William Butler Yeats FIABE IRLANDESI



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Transcript:

William Butler Yeats FIABE IRLANDESI DOVE VANNO I MIEI LIBRI. Tutte le parole che raccolgo, Tutte le parole che scrivo, Devono aprire instancabili le ali E non fermarsi mai nel loro volo, Fino a giungere là dove è il tuo triste, triste cuore, E cantare per te nella notte, Oltre il luogo ove muovono le acque, Oscure di tempesta o lucenti di stelle. W. B. YEATS. Londra, gennaio 1892. Al mio mistico amico G. R. PRIMA INTRODUZIONE (1888). Il dottor Corbett, Vescovo di Oxford e Norwich, lamentava, molto tempo fa, la scomparsa delle fate inglesi. «Al tempo della Regina Maria» scrisse: Quando Tom dal lavoro a casa tornava, O per mungere Cis si levava, Allegro, allegro, il tamburello suonava, E allegre le fate muovevan le punte. Ma ora, ai tempi di Re Giacomo, se ne erano andate tutte, perché «appartenevano alla vecchia religione», e «le loro canzoni erano Ave Marie». In Irlanda esistono ancora e sono prodighe di doni con le persone gentili mentre tormentano quelle sgarbate. «Avete mai visto un folletto o qualcosa di simile?» chiesi a un vecchio nella contea di Sligo. «Per carità, mi seccano continuamente», fu la risposta. «I pescatori di queste parti sanno qualcosa delle sirene?» chiesi a una donna di un villaggio nella contea di Dublino. «A dire il vero non sono affatto contenti di vederle, - rispose, - perché portano sempre cattivo tempo». «Ecco un uomo che crede negli spiriti», disse un capitano di marina forestiero indicando un timoniere di mia conoscenza. «In ogni casa laggiù, - disse il timoniere puntando il dito verso il suo nativo villaggio di Rosses, - ce n'è più d'uno». Lo Spirito del Tempo, dogmatista ormai vecchio e assai considerato, sicuramente non ha mai fatto sentire la sua voce laggiù. Fra non molto, poiché di recente è andato assumendo un aspetto consunto, sarà convenientemente sistemato nella tomba, e un altro crescerà al suo posto, vecchio e assai considerato, e laggiù non se ne sentirà mai parlare, e dopo di lui un altro e un altro e un altro ancora. In verità c'è da chiedersi se mai si sentirà parlare di qualcuno di questi personaggi al di fuori delle sedi dei giornali, delle sale da conferenza, dei salotti e dei ristoranti delle città, o se lo Spirito del Tempo sia mai più che una futilità. Ad ogni modo, intere truppe di esseri simili non cambieranno gran che i Celti. Giraldus Cambrensis trovò la gente delle isole occidentali un tantino pagana. «Quanti dei

ci sono?» chiese un prete un po' di tempo fa a un uomo dell'isola di Innistor. «Ce n'è uno a Innistor; ma sembra che sia un posto abbastanza grande», disse l'uomo, e il prete alzò le mani con orrore, proprio come aveva fatto Giraldus sette secoli prima. Badate bene, non sono qui a rimproverare quell'uomo; è molto meglio credere in più di un dio che in nessuno, o ritenere che ce ne sia uno solo, ma lo trovo soltanto un po' sentimentale e irrealistico, poco adatto al secolo diciannovesimo. Il Celta, le sue «cromlechs» e i suoi monoliti non cambieranno di molto - in verità ci si deve chiedere se mai qualcuno cambi in qualche misura. Nonostante le schiere di negatori e assertori, di sapienti e professori, la maggioranza delle persone è ancora riluttante a sedere a tavola in tredici, o a permettere che le si versi il sale, o a camminare sotto una scala, e si spaventa se vede una gazza sola che agita la sua coda striata. Ci sono, naturalmente, uomini illuminati che hanno negato tutte queste cose; tuttavia perfino un giornalista crederà nei fantasmi se lo attirate dentro un cimitero a mezzanotte, perché siamo tutti visionari se andiamo a scavare nel profondo. Ma il Celta è un visionario senza bisogno di scavare. Va tuttavia tenuto presente che se siete straniero non sentirete tanto facilmente raccontare leggende di spiriti e di folletti, perfino in un villaggio dell'ovest. Dovete mettervi al lavoro con abilità e fare amicizia coi bambini e coi vecchi, con coloro che non hanno sperimentato le preoccupazioni della normale vita quotidiana e coloro nei quali si fanno meno urgenti e ai quali verranno tolte del tutto uno di questi giorni. Le vecchie sono quelle che ne sanno di più, ma non sarà tanto facile indurle a parlare, perché i folletti sono molto riservati e si irritano terribilmente se si parla di loro; non ci sono forse parecchie storie di vecchie che sono state tormentate fin quasi alla tomba o paralizzate da soffi fatati? In mare, quando le reti sono gettate e le pipe sono accese, qualche vecchio, geloso custode di racconti, si farà loquace, e narrerà le sue storie al cigolare delle barche. Anche le sante notti di vigilia sono un momento propizio, e, in passato, si potevano udire molti racconti durante le veglie funebri. Ma i preti si sono opposti alle veglie. Nella "Parochial Survey of Ireland" è riportato come i narratori di leggende usassero riunirsi di sera e, se la versione di qualcuno risultava diversa dalle altre, tutti quanti recitavano la loro, veniva presa una decisione, e l'uomo che aveva apportato cambiamenti doveva conformarsi al verdetto generale. In questo modo le storie sono state trasmesse con tale accuratezza che il lungo racconto di Dierdre veniva riferito, nei primi decenni di questo secolo, quasi uguale parola per parola come appare negli antichissimi manoscritti della Royal Dublin Society. Variava solo in un punto, e qui il manoscritto era chiaramente sbagliato: il copista ne aveva dimenticato un pezzo. Una tale accuratezza tuttavia la si ritrova soprattutto nelle leggende popolari e dei bardi, piuttosto che nei racconti di folletti; questi infatti subiscono notevoli variazioni di solito a seconda del villaggio vicino o della celebrità locale capace di vedere i folletti ai quali li si vogliono adattare. Generalmente in ogni contea esiste qualche famiglia o qualche personaggio che, si narra, ha goduto favori o subito persecuzioni, soprattutto da parte di fantasmi, come gli Hackets del Castello di Hacket, nella contea di Galway, che ebbero come antenato un essere fatato, o John-o'-Daly di Lisadell, contea di Sligo, che scrisse "O'Donahue of Kerry" e "Eilleen Aroon", la canzone rubata dagli Scozzesi e da loro chiamata "Robin Adair" e di cui Handel andrebbe più orgoglioso che non di tutti i suoi oratori (1). Le storie tendevano a raggrupparsi attorno a questi uomini, a volte abbandonando, in tale intento, più antichi eroi. Soprattutto si sono raccolte intorno ai poeti, perché in Irlanda la poesia è sempre stata misteriosamente collegata alla magia. Questi racconti popolari sono molto semplici e ricchi di intermezzi musicali, perché sono la letteratura di una classe per la quale ogni evento si è presentato immutato per secoli seguendo l'antico ripetersi

di nascita, amore, sofferenza e morte: che ha conservato tutto nel cuore: una classe per la quale ogni cosa è un simbolo. Possiede la vanga, sulla quale l'uomo si è curvato fin dal principio. La gente delle città ha le macchine, che significano prosaicità e arrivismo. Gli abitanti delle campagne hanno pochi avvenimenti. Possono meditare sui casi di una lunga vita mentre siedono accanto al fuoco. Per noi niente ha il tempo di acquistare significato; troppe cose succedono perché un cuore, anche se grande, le possa contenere. Si dice che la gente più eloquente del mondo siano gli arabi, che posseggono solo la nuda terra del deserto e un cielo spazzato a nudo dal sole. «La saggezza s'è posata su tre cose, - dice un loro proverbio, - la mano del Cinese, la mente del Francese, e la lingua dell'arabo». Questo, io penso, è il significato di quella semplicità tanto ricercata al giorno d'oggi da tutti i poeti, e che a nessun prezzo è possibile ottenere. Il narratore di fiabe più tipico e degno di nota che io conosca è un certo Paddy Flynn, un vecchietto dagli occhi vivaci che vive in un'umida casetta di una stanza nel villaggio di B., «il posto più "nobile" - cioè magico - dell'intera contea di Sligo», dice lui, benché altri reclamino tale onore per Drumahair o per Drumcliff. E' anche un vecchio molto pio! Se vi capita di trovarlo in vena di devozione, potrete forse avere agio di esaminare la sua strana figura e i suoi ispidi capelli, prima che passi alle vicende dei "signori". Una strana devozione la sua! Vecchi racconti su Columkill e su ciò che diceva a sua madre. «Come stai oggi, mamma?» «Peggio!» «Ti auguro di star peggio domani»; e il giorno seguente, «Come stai oggi, mamma?» «Peggio!» «Ti auguro di star peggio domani»; e il seguente, «Come stai oggi, mamma?» «Meglio, ringraziando Iddio». «Ti auguro di star meglio domani». E vi dirà che in tale maniera irrispettosa Columkill insegnava a essere allegri. Poi molto probabilmente si lancerà nel suo tema preferito - come il Giudice Supremo sorrida nello stesso modo sia che ricompensi i buoni o condanni i dannati alle fiamme eterne. A Paddy Flynn questo malinconico e apocalittico buon umore del Sommo Giudice appare assai consolante. Del resto neanche la sua allegria sembra molto terrena - sebbene sia di un genere ben evidente. La prima volta che lo vidi si stava cuocendo dei funghi; la volta successiva era addormentato sotto una siepe, e sorrideva nel sonno. Sicuramente una qualche gioia non proprio di questo mondo tangibile brilla in quegli occhi - rapidi come gli occhi di un coniglio - in mezzo a una gran quantità di rughe, perché Paddy Flynn è molto vecchio. C'è una specie di malinconia frammista alla loro allegria, una malinconia che è quasi parte della loro gioia, la malinconia visionaria delle nature puramente istintive e di tutti gli animali. Nella triplice solitudine dell'età, dell'eccentricità e della parziale sordità si aggira, importunato assai dai bambini. In quanto alla realtà dei suoi poteri magici e della sua capacità di vedere gli spiriti, non tutti concordano. Un giorno parlavamo della Banshee. «L'ho vista, - disse, - laggiù vicino all'acqua, che "batteva" il fiume con le mani». E' lui l'uomo che mi ha detto d'essere importunato dai folletti. Non che lo Scettico sia del tutto estraneo perfino in questi villaggi occidentali. L'ho trovato una mattina che legava il grano in un campicello non più grande di un fazzoletto da naso. Molto diverso da Paddy Flynn - scetticismo in ogni piega del volto, e passato da gran viaggiatore! - un indiano Mohawk alto un piede tatuato su un braccio per mettere in mostra la cosa. «Quelli che viaggiano, - dice un prete dei dintorni, scuotendo la testa al pensiero di quest'uomo e citando Thomas A'Kempis, raramente diventano santi». Avevo parlato di spettri a questo Scettico. «Spettri, - disse, - cose del genere, non esistono affatto, no, ma per il "buon popolo" c'è una spiegazione; perché, quando è caduto dal cielo, il diavolo si è portato con sé quelli dalla volontà più debole che sono stati messi in posti desolati. Ecco cosa sono i "signori". Ma adesso è sempre più difficile trovarne, perché il loro tempo è finito, capite, e stanno tornando indietro. Ma gli

spettri, no! E vi dirò un'altra cosa in cui non credo: il fuoco dell'inferno»; poi, a voce bassa: «è stato inventato solo per dare qualcosa da fare ai preti e ai parroci». E con questo quell'uomo così ricco di saggezza tornò a legare il suo grano. I vari studiosi di folklore irlandese hanno, dal nostro punto di vista, un gran merito e, dal punto di vista di altri, un gran difetto. Hanno fatto del loro lavoro letteratura piuttosto che scienza e ci hanno parlato dei contadini irlandesi piuttosto che della religione primitiva dell'umanità o di qualunque altra cosa siano alla ricerca gli esperti di folklore. Per essere considerati scienziati avrebbero dovuto schedare tutti i loro racconti come fossero note del droghiere - una voce per il re dei folletti, una per la regina. Invece hanno colto il vivo accento del popolo, la vibrazione stessa della vita, ciascuno esprimendo quello che più aveva risalto al tempo in cui scriveva. Croker e Lover, infarciti delle idee della irresponsabile classe gentilizia irlandese, vedevano ogni cosa in modo umoristico. L'impulso alla letteratura irlandese del loro tempo, veniva da una classe che - soprattutto per ragioni politiche - non prendeva in considerazione il popolino, e immaginava il paese come l'arcadia di un umorista; delle sue passioni, tristezze, tragedie, quegli scrittori non sapevano nulla. Ciò che essi produssero non è del tutto falso, tuttavia si limitarono a mettere in evidenza un tipo di incosciente, trovato più spesso fra barcaioli, carrettieri e servi di gentiluomini, facendolo diventare il simbolo di un'intera nazione e creando lo stereotipo dell'irlandese. Gli scrittori del '48, e la carestia con essi, avrebbero fatto scoppiare questa bolla di sapone. Il loro lavoro aveva la foga e allo stesso tempo la superficialità di una classe dominante e sfaccendata, e in Croker è ovunque soffuso di bellezza - una dolce bellezza arcadica. Carleton, nato contadino, in molte delle sue storie - ho potuto solo riportarne alcune delle meno significative - e particolarmente nelle sue storie di spettri, riflette un approccio molto più serio, nonostante il suo umorismo. Kennedy, un vecchio libraio di Dublino che sembra aver avuto un pizzico di genuina convinzione nell'esistenza degli esseri fatati, li segue in ordine di tempo. Possiede una facoltà letteraria decisamente inferiore, ma è meravigliosamente accurato, riportando spesso le esatte parole con cui le storie venivano narrate. Il libro migliore dall'epoca di Croker è comunque "Ancient Legends" di Lady Wilde. L'umorismo ha interamente ceduto il posto al "patos" e alla tenerezza. Qui troviamo il più segreto spirito del Celta nei momenti che anni di persecuzione gli hanno insegnato ad amare, quando, cullandosi nei sogni e ascoltando al crepuscolo canzoni fatate, riflette sull'anima e sulla morte. Questo è il vero Celta, il Celta quando sogna. Oltre a questi ci sono due scrittori importanti che, fino ad ora, non hanno pubblicato nulla sotto forma di libro - Miss Letitia Maclintock e Mister Douglas Hyde. Miss Maclintock scrive in modo accurato e armonioso nel dialetto mezzo scozzese dell'ulster; Mister Douglas Hyde sta ora preparando un volume di racconti popolari in gaelico, dopo averli per la maggior parte annotati parola per parola stando fra gli abitanti di lingua gaelica di Roscommon e Galway. E' forse la fonte più attendibile. Conosce a fondo il popolo. Altri vedono soltanto un aspetto della vita irlandese; egli ne comprende tutti gli elementi. La sua produzione non è né umoristica, né triste; è semplicemente vita. Mi auguro che possa mettere in ballate parte del materiale raccolto, perché è l'ultimo dei nostri scrittori di ballate della scuola di Walsh e Callanan - uomini il cui lavoro sembra fragrante del fumo di torba. E questo richiama alla mente i vecchi libri di leggende e ballate. Si trovano sugli scaffali delle case, scuri per il fumo di torba, e sono, o erano, venduti direttamente dai venditori ambulanti, ma non è possibile rinvenirli in nessuna biblioteca di questa città dei Sassenach (2). "The Royal Fairy Tales", "The Hibernian Tales", e "The Legends of the Fairies" sono la letteratura fantastica del popolo.

Nella presente raccolta sono riportati parecchi esempi della nostra poesia fantastica. Assomiglia di più alla poesia fantastica della Scozia che non a quella dell'inghilterra. I personaggi della letteratura fantastica inglese sono, nella maggioranza dei casi, semplicemente dei mortali leggiadramente travestiti. Nessuno mai ha creduto in questi esseri fatati. Sono chimere romantiche venute dalla Provenza. Nessuno ha mai messo del latte fresco sulla soglia per loro. In quanto alla mia parte in questo libro, ho cercato di far sì che esso illustrasse, per quanto consentito da così poche pagine, ogni genere di credenza popolare irlandese. Il lettore forse si meraviglierà che in tutte le mie note io non abbia cercato una spiegazione razionale per un solo folletto. Mi rimetto alle parole di Socrate: FEDRO: Di' un po', Socrate; non è di qui, da uno di questi posti dell'ilisso, che Borea, dicono, rapì Oritia? SOCRATE: Già, dicono. FEDRO: Qui? Certo qui il fiume è bello; l'acqua è limpida che ci si vede il fondo, e fatta proprio perché le fanciulle ci vengano a giocare sulle rive. SOCRATE: No, più giù, due o tre stadi circa, dove si guada per il tempio d'agra. E ci dev'essere anche un altare, consacrato a Borea. FEDRO: Non ho mai badato; ma, per Giove, dimmi, o Socrate: tu ci credi a questo mito? SOCRATE: Ma, se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarebbe strano. E poi, volendo fare della sapienza, potrei dire che, mentre ella giocava con Farmacea, una ventata di Borea la buttò giù dalle rupi, lì vicino; e poi che fu morta, si disse che Borea l'aveva rapita - o dal colle di Ares - perché c'è anche quest'altra tradizione, che di 1ì, non di qui fu rapita. Io, o Fedro, codeste spiegazioni non nego certo che per ogni riguardo siano graziose, ma penso che ci voglia un uomo fin troppo bravo e solerte e non davvero avventurato, non fosse altro, perché, dopo, è costretto a rifare la figura degli Ippocentauri, e poi della Chimera, e poi gli si riversa addosso una folla di altri esseri, come Gorgoni e Pegasi, e una strana moltitudine di mille altre prodigiose e inesplicabili nature. Ché, se non ci ha fede e vuole renderle tutte verosimili, sobbarcandosi a una sapienza che vuol fatica da contadini, dovrà spenderci sopra molto tempo. Io tempo per queste cose non ne ho affatto, e la ragione è questa, mio caro, che ancora non riesco, come vuole la sentenza delfica, a conoscere me stesso; e perciò mi sembra ridicolo che uno che non conosca ancora questo, si metta a indagare cose che non lo riguardano. Così, queste storie le lascio stare, tenendomi a quello che generalmente se ne crede, e, come dicevo or ora, vado esaminando non quelle, ma me stesso, se per caso io non sia un mostro più complicato e più fumoso di Tifone, o una bestia più mansueta e più semplice, partecipe per natura d'una qualche sorte divina e senza fumo. SECONDA INTRODUZIONE (1892). Una narratrice di fiabe irlandese. Spesso le mie parole vengono messe in dubbio quando affermo che la gente delle campagne irlandesi crede ancora nei folletti. Si pensa che io stia semplicemente cercando di far rivivere qualcosa del bel vecchio mondo scomparso della fantasia in questo secolo di grandi motori e filatoi meccanici. Certamente il ronzio delle ruote e il fracasso delle macchine da stampa, per non parlare dei conferenzieri con le loro giacche scure e i loro bicchieri d'acqua, hanno allontanato il regno dei folletti e fatto tacere i piedi dei piccoli danzatori. La vecchia Biddy Hart comunque non la pensa così. Delle nostre idee più moderne non si è mai sentito parlare sotto il suo tetto di paglia scura costellato di gialla erba pignola. Non molto tempo è passato da

quando, seduto accanto al fuoco di torba, mangiavo una frittella nella casetta sul pendio di Benbulben e le chiedevo dei suoi amici, i folletti, che abitano la verde collina coperta di rovi, lassù, dietro la sua casa. Con quale convinzione credeva alla loro esistenza! Quanto temeva di offenderli! Per molto tempo non ricevetti da lei altra risposta che: «Io mi faccio sempre i fatti miei e loro si fanno i loro». Ma due chiacchiere su mio bisnonno che aveva passato tutta la vita nella valle sottostante e qualche parola per ricordarle come io stesso fossi più volte capitato sotto il suo tetto quando non avevo più di sette o otto anni le sciolse la lingua. Sarebbe stato comunque meno pericoloso parlare con me dei folletti che non farlo con qualche «attaccabrighe», come con disprezzo chiamava i turisti inglesi, poiché io ero vissuto all'ombra dei loro stessi pendii. Non trascurò tuttavia di ricordarmi di dire, dopo aver finito, «Dio li benedica, Giovedì» (eravamo di giovedì) per scongiurare la loro ira nel caso si fossero seccati del nostro interessamento, perché i folletti amano vivere e danzare senza che gli uomini si occupino di loro. Una volta iniziato, continuò a parlare abbastanza liberamente, con la faccia che avvampava alla luce del fuoco mentre si piegava sulla piatta teglia da forno, o smuoveva la torba, e mi raccontò come una tale fosse stata rapita da una località nei pressi del villaggio di Coloney e costretta a vivere sette anni fra i «signori» - così chiama per rispetto i folletti - e come fosse tornata a casa senza più le punte delle scarpe, perché le aveva consumate a furia di ballare; e come, qualche mese prima che io arrivassi, un'altra donna fosse stata prelevata dal vicino villaggio di Grange e obbligata ad allevare il bambino della regina dei folletti. Le sue informazioni sugli esseri fatati sono sempre dirette e dettagliate, proprio come se riferisse un qualunque evento di tutti i giorni: il recente mercato, o il ballo a Rosses lo scorso anno, quando fu data una bottiglia di whiskey al miglior ballerino e un dolce legato con nastri alla miglior ballerina. I folletti sono, per Biddy, persone non molto diverse da lei, soltanto più importanti e belle sotto ogni aspetto. Hanno magnifiche sale e salotti, vi direbbe, come mi è stato raccontato una volta da un vecchio. Attorno a loro ha immaginato tutto lo sfarzo che conosce, anche se non è gran cosa poiché la sua fantasia si accontenta di poco. Quello che a noi non sembra poi tanto meraviglioso è meraviglioso per lei, là dove tutto è così modesto, sotto le travi di legno e il soffitto di paglia rivestito di canovaccio imbiancato a calce. Noi abbiamo libri e illustrazioni che ci aiutano a immaginare uno splendido mondo magico d'oro e d'argento, di corone e tessuti meravigliosi: lei ha soltanto quella piccola immagine di San Patrizio sopra il focolare, terrecotte a vivaci colori sulla credenza e il foglio delle ballate infilato dalla figlioletta dietro il cane di pietra sulla mensola del caminetto. E' dunque strano se i suoi folletti non hanno le ricchezze fantastiche dei folletti che voi e io siamo abituati a vedere nei libri illustrati e di cui si legge nei racconti? Vi dirà di contadini che hanno incontrato la «cavalcata magica» e l'hanno scambiata per quella di un gruppo di contadini come loro, né più né meno, finché non è sparita nell'ombra e nelle tenebre, e di grandi palazzi fatati che erano stati presi per le residenze di campagna di ricchi signori finché non si sono dissolti. Perfino la sua visione del paradiso è altrettanto semplice, e, quando ne avesse l'occasione, descriverebbe i suoi personaggi con la stessa ingenuità della devota lavandaia di Clondalkin, che riferì a un mio amico di aver avuto la visione di San Giuseppe e che il santo aveva «un bel cappello lucente in testa e un davanti di camicia che non era di certo stato inamidato in questo mondo». Vi avrebbe comunque mescolato qualche strana forma di poesia, perché c'è un'enorme differenza fra Benbulben e Clondalkin che risente dell'influsso di Dublino. Il Paradiso e il Mondo dei folletti: a questi Biddy Hart ha attribuito tutto il fasto che riesce a sognare e a essi la sua anima si rivolge,

all'uno con amore e speranza, all'altro con amore e paura, giorno dopo giorno e anno dopo anno. Santi e angeli, folletti e streghe, biancospini abitati da spiriti e fonti benedette sono per lei ciò che libri, spettacoli e illustrazioni sono per voi e per me. Sono anzi molto di più; perché troppi fra noi diventano prosaici e banali, mentre lei conserva un cuore pieno di musica. «Sto qui sulla soglia, - mi disse una volta in una bella giornata, - guardo la montagna e penso alla bontà di Dio»; e quando parla dei folletti ho notato nella sua voce una punta di tenerezza. Li ama perché sono sempre giovani, sempre in festa, sempre molto lontani dalla vecchiaia che si avvicina per lei e riempie di dolori le sue ossa, e perché, anche, sono così simili ai bambini. Pensate che il contadino irlandese sarebbe tanto ricco di poesia se gli mancassero i folletti? Pensate che le giovani contadine del Donegal, quando vanno a servizio nell'interno, si inginocchierebbero, come fanno, a sfiorare il mare con le labbra se belle leggende e strane tristi storie non avessero reso mare e terra oggetto d'amore? Pensate che i vecchi prenderebbero la vita così serenamente borbottando il loro proverbio: «Il cigno non pesa sul lago, la briglia non pesa al cavallo, né l'anima pesa sul cuore dell'uomo», se un gran numero di spiriti non fossero accanto a loro? (W. B. Yeats). NOTA 1: Handel visse per un certo tempo a Dublino ed ebbe così occasione di sentirla. NOTA 2: [Aggettivo dispregiativo usato più generalmente dagli scozzesi, meno dagli irlandesi, per indicare gli inglesi]. I FOLLETTI SOCIEVOLI. La parola irlandese per fata è "sheehogue" ("sidheóg"), diminutivo di «shee» in "banshee". Le fate sono "deenee shee" ("daoine sidhe"), che vuol dire popolo fatato. Chi sono? «Angeli caduti in peccato, non buoni abbastanza per essere salvati, né cattivi al punto da essere dannati», dice la tradizione popolare. «Gli dei della terra», dice il libro di Armagh. «Gli dei dell'irlanda pagana», dicono gli studiosi delle antiche tradizioni irlandesi, «i "Tuatha De Danãn", che, non più venerati e alimentati con offerte, sono andati rimpicciolendosi nell'immaginazione popolare e sono ora alti solo poche spanne». E, a sostegno di ciò, vi diranno che i nomi dei capi del popolo fatato sono i nomi degli antichi eroi "Danãn, e che i luoghi dove abitualmente si radunano sono i luoghi di sepoltura "Danãn"; e che il "Tuath De Danãn" veniva anche chiamato "slooa-shee" ("sheagh-sidhe"), schiera fatata, o "Marcra shee", cavalcata magica. D'altra parte esistono molti aspetti che inducono a ritenerli angeli caduti. Ne sono dimostrazione la natura di questi esseri, la loro estrosità, il loro modo di essere buoni con i buoni e cattivi con i cattivi, i loro mille tratti incantevoli uniti alla mancanza di senso di responsabilità - all'instabilità di carattere. Creature così suscettibili che bisogna assolutamente evitare di parlarne spesso, e che non possono essere nominate altro che come i «signori», o "daoine maithe", che significa «buon popolo», e tuttavia così facili da compiacere, che faranno ogni cosa per tenere lontano da voi la sfortuna se solo lasciate per loro un po' di latte sul davanzale della finestra durante la notte. Tutto sommato, la credenza popolare dice quanto di essi è possibile sapere quando racconta come caddero in peccato e tuttavia non furono dannati, poiché il male compiuto era del tutto privo di malizia. Sono «gli dei della terra»? (x) Forse! Molti poeti e tutti gli scrittori d'argomenti mistici o di scienze occulte, in tutte le epoche e in tutti i paesi, hanno dichiarato che dietro il mondo visibile ci

sono schiere e schiere di esseri coscienti, che non sono del cielo ma della terra, che non hanno una forma propria ma cambiano a seconda del loro capriccio o della mente che li vede. Non si può alzare una mano senza influenzare innumerevoli esseri o esserne influenzati. Il mondo visibile è semplicemente la loro pelle. Nei sogni andiamo in mezzo a loro, e giochiamo con loro, e combattiamo con loro. Forse queste creature del capriccio sono anime umane alla prova. Non pensate che i folletti siano sempre piccoli. Ogni cosa è mutevole in loro, anche la grandezza. Sembra che assumano ogni dimensione o forma desiderata. Le loro principali occupazioni sono far festa, lottare fare all'amore e suonare la musica più bella. C'è solamente una persona industriosa in mezzo a loro, il "leprecano", il calzolaio fatato. Forse i folletti consumano le scarpe a forza di ballare. Vicino al villaggio di Ballisodare c'è una donnetta che è vissuta con loro per sette anni. Quando ritornò a casa le sue scarpe non avevano più le punte: le aveva consumate ballando. Hanno tre grandi feste all'anno: la Vigilia di Maggio, la Festa di Mezza Estate, e la Vigilia di Novembre. Alla Vigilia di Maggio, ogni sette anni, vanno in giro a combattere un po' dappertutto, ma specialmente sui «Plain-a-Bawn» (1) (dovunque essi si trovino), per il raccolto, poiché le più belle spighe di grano appartengono a loro. Un vecchio mi raccontò di averli visti una volta azzuffarsi; nel mezzo della rissa strapparono via il tetto di paglia di una casa. Se qualcuno si fosse trovato nei pressi avrebbe solo visto un gran vento che, passando, faceva turbinare ogni cosa nell'aria. Quando il vento passando fa turbinare i fuscelli e le foglie, sono i folletti, e i contadini si tolgono il cappello e dicono: «Dio li benedica». Alla Vigilia di Mezza Estate, quando su ogni collina sono accesi i falò in onore di San Giovanni, il popolo fatato è nel momento di maggior allegrezza, e a volte rapisce belle fanciulle mortali per farne sue spose. Alla Vigilia di Novembre i folletti sono particolarmente tristi, perché secondo il vecchio calendario gaelico, questa è la prima notte d'inverno. In questa notte danzano con gli spettri, e il "pooka" si aggira, e le streghe lanciano i loro incantesimi, e le fanciulle imbandiscono una tavola nel nome del diavolo, affinché l'ombra del loro futuro innamorato possa entrare attraverso la finestra ad assaggiare il cibo. Dopo la Vigilia di Novembre le more selvatiche non sono più buone, perché il "pooka" le ha rovinate. Quando sono arrabbiati, i folletti paralizzano uomini e bestie con le loro frecce magiche. Quando sono allegri, cantano. Molte sventurate fanciulle li hanno sentiti e, per amore di quel canto, si sono consumate di dolore e sono morte. Molte delle vecchie melodie irlandesi sono semplicemente le loro musiche, afferrate da orecchie indiscrete. Nessun contadino di buon senso canticchierebbe «La Bella Fanciulla che munge la Vacca» accanto a una fortezza magica (x), poiché i folletti sono gelosi, e non amano sentire le loro canzoni sulle rozze labbra dei mortali. Carolan, l'ultimo dei bardi irlandesi, dormì su una fortezza e per sempre, da allora, le melodie incantate si ripeterono nella sua mente e fecero di lui quel grande uomo che fu. Muoiono forse? Blake vide il funerale di un folletto; ma in Irlanda diciamo che sono immortali. NOTA x: [vedi nota dell'autore in appendice]. NOTA 1: [Spiazzi circolari racchiusi da un muro di pietre a secco, per radunarvi e proteggere il bestiame]. FRANK MARTIN E I FOLLETTI. Quando lo vidi, Martin era un uomo magro e pallido, con un aspetto malato e una costituzione debole per natura. I suoi capelli erano di un chiaro castano ramato, la barba incolta, e le mani di una

delicatezza e un candore singolari, dovuti, penso, sia al suo lavoro, di un genere facile e affatto pesante, sia alla salute cagionevole. In ogni cosa era giudizioso, assennato e ragionevole come chiunque altro, ma quando si trattava dei folletti, si mostrava di una ostinazione stranamente caparbia e irremovibile. A dire il vero, ricordo che l'espressione dei suoi occhi era singolarmente esaltata e vuota, e le sue lunghe tempie strette, teree ed emaciate. Ora, quest'uomo non conduceva una vita infelice, né sembrava che la malattia di cui soffriva gli causasse pena o angoscia, anche se si potrebbe essere portati a pensare diversamente. Al contrario, fra Martin e i folletti esisteva la più cordiale intimità e i loro dialoghi - che temo fossero miserevolmente unilaterali - dovevano essere per lui fonte di grande piacere, poiché si svolgevano fra grandi risate e allegria, almeno da parte sua. - Allora, Frank, quand'è che hai visto i folletti? - Ssth! Ce ne sono due dozzine proprio adesso nella bottega (la sua tessitoria). C'è quel piccolo vecchio briccone che sta seduto in cima al battente, e tutto per farsi dondolare mentre sto qui a tessere. Accidenti a loro, sono i più grandi piccoli intriganti che esistano, ecco quello che sono. Guarda, ce n'è un altro sul boccale dell'appretto (1). Vai via di là, tu, brigante; o - che mi venga un accidente - te la farò ben pagare se non ti decidi. Ah! piantala tu, ladro! - Frank, non avete paura di loro? - Io? O bella, perché mai dovrei aver paura di loro? Tanto non hanno nessun potere su di me. - E perché non ce l'hanno, Frank? - Perché sono stato battezzato contro di loro. - Cosa intendete dire? - Beh, mio padre aveva detto al prete che mi ha battezzato di metterci dentro la preghiera giusta contro i folletti - e un prete quando glielo chiedono non può dire di no - e allora l'ha fatto. Perdio, mi è andata bene che l'ha fatto - (lascia stare il sego, tu, piccolo ghiottone - visto? C'è un ladruncolo che mi sta mangiando il sego) - perché, vedete, loro avevano in mente di farmi re dei folletti. - Possibile? - E' la pura verità. Potete anche chiederglielo, e ve lo diranno. - Quanto sono grandi, Frank? - Oh, sono piccoli piccoli, con mantelli verdi, e le più belle scarpette mai viste. Ce ne sono due - tutti e due vecchie conoscenze - che corrono lungo il subbio d'ordito. Quel tipo con la parrucca a ricciolini si chiama Jim Jam, e quell'altro col cappello a tre punte si chiama Nickey Nick. Nick sa suonare la cornamusa. Nickey, suonaci qualcosa, o te la farò vedere io su, dài, "Le Rive del Lago Erne". Ssth, adesso - ascoltate! Il poveretto, pur continuando a tessere più in fretta che poteva, prestava ogni possibile segno di attenzione alla musica, e sembrava gustarla proprio come fosse stata reale. Ma chi può dire se quella che consideriamo una menomazione non possa, dopo tutto, essere fonte di una felicità più grande, maggiore, forse, di quella che mai riusciamo a provare noi? Non ricordo chi sia il poeta che dice: Misteriose sono le tue leggi Più bella la visione della vista Mai la Natura il suo volto dipinse dolce quanto la Fantasia vagheggia. Più d'una volta, quand'ero un bambinetto di circa sei o sette anni, non di più, mi ero spinto fino alla tessitoria di Frank per ascoltare, col cuore diviso fra curiosità e timore, la sua conversazione con i folletti. Dalla mattina alla sera la sua lingua si muoveva incessantemente quasi quanto la sua spola; ed era risaputo che di

notte, ogni volta che si destava dal sonno, la prima cosa che faceva era di tirar fuori una mano e cacciare via, si fa per dire, i folletti dal letto. - Fuori di qui, ladruncoli, fuori di qui subito, e lasciatemi in pace. Nickey, ti pare il momento di suonare la cornamusa, proprio quando ho voglia di dormire? Andatevene via ora vedrete cosa avrete da me domani se ve ne andate. Farò di sicuro dell'appretto nuovo e, se vi comportate come si deve, può anche darsi che vi lasci grattare la padella. Su, da bravi. Ah, poveri diavoli, sono buone creature. Sono sicuro che sono andati via tutti, tranne il vecchio Berretto-Rosso, che non vuole lasciarmi. E poi l'innocuo monomaniaco ricadeva in quello che aveva tutta l'aria d'essere un sonno innocente. All'incirca in quest'epoca si diceva fosse successo un fatto molto sorprendente, che fece acquistare un bel po' di importanza a Frank Martin fra i vicini. Un uomo di nome Frank Thomas, lo stesso nella cui casa ebbi per la prima volta occasione di vedere Mickey M'Rorey esibirsi in una danza, come ho narrato in un racconto precedente, quest'uomo dunque aveva un bambino malato, ma di che cosa soffrisse non riesco a ricordarlo, né del resto ha alcuna importanza. Una falda del tetto della casa di Thomas era costruita contro, o piuttosto dentro una fortezza chiamata Towny, o più esattamente, Tonagh Forth. Si diceva fosse abitata dai folletti e ciò che ai miei occhi le conferiva un carattere stranamente fosco era che sul lato volto a sud c'erano due o tre piccoli tumuli verdi che si raccontava fossero le tombe di bambini non battezzati, ed era considerato pericoloso e di cattivo augurio passarvi sopra. Ad ogni modo si era a metà dell'estate; e una sera, all'imbrunire, durante la malattia del bambino, si udì sulla fortezza il rumore di una sega a mano. Il fatto apparve piuttosto strano e, dopo un po', alcuni di quelli che erano riuniti nella casa di Frank Thomas andarono a vedere chi mai potesse segare in un posto simile, o cosa potesse star segando a un'ora così tarda, poiché era risaputo che nessuno, in tutto il circondario, avrebbe osato tagliare i pochi biancospini che crescevano sulla fortezza. Pensate voi la loro sorpresa quando, andati a verificare e dopo aver circondato e ispezionato l'intera zona, non riuscirono a scoprire traccia né della sega, né del segatore. Eccetto loro, infatti, non si vedeva nessun altro essere, né naturale, né soprannaturale. Ritornarono quindi alla casa e si erano appena seduti che il rumore riprese, a meno di dieci iarde di distanza. Fu compiuta un'altra perlustrazione, ma l'esito fu lo stesso. Questa volta, però, mentre stavano sulla fortezza, udirono la sega in un piccolo avvallamento circa centocinquanta iarde più sotto e completamente aperto al loro sguardo, ma anche così non riuscirono a scorgere nessuno. Un gruppetto scese immediatamente per cercare di scoprire che cosa potessero significare questo rumore singolare e questo lavoro invisibile; ma, giunti sul posto, sentirono che il rumore della sega, al quale ora si aggiungeva il picchiare di un martello e il conficcarsi di chiodi, veniva dalla fortezza sopra di loro, mentre quelli che stavano sulla fortezza continuavano a udirlo nella cavità. Dopo uno scambio di opinioni, decisero di mandare qualcuno da Billy Nelson, a solo ottanta o novanta iarde di distanza, a chiamare Frank Martin. Presto Frank si trovò sul posto indicato e, senza un attimo d esitazione, risolse l'enigma. - Sono i folletti, - disse. - Li vedo, e vedo anche che sono ben indaffarati. - Ma cosa segano, Frank? - Stanno facendo una bara per un bambino, - rispose; - hanno già finito la cassa e adesso stanno inchiodando il coperchio. Quella notte il bambino morì, e si racconta che, la seconda sera dopo il triste evento, il falegname chiamato per fare la bara prese una tavola in casa di Thomas e la portò nella fortezza, come banco di lavoro improvvisato; e - si dice - il segare e martellare necessari per portare a termine il lavoro erano esattamente uguali a quelli che

erano stati sentiti due sere prima - né più né meno. Io stesso mi ricordo della morte del bambino e della costruzione della bara, ma credo che la storia del falegname soprannaturale non sia stata udita al villaggio che alcuni mesi dopo la sepoltura. Frank aveva tutto l'aspetto di un ipocondriaco. Al tempo in cui lo vidi doveva avere all'incirca trentaquattro anni, ma non credo sia vissuto ancora a lungo, per via della sua costituzione gracile e della salute malferma. Era oggetto di grande interesse e curiosità e spesso mi sono trovato presente quando veniva indicato ai forestieri come «l'uomo che vedeva il "buon popolo"». NOTA 1: La gelatina collosa che viene fatta passare sul filato per mantenerlo scorrevole e uniforme e per impedire che si sfilacci nell'attrito col pettine. LA CENA DEL PRETE. Persone che dovrebbero intendersene di queste cose affermano che il «buon popolo», o i folletti, sono angeli cacciati dal paradiso e approdati su questa terra, mentre gli altri angeli loro compagni, che una colpa più grave trascinava verso il basso, sono precipitati più giù, verso un luogo peggiore. Vero o falso che sia, c'era una allegra combriccola di folletti che danzava e si abbandonava agli scherzi più pazzi in una chiara sera di luna, verso la fine di settembre. Il luogo di questi svaghi non era molto distante da Inchegeela, nella parte occidentale della contea di Cork - un villaggio povero, anche se vi si trovava una caserma per i soldati; ma alte montagne e rocce aride, come quelle che lo circondano bastano a portare la miseria dovunque: ad ogni modo, siccome i folletti possono avere tutto quello che vogliono, solo che ne esprimano il desiderio, la miseria non li spaventa molto, e la loro unica preoccupazione sta nello scovare angoli poco frequentati e posti dove è difficile che qualcuno possa arrivare a guastare il loro divertimento. Questi piccoli esserini stavano su un bel tappeto d'erba verde presso la riva del fiume e danzavano in cerchio più vispi che mai: a ogni balzo i loro berretti rossi si agitavano al chiarore della luna e i loro salti erano così leggeri che le gocce di rugiada, pur tremando sotto i loro piedi, non erano disturbate da tutte quelle capriole. Erano dunque intenti ai loro giochi e giravano su se stessi, facevano piroette e inchini, si dileguavano e provavano ad assumere ogni forma possibile, finché uno di essi cinguettò: Basta, basta tamburellare Non possiamo più giocare Dall'odore Posso dire Un prete sta per arrivare! E tutti i folletti sgattaiolarono via più in fretta che poterono, nascondendosi sotto le verdi foglie della digitale, dove, se per caso i piccoli cappucci rossi fossero spuntati, sarebbero solo sembrate le campanelle cremisi della pianta; e altri si nascosero dietro il lato ombroso delle pietre e dei rovi e altri sotto la sponda del fiume, e in nicchie e fessure d'ogni genere. Il folletto che aveva dato l'allarme non si era sbagliato; infatti, lungo la via che si scorgeva dal fiume, veniva, sul suo pony, Padre Horrigan, e fra sé pensava che, essendo così tardi, avrebbe posto fine al suo viaggio alla prima capanna cui fosse arrivato. Seguendo questo proposito, si fermò all'abitazione di Dermod Leary, sollevò il

chiavistello, ed entrò con un: - La mia benedizione a tutti. Non è il caso di dire che Padre Horrigan era dovunque un ospite gradito, poiché nessun uomo era più pio e più amato in tutto il paese. Dermod era perciò molto dispiaciuto di non avere nulla di saporito da offrire per cena al reverendo assieme alle patate, che la «vecchia» (così Dermod chiamava la moglie, anche se questa non aveva di molto superato i vent'anni) aveva messo in una pentola a bollire sul fuoco. Gli venne in mente la rete che aveva teso nel fiume, ma l'aveva gettata solo da poco e non c'erano molte probabilità che un pesce vi si fosse impigliato. «Non fa niente, - pensò Dermod, - fare un salto giù a vedere non può certo far male; e, dato che desidero il pesce per la cena del prete, forse quello sarà lì ancor prima di me». Dermod andò giù alla riva del fiume e nella rete trovò il più bel salmone che mai avesse guizzato nelle luccicanti acque del «frondoso Lee»; ma, mentre stava per tirarlo fuori, la rete gli fu strappata di mano, non seppe dire come o da chi, e il salmone se ne scappò via, nuotando felice nella corrente come se niente fosse accaduto. Dermod rimase a fissare pieno di tristezza la scia che il pesce aveva lasciato sull'acqua, splendente come un filo d'argento al chiaro di luna, quindi, con un moto rabbioso della mano destra, pestando un piede, diede sfogo ai suoi sentimenti borbottando: Che la cattiva sorte ti possa seguire notte e giorno, dovunque tu vada, maledetto furfante di un salmone! Dovresti vergognarti di te, se sei capace di provar vergogna, scivolarmi via in questo modo! E sono ben convinto che farai una brutta fine, perché è stata qualche forza cattiva ad aiutarti - non ho forse sentito tirare la rete dall'altra parte con tanta violenza che pareva il diavolo in persona? - E' falso quello che dici, - disse uno dei piccoli folletti che erano fuggiti all'avvicinarsi del prete, dirigendosi verso Dermod Leary con un'intera schiera di compagni alle calcagna; eravamo soltanto noi, una dozzina e mezzo, a tirare dall'altra parte. Dermod fissò con sorpresa il minuscolo interlocutore, il quale proseguì: - Non darti alcun pensiero per la cena del prete; se tornerai da lui a chiedergli una cosa da parte nostra, in men che non si dica si troverà apparecchiata davanti la più bella cena mai messa in tavola. - Non voglio aver niente a che fare con voi, - rispose Dermod con tono deciso; e dopo una pausa aggiunse: - Vi sono molto obbligato per la vostra offerta, signore, ma mi guardo bene dal vendermi a voi, o ad altri della vostra specie, per una cena; e inoltre, so che Padre Horrigan tiene tanto in considerazione la mia anima da non volere che io la impegni per sempre, qualunque cosa possiate mettergli davanti; e con questo la faccenda è chiusa. Il piccolo folletto, con una ostinazione che i modi di Dermod non riuscivano a vincere, continuò: - Vuoi fare una cortese domanda al prete per noi? Dermod stette un po' a pensare, e aveva ben ragione a farlo, ma decise che a nessuno poteva venire del male per aver posto una cortese domanda. - Non ho niente in contrario a eseguire quanto mi chiedete, signori, - disse Dermod, - ma non voglio avere nulla a che fare con la vostra cena finché vivrò - badate bene. - Allora, - disse il piccolo folletto che parlava, mentre gli altri si affollavano dietro di lui da tutte le parti, - vai e chiedi a Padre Horrigan di dirci se le nostre anime saranno salvate il giorno del giudizio, come le anime dei buoni cristiani; e, se ci sei amico, torna a riferirci quanto ti dirà, senza indugiare. Dermod se ne andò alla capanna dove trovò che le patate erano state versate sul tavolo e la sua buona moglie porgeva a Padre Horrigan la più grossa, un bel pomo rosso ridente, fumante come un cavallo sotto sforzo in una notte di gelo. - Scusate, Reverendo, - disse Dermod, dopo qualche esitazione, posso avere l'ardire di farvi una domanda? - Cosa mai può essere? - chiese Padre Horrigan.

- Ecco, allora, scusandomi con voi, Reverendo padre, per la libertà che mi prendo, la domanda è: le anime del «buon popolo» saranno salvate il giorno del giudizio? - Chi ti ha detto di farmi questa domanda, Leary? - disse il prete fissandolo molto severamente. Dermod, che non sapeva resistere al suo sguardo, rispose: - Non dirò bugie su questa storia e nient'altro che la verità in vita mia. Sono stati i folletti che mi hanno mandato a farvi questa domanda, e ce ne sono a migliaia giù alla riva del fiume, ad aspettare che ritorni con la risposta. - Ritorna senz'altro, - disse il prete, - e dì che vengano loro stessi qui da me, se lo vogliono sapere, e io risponderò a questa e a qualsiasi altra domanda desiderino rivolgermi col più grande piacere al mondo. Dermod ritornò dunque dai folletti che si radunarono a frotte attorno a lui per sentire la risposta che il prete aveva dato; e Dermod, da quell'uomo coraggioso che era, parlò chiaro davanti a loro: ma quando sentirono che avrebbero dovuto andare dal prete fuggirono via, chi di qua, chi di là, chi da una parte, chi dall'altra, guizzando accanto al povero Dermod così velocemente e in tal numero, che egli ne fu del tutto disorientato. Quando si riprese, e ce ne volle un bel po', fece ritorno alla capanna e mangiò le sue patate asciutte assieme a Padre Horrigan, il quale non dava alcuna importanza alla cosa; ma Dermod non poteva fare a meno di pensare che era una faccenda assai strana che il Reverendo padre, le cui parole avevano il potere di scacciare i folletti tanto in fretta, non avesse niente di saporito per cena, e che il bel salmone che aveva nelle rete gli fosse stato strappato via in quel modo. TEIG O'KANE (Tadhg o Cáthán) E IL CADAVERE. Mi è stato difficile collocare questa bellissima storia di Douglas Hyde. Fra gli spettri o fra i folletti? Si trova fra i folletti in base alla considerazione che tutti questi spettri e corpi non sono affatto spettri e corpi, ma "pishogues" incantesimi dei folletti. Si sente spesso di simili visioni in Irlanda. Ho incontrato un uomo che aveva condotto una vita sregolata come il protagonista della storia, sino a quando - una notte scura - non ebbe, nella contea di..., una visione non certo terribile quanto quella qui riportata, ma sufficiente a fargli cambiare completamente carattere: non vuole più uscire di notte; se gli si parla all'improvviso trema. E' diventato timoroso e strano. E' andato dal vescovo a farsi benedire con l'acqua santa. «Può essere stato un avvertimento, - ha commentato il vescovo; tuttavia i grandi teologi sono dell'opinione che nessun uomo abbia mai assistito a una apparizione, perché nessuno vi sopravviverebbe». C'era una volta, nella contea di Leitrim, un giovanotto forte e allegro, figlio di un ricco fattore. Suo padre aveva molto denaro e non ne faceva certo mancare al figlio. Una volta cresciuto, il ragazzo si era perciò abituato a preferire il divertimento al lavoro e il padre, che non aveva altri figlioli, gli era talmente affezionato che gli permetteva di fare sempre il comodo suo. Il giovane non badava affatto al denaro, e spendeva e spandeva le monete d'oro come un altro avrebbe fatto con quelle di metallo. In casa lo si trovava raramente, ma se nell'arco di dieci miglia c'era un mercato, o una gara, o un raduno, potevate star certi che lui era là. Del resto era anche difficile passasse una notte in casa del padre; se ne stava sempre fuori a vagabondare e, come per Shawn Bwee molto tempo fa, c'era «l'amore di ogni ragazza nella sua camicia». Tanti sono i baci che diede e ricevette, perché era molto bello e non c'era ragazza in tutto il paese che non se ne sarebbe innamorata se solo avesse fissato su di lei il suo sguardo, ed è per ciò che qualcuno compose per lui questi versi:

Guarda lì quel briccone, è per baci che va scorrazzando, Non fa gran meraviglia, tanto è fatto così; Come un riccio di siepe, di notte andrà in giro arraffando Va da un luogo a un altro, ma poi dorme nel dì. Giunse infine a condurre una vita del tutto sregolata e senza freni. In casa del padre non lo si vedeva mai, né di giorno, né di notte; era sempre a zonzo o se ne andava per i suoi giri notturni di luogo in luogo e di casa in casa, tanto che i vecchi scuotevano il capo e dicevano fra loro: - Non ci vuol molto a indovinare che ne sarà della terra una volta morto il vecchio; suo figlio la farà fuori in un anno; sarà anzi la terra a non reggerlo tanto a lungo. Era sempre a giocare d'azzardo o a carte e a bere, ma il padre non faceva mai caso alle sue brutte abitudini e non lo puniva mai. Un giorno però il vecchio venne a sapere che il figlio aveva rovinato la reputazione di una ragazza dei dintorni. Si arrabbiò molto, chiamò a sé il figlio e gli disse con tono calmo e ragionevole: - Figlio mio, - dice, - tu sai che fino ad ora ti ho voluto molto bene, e che non ti ho mai impedito di fare di testa tua, di qualunque cosa si trattasse. Ti ho dato denaro in abbondanza e ho sempre sperato di poter lasciare a te la casa e la terra e tutto quello che mi appartiene, dopo che me ne sarò andato; ma oggi ho sentito sul tuo conto una storia che mi ha fatto indignare. Non immagini neppure che dolore ho provato nel venire a sapere di te una cosa simile, e ora ti dico chiaro e tondo che se non sposi quella ragazza lascerò la casa, la terra e ogni altro avere al figlio di mio fratello. Non potrei mai lasciarli a uno che ne facesse un uso cattivo come ne fai tu, che inganni le donne e insidi le ragazze. Decidi dunque se vuoi sposare la ragazza e avere insieme a lei la mia terra in eredità, o se preferisci rifiutarti di sposarla e rinunciare a tutto quello che ti era destinato; e fammi sapere domani mattina quale delle due soluzioni hai scelto. - Ach! Dannazione! Padre, non puoi dirmi una cosa del genere! A me che sono un così buon figliolo. Chi ti ha raccontato che non voglio sposare la ragazza? - fa lui. Ma il padre se ne era già andato e il giovanotto sapeva fin troppo bene che avrebbe mantenuto la parola; era, in cuor suo, molto preoccupato perché, per quanto suo padre fosse una persona tranquilla e gentile, non si era mai rimangiato la parola una volta data, e non c'era uomo in tutto il paese che fosse più duro di lui da piegare. Il ragazzo non sapeva che decisione prendere. Era sinceramente innamorato della ragazza e desiderava sposarla, prima o poi, ma avrebbe preferito rimanere così ancora per un po', e continuare con le sue vecchie abitudini - a bere, a spassarsela e a giocare a carte; inoltre era seccato che suo padre gli avesse ordinato di sposarsi e che l'avesse minacciato nel caso non lo avesse fatto. «Non è uno stupido, mio padre? - diceva fra sé, - io ero ben disposto a sposare Mary, anzi, ero fin troppo impaziente; e adesso che mi minaccia, accidenti, ho una gran voglia di lasciar perdere ancora per un po'». La sua mente era in un tale tumulto che non sapeva decidersi su cosa gli convenisse fare. Alla fine uscì nella notte per calmare il sangue che gli ribolliva e andò fino alla strada. Si accese la pipa e siccome la notte era bella, continuò a camminare finché l'andatura veloce non cominciò a fargli dimenticare il suo cruccio. La notte era luminosa e si era al primo quarto di luna. Non tirava un alito di vento e l'aria era calma e mite. Andò avanti per quasi tre ore, quando, improvvisamente, s'accorse che era notte tarda e doveva rincasare. - Accidenti! Devo aver perso la nozione del tempo, - dice; - sarà già quasi mezzanotte. Aveva appena pronunciato queste parole, quando udì il parlottare di molte voci, e un calpestio di piedi sulla strada davanti a sé. «Chi mai può andare in giro a quest'ora di notte e per una strada così solitaria!» disse fra sé.

Si fermò in ascolto e sentì le voci di molte persone che parlavano fra loro, ma non riuscì a capire cosa stessero dicendo.- Oh, Beata Vergine! - dice. - Chi sarà? Non parlano né irlandese, né inglese; che siano Francesi! - Avanzò per un paio di iarde e vide chiaramente alla luce della luna della gente piccola piccola che in gruppo si dirigeva verso di lui portando qualcosa di grosso e pesante. «Oh, accidenti! - dice fra sé, non saranno mica i folletti, quelli lì!». Gli si rizzarono fin le radici dei capelli e un brivido gli passò per le ossa vedendo che stavano dirigendosi verso di lui a passo svelto. Guardò di nuovo, e si accorse che il gruppo era formato da una ventina di ometti: non ce n'era neanche uno che fosse più alto di tre piedi, tre piedi e mezzo, e alcuni avevano i capelli grigi e sembravano assai vecchi. Guardò ancora, ma non riuscì a scoprire che fosse quella cosa pesante che portavano, finché non giunsero vicino a lui e gli si misero tutti intorno. Gettarono il pesante fardello sulla strada e immediatamente egli vide che si trattava di un corpo senza vita. Diventò freddo come la Morte, e non un filo di sangue gli scorreva più nelle vene quando un piccolo ometto, vecchio e grigio, si avvicinò a lui e: - Non è una fortuna, - gli disse, che ti abbiamo incontrato, Teig O'Kane? Il povero Teig non riusciva a spiccicare una sola parola né a muovere le labbra, se pure avesse trovato qualcosa da dire, e così non rispose. - Teig O'Kane, - ripeté l'ometto grigio, - non ti abbiamo trovato al momento giusto? Teig non fu in grado di rispondergli. - Teig O'Kane, - fa ancora quello,- per la terza volta, non è una fortuna che ti abbiamo trovato al momento giusto? Ma Teig rimaneva in silenzio, perché aveva paura a rispondere ed era come se la lingua gli si fosse attaccata al palato. L'ometto grigio si volse ai compagni e i suoi occhietti brillanti sprizzavano gioia. - E, - dice, - ora che Teig O'Kane è senza parole, possiamo fare di lui quel che vogliamo. Teig, Teig, tu conduci una brutta vita, e noi possiamo farti schiavo. Non puoi resisterci, è inutile cercare di contendere con noi. Solleva quel cadavere. Teig era così spaventato che riuscì soltanto a balbettare le due parole: - Non voglio; - per quanto spaventato, era infatti ostinato e caparbio come al solito. - Teig O'Kane non vuole sollevare il cadavere, - disse il piccolo ometto con un risolino maligno, in tutto e per tutto simile allo spezzarsi di una fascina o di ramoscelli secchi, e con una vocina aspra come il tocco di una campana fessa. - Teig O'Kane non vuole sollevare il cadavere - fateglielo sollevare; e prima che l'ordine gli uscisse di bocca si erano tutti radunati attorno al povero Teig, chiacchierando e ridendo fra loro. Teig cercò di scappare, ma lo seguirono e, mentre correva, un omino gli fece lo sgambetto, cosicché Teig cadde come un sacco sulla strada. Poi, prima che potesse alzarsi, i folletti lo afferrarono, chi per le mani, chi per i piedi, e lo tennero stretto, con la faccia rivolta a terra, così da impedirgli di muoversi. In sei o sette quindi alzarono il corpo inanimato, glielo tirarono sopra, e glielo sistemarono sulla schiena. Il petto del cadavere fu premuto contro la schiena e le spalle di Teig, e le braccia del morto gli vennero gettate attorno al collo. Poi gli ometti si allontanarono da lui un paio di iarde, e gli permisero di alzarsi. Teig si tirò su imprecando e con la schiuma alla bocca e si scosse con l'intenzione di scrollarsi il cadavere dalla schiena. Ma quali non furono in lui la paura e lo stupore quando s'accorse che le due braccia mantenevano stretta la presa attorno al collo e le gambe rimanevano avvinghiate saldamente ai suoi fianchi e che, per quanta forza ci mettesse, non riusciva a liberarsene più di quanto un cavallo non possa sbarazzarsi della sella. Allora una paura terribile lo colse e credette d'essere perduto. «Accidenti, è finita! - si disse. E' stata la vita sregolata che faccio a dare al "buon

popolo" questo potere su di me. Prometto a Dio e Maria, Pietro e Paolo, Patrick e Bridget che se uscirò sano e salvo da questa brutta avventura mi comporterò bene per il resto dei miei giorni, e sposerò la ragazza». L'ometto grigio gli si avvicinò di nuovo e gli disse: - Ora, piccolo Teig, - gli dice, - non hai sollevato il cadavere quando ti ho detto di sollevarlo, e vedi bene che ci sei stato costretto; forse anche quando ti dirò di seppellirlo non lo farai finché non ti avremo costretto! - Qualsiasi cosa posso fare per vostra signoria, - disse Teig, la farò, - poiché stava diventando ragionevole, ma se non fosse stato per la gran paura che aveva non si sarebbe mai lasciate sfuggire di bocca quelle parole gentili. Di nuovo l'ometto fece udire quella specie di risolino. - Ti stai calmando ora, Teig, - gli dice. - E scommetto che prima che abbia chiuso con te ti sarai calmato ben bene. Ascoltami adesso, Teig O'Kane, e se non mi obbedirai in tutto quello che ti dirò, te ne pentirai. Devi trasportare il cadavere che hai sulle spalle fino a Teampoll-Démus, fin dentro la chiesa, e preparargli una tomba proprio nel mezzo della chiesa. Devi alzare le lastre di pietra e rimetterle a posto nella stessa identica maniera, e poi portare la terra fuori dalla chiesa e lasciare il posto com'era quando sei arrivato, di modo che nessuno possa accorgersi che c'è stato qualche cambiamento. Ma non è tutto. Può darsi che il cadavere non possa venir sepolto nella chiesa; forse vi riposa qualcun altro e, se così è, è probabile che non sia disposto a dividere il suo letto con un estraneo. Se non ti sarà consentito seppellirlo a Teampoll-Démus, devi portarlo a Carrickfhad-vic-Orus, e seppellirlo là, nel cimitero; e se non riesci a sistemarlo in quel posto, portalo con te a Teampoll-Ronan; e se quel cimitero ti è precluso, portalo a Imlogue-Fada; e se non puoi seppellirlo lì, non ti rimane altro da fare che portarlo a Kill- Breedya, e là lo potrai seppellire senza alcun ostacolo. Non so dirti in quale di queste chiese ti verrà concesso di mettere sotto terra il cadavere, ma so che in una o nell'altra ti sarà permesso di farlo. Se eseguirai bene questo lavoro te ne saremo riconoscenti e non avrai motivo di lamentarti; ma se ti mostrerai lento o svogliato, sta' certo che otterremo soddisfazione. Quando l'ometto grigio ebbe finito di parlare, i suoi compagni risero e batterono le mani. - Hich! Hich! Hiuu! Hiuu! gridarono in coro; - affrettati, affrettati, hai davanti a te otto ore prima che nasca il giorno, e se non avrai seppellito quest'uomo prima che si levi il sole, sarai perduto -. Con pugni e calci da dietro, lo spinsero lungo la via. Teig fu costretto a camminare, e a camminare in fretta, perché non gli davano tregua. Pensava fra sé che non c'era in tutta la contea sentiero bagnato, viottolo fangoso, o strada accidentata e tortuosa che non avesse percorso in quella notte. E la notte era in certi momenti molto scura e ogni volta che una nube si trovava a passare sulla luna, Teig non riusciva a vedere nulla e spesso gli capitava di cadere. A volte si faceva male, a volte era più fortunato, ma era sempre obbligato ad alzarsi subito e a sbrigarsi. A tratti la luna appariva ben chiara ed egli allora si girava e vedeva gli ometti che lo seguivano. E li sentiva parlare fra loro: chiacchierare, strillare e gridare come uno stormo di gabbiani; ma, si fosse anche trattato di salvare l'anima sua, non sarebbe riuscito a comprendere una sola parola di quello che dicevano. Non sapeva quanta strada avesse percorso quando, finalmente, uno degli ometti gli gridò: - Fermati qui! - Si fermò, ed essi si radunarono tutt'intorno a lui. - Vedi quegli alberi secchi laggiù? - gli dice ancora il vecchio ometto. - Teampoll-Démus è fra quegli alberi, e tu devi entrarci da solo, perché non possiamo seguirti né venire con te. Dobbiamo restare qui. Coraggio, vai.

Teig guardò in quella direzione e vide un alto muro a tratti diroccato, e dentro il muro una vecchia chiesa grigia e attorno a essa, sparsi qua e là, circa una dozzina di vecchi alberi secchi. Non si vedeva una foglia, né un ramoscello, solo i nudi rami contorti si allungavano come le braccia minacciose di un uomo adirato. Non c'era scampo, era costretto a proseguire. Si trovava a un duecento iarde dalla chiesa, ma andò avanti e non si guardò mai indietro finché non giunse al cancello del cimitero. Il vecchio cancello era divelto, e Teig non ebbe difficoltà a entrare. Si voltò allora a guardare se qualcuno degli ometti lo stesse seguendo, ma una nube passò in quel mentre sopra la luna, e la notte divenne così scura che non riuscì a vedere nulla. Entrò nel cimitero e s'incamminò per il vecchio viottolo erboso che portava alla chiesa. Arrivato alla porta, la trovò chiusa a chiave. La porta era grande e robusta ed egli non sapeva cosa fare. Infine, con difficoltà, tirò fuori il coltello e lo piantò nel legno per vedere se era marcio, ma non lo era. «Adesso, - disse fra sé, - non posso fare nient'altro; la porta è chiusa e non riesco ad aprirla». Prima che le parole gli si facessero chiare nella mente, una voce gli sussurrò all'orecchio: - Cerca la chiave in cima alla porta, o sul muro. Sobbalzò. - Chi mi parla? - gridò voltandosi; ma non vide nessuno. Di nuovo la voce gli bisbigliò all'orecchio: - Cerca la chiave in cima alla porta, o sul muro. - Chi è? - disse, col sudore che gli colava sulla fronte; - chi mi ha parlato? - Sono io, il cadavere, sono io che ti ho parlato! - rispose la voce. - Puoi parlare? - disse Teig. - Ogni tanto, - rispose il cadavere. Teig cercò la chiave e la trovò sopra il muro. Era troppo spaventato per aggiungere altro, e così spalancò la porta più in fretta che poté ed entrò, col cadavere sulla schiena. Dentro era scuro come la pece, e il povero Teig cominciò a vacillare e a tremare. - Accendi la candela, - disse il cadavere. Come meglio poté, Teig infilò la mano in tasca e tirò fuori un acciarino. Ne fece uscire una scintilla e vi avvicinò un cencio bruciacchiato che aveva in tasca. Vi soffiò sopra finché non si accese e si guardò intorno. La chiesa era molto antica e parte del muro era crollato. Le finestre erano sfondate o rotte e il legno delle panche era marcio. Erano rimasti ancora sei o sette vecchi candelieri di ferro e in uno di essi Teig trovò il mozzicone di una candela consumata e l'accese. Stava ancora osservando quello strano e pauroso posto in cui si trovava quando il freddo cadavere gli sussurrò all'orecchio: Seppelliscimi qui, seppelliscimi qui; c'è una vanga, scava il terreno -. Teig si guardò intorno e vide per terra una vanga, vicino all'altare. La raccolse, infilò la pala sotto una lastra di pietra che stava in mezzo alla navata e, facendo leva con tutto il suo peso sul manico della vanga, la sollevò. Una volta tolta la prima lastra non fu difficile alzare le altre vicine, ed egli ne spostò tre o quattro. Sotto, la terra era molle e facile da scavare, ma non aveva smosso che tre o quattro palate quando sentì che il ferro toccava qualcosa di soffice come la carne. Portò via altre tre o quattro palate di terra di lì intorno e allora vide che si trattava di un altro corpo sotterrato in quel medesimo punto. «Ho paura che non potrò seppellire i due cadaveri nella stessa fossa», - disse Teig fra sé. - Tu, cadavere, lì sulla mia schiena, - fa Teig, - ti andrebbe bene se ti seppellissi qui sotto? Ma il cadavere non gli diede risposta. «E' un buon segno», si disse Teig. «Forse si sta calmando», e conficcò di nuovo la vanga nel terreno. Probabilmente urtò la carne dell'altro corpo, perché il morto che era sepolto in quel punto si rialzò nella tomba e lanciò un urlo terribile. - Buuh! Buuh!! Buuh!!! Via! Via!! Via!!! o sei morto, morto, morto! - E poi ricadde nella tomba. Teig

riferì in seguito che di tutte le cose portentose viste in quella notte, quella fu per lui la più terribile. I capelli gli si rizzarono in capo come le setole di un maiale, un sudore freddo gli bagnò la faccia e un tremito gli passò per tutte le ossa finché credette di essere lì lì per cadere. Dopo un po', però, vedendo che il secondo cadavere rimaneva disteso tranquillo al suo posto riprese coraggio e gli rigettò sopra la terra, gliela spianò ben bene in superficie e adagiò con cura le lastre esattamente come le aveva trovate. «Non può certo alzarsi più», si disse. Prosegui un po' lungo la navata avvicinandosi alla porta e ricominciò a sollevare le lastre, alla ricerca di un altro giaciglio per il cadavere che portava sulla schiena. Tirò su tre o quattro lastre, le appoggiò di lato, e poi rimosse la terra con la vanga. Non lavorava da molto quando mise allo scoperto una vecchia che indosso non aveva altro che la camicia. Era più vivace del primo cadavere, infatti Teig le aveva a malapena tolta di torno un po' di terra, che si alzò a sedere e cominciò a gridare: - Oh, tu pagliaccio! Ah, tu pagliaccio! Com'è che non ha un letto? Il povero Teig si tirò indietro e quando la donna si accorse che non riceveva risposta, chiuse dolcemente gli occhi, perse la sua energia e ricadde calma e tranquilla sotto la terra. Teig fece con lei come aveva fatto con l'uomo - la ricoperse con la terra e vi adagiò sopra le lastre di pietra. Riprese a scavare vicino alla porta, ma tirate su non più di un paio di palate, notò che la mano di un uomo sbucava fuori, vicino alla vanga. «Per l'anima mia, se le cose stanno così non continuerò, - disse fra sé; - a che mi serve?». E di nuovo gettò sopra la terra e sistemò le lastre come erano prima. Quindi, seppure a malincuore, lasciò la chiesa, badando di chiudere la porta, girare la chiave e lasciarla dove l'aveva trovata. Sedette su una lapide che stava vicino alla porta e cominciò a pensare. Era molto in dubbio sul da farsi. Si prese la faccia fra le mani e pianse di stanchezza e d'angoscia, poiché a questo punto era assolutamente certo che non sarebbe arrivato a casa vivo. Fece un altro tentativo di allentare le mani del cadavere che gli stavano avvinghiate attorno al collo, ma erano strette come una morsa; e più cercava di liberarsene, più strettamente si avvinghiavano. Stava per tornare a sedersi, quando le fredde, orride labbra del morto gli dissero: - Carrick-fhad-vic-Orus, e ricordò l'ordine dei folletti di portare con sé il cadavere in quel luogo se non fosse riuscito a seppellirlo dove già aveva provato. Si alzò e si guardò attorno. - Non conosco la strada, - disse. Appena pronunziate quelle parole il cadavere allungò improvvisamente la mano sinistra che gli era stata serrata attorno al collo, e la tenne distesa a mostrargli la via che avrebbe dovuto seguire. Teig prese la direzione verso cui le dita erano tese e uscì dal cimitero. Si ritrovò su una strada piena di solchi e di sassi, e di nuovo si fermò, non sapendo dove andare. Il cadavere allungò una seconda volta la mano ossuta e gli indicò una strada diversa da quella per la quale era venuto alla vecchia chiesa. Teig seguì quella strada, e ogni volta che arrivava a un incrocio con un sentiero o con un'altra strada il cadavere sempre allungava la mano e indicava con le dita, mostrandogli la direzione da prendere. Svoltò a molti crocicchi e percorse molti sentieri tortuosi, quando finalmente, a lato della strada, vide un vecchio camposanto; ma dentro non c'era chiesa, né cappella, né altra costruzione. Il cadavere lo strinse forte ed egli si fermò. Seppelliscimi, seppelliscimi nel camposanto, - disse la voce. Teig proseguì verso il vecchio camposanto, e non ne era distante più di venti iarde quando, nell'alzare gli occhi, vide centinaia e centinaia di spettri - uomini, donne e bambini - seduti in cima al muro di cinta, o in piedi dentro il cimitero, o che correvano avanti e indietro, che lo segnavano a dito, e intanto poteva scorgere le loro

bocche aprirsi e chiudersi come se stessero parlando, benché non si udisse parola o suono alcuno. Ebbe paura a continuare, così rimase dov'era e nell'istante in cui si fermò tutti gli spettri si calmarono e smisero di agitarsi. Allora Teig comprese che stavano cercando di impedirgli di entrare. Andò avanti per un paio di iarde e immediatamente tutta quella folla si precipitò nel punto verso cui si stava muovendo, e vi rimase così strettamente ammassata che lui pensò non sarebbe mai riuscito ad aprirsi un varco, se pure avesse avuto intenzione di tentare: ma non aveva nessuna intenzione di farlo. Ritornò sui suoi passi abbattuto e sconsolato, e una volta giunto a un paio di iarde dal camposanto si fermò di nuovo perché non sapeva quale direzione prendere. Sentì all'orecchio la voce del cadavere che diceva: Teampoll-Ronan, - e la mano scheletrita si allungò di nuovo ad indicargli la via. Stanco com'era, non poteva smettere di camminare, e la strada non era né breve, né regolare. La notte era più scura che mai ed era difficile andare avanti. Molte volte gli capitò di urtare contro qualcosa e più di un livido gli si segnò sul corpo. Infine scorse in distanza, davanti a sé, Teampoll-Ronan, in mezzo al cimitero. Proseguì verso la chiesa e, vedendo che sul muro non c'erano spettri o altro, credette di essere sano e salvo e pensò che questa volta non avrebbe trovato ostacoli nello sbarazzarsi finalmente del suo carico. Si diresse verso il cancello, ma mentre lo stava attraversando, incespicò nella soglia. Prima di potersi riprendere, qualcosa che non riuscì a vedere lo afferrò per il collo, per le mani e per i piedi e lo colpì, lo scosse, lo soffocò, finché non lo ridusse quasi in fin di vita; e per ultimo fu sollevato e trasportato a più di cento iarde da lì e poi gettato in un vecchio fosso, col cadavere sempre aggrappato alla schiena. Si alzò, contuso e dolente, ma aveva paura ad avvicinarsi di nuovo a quel luogo, perché non aveva scorto nulla prima di essere buttato a terra e trascinato via. - Ehi tu, cadavere, lì sulla mia schiena, - disse, - devo ritornare al cimitero? - ma il cadavere non diede risposta. - E' segno che non vuoi che ci riprovi, - disse Teig. Era molto in dubbio sul da farsi, quando il cadavere gli parlò all'orecchio e gli disse: - Imlogue-Fada. - Oh, maledizione! - disse Teig, - devo portarti là? Se mi fai camminare così ancora per molto ti avviso che cadrò sotto il tuo peso. Proseguì comunque nella direzione indicatagli dal cadavere. Egli stesso non avrebbe saputo dire per quanto avesse camminato, quando il morto che aveva dietro lo strinse improvvisamente con forza e disse: - Là! Teig guardò davanti a sé e vide un muretto basso, che in certi tratti era tanto diroccato da non essere più un muro. Si trovava in un grande campo aperto, un po' fuori dalla strada, e tranne che per tre o quattro grosse pietre agli angoli, che erano più rocce che pietre, non c'era nulla ad indicare che lì vi fosse un cimitero o un luogo di sepoltura. - E' questo Imlogue-Fada? Devo seppellirti qui? - chiese Teig. - Sì, - disse la voce. - Ma non vedo tombe, né lapidi, solo questo mucchio di pietre, disse Teig. Il cadavere non rispose, ma allungò la sua lunga mano scarna per mostrare a Teig la direzione da prendere. Teig andò avanti come gli veniva indicato, ma aveva una gran paura, perché non si era dimenticato quello che gli era successo nel posto precedente. Procedette «col cuore in gola», come egli stesso riferì in seguito; ma arrivato a meno di quindici o venti iarde dal basso muretto quadrato, scoppiò un lampo giallo vivo e rosso, con dentro striature turchine, che prese a girare attorno al muro sfrecciando veloce come una rondine nelle nuvole; e più Teig rimaneva a fissarlo, più andava veloce, finché divenne uno splendente anello di fiamma attorno al vecchio cimitero, e nessuno avrebbe potuto attraversarlo senza venirne

bruciato. Da quando era nato Teig non aveva mai visto, né mai vide in seguito, una apparizione tanto portentosa e splendida. La fiamma girava, e mentre girava sprizzavano fuori scintille bianche, gialle e turchine, e sebbene da principio non fosse stata che una linea sottile e stretta, lentamente andò aumentando fino a divenire una grande fascia estesa che cresceva sempre più larga e alta e lanciava faville sempre più lucenti al punto che non ci fu colore sulla superficie della terra che non fosse possibile scorgere in quel fuoco; e mai si vide un lampo brillare o una fiamma ardere con tanta luce e splendore. Teig era sbalordito; era mezzo morto dalla fatica e non aveva più il coraggio di avvicinarsi al muro. Una nebbia gli calò sugli occhi e una vertigine lo colse, e fu costretto a sedersi su una grossa pietra per riprendersi. Non riusciva a vedere altro che la luce e non sentiva altro che il suo sibilo mentre quella roteava attorno al piccolo prato più veloce di un lampo. Stava seduto così sulla pietra, quando la voce sussurrò ancora una volta al suo orecchio: - Kill-Breedya -; e il morto lo strinse tanto forte da farlo gridare. Si alzò di nuovo, malconcio, stanco e tremante e proseguì per il cammino come gli veniva indicato. Tirava un vento freddo e la strada era brutta, il carico che portava sulla schiena era pesante e la notte scura: era quasi allo stremo delle forze e se avesse dovuto proseguire ancora per molto sarebbe caduto sotto il suo fardello. Finalmente il cadavere allungò la mano e gli disse: Seppelliscimi là. «Questo cimitero è l'ultimo, - pensò Teig fra sé; - e l'ometto grigio ha detto che avrei potuto seppellirlo da qualche parte, dunque sarà qui. Devono accoglierlo per forza». La prima tenue striscia dell'"anello del giorno" stava apparendo a oriente e le nubi cominciavano a infuocarsi, ma era più buio che mai, perché la luna era tramontata e non c'erano più stelle. - Fa' in fretta, fa' in fretta! - disse il cadavere; e Teig corse come meglio poté verso il cimitero, che era piccolo, su una collina spoglia, con dentro solo poche tombe. Varcò coraggiosamente il cancello aperto e niente lo toccò, né udì o vide alcunché. Giunse nel mezzo del camposanto e qui si fermò e si guardò intorno per vedere se trovava una vanga o una pala con cui scavare una fossa. Mentre si girava a cercare notò all'improvviso qualcosa che lo colpì moltissimo - una fossa scavata di recente proprio davanti a lui. Si avvicinò e guardò dentro, e lì, sul fondo, vide una bara nera. Si calò nella buca, sollevò il coperchio, e, proprio come aveva immaginato, trovò che la bara era vuota. Era appena risalito e stava ritto sul bordo della fossa, quando il cadavere, che gli era rimasto aggrappato per più di otto ore, allentò di colpo la presa attorno al collo, sciolse le gambe dai suoi fianchi e scivolò giù con un tonfo nella bara aperta. Teig cadde in ginocchio sull'orlo della tomba e ringraziò Iddio. Quindi non perse tempo, premette ben bene il coperchio sulla bara e con le mani vi gettò sopra la terra: quando la buca fu riempita vi pestò e saltò su con i piedi finché il suolo non fu compatto e duro e se ne andò via da quel luogo. Quando finì il lavoro il sole stava sorgendo velocemente, e Teig ritornò subito sulla strada per cercare una casa in cui riposare. Trovò finalmente un'osteria e lì si distese su un letto e dormì fino a sera. Poi si alzò, mangiò un poco, e cadde di nuovo addormentato fino al mattino. Appena sveglio, il giorno seguente, noleggiò un cavallo e corse verso casa. Era a più di ventisei miglia di distanza e aveva percorso tutta quella strada in una sola notte con il corpo del morto sulla schiena. A casa tutti pensavano che avesse lasciato il paese, e al vederlo tornare si rallegrarono molto. Cominciarono a fargli domande su dove era stato, ma Teig non lo volle dire ad altri che a suo padre. Da quel giorno fu un altro uomo. Non esagerò mai nel bere; non perse mai denaro a carte; e soprattutto non corse più il rischio di rimanere