRATILE 2015 MENSILE DI LETTERATURA E ALTRO LICHT GIAMMANGIATO PROTTI NUTI DE MATTEIS MAZZANTI BARGELLINI

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ANNO I NUMERO 1 PRATILE 2015 MENSILE DI LETTERATURA E ALTRO LICHT GIAMMANGIATO PROTTI NUTI DE MATTEIS MAZZANTI BARGELLINI

Tutti i diritti dei brani sono di proprietà esclusiva degli autori. Finito di stampare presso Stamperia COLORADO Via F. Ferrucci 95/h Prato (PO) Maggio 2015

MENSILE DI LETTERATURA E ALTRO Editoriale Qualcuno ha sostenuto che abbiamo le teste invase dai tarli, se davvero speriamo di cavare qualcosa di buono da tutto questo. Ci definiscono donchisciotteschi, eppure nessuno di noi ha origini o lontane parentele spagnole, né tantomeno la predisposizione a infilzare mulini a vento cavalcando ronzini. Nemmeno quella a salvare dame, a dir la verità. Muri di granito nei denti ne abbiamo presi tutti, chi spesso, chi più di rado, e in tutta sincerità la prospettiva di prenderne un altro paio ci fa ben poca impressione. Saremo derisi, ma sappiamo bene che il gioco lo prevede; anche noi derideremo. Ci riempiranno di pacche sulle spalle, utili quanto un chilo di sale grosso nel deserto, ci faranno un sacco di complimenti, ci sproneranno a non mollare e noi ringrazieremo sorridendo, ma sappiamo bene che il giorno in cui ci volteremo, quando il cammino si sarà fatto insidioso e nubi nere sorvoleranno le nostre nuche, nessuno ci avrà seguito per regalarci un pò di conforto. Dicono che non c è mercato per cose di questo genere. Anche se non vogliamo vendere nulla. Qualcuno addirittura ci ha detto che perderemo ogni cosa, che ci indebiteremo, che butteremo via un sacco di soldi (come se ci facessimo il bagno), che non dureremo tre mesi, che ci pignoreranno le scarpe e, perché no, anche le mutande. Beh, il carcere ci pare un compromesso accettabile. Almeno lì partiremmo tutti a pari punti. Ma la realtà è un altra, e non useremo citazioni ad effetto di filosofi greci, saggi tibetani, eremiti eschimesi o il solito Oscar Wilde del cazzo, no. Preferiamo Michael Jordan: è proprio perchè non abbiamo niente, che finiremo per prenderci tutto.

O DOL CE NA NO La metropolitana è un mondo a parte. Nessun turista ci farebbe un giro per capire la geografia della città a cui appartiene, o per farsi un idea della sua anima, anche se forse sarebbe un idea più autentica. Ma non è male scendere in metrò quando piove e fa freddo là fuori nel mondo della luce. Ehi deve pagare il biglietto, signore. Deve pagare. Ah ah ah vieni a prendermi, se osi uscire dalla tua gabbia protettiva. Chiama pure gli sbirri. Buona fortuna e addio, fesso. I graffiti erano in via d estinzione. Gli sghiribizzi sui treni mi sembravano sempre scritti col sangue. Sempre meno lerciume, meno criminalità, meno facce incazzate, meno paura, e la grande cattiva metropoli perdeva la sua magia nera. La stregoneria delle strade si cangiava in nenie da Broadway. Al posto degli orrendi teatri porno hardcore 24 ore apparivano locali dove comici professionisti si sforzavano di far ridere. Restano solo fantasmi sui marciapiedi dove prima lavoravano i lustrascarpe più terrificanti del pianeta. Quel mondo non esiste più. Assurdo avere nostalgia dell inferno perduto, eppure. Il treno era quasi arrivato a Times Square quando scorsi un pupo biondiccio vestito di frak, con tanto di sciarpina di seta bianca e scarpe di vernice nera. Gli mancava solo il cilindro, e parecchi centimetri. Il figuro elegante aveva una faccia da poppante avvizzito. Nessuno degli altri passeggeri era così scortese da fissarlo. I loro giornali facevano da sipario. Solo io vedevo il nano armonioso agghindato per una festa alla quale non ero invitato. Magari lavorava al circo-cabaret di stato. Se esiste, faranno spettacolo per VIP, politici, mafiosi e i loro ospiti arrivati dall estero. Ora vi facciamo vedere com è la vera New York. Guarda che arnese che ha la Marilyn Monroe-trans puertoricana. Ed ecco che arriva il suo amante nano...eh? Certo che abbiamo le iene, a New York. Il South Bronx è tutto un pullulare di iene, quelle dalla faccia di demonio e le altre che sembrano figli di cani che hanno trombato con procioni. Il nano elegante notò che l avevo notato. Occhi celesti da neonato infossati, iniettati: troppo rum, sigari troppo forti, troppe puttane poco schizzinose. I nani ostentano un esagerato libertinaggio. Musica pop? Fumetti? Roba da mocciosi. A me piacevano i fumetti, specialmente Braccio di Ferro e Blondie, ma i fumetti nei giornali sono un arte perduta. Non fanno più ridere. Lavoro come vignettista professionista, ma vorrei fare il fumettista underground. Non ditelo ai miei datori di lavoro. Contratto o niente contratto, diritto costituzionale alla libertà di espressione o meno, troverebbero il modo di licenziarmi. Poca gente ormai si interessa ai fumetti underground. Legioni di hippie morti, là fuori. Un ultimo sopravvissuto capellone in via di calvizie gestisce una galleria di arte psichedelica e sovversiva, nel vecchio ghetto hippie. Mi avvicinai cauto, e gli mostrai le tavole illustrate. Si tolse gli occhiali da sole a forma di stella dal naso a prugna. Si grattò il mento malrasato, scaturendo una nevicata di forfora. quattro

O dolce nano Pazzesco, disse. Puro rock n roll. Ma non comprò nulla, e nemmeno si offrì di pubblicarmi niente. Questa roba qui non vende. Ma non importa vendere. Potremmo regalare a tutti il fumetto, con pace e amore. I ragazzi verranno apposta. Compreranno tanti manifesti Day-Glo, te lo giuro. Non voglio giovani teppisti in galleria. Attirano gli sbirri. Non riuscii a convincere il vecchio guru figlio dei fiori. Sulla metrò, con sottobraccio le stesse tavole rifiutate, fissavo un personaggio della corte di Caligola, o del baraccone dei fenomeni del Circo Dracula. La sua espressione trasmise, per favore smettila. Essere guardato è il mio lavoro, purtroppo, ma ora non sto lavorando. Feci finta di non fissarlo più. Fremevo dalla voglia di tirare fuori il quaderno e la matita. La vista di una personcina da fiaba sperduta tra i culi dei normaloni adulti mi fece sentire di non essere più nel solito mondo. Il nostro treno in arrivo fece tremare la stazione di Times Square. Qualche percezione extrasensoriale da nano fece capire al pischello in frak che ero giunto a casa. Forse captò anche le mie brame di pedinarlo, ovunque andasse. Non voleva che un civile lo studiasse come un ornitologo o entomologo. Mi trattenni dallo scendere. Filtrò tra le porte della carrozza all ultimo possibile secondo. Per qualche ragione il treno non ripartì. Mi infilai tra le carrozze e saltai sulla piattaforma. Niente sbirri in vista. Il piccoletto era sicuro di avermi seminato. Credeva di avere tutto il tempo per giungere alla sua onirica destinazione, dove è di rigore lo smoking XXXS e le nane fumano spinelli con bocchini d avorio. Volevo entrare in quel mondo, anche se non c entravo nulla, anche se era solo un postumo di allucinazioni LSD. Montò le scale e svoltò a sinistra. Fluttuai di sopra. Non avevo imballato troppo bene le tavole, non volevo danneggiarle o perderle, per quanto fossero datate e poco commerciali. Il nano prese l uscita che porta al posto di polizia di Times Square, accanto al centro di reclutamento dell esercito, e si diresse verso est sulla 42ma Strada. Nessuno lo degnò di uno sguardo. Ma che tipo di mondo è, se nessuno guarda un nano in frak? Nord. Di nuovo a ovest. Scattava, su quelle gambine. Fece un salto al lato da danzatore, dentro un viottolo coperto, del tipo che una volta permetteva a gigioni, comici, coriste, spogliarelliste e ballerini tip-tap di viaggiare velocemente e asciutti tra palchiscenici kitsch. Da imbecille, lo seguii. Poi solo lamiera arrugginita. Mi sembrò di avere la testa spaccata. Una faccia mi apparve sopra, come la luna. s.d.i. Non aveva nulla di fanciullesco, dalla nuova prospettiva. Barba di due-tre giorni sotto un velo di cipria, un palinsesto di vene, una cicatrice che forse era risultato da un calcio in faccia somministrato da una stangona con le scarpe a tacchi alti. Ti ho detto di baciarle, non sbavarle sopra, piccolo sgorbio piagnucoloso. Non sarà mica tutto giochi e divertimenti, essere nani. Era dal liceo che non sentivo il rumore secco di un coltello a scatto. Il nano mi mise la lama vicino agli occhi. Perché mi stai pedinando, fesso? Ero solo curioso non sembrava la risposta giusta, quindi dissi, È da anni che non vado a una festa decente. E come sarebbe una festa decente, secondo te? Una dove ci sono nani? Dove c è gente vestita bene, dissi, anche se intendevo, una festa dove ci sono nani. Sei uno sciattone, disse, e fece sparire il coltello con un gesto da prestigiatore. Non ti farebbero entrare. Cosa c è dentro quell involucro? Un mitra. Anziché alzarmi, mi sdraiai contro i mattoni di Broadway. Così era più alto lui. Posso darci un occhiata? Fai pure. Accesi uno spinello. Guardò. Aveva già ispezionato tavole da fumetto, oppure aveva un innato rispetto per il lavoro artistico altrui. Stava diventando il mio nano prediletto. Ma ci guadagni da vivere? Mi prese di mano lo spinello e fece un lungo tiro. Roba demenziale. Grazie. Allora è vero che sei diretto a una festa. Ho detto forse così? Aveva nella manina una tavola particolarmente truce. Fischiettò una terzina calante. Ma è basata su una poliziotta in carne e ossa che conosci? Ciò era possibile, nella sua testolina. Ti racconto di lei alla festa, se la musica non è troppo forte. Ma chi ha parlato di musica? Stai fantasticando un orchestra di nani? Ah no. Per nulla. Ma era la verità. cinque

O dolce nano Confessa che sei a caccia di materiale per i tuoi fumetti lunatici. Ero sicuro che avrebbe rifatto scattare il coltello, oppure avrebbe tirato di tasca una pistola, e il buco nero in fondo alla canna mi avrebbe trascinato dentro la sua gravità oscura. Vorrei solo trovarmi in un altro mondo. A chi lo dici. I nani sogneranno di essere alti. Ma forse è solo l idea che una persona di statura normale si fa dei sogni dei nani. Un mondo di culi all altezza dei tuoi occhi, di scoregge all altezza del tuo naso. Un mondo in cui tutti ti parlano dall alto, anche se tu sei più elegante. In testa, vagavo per il Paese delle Giraffe. Quelle bestiole pacifiche potevano calpestarmi a morte in qualsiasi momento. Riderebbero forte mentre agonizzavo, anche se le giraffe sarebbero incapaci di emettere suoni. Guarda, posso cambiarmi, dissi, come se potessi sventolare una bacchetta magica e trasformarmi in nano. Voglio dire, dovrei ancora avere lo smoking in fondo all armadio, da qualche parte. L ho preso all Esercito della salvezza, ma l ho portato in tintoria...ehm, non troppo tempo fa. Dai, vieni da me. Sono solo pochi isolati. Ma non ci penso nemmeno di venire a casa con te, carogna. Non sono quel tipo di nano. Potresti aspettare nella hall. Ah certo adoro sedere su brutti mobili unti e pataccosi mentre i viandanti mi guardano incuriositi, straniti e impietositi. Forse ai tuoi amici non importa se arrivo alla festa conciato come sono. Scordatelo. Dammi l indirizzo. Mi diede delle coordinate vicine al fiume Hudson. Bussa tre volte, disse, chiedi di Joe e dì a Joe che il cane è rosso. Sembrava l inizio di una barzelletta nata male. Da ri-perfetto imbecille ci andai, vestito di tutto punto. Potevo essere il direttore di un orchestra di pigmei. L indirizzo esisteva davvero. Bussai una terzina. La porta aveva l oblò. L aprì un tizio alto il normale, o forse era un nano che stava su una scala, o sulle spalle di un altro nano. Che cazzo vuoi? Cercavo Joe. Nessun Joe qui, fesso. Da dentro non provenivano rumori di festa, piuttosto suoni di studio odontoiatrico, oppure di un officina dove vengono fabbricati ingranaggi per orologi, da elfi, o nani. Secondo me dovresti sparire, fesso. Di a Joe che il cane è rosso. Che cazzo dici, mister? Non costringermi a venire là fuori. Sarò sincero: sono un artista. Lavoro per un giornale, ma veramente disegno fumetti, e non sto parlando di quelli per ragazzi. Ho visto un nano elegante sulla metropolitana, e l ho inseguito. Avrebbe potuto tagliarmi la gola, ma invece ha detto che qui c era una festa, e che potevo venire. Beh eccomi qua. Bene, ora che ci sei, puoi girare i tacchi e tornartene a quel cesso di posto da dove sei venuto. Impossibile. Eh? Mia madre è morta. Ah, fai anche il comico. Ora ascolta, buffone: questa non è una barzelletta, né una festa. Vattene. Ma cosa succede, là dentro? Sembrano rumori di... Chiuse energicamente l oblò. Matthew Licht è considerato un gigante letterario nella Zona del Tramonto. sei

NON BAS TA UN PUN TO C è più vita nella sconsolata ricerca del vagabondo d un mozzicone di sigaretta in un pacchetto semichiuso caduto a terra nella fredda notte di piazza Salvemini, che nella ricerca d un lavoro attraverso l invio di tutti i curriculum del pianeta dalle ancor più fredde e annoiate scrivanie della mia generazione. Come recitava la scritta nella stessa piazza: "la lucidità è sempre in agguato". Hanno le guance vive, i vagabondi, e con le loro labbra sussurrano il silenzioso canto degli sconfitti. Linee scavate d amarezza si fan strada lentamente dall occhio ai muscoli del collo. Con le spalle torte dal peso del resto del mondo e la bocca sopra un pezzo di pane unto del Conad, ogni volta che dicono io gli manca un po il respiro e arrossiscono. Non interessano alle bandiere di partito, ne agli attivisti 2.0 impegnati con i diritti umani in Antartide. Gli è nemico l impiegato collocato, ma anche lo studente previdente che conta gli esami alla fine della laurea. Qui nessuno ha tempo da perdere. Sono fuori moda, i vagabondi. Questi son tempi per i trasandati. Indossano stracci che non gli appartengono, eppure divengono abiti più intimi col vagabondo, più di quanto saranno mai una cravatta e una camicia per l impiegato che li ha cestinati con un indifferenza di cui solo la modernità è capace. Li guardo viver di vecchiaia, abbassare la voce e allontanare lo spingersi fra loro delle parole, lotta oramai consueta per il resto del mondo che necessita di rassicurazioni da imporsi. Fili d'argento per una esigenza in qualche modo dissoluta, mani scavate perché uno scalino di legno senza le sue curve è fredda noia d'acciaio. Godono dell'inizio della fine, sequenziano istanze inascoltate di quell'antico tempo che ora dura un respiro di questo vecchio tabacco. Queste son solo righe di fortuna, condite a solitudine e lentezza. Assenza di un pubblico troppo rumoroso. Una storia stantia per un tempo che scorre al ritmo dei cingoli di un carrarmato, lento e potente, chiamato Futuro. Il mio silenzio mentre li ammiro è un rumore assordante, prima della risposta ad una domanda di chi ancora arde di quel fuoco ingenuo, in un luglio amico. Caos fatiscente, disteso sull'odore di tarlo negli armadi dove nascondo il tempo del mio luglio di fuoco. Candore di debolezza, parole nell'anima di chi si stringe ad un baratro lungo una vita. Vi abbraccio forte. Tutti. Federico Giammangiato Del maiale non si butta via niente, figuratevi del niente cosa si può buttare via. sette

GRANO DURO Lungo e grosso, relativamente. L infima sensazione di quando, viscido, ti lambisce le labbra e ti trafigge la gola. Ti sporca, il bastardo. Diabolicamente forato come il Pantheon romano, nasconde grande gloria o delusione infinita. De gustibus non est disputandum. Difatti lo trovo e l ho sempre trovato fugace e poco affidabile. Come quando al fantacalcio scommetti sul capocannoniere dell ultimo campionato boliviano che puntualmente non ripaga la tua fiducia. Mia nonna invece lo apprezza tantissimo. D altronde l esperienza è un fattore determinante e non voglio sottovalutare il fatto che, nel crescere, anche io potrei cominciare a rivalutarne le peculiarità. E sì che mi sento sperimentatore, dedito alla ricerca della novità, qualcosa che stimoli i miei svariati interessi. Il classico inserimento nella cavità orale è quel che va per la maggiore, è ciò che può ripagare gli sforzi della giornata in un momento di arditezza. Ma cosa c è di artistico? Cos è che ancora può riuscire a stupire? Non discuto le capacità dei professionisti che, abituati a maneggiarlo, riusciranno sicuramente a estrarre il cosiddetto coniglio dal cilindro, la prodezza che fa strabuzzare gli occhi dalla meraviglia. Dove, il comune mortale, può dare il suo taglio? Dove apportare il suo indelebile marchio? Conobbi Franca nei primi giorni di primavera quando, dai miei occhi fiammeggianti, cadevano in continuazione rotonde lacrime perlate. L odio per il polline è sempre stato vivissimo. Sorseggiavamo rispettivamente una bionda media ed un succo al mango. Non era la prima birra della serata e i miei freni sempre ben saldi erano stavolta allentati sufficientemente. Impetuosamente cercai nelle tasche un fazzoletto. Lo trovai subito e il mio naso, consumato dall attrito della soffice carta, parve liberarsi. Mi avvicinai claudicante alla ragazza. Sedetti accanto a lei e conversammo lungamente. Gli argomenti che trattammo furono i più disparati, dalle pitture rupestri al concerto al quale avevamo senza saperlo partecipato entrambi. Le mie frasi sconnesse dovevano averla mossa a compassione, ma allo stesso tempo attratta. Tornai a casa tardi col suo numero scritto in blu sul retro di un biglietto dell autobus. Non fu immediata la nostra complicità. I primi tempi furono candidamente timidi come suggeriva l indole di entrambi. La spavalderia del primo incontro era chiaramente frutto dell alcol che, come in passato, aveva svolto un ruolo fondamentale nell approccio. In un periodo di confidenze aprii il mio animo disagiato con quella che era infine diventata la mia compagna. L argomento si rivelò spinoso e la felicità che provai nel riscontrare in lei la medesima mia opinione, mi fece ancora una volta ringraziare le innumerevoli bionde medie. Mi sentivo appagato. Nonostante il suo essere donna, il nostro pensiero collimava. Nonostante i suoi capelli corti, eravamo delle stessa opinione. Uomo o donna, vecchio o della nuova guardia, fondente o al latte. La complementarietà intellettuale è fondamentale, si snoda oltre le differenze di statura, colore della pelle ed anche provenienze geografica. La passione per il congiuntivo, il piacere di condividere una ciaspolata notturna per la foto agognata, il leggersi vicendevolmente novelle del Boccaccio e carpirne lo stile. Due menti affini mi affascinano. Poi, il bucatino fa schifo. Niccolò Protti Convive con fisime. otto

NOVECENTO Ho lasciato la croce del Sud le strade che portano in piazza dove ho visto e amato la meraviglia possibile i fianchi delle donne le tempie scolpite di ragazzi in agguato d amore teorie geometrie proporzioni nella dialettica ostinata delle botteghe invidiose Ho lasciato Lazzaro e Cristo grazia degli accattoni sono andato a Nord ho cercato la felicità immutabile incorruttibile degli Iperborei Non più strade calcinate dal sole ma trincee fangose putrefatte di morte dove il poeta mi ha detto anche il cielo stellato finirà Ancora più a Nord avanti nel vento nel tempo ho visto la forma rompersi come vetro senza riflessi velocità sfacciare lo sguardo che non c era più tempo di guardarsi negli occhi vergogna che potesse tenere né bene né male solo ballo dissennato nella notte di Parigi nove

Novecento Ancora più a Nord ho trovato mio padre buttato nel vagone scoperto delle bestie o dei vinti nel campo a marcire rubare le bucce che si danno ai maiali Accanto il principe dell indeterminazione camminava come un alba con le scarpe imbrattate di fosforo acceso piovuto con le bombe sopra Berlino né bene né male né onda né punto destino minuscolo l ho visto salvarsi barattando la vita con un pacchetto di fumo Ancora più a Nord più a Nord al confine del mondo ho sostato quasi in preghiera atterrito e immobile ho ascoltato due colpi di mazza il senso di quei suoni giganti orribili suoni di guerra e ho visto luce bruciare per sempre la polvere luce cadere in polvere né pace né guerra compassione sconfitta nel nulla dieci

Novecento La terra degli Iperborei era il nulla tra pallore di ghiaccio e violetto denso di cielo Dov è la vostra felicità immutabile? Non abita più qui rispose sono scesi a valle geni della finanza camminano in alto sospesi sul filo di nylon Giovanni Nuti Necessariamente clandestino. (da Lumen, Ibiskos Editrice Risolo, 2008) undici

ZAP PA SUI PIE DI dodici Ero invecchiato, con un bastone di legno di quercia secolare che mi faceva da sostegno e mi distraeva con i suoi nodi circolari a testimonianza degli anni e le intemperie sopportate dal tronco dal quale era stato ricavato. Camminavo per un sentiero pieno di nidi di ragni giganteschi, ma stranamente non ne avevo paura, e li seguivo perché così dovevo fare, quella era la strada giusta. Giunsi in riva al mare e un pesce orribile mi parlò: È tanto tempo che ti cerco e tu fai di tutto per non notarmi, non per dispetto, ma per disattenzione" "Cosa vuoi da me?" "Voglio regalarti una perla" "Grazie...". Non mi regalò niente, solo una stupida frase: "Scappa scappa che di guai non ne avrai, scappa scappa che un uomo non sarai" "Ma io sto solo seguendo...". Scomparve nelle onde della corrente lieve come l'alito di un febbricitante addormentatosi fra coperte e sudore. Proseguii lasciando orme sulla sabbia, che rapidamente scomparivano col passaggio dell'acqua che mi accarezzava i piedi. La strada salì improvvisamente, irta, faticosa e poco ospitale per le numerose rocce che intralciavano il cammino. Fra una pietra e l'altra sbucavano magnifiche ginestre e il loro profumo mi ricordò la malinconia, e il deserto intorno una solitudine lunga centinaia di anni. Accelerai il passo e finalmente raggiunsi la vetta dalla quale si poteva ammirare il paese che stavo cercando, dove, una volta raggiunto, le persone mi accolsero con un'ospitalità da favole arabe, riempiendomi di attenzioni, gioielli di benvenuto, cibo e bevande deliziose. Le abitazioni erano d'oro massiccio, fresche all'interno, con cascate d'acqua pura che proveniva direttamente dalle montagne attraverso tubature d'argento. Tutti, poiché pochi, vivevano nel lusso più idilliaco, ma allo stesso tempo la loro umiltà era di uno splendore accecante e commovente. Per gli abitanti, tutto quello che avevano era cosa normale, erano nati in quel posto e non lo avevano mai lasciato. Non esisteva né povertà, né ricchezza, non ne conoscevano il concetto. Entrai in una casa sospinto da una mano e al centro del vasto salotto vidi un organo con le canne ancora calde, la musica era finita, ma era rimasta nell'aria per un tempo surreale, non ben definito, e io l'avevo ascoltata ipnotizzato fino a poco prima del mio ingresso. Mi voltai verso l'uomo che mi aveva accompagnato per mostrarmi la camera dove avrei dovuto dormire e gli chiesi: "Ma nel vostro paese nessuno muore di fame?". Rise a lungo poi, con le lacrime agli occhi, mi rispose: "Come è possibile che una persona possa farsi una cosa del genere?! Non c'è nessun buon motivo per smettere di mangiare, sarebbe da stupidi!" Davide De Matteis Brano estratto dal suo secondo romanzo La zappa sui piedi, in corso di pubblicazione.

GLI AMICI SONO UN LETTO DI SPINE La professoressa Mannelli è sempre stata molto severa con me. Mi faceva le interrogazioni più difficili. Io navigavo con molte difficoltà sul 6, 6-, 6+. Non sono mai stato uno studente particolarmente costante. La professoressa Mannelli era una piccola donna coi capelli tinti di biondo, uno di quei biondi che sembrano naturali, biondo castano, un po' di moro sottostante. La professoressa Mannelli si è sempre vestita con tailleur grigi e camicie democristiane. La professoressa Mannelli mi aspettava sempre al varco, macchinava continuamente per smascherare davanti a tutti quello che definiva come il pozzo nero dell'ignoranza giovanile. A sentir lei il mio pozzo aveva delle incrostazioni marroni che neanche a raschiare con tutte le energie si poteva ottenere un po' di pulizia. La professoressa Mannelli quando doveva scegliere chi interrogare faceva scendere dall'alto verso il basso l'indice sul registro: Brilli, diceva, Merlo, diceva, poi c'era questo silenzio vagamente prolungato. Ed io mi alzavo in piedi, perché tanto lo sapevo che il suo sadismo mirava a farmi soffrire. La professoressa Mannelli aveva come un sesto senso: sapeva esattamente quando avevo studiato e quando no. La professoressa Mannelli mi scuccava sempre. La professoressa Mannelli non me la faceva passare mai liscia. La professoressa Mannelli mi rimproverava anche quando era fuori luogo: la professoressa Mannelli una volta ad un funerale di una nostra compagna di classe, purtroppo morta a 14 anni per un tumore, mi ha detto che lei, la compagna di classe morta, era una persona molto migliore di me proprio mentre cercavo di consolare quella gran fica della Canepale, che piangeva sulla mia spalla. La professoressa Mannelli era anche capace di deridere in pubblico i suoi studenti. Se per caso facevi il grosso per un qualsiasi motivo, la professoressa Mannelli ti smontava con una certa ammaliante velocità. Non avevi scampo. La professoressa Mannelli era intelligente. La professoressa Mannelli era anche vicepreside. La professoressa Mannelli chiamava mia madre a casa o a lavoro per dirle quando facevo forca. La professoressa Mannelli sputava per terra se mi vedeva fumare una sigaretta nel cortile durante la ricreazione. La professoressa Mannelli durante tutte le ricreazioni faceva almeno una capatina per controllare i suoi studenti, ma non si rendeva visibile: nascosta su nella loggia o dietro un mantello magico c'erano delle vere e proprie pozze di catarro ai suoi piedi. La professoressa Mannelli non aveva bisogno di un quadernino dove appuntarsi tutte le cazzate che gli adolescenti dicevano, se le ricordava a memoria, per poi ritirartele fuori anche anni dopo con una precisione che ti lasciava senza fiato. La professoressa Mannelli ti permetteva di uscire per andare in bagno durante le sue ore, ma poi non si sa come sapeva esattamente quello che avevi fatto, non so, tredici

Gli amici sono un letto di spine m.n. forse aveva nascosto delle telecamere, forse lo sentiva dall'odore, ma era a conoscenza che in realtà non eri andato in bagno per espletare. La professoressa Mannelli ti obbligava a leggere un sacco di libri per l'estate. La professoressa Mannelli mi disse che lo sapeva che il Satyricon mi sarebbe piaciuto tantissimo. La professoressa Mannelli sosteneva di conoscermi alla perfezione. Era chiaramente vero. La professoressa Mannelli voleva quasi accarezzarmi, ma tutta una lotta interore l'ha fermata. La professoressa Mannelli voleva bene ai suoi studenti, ma era pronta ad ucciderli. La professoressa Mannelli è l'unica professoressa che mi ha fatto scoppiare a piangere più di una volta in classe perché voleva ferirmi a tutti i costi. La professoressa Mannelli insisteva perché il nerd di classe mia fosse il mio compagno di banco. La professoressa Mannelli era contenta di vederci giocare, io e il nerd, a forza quattro durante le ore di latino. La professoressa Mannelli mi ripeteva sempre che non sarei mai stato capace di avere un rapporto prolungato con una donna. La professoressa Mannelli ostacolava i miei tentativi di imbroccare le ragazze che non riteneva giuste per me e in un qualche misterioso modo ci riusciva. La professoressa Mannelli mi ha anche detto che ero tutto fumo e niente arrosto. La professoressa Mannelli era disposta ad ascoltarmi nel post lavoro. La professoressa Mannelli più di una volta mi ha detto che voleva bocciarmi. La professoressa Mannelli, mi è stato riferito qualche anno dopo, mi ha difeso a spada tratta durante alcuni sanguinosi consigli di classe. La professoressa Mannelli mi ha chiesto cosa volessi fare nella vita e dato che non sapevo risponderle, lei mi ha detto, poco prima che entrassi in commissione d'esame di maturità, che qualsiasi cosa avessi fatto sarei stato bravissimo: puoi fare qualsiasi cosa nella vita, andrà tutto bene. Cara professoressa Mannelli, tutto va male, e va ancora più male il fatto che un paio di settimane fa lei sia morta per un tumore, anche lei per un tumore. Lo so che tutto questo è penoso, cara professoressa Mannelli, e lei sa perfettamente che non sarei mai venuto a salutarla durante un sabato pomeriggio tra i tanti e di certo non mi sarei presentato al suo funerale, ma vorrei dirle che gli amici sono un letto di spine ed io su di lei mi sono disteso con grande sofferenza. Ferruccio Mazzanti Una notte eravamo a casa di amici e, ragazzi, lei disse qualcosa di me ed io <<bam>>. È stato il più bel pugno della mia vita. Voleva chiamare la polizia dal mio stesso telefono per dire chi fossi, ma al secondo pugno rinunciò all'idea. quattordici

FORSE TE L HO GIÀ CHIESTO 1. Metamorfosi di un impiegato Quando eravamo ancora sufficientemente piccoli da non poter esercitare il diritto di replica mio padre ci portava alla Mazzanta. Una zona al limite del paludoso, approdo estivo per foltissime comunità di coatti e tedeschi coi sandali di gomma. Lui pensava che ci facesse piacere e forse per un po' è stato davvero così. La Mazzanta era il compromesso tra un villaggio e un luna park, un teatro che sapeva accogliere tutti noi tra le luci iridescenti del calcinculo e la voce ammiccante di uno zingaro senza denti: " Bimbo piangi che mamma te lo compra. In quell'orizzonte becero si imponevano i giganti dell'intrattenimento, macchine da un paio di mila lire al giro che parevano animarsi solo grazie alla peggiore musica in circolazione. Quella, nello specifico, era la stagione di un infelice motivo che saturava ogni ambiente con poche ed enigmatiche parole: "This is the rhythm of the night, the night, oh yeah" Mi facevo violentare da tutto. Oscillavo sul barcone, vibravo sul tagadá (strano congegno dove era apprezzato rischiare i propri incisivi esibendosi saltando), facevo frontali sulle auto a scontro. All epoca non capivo l esigenza di mio padre di concludere le nostre serate d'agosto in un trascurato bar della zona. Nessun video game dove imbucare monete o distributore obeso di schifezze da svaligiare, in quel luogo assopito c erano solo vecchi, un flipper riportante l'eterna scritta Guasto e, nascosto nelle tenebre, un qualcosa chiamato biliardo. "Signorina, gentilmente, ci accenderebbe il tavolo? Il mio sogno era quello di vedere la signorina, come la interpretava il babbo, estrarre un lanciafiamme dal bancone e dare fuoco, prima a quel vetusto mobile, poi alle cariatidi che gli gravitavano attorno e infine, in un rogo purificatore, al locale tutto. Invece, quella signorina che senza dubbio oltrepassava il quintale di peso, si imitava a voltarsi e alzare svogliata un interruttore. CLIK Quello era il suono che annunciava la sua rivelazione, dal buio, come il Leviatano dagli abissi, emergeva la creatura più pericolosa: ferma, misteriosa, dalla pelle tutta verde. Pur non comprendendo perché un uomo e suo figlio dovessero impegnarsi tanto nel far rotolare delle biglie su di un tavolo, percepivo la distanza orgogliosa di quel gioco da tutti gli altri svaghi e mi ci avvicinavo con il rispetto che si dovrebbe ad un nobile decaduto. Giocare infatti pretendeva un certo numero di riverenze e rituali, codici per la maggior parte insostenibili da un bambino in salute, figurarsi da un soggetto ipercinetico come me. La questione che mi pesava di più era quella del silenzio. Perché qualunque risultato ottenessi doveva realizzarsi nella più rigorosa assenza di reazioni umane? Quale forza ci tratteneva dall'imprecare se sbagliavamo o dall' esultare tronfi se abbattevamo i birilli? Insomma, se un compagno falliva un rigore era socialmente legittimato a maledire sé stesso, a inveire contro le tante forme animali che le divinità ostili sanno assumere per punirti. In qualsiasi altro prato, strada, palestra nessuno avrebbe potuto obiettare se dopo aver segnato un goal avessi ostentato superiorità e dileggio per l'avversario. Quel gioco invece era muto, seppur circondati dal caos della Mazzanta, attorno a noi c'erano solo ombre e i suoni sbiaditi delle sfere sul panno. Il mio maestro poi, aderiva a quel comandamento con fede assoluta: uno sguardo compiaciuto per un rinterzo ben eseguito e una critica sussurrata per le centinaia di colpi sbagliati, bevuti, fuori misura, sbracciati, troppo carichi di giro, scarichi di giro o col giro promesso", quindici