BRUCERÒ LA VUCCIRIA COL MIO PIANO IN FIAMME



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Transcript:

Akkura BRUCERÒ LA VUCCIRIA COL MIO PIANO IN FIAMME Dario Flaccovio Editore

INDICE Davide Enia FUNERALI Alli Traina NON LEGGERE Dario Tosini MANI Dario Tosini CANI Akkura NICO Andrea Gullotta STORIA DI UN FONDAMENTALISTA ISLAMICO Dario Tosini INSOLENZE Alli Traina CHIEDILO AL PITTORE Cesare Basile EMIGRANTI Andrea Gullotta IL MUSICISTA IMMOBILE Brucerò la Vucciria 7 Vicoli Vicoli 19 Kalsamex 27 Beddu lupu 37 Nico il gigante 45 Attore meridionale 55 Benefattore 67 Chiedilo a Nick Cave 77 Diquembra 85 Sabbie immobili 91

PREMESSA La prima volta che incontrammo Nino, aveva trent anni e ci voleva riempire di botte. Accadde un paio di mesi prima di partire per il Brasile. Noi suonavamo in Piazza Sant Anna e, poiché era l ultimo concerto prima di volare per Rio dove avremmo registrato il nuovo disco, decidemmo di suonare anche un paio di canzoni nuove, per testarle in pubblico. Tra queste, suonammo anche Brucerò la Vucciria, il brano che oggi apre questo disco e, sebbene il pubblico accolse l esecuzione con grandi applausi, il vero responso arrivò qualche minuto dopo, e ci attendeva sotto il palco. Era Nino. Scuro in volto, ci fissava dalla scaletta d uscita del palco, e non ci volle molto a capire che non era lì per un autografo. Finito il concerto, lasciammo gli strumenti e guadagnammo l uscita scendendo le scalette presidiate da Nino da ormai quasi un ora. Ci trovammo faccia a faccia. Nino: Mi hanno detto che avete cantato che volete bruciare la Vucciria. Io sugnu ra Vucciria da otto generazioni. Ma chi discursi su?! Tu di che quartiere sei?. Settimo: Resuttana. Nino: E allora ti piacissi se io ora urlo a tutta la piazza che dobbiamo bruciare Resuttana?! Passammo circa mezz ora sotto il palco tra spintoni e insulti prima di trovare le parole giuste per spiegare cosa volevamo dire con quella canzone. E cioè che quel brano è un atto d amore verso la Vucciria. La storia che ci siamo inventati è quella del pianista vucciriota che con la sua musica incendierà gli animi degli abitanti del proprio quartiere. E la sua musica nasce dalle sue radici, dalla sua gente, dalle sue strade, dal suo quartiere che deve difendere da chi vorrebbe cambiargli volto, da chi vorrebbe ridurlo in un soporifero museo per turisti. Lui si batterà affinché tutto ciò non avvenga, difenderà la Vucciria anche a costo di bruciarla pur di non consegnarla nelle loro mani. E il pianista è Nino. Egli incarna esattamente questo spirito. Ha atteso pazientemente quasi un ora per battersi contro sei persone pur di difendere il proprio quartiere. Qui non troverete un analisi sociologica di Palermo, ma un affresco di una città che è già meravigliosa così, che non attende nessun futuro. A Palermo il futuro già ci fu. Palermo, 18 ottobre 2009 Akkura

FUNERALI di Davide Enia

Io, testa di elefante cornuto d Africa, dai Monti Iblei alle Ande Brucerò la Vucciria incido su un registratore di cassa rock n roll spagnolo, svedese, italiano, bagherese il mio microfono mi dà la scossa nelle ossa non vorrei essere arrogante ma ti prego, lascia stare sono solo io il cantante il mio microfono non ha pretese magari una al mese e non è mica il cinema con tutti quei baci da marinai sono io, con il mio piano in fiamme da Ballarò a Shangai se mi guardi sono guai io non ti chiedo, ho pretese io non ti chiedo, ho pretese io non ti chiedo, ho pretese non sono mica cinese magari una volta al mese il mio microfono dà la scossa nelle ossa non vorrei essere arrogante ma ti prego, lascia stare sono solo io il cantante se tuo padre è famoso il mio più pericoloso ma ti prego, lascia stare non mi far fare figure con papà né con mammà né con mammà Riccardo Serradifalco: voce, chitarra elettrica Settimo Serradifalco: basso, pianoforte Fabio Finocchio: batteria Salvo Compagno: ferraglia, riq, cembali Marco Terzo: trombone Claudio Montalto: tromba + Domenico Lancellotti: tamburello, pianoforte

Dentro la chiesa, sono le volte di marmo che si innalzano paterne in questo edificio barocco riempito dalle vibrazioni di un organo suonato da dita che tremano. L urlo della novella vedova è strozzato in gola, le braccia dei parenti la sorreggono energicamente, ma non è che lei abbia davvero poi così tanta voglia di lasciarsi scuppàre ntìerra. Ma questa è la sua scena, questa è la coreografia che lei ha deciso di danzare durante il rito conosciuto come funerale, una pratica molto antica e parecchio diffusa che pare serve a sancire la definitività di un abbandono. Così, forte del suo ruolo, la novella vedova inizia a danzare la scena dello svenimento che non avviene mai ma è sempre lì lì per accadere. E, bisogna ammetterlo, è una ballerina magnifica. Danza la propria parte fino allo stremo, con una tale convinzione che quando i parenti si dimenticano di sorreggerla, è lei che si aggrappa a loro, evitando una caduta sicura ma poco saggia. Poi però la danza si interrompe perché irrompe in scena il viola del parrino. La ballerina riconquista verticalità e non danza più. Con un incrocio di sguardi ha appena consegnato il testimone al nuovo protagonista della scena. D ora in avanti, prim attore incontrastato è il parrino. Peccato che reciti davvero male. Un omelia scontata e uggiosa. Le sue parole vorrebbero essere consolatorie, balsamo per ferite, invece sono banali, vuote, pleonastiche. Un sermone arido e irritante. Una pessima recita scolastica. Parole che non si sono fatte carne. Amen. Così è la vita. Così capita ai funerali. Poi è un ritmico alzarsi in piedi per sedersi arrìere. Qualcuno rimane devotamente in ginocchio. Il lento suicidio dei colori degli affreschi amplifica il senso di calura. Sudore lungo la schiena. Nei silenzi imposti dal rito funerario, il trillo feroce dei cellulari è il miglior vaffanculo alla memoria del morto. E poi ancora i salmi responsoriali mentre, da un infanzia lontana di catechismo creduto e praticato vengono recuperate con una meccanica stupefacente paroline credute morte e sepolte e invece: taléééé, mi ricordo a macchinetta tutta quanta la preghiera e pure tutte le risposte giuste giuste, mentre da lì in poi, con la velocità con cui dura la gioia, la messa è già finita, andate in pace, amen. Fuori dalla chiesa, è l inizio del corteo funebre. Il contegno, le mani strette in tasca, l inpiedi straziato dei figli davanti alla bara, le urla della vedova. Donne che consolano, uomini che fumano, fiori trasportati in altri funerali. Silenzi e strette di mano. Abbracci e saluti sussurrati con gli occhi. Figure di nero vestite che si mantengono in piedi solo per poi crollare davanti alla fossa del cimitero, terra gettata sulla tomba coi palmi delle mani aperte: amore mio perché mi lasciasti sola? Addio per sempre amore mio ciao. E poi 9

è il crollo. Un pianto che non libera, non consola. Un coltello che affonda mai sazio nel cuore. Il vuoto che si apre davanti, abbraccio che non lascia scampo. È l albero flagellato dal vento della memoria una vita vissuta insieme e i ricordi già perduti per sempre foglie ballerine nel vento. Il corteo funebre parte e con esso le urla, le imprecazioni, le riflessioni sul mistero della morte. Dietro di me, Michele mi sussurra all orecchio: «Io non so te, Davidù ma a mmìa i funerali mi gràpono un pitìtto, mi mettono una fame mi-ci-di-a-le cheffà?, andiamo a manciàri qualche pezzo di rosticceria, chessò?... un arancina a burro un calzone fritto una ravazzata cheffà?... vieni? vieni? vieni?». Sì. «Grazie Davidù offro io però». Vabbuò. L arancina a carne nelle mie mani è perfettamente sferica, ma la parte più importante, l interno, è scarsa di condimento. Un arancina triste, dal sapore mediocre, una scopata fatta tanto per farla. «No, Davidù è che oramai a ogni funerale è più forte di me ma io penso: oh, finalmente n àutru ca si levò d in mezzo ai cugghiùna». «Michè, ma che stai dicendo?». «Aspè aspè aspè ora mi spiego». «E spiegati, Michè: è il padre di Sabbo che è morto». «Lo so lo so lo so è che cioè». «Michè, era un uomo buono». «Sì lo so tu fammi spiegare però». «Cosa vuoi spiegare?». «No, Davidù, no il mio è discorso generazzionàle». 10