Sacra Famiglia anno B

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1 1 Prima lettura (Gen 15,1-6; 21,1-3) Sacra Famiglia anno B In quei giorni, fu rivolta ad Abram, in visione, questa parola del Signore: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». Rispose Abram: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Soggiunse Abram: «Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia. Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva fissato. Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato, che Sara gli aveva partorito. La fede di Abramo e la giustizia San Tommaso (Sulla lettera ai Galati, c. 3, lez. 3, v. 7) Bisogna osservare che la giustizia e lo Spirito Santo derivano dalla fede, come sta scritto in Gen 15,6 e viene tradotto da Rm 4,3: «Abramo credette a Dio che glielo accreditò come giustizia». Qui bisogna osservare che la giustizia consiste nella restituzione di un debito; ora, che l uomo debba qualche cosa a se stesso e al prossimo è a causa di Dio. Quindi è giustizia somma dare a Dio ciò che gli appartiene. Infatti, se restituisci a te stesso o al prossimo ciò che devi e non fai la stessa cosa per Dio, sei perverso piuttosto che giusto, poiché poni il tuo fine in un uomo. Ora, tutto quanto c è nell uomo, l intelletto, la volontà e il corpo stesso, è di Dio; ma ciò si verifica secondo un certo ordine, poiché le cose inferiori sono ordinate a quelle superiori, e le cose esterne a quelle interne, cioè al bene dell anima: infatti la cosa più alta nell uomo è la mente. Quindi la prima cosa nella giustizia dell uomo è che la mente dell uomo sia soggetta a Dio, e ciò avviene mediante la fede. 2 Cor 10,5: «Rendendo ogni intelligenza soggetta a Cristo». Pertanto in ogni cosa va detto che Dio è il principio primo nella giustizia, e chi dà a Dio sottomettendogli la mente, che in se stessa è la cosa somma, è perfettamente giusto. Rm 8,14: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio». Per questo dice: «Abramo credette a Dio», ossia gli sottomise la propria mente mediante la fede. Sir 2,6: «Affidati a lui, ed egli ti aiuterà», e più avanti (2,8): «Voi che temete il Signore, confidate in lui». «E gli fu accreditato come giustizia», cioè il credere stesso e la stessa fede furono per lui e per tutti gli altri causa sufficiente della giustizia. E che ciò gli venga accreditato a giustiziagli è dato dagli uomini esteriormente, ma da Dio interiormente, poiché egli giustifica realmente quanti hanno la fede che opera mediante la carità, rimettendo loro i peccati. Testo latino di S. Tommaso (Super epistolam ad Galatas, c. 3, lect. 3, v. 7) Ubi notandum est quod iustitia consistit in redditione debiti, homo autem debet aliquid Deo, et aliquid sibi, et aliquid proximo. Sed quod aliquid debeat sibi et proximo, hoc est propter Deum. Ergo summa iustitia est reddere Deo quod suum est. Nam si reddas tibi vel proximo quod debes, et hoc non facis propter Deum, magis es perversus quam iustus, cum ponas finem in homine. Dei autem est quidquid est in homine, et intellectus et voluntas et ipsum corpus; sed tamen quodam ordine, quia inferiora ordinantur ad superiora, et exteriora ad interiora, scilicet ad bonum animae; supremum autem in homine est mens. Et ideo primum in iustitia hominis est, quod mens hominis Deo subdatur, et hoc fit per fidem. 2 Cor. 10,3: in captivitatem redigentes omnem intellectum in obsequium Christi. Sic ergo dicendum est in omnibus, quod Deus est primum principium in iustitia,

2 2 et qui Deo dat, scilicet summum quod in se est, mentem ei subdendo, perfecte est iustus. Rom. 8,14: qui Spiritu Dei aguntur, hi filii sunt Dei. Et ideo dicit credidit Abraham Deo, id est, mentem suam Deo per fidem subdidit. Eccli. 2,6: crede Deo, et recuperabit te, etc., et infra qui timetis Dominum, credite illi, et cetera. Et reputatum est ei ad iustitiam, id est, ipsum credere et ipsa fides fuit ei et est omnibus aliis sufficiens causa iustitiae, et quod ad iustitiam reputetur ei exterius ab hominibus, sed interius datur a Deo, qui eos qui habent fidem, per charitatem operantem iustificat, eis peccata remittendo. Seconda lettura (Eb 11, ) Fratelli, per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell età, ricevette la possibilità di diventare madre, poiché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo, e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare, e non si può contare. Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo. La definizione della fede San Tommaso (S. Th. II-II, q. 4, a. 1, corpo) La fede è sostanza delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono (Eb 11,1). Sebbene alcuni ritengano che le parole della Scrittura qui riferite non siano una definizione della fede, tuttavia, a ben riflettere, in tale descrizione si trovano tutti gli elementi per una definizione, anche se le parole non sono ordinate sotto forma di definizione. Come anche presso i filosofi si riscontrano [spesso] gli elementi del sillogismo al di fuori della forma sillogistica. Per averne l evidenza si deve ricordare che la fede, essendo un abito, deve essere definita in base al proprio atto in relazione al proprio oggetto, poiché gli abiti si conoscono dagli atti, e gli atti dall oggetto. Ora, l atto della fede è credere, e credere, secondo le spiegazioni date, è un atto dell intelletto determinato a una data cosa dal comando della volontà. Perciò l atto della fede dice ordine sia all oggetto della volontà, che è il bene e il fine, sia all oggetto dell intelletto, che è il vero. E poiché nella fede, che come sopra si è detto è una virtù teologale, unico deve essere il fine e l oggetto, è necessario che l oggetto e il fine della fede si corrispondano perfettamente. Ora, sopra si è detto che l oggetto della fede consiste nella prima verità in quanto inevidente, e in altre verità accettate a motivo di essa. Perciò la stessa prima verità si rapporta all atto di fede come suo fine, sotto l aspetto di cosa inevidente. E questo è appunto l aspetto delle cose sperate, secondo le parole di S. Paolo in Rm 8,25: Noi speriamo quello che non vediamo. Infatti vedere la verità sarebbe possederla. Ora, uno non spera ciò che già possiede, ma la speranza, come si disse, ha per oggetto ciò che non è posseduto. Così dunque il rapporto dell atto di fede con il fine, che è oggetto della volontà, è espresso con quelle parole: La fede è sostanza delle cose che si sperano. Infatti si suole chiamare sostanza il primo elemento di qualsiasi cosa, specialmente quando tutto lo sviluppo successivo è contenuto virtualmente in quel primo principio: come potremmo dire che i primi princìpi indimostrabili sono la sostanza della scienza, poiché in noi il primo elemento della scienza è dato da questi principi, e in essi tutta la scienza è virtualmente racchiusa. In questo senso dunque si dice che la fede è la sostanza delle cose che si sperano: poiché il primo inizio in noi delle cose sperate viene dall assenso della fede, la quale contiene virtualmente tutte le cose che si sperano. Noi infatti speriamo di conseguire la beatitudine con l aperta visione della verità a cui abbiamo aderito con la fede, come si disse nel trattato sulla beatitudine. Invece il rapporto dell atto di fede con l oggetto dell intelligenza, in quanto og-

3 3 getto di fede, è indicato dalle parole: prova delle cose che non si vedono. E qui «prova» sta per l effetto della prova. Infatti l intelletto è indotto dalle prove ad accettare qualche verità; e così qui viene chiamata prova la stessa ferma adesione dell intelletto alle verità di fede inevidenti. Cosicché altre versioni hanno il termine «convincimento»: poiché l intelletto del credente viene convinto dall autorità di Dio ad accettare le cose che non vede. Se quindi uno volesse ridurre le parole suddette in forma di definizione, potrebbe dire che «la fede è un abito intellettivo, con cui inizia in noi la vita eterna, e che fa assentire l intelletto a realtà che non appaiono». Così infatti la fede è distinta da tutte le altre funzioni intellettive. Col termine prova, infatti, essa viene distinta dall opinione, dal sospetto e dal dubbio, nelle quali funzioni l intelletto non ha un adesione radicale e ferma a qualcosa. Con le parole che non si vedono la fede è invece distinta dalla scienza e dall intuizione intellettiva, che rendono le cose evidenti. Con l espressione sostanza delle cose che si sperano la virtù della fede è infine distinta dalla fede in genere, che non è ordinata alla beatitudine. Del resto tutte le altre definizioni della fede non sono che spiegazioni di quella della Lettera agli Ebrei. Infatti le parole di S. Agostino: «La fede è una virtù con la quale sono credute cose che non si vedono»; e quelle del Damasceno, che dichiarano la fede «un consenso privo di ricerca», e ancora quelle di altri, per cui la fede è «una certezza dell animo su cose lontane, superiore all opinione e inferiore alla scienza», coincidono con l espressione prova delle cose che non si vedono. E l affermazione di Dionigi che la fede è «il fondamento stabile dei credenti, che colloca essi nella verità e la verità in essi», si identifica con quelle parole: sostanza delle cose che si sperano. Testo latino di S. Tommaso (S. Th. II-II, q. 4, a. 1, corpus) Fides est substantia sperandarum rerum, argumentum non apparentium (Heb 11, 1) Respondeo dicendum quod, licet quidam dicant praedicta apostoli verba non esse fidei definitionem, tamen, si quis recte consideret, omnia ex quibus fides potest definiri in praedicta descriptione tanguntur, licet verba non ordinentur sub forma definitionis, sicut etiam apud philosophos praetermissa syllogistica forma syllogismorum principia tanguntur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod, cum habitus cognoscantur per actus et actus per obiecta, fides, cum sit habitus quidam, debet definiri per proprium actum in comparatione ad proprium obiectum. Actus autem fidei est credere, qui, sicut supra [q. 2 a. 1 ad 3; aa. 2,9]. dictum est, actus est intellectus determinati ad unum ex imperio voluntatis. Sic ergo actus fidei habet ordinem et ad obiectum voluntatis, quod est bonum et finis; et ad obiectum intellectus, quod est verum. Et quia fides, cum sit virtus theologica, sicut supra [I-II q. 62 a. 3]. dictum est, habet idem pro obiecto et fine, necesse est quod obiectum fidei et finis proportionaliter sibi correspondeant. Dictum est autem supra [q. 1 aa. 1,4]. quod veritas prima est obiectum fidei secundum quod ipsa est non visa et ea quibus propter ipsam inhaeretur. Et secundum hoc oportet quod ipsa veritas prima se habeat ad actum fidei per modum finis secundum rationem rei non visae. Quod pertinet ad rationem rei speratae, secundum illud apostoli, ad Rom. 8 [25], quod non videmus speramus; veritatem enim videre est ipsam habere; non autem sperat aliquis id quod iam habet, sed spes est de hoc quod non habetur, ut supra [I-II q. 67 a. 4]. dictum est. Sic igitur habitudo actus fidei ad finem, qui est obiectum voluntatis, significatur in hoc quod dicitur, fides est substantia rerum sperandarum. Substantia enim solet dici prima inchoatio cuiuscumque rei, et maxime quando tota res sequens continetur virtute in primo principio, puta si dicamus quod prima principia indemonstrabilia sunt substantia scientiae, quia scilicet primum quod in nobis est de scientia sunt huiusmodi principia, et in eis virtute continetur tota scientia. Per hunc ergo modum dicitur fides esse substantia rerum sperandarum, quia scilicet prima inchoatio rerum sperandarum in nobis est per assensum fidei, quae virtute continet omnes res sperandas. In hoc enim speramus beatificari quod videbimus aperta visione veritatem cui per fidem adhaeremus, ut patet per ea quae supra [I-II q. 3 a. 8; q. 4 a. 3]. de felicitate dicta sunt. Habitudo autem actus fidei ad obiectum intellectus, secundum quod est obiectum fidei, designatur in hoc quod dicitur, argumentum non apparentium. Et sumitur argumentum pro argumenti effectu: per argumentum enim intellectus in-

4 4 ducitur ad adhaerendum alicui vero; unde ipsa firma adhaesio intellectus ad veritatem fidei non apparentem vocatur hic argumentum. Unde alia littera habet convictio, quia scilicet per auctoritatem divinam intellectus credentis convincitur ad assentiendum his quae non videt. Si quis ergo in formam definitionis huiusmodi verba reducere velit, potest dicere quod fides est habitus mentis, qua inchoatur vita aeterna in nobis, faciens intellectum assentire non apparentibus. Per hoc autem fides ab omnibus aliis distinguitur quae ad intellectum pertinent. Per hoc enim quod dicitur argumentum, distinguitur fides ab opinione, suspicione et dubitatione, per quae non est prima adhaesio intellectus firma ad aliquid. Per hoc autem quod dicitur non apparentium, distinguitur fides a scientia et intellectu, per quae aliquid fit apparens. Per hoc autem quod dicitur substantia sperandarum rerum, distinguitur virtus fidei a fide communiter sumpta, quae non ordinatur ad beatitudinem speratam. Omnes autem aliae definitiones quaecumque de fide dantur, explicationes sunt huius quam apostolus ponit. Quod enim dicit Augustinus, fides est virtus qua creduntur quae non videntur; et quod dicit Damascenus, quod fides est non inquisitus consensus; et quod alii dicunt, quod fides est certitudo quaedam animi de absentibus supra opinionem et infra scientiam; idem est ei quod apostolus dicit, argumentum non apparentium. Quod vero Dionysius dicit, VII cap. De div. nom., quod fides est manens credentium fundamentum, collocans eos in veritate et in ipsis veritatem, idem est ei quod dicitur, substantia sperandarum rerum. Vangelo (Lc 2, , forma breve) Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, (Maria e Giuseppe) portarono il bambino (Gesù) a Gerusalemme per presentarlo al Signore come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui. La presentazione di Gesù al tempio San Tommaso (S. Th. III, q. 37, a. 3, corpo) Come si è già detto, Cristo volle nascere sotto la legge per riscattare coloro che erano sotto la legge [Gal 4,4], e perché nelle sue membra la giustificazione della legge si adempisse spiritualmente [Rm 8,4]. Ora, nella legge vi erano due precetti sui neonati. Uno generale, che valeva per tutti: terminati cioè i giorni richiesti per la purificazione della madre, si doveva offrire un sacrificio per il figlio o la figlia, secondo la prescrizione del Lv 12 [6]. E questo sacrificio era offerto sia in espiazione del peccato, nel quale la prole era stata concepita ed era nata, sia per una certa consacrazione del bambino, che per la prima volta veniva portato al tempio. E così qualcosa era offerto in olocausto, e qualcosa in espiazione del peccato. Il secondo precetto invece era solo per i primogeniti, sia degli uomini che dei giumenti. Il Signore infatti si era riservato tutti i primogeniti di Israele, poiché nella liberazione di Israele aveva colpito tutti i primogeniti dell Egitto, sia degli uomini che del bestiame, lasciando salvi soltanto i primogeniti degli Israeliti [Es 12,12-13]. E questa legge è data in Es 13 [2,12], prefigurando Cristo, che è il primogenito tra molti fratelli, come è detto in Rm 8 [29]. Essendo dunque Cristo nato da una donna, primogenito e volontariamente soggetto alla legge, S. Luca fa notare che per lui furono osservati questi due precetti. Primo, quello riguardante i primogeniti [Lc 2,22]: Lo portarono a Gerusalemme per offrirlo al Signore; come sta scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore. Secondo, quello che riguardava tutti [24]: e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi.

5 5 Testo latino di S. Tommaso (S. Th. III, q. 37, a. 3, corpus) Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1], Christus voluit sub lege fieri, ut eos qui sub lege erant redimeret, et ut iustificatio legis in suis membris spiritualiter impleretur. De prole autem nata duplex praeceptum in lege traditur. Unum quidem generale quantum ad omnes, ut scilicet, completis diebus purificationis matris, offerretur sacrificium pro filio sive pro filia, ut habetur Lev. 12 [6 sqq.]. Et hoc quidem sacrificium erat et ad expiationem peccati, in quo proles erat concepta et nata, et etiam ad consecrationem quandam ipsius, quia tunc primo praesentabatur in templo. Et ideo aliquid offerebatur in holocaustum, et aliquid pro peccato. Aliud autem praeceptum erat speciale in lege de primogenitis tam in hominibus quam in iumentis, sibi enim Dominus deputaverat omne primogenitum in Israel, pro eo quod, ad liberationem populi Israel, percusserat primogenita Aegypti ab homine usque ad pecus, primogenitis filiorum Israel reservatis. Et hoc mandatum ponitur Ex. 13 [2.12 sqq.]. In quo etiam praefigurabatur Christus, qui est primogenitus in multis fratribus, ut dicitur Rom. 8 [29]. Quia igitur Christus, ex muliere natus, erat primogenitus; et voluit fieri sub lege, haec duo Evangelista Lucas circa eum fuisse observata ostendit. Primo quidem, id quod pertinet ad primogenitos, cum dicit [Luc. 2,22], tulerunt illum in Ierusalem, ut sisterent eum Domino, sicut scriptum est in lege Domini, quia omne masculinum adaperiens vulvam sanctum Domino vocabitur. Secundo, id quod pertinet communiter ad omnes, cum dicit [Luc. 2,22], et ut darent hostiam, secundum quod dictum erat in lege Domini, par turturum aut duos pullos columbarum.

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