Quistello in cerca... d Autore Narrativa Fantastica



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Quistello in cerca... d Autore Narrativa Fantastica

Biblioteca di Quistello Curatrice Anna Giraldo Editor Anna Maria Bondavalli Copyright dei testi e delle immagini dei rispettivi autori Pubblicazione gratuita priva di ISBN Immagine di copertina Max Laurenzi Progetto grafico di copertina Azzurra Ponti Impaginazione Azzurra Ponti

Sommario Tullia Benati 1 Il lavoro di Mario Anna Giraldo 11 Giulio Bruno Mazzacani 22 Oceano Lina Morselli 26 La figlia del Mago Mauro Fantini 37 La leggenda dell Arco d Oro Mariachiara Cabrini 54 Amnesia Silvia Camurri 64 Elio Girasole Vanni Camurri 71 Il segreto della Selva Immobile Marco Moretti 80 Il calzolaio della Slesia e Johannes Cuntius Elena Bertani & Elisabetta Tadiello 85 Lacrime di Luna Biografie

Il lavoro di Mario Non era una questione di talento o di passione, ma era una spudorata questione di soldi. Certo è che avrebbe potuto sopravvivere sulle spalle dei suoi, ma non avrebbe potuto farlo per tutta la vita, e neppure a lungo perché quel poco d orgoglio e di senso di responsabilità che gli rimaneva glielo impedivano. Tutti dicevano: - Sei intelligente, vedrai che qualcosa troverai. Basta un idea Sì, ma era proprio quella che mancava! Fu così che Mario decise di darsi alle scommesse. Erano tempi quelli in cui si scommetteva su tutto nel suo paese, tutti tentavano la fortuna, chi in un modo chi in un altro, quindi non avrebbe suscitato troppi rimproveri da parte di sua madre il fatto di voler giocare. Dapprima tentò con il metodo più antico e tradizionale: le scommesse sui cavalli. Ma si rese subito conto che non ne capiva molto e che, soprattutto, la corsa dei cavalli era uno sport per gente altolocata: ben presto si sarebbe accorta che lui non era 2

dell entourage. Così passò al Totogol, al Totocalcio, al Totosei, al Totoditutto, ma anche di calcio ne capiva ben poco e soprattutto non n era entusiasmato: che perdesse una squadra o un altra per lui non aveva importanza. Era giunto alla conclusione che se la Fortuna avesse deciso di dargli una mano, lui dal canto suo doveva almeno metterci passione in quel che faceva. E abbandonò anche le scommesse sul calcio. Non rimanevano molte chance al nostro povero Mario, che da quando aveva preso questa decisione vedeva i suoi pochi risparmi, composti perlopiù da vecchie mance premurosamente conservate e dagli esigui proventi di lezioni di latino impartite tempo addietro, sempre più diradarsi. Ormai il Casinò se l era giocato, nel senso che lo riteneva troppo costoso e troppo rischioso. Là le puntate di gioco erano ingenti, da gran signori! Se avesse perso quel poco che gli era rimasto avrebbe proprio perso tutto! E chi lo avrebbe poi spiegato a sua madre? No, no, non se la sentiva proprio di entrare in un lussuoso e luccicante Casinò, frequentato da gente ricca e snob. No, se la Fortuna lo avesse aiutato - diceva fra sé e sé Mario - sarebbe stato in un posto più appartato, più riservato, fatto apposta per lui insomma. Se lo immaginava caldo, accogliente, sicuro, un posto dove si potevano dormire sonni 3

tranquilli Sonni tranquilli? Sì, sonni tranquilli! Ripeté tutto agitato Mario: ecco l idea che gli mancava! La Fortuna lo avrebbe trovato in un posto dove poteva fare sonni tranquilli. Beh, a questo punto occorre fare una nota tecnica per lo sventurato lettore, perché si dà il caso che Mario, benché fosse un tipo indeciso e incline al dolce far niente, quando aveva un idea in testa (e un idea buona questa volta, per giunta), correva subito a metterla in pratica. E così, nonostante fossero solo le quattro del pomeriggio, Mario si infilò di corsa nel suo letto. Forse occorre aggiungere anche una seconda nota tecnica per il sempre più spaesato lettore: si dà infatti il caso che nel paese di Mario andassero di moda le scommesse e una di quelle più in voga in quel momento fosse il gioco del Lotto. Che c entra il gioco del Lotto con il letto? Ma è universalmente risaputo, ignorante di un lettore, che i numeri da giocare si sognano, e che quindi la Fortuna li avrebbe sussurrati a Mario nel suo lettuccio, in sogno! Così Mario si mise subito all opera. Non aspettò che arrivasse la sera. Sua madre lo vide salire le scale e per tutta risposta al suo sguardo inquisitore ricevette un: - Vado al letto! Mario si svestì e, ancora tutto agitato, indossò il 4

pigiama comodo di flanella a pois; poi, e si infilò nel suo caldo lettuccio. Era un poco difficile addormentarsi con tutta quella frenesia addosso ma nel giro di pochi minuti, con un sottofondo di musica brasiliana, Mario si addormentò con il dolce pensiero di veder comparire la dea bendata, bellissima, al passo di samba. E, meraviglia delle meraviglie così fu. Mario si svegliò tre ore dopo con un rilassato sorriso sulle labbra. - Addio, mia cara brasilera - aveva appena fatto in tempo a dire fra la veglia e il sonno, quando guardò l orologio: erano le sette di sera ed era mercoledì. Avrebbe fatto appena in tempo a correre alla ricevitoria del paese e giocare i tre numeri sussurratigli in suadente portoghese. Non c era tempo da perdere. Mario si cambiò solo i pantaloni, si infilò le scarpe e con la maglia del pigiama a pois ancora addosso si precipitò giù dalle scale. Sentiva lo sguardo sempre più esterrefatto della madre su di sé, ma non aveva tempo di dare spiegazioni. Uscì di casa sbattendo la porta. Fece appena in tempo ad entrare nella ricevitoria per giocare: erano le sette e venti. Il barbuto tabaccaio lo guardò storto: aveva forse intravisto il colore rosso dei pois sotto la giacca marrone? Ma che importava! 5

Alle otto e trenta precise, Mario si trovava tutto tremante davanti al televisore in compagnia della madre e di tutta la famiglia per seguire le estrazioni del Lotto. 8, 13, 27 sulla ruota di Palermo. Sentì annunciare. San Paulo do Brasil e la bella Dea bendata non l avevano ingannato! Incredibile! Mario aveva vinto! Non sapeva ancora quanto, ma ciò non importava. Per Mario questa era la prova che il suo metodo era esatto: la Fortuna lo avrebbe baciato in sogno. Questo sarebbe stato il suo lavoro! La madre, che non poteva contenersi dalla gioia, saltava e lo baciava come se si fosse laureato ad Harvard, come se si fosse improvvisamente redento dagli anni di inettitudine. I fratelli, le mogli dei fratelli e i bambini lì riuniti per pura coincidenza, stavano già brindando con bottiglie di spumante e vecchi panettoni del Natale precedente. Tutti erano fuori di sé dalla gioia, ma: - Non bisogna fare troppo rumore - asserì la madre, guardando con circospezione fuori dalla finestra, - I vicini ci sentono e poi si insospettiscono. - Macchè - rispose sicuro Mario - Meglio che lo sappiano, ho un metodo infallibile per trovare numeri anche per loro! 6

- Come?, Cosa? -, si inserirono increduli i fratelli - Non avrai agganci altolocati a Palermo? - Macchè - rispose Mario con fare sempre più saccente - Ho un metodo segreto, del tutto mio, perfettamente legale -. E se proprio e proprio, un gancio altolocato ce l ho a San Paulo pensò contento fra sé e sé. Mario non voleva rivelare tutte le sue risorse, ma non voleva neppure tenere per sé tutte le sue scoperte, voleva semplicemente farne, come si dice, un Business! - Voi ditemi quanto volete giocare sabato prossimo, che poi i numeri e la ruota ve li do io -. Asserì Mario deciso. La famiglia rimase basita, incredula, muta. Tanto valeva crederci e provare, pensò la madre. - Va bene, io io voglio giocare, caro ma per questo sabato meglio non dirlo ai vicini. Il venerdì notte Mario andò a dormire un poco agitato. Si infilò nel letto con lo stesso pigiama di flanella a pois rossi. E se la Dea Bendata non l avesse visitato quella notte? Se fosse stato solo un grande colpo di fortuna del tutto isolato? No, no, impossibile, si tranquillizzò Mario, se la Fortuna aveva deciso di andarlo a trovare, doveva trovarlo fiducioso, convinto e pronto ad accoglierla. Mise un bel sottofondo di musica di Bahia, e dopo poco Zzz era già partito 7

oltreoceano, destinazione San Paulo. La mattina seguente si risvegliò dando un bacio all aria della sua stanza, con un pacifico sorriso sulle labbra. Era proprio bella quella spiaggia con la dolce brasiliana! Fece una risanante doccia, si vestì di tutto punto e poi scrisse un bigliettino che lasciò sul tavolo della colazione per la madre. Riportava i tre numeri e la ruota su cui giocare, e ridendo fra sé e sé Mario vi aggiunse: P.S. Per te questo servizio è gratis, ma poi chiederò un compenso per la fatica. Sabato sera, otto e trenta. Famiglia riunita come i tre giorni precedenti davanti al televisore. Mamma fremente, a tratti incredula, a tratti speranzosa, guardava il figlio Mario, in giacca e cravatta, stranamente sicuro di sé. 90, 17, 7, Palermo. Un bel terno secco! Di nuovo, ancora! Le urla questa volta non si contennero, la mamma era svenuta, aveva puntato una bella sommetta. L amica del vicinato si affacciò alla finestra. Mario aveva indovinato di nuovo e oramai tutti in paese lo avrebbero saputo. 8

Si sparse la voce che Mario avesse un dono, che Padre Pio ( P come la ruota di Palermo) lo aiutasse, non si spensero le dicerie che conoscesse un mafioso nel capoluogo siciliano... e poi che e che e che Di fatto, fra le incertezze e la curiosità della gente, partì il Business. Per Centomila Lire a sogno (aggiornato poi a Cento Euro) Mario sognava per conto terzi in genere un terno, quasi sempre sulla ruota di Palermo, qualche volta Salerno o Bari (quando l affascinante Dea decideva di prendere il sole sulle spiagge di San Salvador do Bahia o si trasferiva per affari a Brasilia). Di pigiami e di CD brasiliani, in seguito Mario ne comprò anche altri, vincendo la scaramanzia iniziale. Evidentemente anche la bella bendata lo aveva preso in simpatia e lo visitava volentieri. Ma ciò che più importava, o meglio, che più importava a Mario era che adesso aveva un lavoro! E un lavoro in piena regola, con tanto di partita I.V.A. e Commercialista. Avrebbe potuto guadagnare ciò che voleva e ritirarsi tranquillo in qualche isola sperduta, ma non era questo il punto. Il punto era che sua madre non lo considerava più un fannullone. La sua occupazione era riconosciuta socialmente da tutti, senza contare che probabilmente avrebbe creato nuovi posti di lavoro, avrebbe creato uno studio o più studi in Italia. Le potenzialità del mercato erano pra- 9

ticamente infinite! Bastava sognarle. Si era persino fatto fare dei biglietti da visita. E niente di più probabile che il nostro paziente lettore possa trovarli in giro per bar, tabacchi, ricevitorie e negozi specializzati. Recano la scritta: Il Dott. Mario Ugotti - libero professionista, regolarmente iscritto all Albo dei Sognatori - sogna per voi. Riceve solo su appuntamento. Telefonare ore pasti. 10

Giulio Se non puoi combatterli, unisciti a loro. - Giulio! Giulio! - Le voci tintinnano festose - Avanti, Giulio! Vieni a danzare! - Mi invitano liete prima di scintillare in una risata. Il nastro di luce della rosea aurora si è appena srotolato a mezz aria tra gli archi di pietra dell Esedra. Ancora il frivolo sonaglio di una risata. La linea retta del ponte tra le peschiere separa netta le simmetriche armonie del giardino. - Giulio! - È un richiamo soave al quale non so resistere. Mi presento ogni sera in divisa da custode, come da regolamento. È ridicola in questo luogo. Dormo nella branda aperta amorevolmente dalla commessa del bookshop, ogni sera prima di andarsene. È infatuata, è evidente. Penso che dovrei chiederle di uscire una volta. La sento sospirare spesso mentre mi saluta e mi dà la buonanotte. 12

Buonanotte. C è ancora una stella sopra la mia testa. L ho osservata impallidire nel cielo. Ha atteso che tutte le altre si assopissero per regalarmi il suo ultimo sfavillio. Sfilo la giacca con lentezza. La tengo tra l indice e il pollice per un istante, poi la lascio cadere a terra. Infilo le dita nel nodo della cravatta, si allenta con indolenza. - Andiamo! Vieni alla festa! - Mi incitano in coro a sbrigarmi. Devo chiudere gli occhi per costringermi ad abbandonare la meraviglia del sole che nasce dietro l emiciclo di archi perfetti. Le dita scivolano dalla cravatta alla fibbia della cintura, la sfilano abili. Percorro veloce la Loggia di David. Le scarpe di cuoio schioccano come zoccoli sull impiantito dei marmi preziosi. Uno a uno slaccio i bottoni della camicia. Il mio passo si affretta e i calzoni calano a terra. - Giulio! Io non posso che accorrere. Mio nonno mi diceva - Giulio, Giulio. Dai retta a me. Molla quell idea balzana dell Università e rimani a Mantova quando sarò morto io prenderai il mio posto. Dai retta a me, Giulio. Era un vecchio pazzo, il nonno. Lo trovarono una 13

mattina, i suoi vestiti sparsi in giro e lui nudo come un verme, disteso sul pavimento della Camera dei Giganti. Aveva fatto il custode notturno per trent anni senza segnare un giorno solo di malattia. Aveva la testa rotta, un grosso livido viola proprio sulla fronte e un sorriso beato stampato in faccia. Gli dèi dell Olimpo lo guardavano affacciati all affresco del soffitto. L occhio di Polifemo sembrava velato di una compassione nuova e umana. Da quel viso deformato dalla caduta di sassi fissava le punte dei piedi del cadavere di mio nonno. Aveva scordato di togliere i calzini, mio nonno. Spalanco il portone. Mi avvicino al camino di pietra veronese. Fetonte brucia e cade dal soffitto, con tutto il suo cocchio e i suoi cavalli. Il verde ramarro di stucco lancia uno sguardo ammiccante mentre scivola giù dalla cappa del camino. Io lo seguo. Lascio le scarpe tra un passo e l altro e la maglietta della salute nella Camera dei Venti. Tolgo le mutande quando ormai sono sulla soglia. Ci sono cavalli al trotto nella sala adiacente e mormorii alle mie spalle. - C è una festa qui! - Esclamano in coro. Mi accorgo di non aver sfilato la cravatta. Quasi mi 14

impicco per sbarazzarmene in fretta. Suoni di flauto e di cembalo mi accolgono. Un coro muto di soprano e versi di menestrello. Accedo alla Camera di Psiche. Il lavoro iniziò a gennaio. C erano trenta centimetri di neve nel giardino pubblico del Teieto e ci nevicava sopra che parevano brandelli. I miei stivali sprofondavano completamente, la neve vi entrava dall orlo del gambale, soggiornava per un istante, in apparenza innocua, poi scivolava giù e impregnava i calzettoni di lana. Il cielo di madreperla si era tenuto a battesimo un freddo bianco e luccicante. Palazzo Te non ha un impianto di riscaldamento. Io lo fissavo. Immobile da più di cinque secoli nelle sue fondamenta, sulla sua pietra l ultima neve non si sarebbe sciolta che a primavera. La commessa del bookshop mi consigliò di portarmi una termocoperta, ma il responsabile che mi spiegava il lavoro la fulminò con lo sguardo e disse che mai avrei potuto portare una siffatta bruttura moderna tra le mura del magnifico palazzo. Allora pensai che avrei passato tutte le mie notti nella gelida fissità di quell arte antica fatta di déi nudi sui loro cocchi dorati. Senza luce, né calore, l unico che mi avrebbe fatto compagnia sarebbe stato il fantasma di mio nonno. 15

- Giulio! - Le Ore spargono petali variopinti e mi chiamano. Uno dei Satiri, geloso, emette un suono strozzato. Eccola! Poggia i ditini sottili sul tavolo bianco. Il suo profilo è perfetto. Con l altra mano indica il dio messaggero. Anch egli è invitato al banchetto. Il fruscio del suo peplo l accompagna mentre si gira e si rivolge a me. Porta alla bocca la stessa manina che poco fa indicava Mercurio, nei suoi occhi lo sguardo è tenero e ammiccante - Oh! Giulio! Indossi ancora quei ridicoli calzari? - Indica i miei calzini blu. Dimentico sempre di toglierli prima. So che devo fare io il primo passo. È molto più difficile per loro. Allora lei tende la mano e fa un passo a sua volta. Si muove. È lieve e fatata nelle sue curve procaci avvolte appena da un velo discinto, una farfalla, libera a un tratto dal suo bozzolo. Si schiude lenta. È sempre un batticuore. Il fantasma di mio nonno non venne mai. La prima notte non ero riuscito a prender sonno. Con l intento di scaldarmi i piedi, mi ero aggirato per le camere del Palazzo. Con un latente senso di colpa, avevo puntato la luce della torcia elettrica contro gli affreschi e gli stucchi. Tutti i personaggi raffigurati erano indifferenti a me, al mio congelamento, alla 16

mia solitudine. Per più di una volta ero tornato nella Camera di Psiche ad ammirare i corpi armoniosi delle due ninfe dipinte ai lati del soffitto nell atto di versare l acqua. Mi ero lasciato prendere dal panico. Quale affresco avrei contemplato la notte successiva? Forse i sei cavalli mansueti nella stanza adiacente? Oppure quelli lanciati al galoppo sospesi nella volta della Camera del Sole e della Luna impegnati a trainare la biga di Selene e la quadriga di Apollo? Prima dell alba, colto dalla stanchezza, avevo dormito un paio d ore nel sacco a pelo sopra la branda aperta nel bookshop. La notte successiva mi portai da leggere. Mi avvolsi in tre strati di coperte fino al naso e passai tutto il tempo assorbito dal mio libro. Nell ora precedente all aurora, con le dita e il naso congelati, mi assopii. Le sue tette sode sono l ottava meraviglia. Ravvia i riccioli con un gesto studiato e sorride. Mi porge l indice e il medio perché io li baci. Eseguo servile. La festa si sta animando. Un fanciullo si è lanciato fuori dall affresco con la vivacità dei suoi anni. Saltella intorno improvvisando una danza. Poi corre a tirare la fune cui è legato un caprone. Un volo di amorini si stacca all improvviso in una risata allegra. Raggiungono le ninfe dentro la lunetta sopra la mia testa e le invitano a uscire. 17

L elefante barrisce dalla parete alle mie spalle. Mi fa sobbalzare. - Giulio! Ti prego. Libera quel bizzarro quadrupede - cinguetta lei distogliendo la manina dalle mie labbra per indicarlo e mentre lo dice il velo scivola scoprendole il pube. Lei non se ne cura e saluta le sue ancelle uscite da una lunetta della parete meridionale con un cenno benevolo del capo. Annuisco. Ma prima di muovermi faccio scivolare il braccio nell incavo morbido della sua schiena. - Non da solo. Aiutatemi Voi - la lusingo reverente. Di notte lavoravo. Nessuna ragazza mi avrebbe mai preso sul serio se le avessi chiesto di uscire il pomeriggio. Tranne la Dina. Lei faceva la maestra elementare e lavorava solo il mattino. Non fece storie, quando l invitai a cena alle sei del pomeriggio. Una volta, in primavera, la feci entrare di nascosto passando dal ponte tra le peschiere. Per tutta la notte la portai in giro per le camere e le logge del palazzo. Se provavo ad abbracciarla, si scostava e mi diceva di puntare la torcia su questa o quella parete. Lei a Palazzo Te non era stata mai e voleva vedere tutto quanto. Tentai di spiegarle che non si può vedere bene tutto a Palazzo Te, nemmeno in cent anni, ma finse di non capire e continuò a curiosare a destra e a manca corredando le sue scoperte migliori con gridolini sommessi. Alla fine la condussi nel giardino 18

segreto. Lei volle contare le stelle una ad una e rimase con il naso per aria finché il cielo iniziò a schiarire. Allora io la trascinai nella Grotta e, tra le madreperle luccicanti, riuscii finalmente a farle l amore. Ma un istante prima che la nostra passione raggiungesse il culmine, ad un tratto, mi parve di udire un sospiro. Un sospiro diverso. Né mio, né della Dina. Alzai gli occhi e il cielo sa per quale motivo non mi venne un infarto e non rimasi secco sopra di lei. C erano un uomo e una donna in piedi accanto a noi. Si tenevano la mano e sospiravano. La Dina lì sotto non si accorse di nulla. Stava mugolando di piacere a occhi chiusi. Così portai a termine in fretta e furia il mio lavoro e poi la baciai a lungo, come sapevo che le piaceva, sussurrando - Stai lì, adesso. Tieni gli occhi chiusi che ti faccio una sorpresa. - Ritieni che io sia bella, Giulio? - Bisbiglia al mio orecchio in cerca di complimenti. - Siete la più bella - tolgo un acino d uva dal graspo antico di cinquecento anni e lo avvicino alle sue labbra. Si scosta capricciosa - L ho sentita, oggi, quella guida turistica antipatica, sai!? Dice che io non sono io! Per tutti gli déi dell Olimpo! Mi ha scambiata per una di quelle sciacquette perditempo - indica indignata una delle Ore. 19

Mi porge di lato la manina perché io la baci ancora. Intanto sono iniziate le danze. Al centro, gli sposi, Amore e Psiche. Si guardano adoranti mentre volteggiano al canto delle ninfe. Tutto intorno damigelle e gentiluomini, satiri e putti. Una pioggia di fiori scende delicata dalle mani dei fanciulli alati. Bestie esotiche si aggirano tra i convenuti. Poco distante da noi è adagiata una tigre, un bambinetto la imbocca di carni alla brace. Bacio la sua mano e proseguo sull avambraccio, su su fino al collo. Tengo le sue dita tra le mie, basta una lieve stretta perché intuisca l invito. Annuisce e ride. Ride come un tintinnio così a lungo che mi pare di percepirvi una melodia. E quando il suo riso termina tra le mie labbra, con uno, cento, mille baci ella si concede a me tra i cinguetti festosi delle sue ancelle. La Dina aveva gli occhi chiusi. Io guardai attentamente quelle due figure, nella luce crescente dell alba. Avevano entrambi un viso famigliare. Stavano lì, in silenzio, e guardavano. Allora ricordai alla Dina di non aprire gli occhi. Mi distolsi da lei e andai a controllare i mosaici. In quello della balena, cavalcata da Astolfo e Alcina in fuga, era rimasto soltanto il cetaceo. Verificai con attenzione prima di crederci. Astolfo e Alcina erano usciti dal loro affresco e stavano osser- 20

vando noi. Era proprio vero. Un boato fa tremare i muri. La festa si congela di colpo. - Ancora quei cafoni dei giganti! - Sospira lei delusa - Possibile che rovinino sempre tutti i nostri piani? Un altro boato ancora più possente. Psiche si precipita alla porta. È già in lacrime. Non gliene va dritta una, poverina. Dietro di lei c è Amore, tutto premuroso, ma piangerebbe volentieri anche lui. Come ogni volta, stava aspettando di avere un po di privacy prima di consumare. Io l ho capito già da un pezzo, invece, e anche oggi ho avuto l accortezza di cogliere l attimo. A Palazzo Te, la Dina non l ho mai più fatta venire. L ho sposata. È durata quasi un anno. Quanto l ho lasciata, lei mi ha domandato Hai un altra? Le ho risposto No poi me ne sono andato in tutta fretta, erano quasi le otto, l ora del mio turno a Palazzo Te. 21

Oceano Remoti ricordi emergono ora tra le tortuose vie di un cervello che sta invecchiando ove assillanti pensieri tornano a rivedere l inizio di una vita terrena. Ricordo che pochi attimi dopo la mia materiale presa di coscienza di esserino apparso in un caldo e sicuro ambiente sempre in movimento vidi tanti forse migliaia forse milioni di miei simili. In un attimo di frenetico terremoto tutti con entusiasmo al suono di una carica suonata da trombe boschi caverne piccole e grandi qualcosa ci incitava a correre forte sempre più forte. Arrivare primi anche con il fiatone era importante anzi indispensabile. A nord esserini tondeggianti attendevano uno di noi. Feci ad altri lo sgambetto e con impeto a me sconosciuto mi buttai violentemente su quell ovino ne sentii subito il calore e penetrato tra le sue pareti mi adagiai sfinito. Avevo colpito per primo l obiettivo e mi addormentai sognando cose nuove mai viste prima. 23

Fui svegliato di soprassalto e non so chi mi comandò di mettermi al lavoro. Mi fu detto che gli altri mie fratellini si erano smarriti e non trovando la giusta meta avevano preso altre vie. L ambiente che mi ospitava era caldo e sicuro e il mio lavoro continuava bene anche se a volte mi prendeva la stanchezza. Passò un po di tempo e la mia immagine si fuse con ciò che mi circondava cambiavo continuamente d aspetto e di volume. Sentivo attorno a me rumori emozioni nuove a volte frizzanti a volte tranquille o di malessere. Allora non sapevo dell esterno io conoscevo quel mare non quale oceano ci fosse oltre quell universo forse qualcosa di grande di importante che si muoveva e che ci forniva di cibo per nutrirci. Spesso si sentivano voci altoparlanti che comunicavano strane notizie ancora incomprensibili ma che piano piano io recepivo. Mangiare bere ascoltare un poco di ginnastica e tra il cullare delle onde crescevo. Un pezzo più lungo un altro più grosso e tondo una protuberanza piccola e importante qualche foro e a metà via un tubo un cordone da cui arrivavano prelibati alimenti. Ero un fagottino e mi feci piano piano più birichino avevo imparato a fare scherzi e a scalciare ma oltre il mio universo sentivo pace quiete e per ciò che combinavo non era mai rimproverato né castigato. Sentivo che passava il tempo avevo una stanchezza universale avevo voglia di emigrare da quel globo 24

per esplorare altri universi. Chissà cosa avrei trovato forse una spiaggia asciutta o altre cose che mi erano state riferite da quando pian piano avevo cominciato a capire i rumori le sensazioni e a comprendere il significato delle parole che venivano dall alto forse da un altra galassia da un mistero che avrei voluto vedere. La mia curiosità si faceva sempre più grande e ascoltavo con grande attenzione ciò che arrivava dal mondo esterno a volte sentivo tensioni ostili al mio ambiente chissà cosa succedeva in quel mondo. Poi tutto cessava e sentivo un grande benessere c erano stati tempeste trombe d aria sconvolgimenti e cose che non riuscivo a capire. Nuotavo fantasticavo pensavo a cosa sarebbe successo se il mio nudo corpicino di colpo fosse stato trasferito in quell universo misterioso di cui conoscevo solo i rumori e le sensazioni trasmesse. 25

La figlia del Mago Apro la finestra per far entrare la nebbia. In quest ora e in questo periodo, a spirali e fiotti, è la migliore. Non mi piace il flusso continuo, non ha ritmo, mentre i fiotti di nebbia possono farsi beffe della leggerezza e seguire il battito del maglio che fin qui mi ha condotto, a fare di me quella che sono. Io racchiudo il rumore e il suo peso; il definitivo gesto dell abbattimento e il tonfo cadenzato trovano spazio tra le pieghe fluenti del mio abito, e nei refoli di nebbia. Le altre non lo sanno, guardano altrove, nessuna mi ha mai fissato. Ma io le ho passate una per una in rassegna, intrufolandomi sotto le pieghe che incorniciano l ovale del viso. Volevo sapere come sono, cosa distingue loro realmente da me, che sempre ho saputo chi ero, fin da bambina, fino ad averne la conferma a otto anni, in un giorno di febbraio. Nebbia a banchi. Cammina all indietro di nebbia in nebbia, di giorno 27

in giorno, di anno in anno. Racconto di bambina, ricordo vivace, parole diverse a descrivere il tempo passato. Bella ero. Di mia madre gli occhi azzurri, di mio padre tutto il resto. Piccola e armoniosa era mia madre, lavandaia. Prima di mettere a bagno un vestito, un lenzuolo o una camicia, fisso li guardava, tra mani e polsi se li rigirava, li appallottolava per poi riaprirli, li faceva spesso frusciare avvicinandoli a un orecchio. Mia madre i tessuti li faceva parlare, ne conosceva l intima natura. Mai ha sbagliato un lavaggio. Di fretta andava, in fretta apprendeva gli acquatici bisogni delle varie tessiture e con rapida precisione dosava la concentrazione dei saponi e la temperatura delle liscive, poi il bucato affondava fino in fondo al mastello e a volte le braccia immergeva fin quasi alle ascelle. Mia madre alla fine sciacquava, non una lacrima di sapone rimaneva e in silenzio guardava l ultima acqua fredda e quasi pulita del risciacquo finale, fino a quando dal buco del mastello spariva in un ultimo gorgo osceno con quel suo verso quasi digestivo. Io mia madre guardavo. La biancheria ho imparato a piegarla appena ho potuto. Non mi sono mai posta il problema se farlo mi piacesse o no, lì ero per un caso necessario, perché l arrivo di mio padre aspettavo. 28

Il fumo della nebbia e il fumo del bucato, il bianco dell una e dell altro, l artificio è già pronto, tocca l umido, stringi il vapore, sfrega le mani e apri gli occhi. Alto e statuario era mio padre, bene si vestiva, frutta e granaglie commerciava, in bicicletta si spostava. Una bella bicicletta nera con la canna lucida sempre, un fanale rosso dietro e giallo davanti, per la nebbia. Poco parlavamo io e mio padre, ma tutto lo stesso ci dicevamo. Lui arrivava e subito vicini stavamo io e lui. Ci guardava, mia madre, e ha capito a forza di guardarci. Una donna intelligente era. La figlia del mago io ero. A volte la gente esprimeva sospetti: Nell orto sputava su un pomodoro. Da solo cantava davanti al pozzo con voce di donna. Non va a messa, ma smette di pedalare davanti alla chiesa. La gente ha una gran fantasia, ma a volte ci prende, senza volere. Un mago era mio padre. Guardatelo bene, è un mago, è un mago! Negli occhi mi fissava mio padre e intanto le sue mani intrecciate alle mie teneva, grandi le sue con le piccole mie. Due pagine di pelle su cui scrivere ciò che era necessario mettere in circolo. E il circolo 29

funzionava, due fluidi eravamo io e lui, una chimica aliena ci univa. Un giorno è arrivato mentre pelavo patate: - Io temo i coltelli, quando vengo da te devono stare dentro ai cassetti. Mi piace invece sentire quando battono il frumento e il frumentone sull aia. Molte cose devi ancora imparare. Avevo sette anni allora e il coraggio mi mancava per chiedergli se vivere il suo tempo o quello di mia madre. Non erano sposati i miei genitori. Mio padre sì, con un altra donna da cui due figli aveva avuto. La moglie abbastanza ricca, ma i figli erano vuoti. Mio padre aveva visto mia madre mentre sussurrava qualcosa a un lenzuolo e aveva capito che da lei avrebbe avuto figli pieni. Io ero la sua figlia piena. Mia madre amava mio padre, mio padre non amava lei. Voleva me, mio padre, e basta. Amore terreno, di donna artigliata, possesso sicuro e legame vitale: la donna lo cerca, il mago non vuole. Ma vale la forza dell artificio, regge la bava dell incantesimo. Una casa voleva mia madre con lui. Di insulti lo copriva, ma lui neanche rispondeva. Con violenza lo schiaffeggiava, ma lui fermo restava e niente il volto gli segnava. Io alle liti assistevo con indifferenza, a volte provando pena per mia madre, che invano sperava di 30

fargli del male. Sperava che, inferto da lei, il dolore fisico potesse convincerlo a cambiare idea. Terapia banale, che a volte funziona, ma lui aveva una sensibilità straniera, da cui solo la punta affiorava, chiamata dagli altri egoismo. Il mago, mio padre, a schiaffi e sputi non reagiva, a guardarla si limitava per riportarla all incantesimo del lenzuolo. A quel punto io, che la mia parte silenziosa recitavo dietro i mastelli d acqua calda, potevo anche andarmene. Fino a quando con una bastonata sulla testa lei lo ha colpito. Verso di lei lui si è girato e l ha guardata come mai più ho visto fare da altri esseri viventi: - Non puoi farcela, mai verrò a vivere con te. Neppure la tua violenza mi può toccare, non hai ancora capito? Ci ha guardato da allora mia madre con morbosa e maniacale attenzione. Non cedeva, voleva averla vinta ad ogni costo, doveva trovare il modo di tenerselo tutto per lei. Era dietro la porta quella volta che le patate pelavo. Quello è stato, nelle nostre vite, uno dei giorni fatali. Ha capito, non resta che agire, la lama impugnare, il sortilegio spezzare, la vita finire e il possesso affermare. E un mago, ma più incantamento lo dà la follia. Ritorna a quest oggi, riprendi il linguaggio e rivivi la scena, incastra il passato in questo presente. Rialza la voce, scandisci parole, finisci l infanzia, diventa una donna. 31

Nella nebbia di febbraio lo ha atteso per più di un ora fuori dall osteria. Mi credeva chiusa in casa, ma ero uscita da una piccola finestra della lavanderia e stavo poco distante da lei, dietro a una colonna dei portici. Lei stringeva il manico del coltello. Lama lunga e affilata, punta acuminata, un arma buona in cucina come in mano a chi deve dare il colpo di grazia al maiale da macellare. Lui è uscito col cappello in testa ed è salito in bicicletta. Lei gli si è avventata contro, con una violenza fredda e quasi misurata. Mentre lui cadeva sulla strada di ghiaia, lei urlava: versi con parole, amore profondo e odio senza fine, delirio di possesso e vendetta. Il coltello si affondava con un rumore sordo, come se si incastrasse in un sacco di frumento, una volta, due, tre Ho contato ventiquattro colpi, restando immobile in quei miei otto anni che già valevano cento volte di più, assolutamente cosciente che tutto doveva compiersi e che ora restavo io al posto di mio padre, a vivere un tempo diverso, a scoprire tutto di me, che era come scoprire tutto di lui. Mia madre uccideva mio padre nell unico modo previsto e possibile. Toglieva la vita a lui, una vita pronta a sfidare il tempo e la natura, per lasciarla del tutto a me. Mia madre accoltellava quanto era stata, quanto 32

aveva vissuto, affondava una lama nelle sue scelte sbagliate, pareggiava i conti con il suo amore e il suo odio, rinunciava al suo tempo a venire, dando alle infinite ore della sua trentennale galera il suono sordo dei colpi mortali, come un ossessivo ticchettio di un orologio omicida. Di me non si era accorto nessuno di quei dieci uomini usciti correndo dall osteria e rimasti impietriti a guardare lo scempio. Dieci uomini grandi e grossi incapaci di intervenire, nessuno ha avuto la presenza di spirito di aggirare mia madre, prenderla di spalle e immobilizzarla. Certo, lei aveva un lungo coltello in mano, ma era pur sempre una donna piccola Ma no, cosa mai pensavo? Ero una donna anch io, come lei, e come lei capivo ciò che mio padre non mi aveva detto, perché quello lui non lo sapeva, o forse non aveva fatto in tempo a dirmelo: fino a che punto può arrivare quella che molti si ostinano a definire solo una femmina, cosa può fare la vista del sangue, quanta forza può possedere chi appare debole, quanta paura e pochezza possiedono i maschi che molti si ostinano a chiamare uomini, quanto male faccia sprecare l amore, quanto sia impalpabile il confine tra amore e odio, quanto vale una donna. Mia madre aveva venticinque anni quando è diventata assassina. Al processo so che ha confessato tutto, ha chiarito 33

tutti i particolari, ma non ha risposto ad un unica domanda, quando le è stato chiesto perché non avesse pensato per esempio al veleno, ma avesse scelto proprio un coltello per uccidere. Mia madre mi voleva bene. Continua, rimani reale, seppure ancora per poco, disvelati adesso e lascia che il seguito induca stupore. Affidati al vero, e nulla lascia in sospeso. Sono andata un po a scuola, nel collegio di suore dove mi hanno mandata dopo la sentenza. Mi è piaciuto studiare e ho pensato che potevo continuare a farlo in santa pace chiudendomi nello stesso convento. Adesso sono qui e non posso dire di trovarmi male, anche se questa non è certo la mia ultima destinazione. Ho davanti a me tutto il tempo che voglio e prima di ripartire devo essere ben certa di tutto quanto posso aspettarmi e pretendere da me. A volte sono tentata di restare qui, tra queste grandi mura protettive, a modulare la mia voce insieme a quelle delle altre suore e a chiuderla poi nel mutismo obbligatorio, che a molte pesa, ma che per me è un vero sollievo. Le cosiddette consorelle conoscono la mia storia e mi ritengono un simbolo della forza salvifica della fede. 34

Non so se la fede possa salvare da qualcosa o da qualcuno, io non sono qui per quello, ma certo non sottovaluto questo tipo di forza che si oppone alla dannazione. Anzi, spesso apro una mano e materializzo la fede in un ametista o in un rubino, e quei bagliori cangianti che toccano la mia pelle bianca scuotono il flusso interno come un vento caldo di scirocco. Per me la fede è una gemma che si armonizza col sangue, per le altre pare possa essere, al massimo, un banale diamante Non dirò loro la verità solo per non deluderle, e anche per non indurre qualche anima semplice alla follia dell orrore nel riconoscere addirittura una strega demoniaca in abiti religiosi. Strega, strega! Figlia del Mago! Certo, è corretto definirmi strega, come si addice alla figlia di un mago, ma i momenti di preghiera non mi pesano, partecipa solo una parte di me, l altra metà si trova altrove. Ho inventato un gesto furtivo che mi permette di iniziare un intreccio di mani come quello tra me e mio padre mentre abbraccio le consorelle durante la messa. Spero così di scoprire se incontro un altra suora casuale quanto me, e possibilmente strega. Prevedo di stare qui per qualche anno ancora. Nella mia cella c è una piccola finestra, come 35

quella della lavanderia, quindi uscirò ancora da lì, di nascosto, in un giorno nebbioso di febbraio. Tutto ciò che avrò capito e imparato verrà via racchiuso tra le pieghe voluttuose del mio abito nero. L ho maneggiato più volte come ho visto fare a mia madre, so come comportarmi con lui. Per il resto dei miei giorni, di certo, eviterò il più possibile i pesi oscillanti, i martelli, le mazze, i colpi sordi e le fabbriche in cui sia necessario azionare un maglio. 36

La leggenda dell Arco d Oro I Si narra di un antichissima arma, ormai perduta nel tempo, grazie alla quale un guerriero divenuto poi cavaliere sconfisse un nemico temuto da molti. Era da un secolo, ormai, che le città del nord ricordavano le sue gesta. E lo facevano con sorprendente meticolosità. Ogni anno, nel giorno dell anniversario della liberazione, veniva celebrata una grande festa in onore del cavaliere. Tutti gli uomini che abitavano nei territori un tempo dominati dal nemico si radunavano nel Castello di Granito, e là un cantastorie soleva intrattenerli a voce alta. Il re e la regina partecipavano anch essi alla ricorrenza, solari e benevoli, dai loro scranni di pietra. Qualche giorno prima della festa, due individui si fermarono in una locanda lungo il sentiero. Ancora 38

molte ore di viaggio li separavano dal festoso castello, così decisero di rifocillarsi e di trascorrervi la notte. Entrambi portavano abiti lussuosi sotto il mantello, e se non fosse stato per la polvere accumulata durante il viaggio probabilmente sarebbero stati scambiati per nobili. Ma i modi bruschi dimostravano esattamente il contrario. Sostenevano di essere valorosi guerrieri provenienti da luoghi tenebrosi e ancestrali. Erano giunti per ascoltare la leggenda dell arco d oro. - Non è una leggenda, signori - borbottò il locandiere. - Il cavaliere che ci ha liberato è esistito davvero, e così anche il famoso arco d oro. - Stammi a sentire: noi abbiamo affrontato battaglie di ogni sorte e l abbiamo fatto con le nostre lame - gli rinfacciò il più anziano dei due guerrieri, accarezzando l elsa della spada. Altrettanto fece quello al suo fianco. - Non abbiamo mai visto un arco d oro in tutti questi anni sul campo. Per cui vogliamo sentire la storia con le nostre orecchie! Il locandiere, stanco delle loro maniere, fece per dirigersi verso la cucina, ma uno dei due lo afferrò per una spalla. - Vogliamo mangiare, intesi? E prepara la stanza più bella di questa topaia. - Ma ve l ho già detto! Le stanze sono tutte prenotate! È sempre così in questo periodo. Non posso 39

soddisfare le vostre richieste. Per quanto riguarda il cibo - deglutì inquieto, - tirate fuori i soldi e io vi servirò. - Hai sentito, Ruk? Questo vuole farci andar via. Che cosa gli rispondiamo? - Credo che abbia voglia di scherzare. Noi siamo cavalieri: pretendiamo rispetto! O l unico tintinnio di metallo che sentirai sarà quello delle nostre spade. Portaci da mangiare alla svelta, altrimenti... L uomo s interruppe. Dita d acciaio gli afferrarono la spalla allo stesso modo in cui lui aveva fatto con l oste. Quando si voltò, trovò una figura incappucciata a distanza di respiro. - Credo sia venuto il momento di andarvene. Il guerriero cercò di guardare il volto del suo oppositore, ma non vide altro che il cappuccio calato fino al naso. Cercò di liberarsi dalla morsa, ma non riuscì neanche in quello. - Levati! - gridò. Il suo compagno cercò invano di liberarlo. - Dite di essere cavalieri, ma non sapete nemmeno che cosa significa. Vergognatevi! - li ammonì. - Chi credi di essere?! - urlò Ruk. - Nessuno. Ma odio chi si spaccia per cavaliere. Molti uomini più valorosi di voi hanno dato la vita per esserlo. - Se non vuoi che ti tagli la lingua - intervenne Mosas, sguainando la spada, - devi dirci chi sei. E 40

comunque non te ne andrai senza pagare per averci insultato. L uomo incappucciato non lo considerò neppure di uno sguardo; anzi, in tutta risposta tornò a sedersi al proprio posto e si rimise a mangiare in silenzio. I due guerrieri fecero un passo verso di lui, l acciaio nel pugno. - Vi conviene riporre le armi, signori, o qualcuno si farà del male. - Credi di spaventarci? Siamo in due contro uno. Tu inginocchiati, e può darsi che non ti faremo niente. L uomo si tolse il cappuccio, svelando un intrico di rughe e due occhi di ghiaccio. - Non combatterò con voi. Piuttosto vi racconterò una storia. Piantatela di comportarvi da sciocchi e ascoltate. In questo modo sarete voi a decidere se meritate l appellativo di cavalieri oppure no. I due obbedirono improvvisamente, come attratti da una forza superiore. I suoi occhi non ammettevano repliche. L aspetto poteva anche essere quello di un vecchio, ma il portamento e la voce erano quelli di un uomo nel pieno della giovinezza. Anche il locandiere ne rimase meravigliato. - Non avrete bisogno di alloggiare qui. Sarò io a raccontarvi la leggenda dell arco d oro, e vi assicuro che la mia è quella che si avvicina di più alla realtà. E ora mangiate con me - li invitò con un cenno. - A stomaco pieno si ragiona meglio. 41

II I due guerrieri mangiarono sino a scoppiare. Solo allora si accasciarono sulle sedie di legno. Il vecchio sorrise e si pulì le labbra con calma, poi iniziò a raccontare la leggenda dell arco d oro. La stessa che adesso sentirete anche voi Un tempo tutte le città del nord erano sotto la protezione del Castello di Granito. Apparentemente indistruttibile, era ritenuto il luogo più sicuro al mondo: ospitava centinaia di soldati, viaggiatori, mercanti e contadini. Il re, rimasto solo dopo la morte della consorte, dedicava ogni minuto del proprio tempo al regno, e grazie alle sue doti la popolazione continuava ad accrescere. Tutti conoscevano il generoso re Voester. Un giorno, mentre si trovava a passeggio nel suo giardino privato, un emissario volle essere ricevuto con urgenza. Portava con sé una lettera macchiata di sangue e la consegnò di persona nelle mani del re prima di morire. All inizio non era parso in condizioni tanto gravi. Era ferito a un braccio in maniera super- 42

ficiale, ma ciò nonostante il medico di corte non riuscì a salvarlo. - Non ho mai visto una ferita simile, sire. Perdonami se non sono stato in grado di soddisfarti. Il re, turbato a sua volta, consolò il medico e lo congedò. Aveva già aperto la lettera e radunò in fretta i suoi più stretti collaboratori. - Signori, per anni abbiamo difeso queste mura e prestato soccorso a chiunque ne abbia fatto richiesta. Oggi siamo conosciuti da tutti come i protettori di un regno giusto e pacifico. Il Castello di Granito è diventato un simbolo, ma adesso incombe una minaccia pericolosa. Vi ho fatto chiamare perché possiate consigliarmi sulle mie decisioni. Il mormorio nella sala crebbe. Cosa turbava il re a quel modo? si chiesero tutti i presenti. Nella sala si trovavano il prode generale Hisur, il Primo Ministro Alastor e il medico di corte, Rolak, nonché amico intimo del re. Re Voester si fidava ciecamente di loro. - Maestà - lo chiamò il generale, - cos è che vi turba? C entra forse l emissario che vi ha dato la lettera? - Già. La lettera contiene l ultimo volere del sovrano di un regno molto distante dal nostro. Pare che un drago abbia attaccato le terre al di là del mare. Ma questo drago non è come gli altri, così lui sostiene. Le spade e le frecce non lo scalfiscono. Non sputa fuoco, bensì una nebbia che uccide in poco tempo chiunque venga avvolto in essa. Per questo non 43

abbiamo potuto salvare il messaggero. La ferita sul suo braccio era dovuta al drago. Non esistono cure al suo attacco: soltanto un arma forgiata dagli elfi. E un solo guerriero è in grado di brandirla, ma ne sono state perse le tracce. Il medico di corte intervenne. - Il drago sta venendo qui? - Così pare -. Il re mostrò la lettera al suo consigliere fidato. - Come puoi vedere, la lettera è incompiuta. Il re dev essere morto prima di portarla a termine, ma l emissario ha voluto intraprendere il viaggio lo stesso. Non so quando il drago arriverà, ma non ho intenzione di restare a far niente -. Negli occhi del re brillava l audacia. - Generale! Devi fare di tutto per trovare questo guerriero. Scegli sei dei tuoi uomini più valorosi e recati dagli elfi. Loro forse potranno aiutarci. Tutti gli altri penseranno a difendere le mura. Il primo ministro, che fino a quel momento non aveva parlato, annuì. - Sbarriamo porte e finestre e forse la nebbia non ci colpirà. Il re annuì. Con molta probabilità non sarebbe servito a nulla sigillarsi all interno degli edifici, ma valeva la pena tentare. - Non sappiamo quando arriverà il drago. Sbrighiamoci. 44

III Dopo due giorni di viaggio verso il regno elfico, il generale Hisur e i suoi soldati giunsero nel bosco. Nessuno di loro si era mai addentrato in esso, né tantomeno aveva parlato con un elfo. Spinti comunque dal desiderio di fermare il drago, si inoltrarono nel cuore della foresta fino a raggiungere una particolare costruzione bianca di legno. La porta d ingresso alla quale bussarono si aprì immediatamente, e i sette entrarono con le dovute precauzioni, il generale in testa. - Vi stavamo aspettando - li sorpresero due elfi, comparendo dal nulla. - Non abbiamo tempo per le presentazioni. In verità non abbiamo tempo per niente. Voi cercate il guerriero che possiede l arco d oro, ma qualche giorno fa egli è caduto in un imboscata. Toras, questo è il suo nome, era a capo di una spedizione per sconfiggere il drago. Ma la bestia ha prevalso, sterminandoli. Toras è l unico a essersi salvato. A un prezzo, però: ha perso l uso della parola e dell udito, e non ricorda nulla. Non sa dove si trova, né come si chiama, né perché nelle mani stringe un 45

arco d oro. Toccherà a voi aiutarlo. Hisur si avvicinò per chiedere altre informazioni, ma loro scomparvero così com erano apparsi. Non era solito che gli esseri umani potessero avvicinarsi così tanto agli elfi, e Hisur si considerò già fortunato - Se fossi stato presente, non li avrei lasciati certo andare quei tizi dalle orecchie a punta! - intervenne Ruk con risolutezza. L amico gli fece cenno di tacere. - Va avanti, vecchio. La storia comincia a farsi interessante. Allora, Hisur e i suoi uomini trovarono Toras oppure no? Il vecchio sorrise, compiaciuto. Aveva ottenuto lo scopo che desiderava. - Certo che lo trovarono. Il problema, però, si pose ugualmente. Toras non sapeva dove si trovasse, e ancora peggio non aveva memoria di quale fosse la propria missione. Neppure l arco, pensava il generale, poteva servire a qualcosa finché non avessero ritrovato le frecce forgiate per abbattere il drago. Il vecchio lanciò un ultima occhiata di soddisfazione ai due guerrieri; poi proseguì. Hisur sapeva di non avere molto tempo per portare Toras al Castello di Granito. Il viaggio fu estenuante, ma per fortuna privo di insidie. Attraversarono solo due villaggi o quello che restava di essi. Il drago aveva già cominciato a scatenare la sua rabbia, 46

lasciando solo ossa e cibo per i corvi. Non c erano sopravvissuti. Tutti si chiusero in un cupo silenzio: si chiedevano se anche a loro sarebbe toccata la medesima sorte. - Il tuo nome è Toras. Sei stato inviato per sconfiggere il drago e ti è stato dato l arco che possiedi. So che non puoi sentirmi, ma prova a leggermi le labbra. Conoscevo un valoroso cavaliere che comprendeva con chiarezza tutto ciò che dicevo. Anche lui aveva perso l udito per colpa di una malattia. Toras lo osservò senza capire una sola parola di quello che il generale diceva. Il viaggio proseguì e in sei giorni riuscirono a tornare al castello. Per fortuna il drago non era ancora riuscito a spazzarlo via. Il luogo era molto diverso da come lo avevano lasciato. Sembrava disabitato da secoli. Non c era un abitante, non un rumore. Tutto era avvolto nel più totale silenzio. Hisur si diresse immediatamente ai sotterranei del castello insieme ai suoi soldati e a Toras, il quale li seguiva senza mai porre domande. Re Voester fu subito entusiasta di rivedere il suo generale. All udire il triste destino di Toras, però, si rattristò. Ormai era tutto perduto. Senza il suo aiuto come potevano pretendere di sconfiggere un nemico così potente? Il destino del regno stava per compiersi. 47

EPILOGO Tutti i soldati erano schierati sui bastioni del castello, le armi in pugno. Pur sapendo che non ci sarebbe stata vittoria, nessuno di loro si voleva arrendere senza tentare. Ogni abitante della città era stato messo al sicuro; non restava che combattere. Prima di raggiungere le altre città del nord il drago avrebbe dovuto assaporare l acciaio del Castello di Granito. E Hisur non si sarebbe tirato indietro. - Vieni avanti, maledetto! - urlò il generale prima che la sua voce si disperdesse nel vento. - Scoprirai che non è facile uccidere un cavaliere! Lo sentirono tutti: la sua sfida riecheggiò per l intera vallata. In tutta risposta un ruggito bestiale squarciò l atmosfera spettrale che regnava sulle mura. Una figura alata comparve nel cielo e, nel vederla, i volti dei soldati si inasprirono. - Non temete, miei uomini! - li incitò Hisur. - Ciascuno di voi pensi alla sua famiglia, e farete vostra la loro speranza! Quel drago non uccide con il fuoco. Saremo noi a usarlo! Accendete le frecce e scoccate al mio segnale! Il drago era sempre più vicino, bianco come uno sperone innevato, maestoso come la prima aurora. 48

La sua apertura alare oscurava il sole per intero. Non sembrava dotato di scaglie: la pelle era talmente lucida e levigata da riflettere le tonalità del cielo. All improvviso il drago si fermò, sospeso nell aria. Un ruggito potente scaraventò all indietro tutti coloro che non ebbero la prontezza di aggrapparsi alle merlature. Per fortuna si rialzarono subito e, all ordine di scoccare le frecce, attaccarono. Una pioggia di fuoco investì la creatura senza che questa subisse alcun danno. Toras fissava sbigottito l enorme e inquietante spettacolo. Ricordi confusi affiorarono nella sua mente fino a diventare più nitidi. - Comincia a ricordare! - gridò Ruk battendo il pugno sul tavolo. - Un guerriero come lui non può lasciarsi sconfiggere! - Ruk hai interrotto di nuovo la storia. Lascialo andare avanti! Muoio dalla voglia di sapere come finisce! - si lamentò Mosas. Il vecchio sorrise. - Prima di proseguire, però, vi descriverò l aspetto di Toras affinché possiate comprenderlo meglio. - E sia. Non ci hai ancora detto nulla di lui. Sicuramente era una montagna di muscoli senza paura! L altro scosse il capo, ridendo. - E invece ti sbagli. Toras era un codardo. Durante la prima missione si era offerto volontario; per questo venne affidato a 49