Papà, disegnami la Palestina!



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Transcript:

Papà, disegnami la Palestina! Questa è la domanda a cui non può rispondere Abdelfattah Abusrour, presidente del centro culturale Alrowwad (www.alrowwad.org) del campo profughi di Aida a Betlemme. Nei territori occupati della Cisgiordania, gli insediamenti dei coloni israeliani hanno interrotto la contiguità fra comunità palestinesi. Sembra impossibile la creazione di uno Stato autonomo palestinese. Dal 10 al 17 ottobre abbiamo partecipato alla marcia della pace 2009 che quest anno si è trasferita in Israele e in palestina: una settimana di viaggio insieme a 400 persone organizzata dal Coordinamento Nazionale degli Enti Locali e Diritti Umani, dal Comitato delle ONG per il Medio Oriente e la Tavola della Pace (www.gerusalemme.perlapace.it ). Lo spirito del viaggio è riassunto in una frase del presidente Barack Obama: Per giungere alla pace in Medio Oriente è ora che loro, e noi tutti con loro, ci assumiamo le nostre responsabilità. L iniziativa ha coinvolto amministratori, sindacalisti, studenti, rappresentanti di Ong e semplici cittadini. Bella gente. Oltre ai volti noti degli organizzatori e amici storici della palestina, anche altre persone di grande spessore hanno partecipato con umiltà (Padre Kizito, Diego Novelli, etc ). In una settimana abbiamo viaggiato in lungo e in largo in Terra Santa, incontrando intellettuali, sindaci, religiosi, abitanti dei villaggi, studenti, pacifisti israeliani, familiari delle vittime di entrambe le parti, visitando campi dei rifugiati e insediamenti dei coloni israeliani. Abbiamo visitato il museo dell'olocausto a Gerusalemme ed incontrato rappresentanti delle agenzie ONU (OCHA e UNRWA) che distribuiscono gli aiuti umanitari e documentano le violazioni dei diritti umani. Giunti all aeroporto di Tel Aviv alle 4,30 del mattino, in un ora e mezzo siamo arrivati in autobus a Betlemme. Aprendo gli occhi assonnati, abbiamo costeggiato un muro in cemento armato di 8 metri all interno della città. Dalla finestra dell albergo si scorgeva la sommità di una collina ricoperta di case nuove, bianche, tutte eguali, circondate dallo stesso muro inframmezzato da torrette. C era un traffico caotico: la macchine avevano targhe di colore diverso. Poi avremmo capito. Il sindaco di Betlemme ci ha dato il benvenuto nel pomeriggio spiegandoci che la sua non era più una città aperta : ci ha illustrato l ignominia di questo muro, fatto costruire dal governo israeliano, che chiude l accesso alla città regolando i movimenti fra Gerusalemme e Betlemme. Iniziato nel 2002 (e dichiarato illegale nel 2004 dalla Corte internazionale dell Aja), il muro ha tagliato campi coltivati e uliveti senza rispettare proprietà, dividendo famiglie e separando amici. L insediamento che 1

abbiamo visto dalla nostra finestra è una colonia israeliana costruita illegalmente su territorio Palestinese e protetta da soldati armati. Il sindaco e il governatore della regione hanno denunciato i soprusi di cui sono vittime i palestinesi, ma hanno ancora una profonda fede nella pace per una società basata sul rispetto di tutti. Sono le stesse parole che userà l indomani Abdelfattah al campo profughi di Aida: anche se la disperazione è grande, c è una bellezza nella resistenza non-violenta contro la bruttezza dell occupazione. La domenica abbiamo visitato il campo dove vivono rifugiati dal 1948 e ci hanno spiegato le tremende condizioni di vita: disoccupazione al 70%, l acqua che arriva una volta al mese (le falde acquifere sono controllate dagli israeliani e non si possono neanche scavare pozzi), il divieto di acquistare terra o costruire nuove case e ipermessi difficilissimi da ottenere per ricongiungersi con i familiari di altre città. Abbiamo pranzato ospiti di varie famiglie palestinesi di religione cristiana della parrocchia di Beit Jalla. Noi siamo andati da William e Marlen, coppia di commercianti con due figli adolescenti, Sari e Joyce. Una bella casa, un buon tenore di vita. Parlando, piano piano sono venuti fuori i problemi e le angosce: l acqua razionata, una bomba scoppiata nel giardino durante una incursione di soldati israeliani, solo due permessi l anno per andare a Gerusalemme. William non vede più i suoi amici di Ramallah con cui suonava musica Rock. Sari e Joyce non hanno mai visto il mare Durante un breve giro in macchina (targa bianca) fra le colline, ci hanno indicato una strada nuova in basso che esce dalla colonia. William ha detto: quella è riservata ai coloni israeliani (targhe gialle), se la imbocchiamo noi, ci sparano. Ci vengono le lacrime. Qui c è rassegnazione ed una grande dignità di fronte alla scelta politica di umiliare un popolo. Alcuni partecipanti alla marcia si sono alzati alle tre del mattino per vedere la ressa delle migliaia di palestinesi che fanno la fila al check-point di Betlemme per andare a lavorare a Gerusalemme. (video www.youtube.com/perlapace#p/u/0/qdvwmp5rowu su Youtube ). L orario per passare al mattino e rientrare alla sera è volutamente limitato a due ore: chi non fa in tempo perde il lavoro o dorme fuori casa. E una guerra di nervi. Da anni. I militari ai checkpoints erano ragazzi giovanissimi con mitra in spalla e giubbotto antiproiettile: costretti a vestirsi da aguzzini ed inventare motivi pretestuosi per ostacolare il passaggio. Abbiamo anche noi attraversato ogni giorno i check-points ed è stato uno shock ogni volta rendersi conto di questa realtà di violenza psicologica. Ci 2

sono più di 600 di queste barriere in Cisgiordania come risulta dai documenti delle agenzie ONU (www.ochaopt.org/documents/closure_maps_book_web.pdf). Sono documentati i casi di malati gravi (anche bambini ed anziani) morti nelle ambulanze in attesa di attraversare il checkpoint di Betlemme a causa dei controlli burocratici dei militari. Non è giusto dice con intensità e sofferenza Padre Mario Cornioli, parroco da 5 anni nel quartiere di Beit Jalla a Betlemme. Il giorno successivo, siamo andati nel quartiere di Gerusalemme Est occupata, Sheikh Jarrah, per incontrare le famiglie al Ghawi e al Hanoun accampate in strada per protesta di fronte alle loro case. Tre mesi fa, all'alba, militari israeliani hanno espulso le due famiglie, gia` profughe nel `48, costringendole a lasciare le case dove risiedevano dal 1956: ennesimo esempio della politica di pulizia etnica nei territori occupati. Nelle loro abitazioni sono gia' entrati coloni israeliani. Nel villaggio di Anata, zona povera e degradata di Gerusalemme Est, abbiamo visto una casa che, nell'arco di dieci anni, è stata demolita per ben quattro volte e, per ben quattro volte, è stata ricostruita con l'aiuto di volontari ebrei e arabi dell Israeli Committee Against House Demolitiomn (www.icahd.org) una associazione internazionale per la pace in palestina. E incredibile : abbattono le case dei palestinesi per costruire quelle dei coloni. Dal 1967 ad oggi nei territori occupati della Palestina sono state demolite oltre 28.000 abitazioni di famiglie arabe e, nella maggior parte dei casi, al loro posto sono sorti i nuovi insediamenti dei coloni ebrei di recente immigrazione. Milioni di palestinesi possiedono terreni occupati da comunità ebraiche, ma non possono rivendicarne la proprietà né rivolgersi alla legge. Gli anziani palestinesi espulsi dalle loro case ed espropriati dei loro terreni non si rassegnano ancora e conservano le chiavi delle loro case. L'atteggiamento delle autorità israeliane lascia trasparire con evidenza il disegno politico-territoriale che lo ispira: logorare la resistenza dei palestinesi che hanno abbandonato la Cisgiordania per indurli a trasferirsi definitivamente all'estero. Tante altre sono le cose di cui possiamo testimoniare. Nella visita all ospedale pediatrico di Betlemme(CBH), le suore ci hanno informato che molti bambini, in Cisgiordania, nascono con gravi problemi di handicap e malattie genetiche probabilmente a causa dei limitati contatti fra le comunità palestinesi: spesso i genitori sono tra loro parenti. Il Muro si erge per un tratto proprio di fronte ali ospedale: in silenziosa protesta, ogni venerdì le suore si raccolgono presso il Muro a pregare. Numerosi sono stati i contatti con i pacifisti israeliani. Abbiamo conosciuto Rotem Mor, uno dei membri dell AIC (www.alternativenews.org/), che ci ha parlato delle 3

ragioni che lo hanno convinto a pagare con il carcere l aver interrotto il servizio militare obbligatorio di tre anni. Rotem ci ha accompagnato a visitare il più grande insediamento israeliano in Cisgiordania: Ma ale Adummin. Qui un rappresentante dei coloni ha illustrato la storia di questà città nuovissima di 40.000 abitanti nata dal nulla nei territori, a suo dire contesi. Gli abbiamo domandato perché non utilizzava il termine di occupati universalmente usato dalla comunità internazionale: ci ha replicato che per Lui il termine più giusto sarebbe liberati. Ad altre domande sulle testimonianze di umiliazioni e violenze che avevamo raccolto fra i palestinesi non ha voluto rispondere: this is politics. Forse l incontro più significativo è stato quello con due rappresentanti di Parents Circle, l'associazione dei familiari delle vittime del conflitto. Robi Damelin, israeliana, ha raccontato del figlio David, un militare di 27 anni ucciso da un cecchino. Ali Abu Awwad, palestinese, invece ha rievocato la morte del fratello Yusuf, ucciso dai militari israeliani. Ora, insieme, cercano la riconciliazione, anche se si tratta di un percorso lungo e difficile per superare la rabbia, le divisioni, la voglia di vendetta, l'odio. Robi tiene conferenze nelle scuole e ritiene assurdo che nelle classi di bambini ebrei quasi tutti abbiano viaggiato all'estero, ma quasi nessuno conosca un palestinese o parli l'arabo. Una delegazione è riuscita a visitare Gaza dove, a causa del protrarsi del blocco israeliano, si stà compiendo un disastro umanitario di enormi proporzioni. E stato lanciato un appello affinchè cessasse ogni forma di violenza e si iniziasse a dialogare a tutti i livelli, anche con gli israeliani. In un panorama di edifici distrutti, rassegnazione, rabbia e dolore, una testimonianza raccolta: finchè i nostri figli conosceranno gli israeliani come quelli che ci hanno bombardato, non ci sarà speranza. A Sderot, la cittadina di fronte alla Striscia di Gaza, un gruppo ha incontrato gli israeliani bersagliati dai razzi lanciati negli ultimi anni da Hamas. Un rappresentante dell'associazione Un altra voce a Sderot (www.othervoice.org/) ha condannato l assedio della Striscia e ha detto: Non ha senso fare paragoni fra le nostre sofferenze e quelle di chi vive a Gaza, cerchiamo piuttosto di condividere le nostre esperienze e troviamo un'alternativa ai razzi e ai carri armati. Abbiamo molti amici oltre il muro, e anche a loro la pazzia dei leader non permette di costruire un futuro. La visita al museo Yad Vashem sull'olocausto ha trasportato tutti i partecipanti nel mondo dell orrore e della cattiveria umana. I ragazzi di Terra del Fuoco (l'associazione torinese che ogni anno porta migliaia di studenti ad Auschwitz), hanno consegnato simbolicamente una bandiera con i nomi di 400 deportati. L architettura del Museo ha ben reso la cupa atmosfera che rimanda a un terribile passato. A quel punto, molti conflitti si sono agitati nei nostri cuori ripensando ai campi profughi. 4

Ci sono venute in mente le parole di Avraham Burg, ex presidente della Knesset : La memoria della Shoah ha reso Israele indifferente alle sofferenze altrui: il popolo di Israele è stato traumatizzato ed ha perso fiducia nei suoi ideali, nei suoi vicini, nel mondo intero: questa è la causa del crescente nazionalismo e violenza che si fa strada nella società israeliana. Emblematiche anche le parole dell ex patriarca cattolico di Gerusalemme, Mons. Sabah, I palestinesi non possono pagare per i crimini sofferti dagli ebrei: l Europa ha causato il problema e deve fare qualcosa per risolverlo. Alla fine della settimana, ci sembra uno spettacolo grottesco quello dei pellegrini che arrivano in bus fino alla Chiesa della Natività di Betlemme, la visitano in raccoglimento in un paio d ore e ripartono di corsa, senza sapere, come dice accorato Don Mario, che Gesù Bambino vero è lì alle porte della città, nei campi profughi, nella fila all alba ai checkpoints. Al ritorno, siamo persone diverse. Questo viaggio ci ha cambiato. E molto arduo cercare di testimoniare restando equidistanti fra le due parti: i media (nostri e internazionali) raccontano troppo spesso le ragioni di un popolo e tacciono le altre, per cui ci sembra giusto presentare una versione differente. Condividiamo l appello lanciato da Diego Novelli nell assemblea di chiusura: attenuiano la malvagità contro questo popolo, contattiamo le comunità ebraiche in Italia, che anch essi sappiano! Come dice Obama è arrivato il tempo di porre fine alle sofferenze del popolo palestinese. Dobbiamo far sì che un giorno non lontano William e Marlen possano guardare il mare insieme a Sari e Joyce e che Abdelfattah possa indicare a suo figlio la palestina. Ermanno Geronzi e Silvia Di Lucente, Terremadri ONLUS 5