immatricolato col numero 57.612 e mi hanno dato una fascetta di metallo da mettere attorno al polso. La scritta sul panno bianco, col triangolo rosso



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Transcript:

Romolo Pavarotti Mi chiamo Romolo Pavarotti, sono nato il 24 ottobre1925 a Milano. Per gli Spagnoli deportati ero Ramon. Sono stato arrestato nel febbraio 1944 dall'upi, l'ufficio Polizia Investigativa di Milano, che aveva sede in Via Schiapparelli. Dopo l'8 settembre in un primo tempo con due miei fratelli e lo zio materno siamo andati sui monti di Tirano. Cacciati dai Tedeschi abbiamo riparato sulla Bergamasca Zambla. Erano i primi tempi di queste formazioni militari. Anche lì abbiamo dovuto fuggire e siamo andati a San Martino di Varese dove il colonnello Croce, comandante del Savoia Cavalleria, aveva costituito un gruppo paramilitare della resistenza. I miei due fratelli e lo zio sono rimasti sui monti, io invece sono stato aggregato a gruppi che portavano gli ebrei in Svizzera. Poi ho fatto forniture di armi, volantinaggio e antifascismo, in latitanza ovviamente. Sono stato arrestato perché di notte ho voluto andare a trovare i miei genitori. Dopo un paio di ore l'upi mi ha arrestato. Mi ha appunto portato a Via Schiapparelli, dove avevano la sede, e mi hanno seviziato per otto giorni. Dopodiché sono finito a San Vittore. Una notte ci hanno portati in camion, con un centinaio di altri prigionieri politici, sotto le gallerie della stazione, e di lì ci hanno caricati su due carri merci, noi li chiamavamo carri bestiame, diretti a Reichenau. A Reichenau c erano un po di baracche, poi è diventato un semplice campo di transito. Noi Italiani stavamo tutto il giorno in baracca. Da Reichenau dopo otto giorni ci hanno trasferiti, sempre su carri bestiame, denudati di tutto, a Mauthausen. Siamo scesi alla stazione e subito abbiamo avuto delle brutte sensazioni, tutti. C'erano le SS con i cani che abbaiavano. Gridavano, non si capiva nulla. Abbiamo marciato verso il campo che è sulla collina dell'entroterra di Mauthausen. Ero solo un diciottenne e passando di notte davanti al cinema del centro mi è venuto da dire al mio compagno " domani veniamo a vedere un bel film". Purtroppo entrati a Mauthausen la sensazione era proprio di terrore totale. Tutta la coreografia era di terrore e gridavano tutti. Una volta finiti all'interno del campo ci hanno mandato alla doccia, al Wascheraum, come lo chiamavano loro. Dopo la doccia ricordo che seminudi ci hanno rasato i peli da tutte le parti, e sempre seminudi, con la neve che era caduta, abbiamo attraversato la piazza e siamo corsi al blocco. Era il blocco 16, il primo blocco di quarantena. Sono stato

immatricolato col numero 57.612 e mi hanno dato una fascetta di metallo da mettere attorno al polso. La scritta sul panno bianco, col triangolo rosso e la I me l'hanno messa sulla giacca e poi al fianco del pantalone destro. In quei primi giorni le sensazioni erano veramente brutte, bruttissime. I Kapò cominciavano a pestare, cominciavano le punizioni e tutto il resto. Dopo tre quattro giorni è venuto un SS con un Kapò e hanno chiesto di un elettricista, un muratore, un idraulico e un falegname. Io ho alzato la mano dicendo che ero elettricista. Sono uscito fuori con gli altri tre e il giorno seguente siamo partiti per un campo che dipendeva da Mauthausen, St.Lambrecht, in Carinzia. Pare assurdo ma il viaggio lo abbiamo fatto su un treno normale, in mezzo ad altra gente. Eravamo tutti ammanettati, siamo scesi in questo paesino molto bello e ci hanno portato al castello. Al primo piano, in un'ala del castello, c'era un piccolo lager, un Kommando di ottanta uomini e dieci donne. Mi hanno assegnato un lavoro in montagna, a tagliare pini e portarli a valle, caricarli sui camion e poi sui vagoni alla stazione. Ho fatto questo lavoro per due o tre mesi. Un avvenimento stava per cambiare letteralmente la mia vita. Un deportato di nome Meda, che io ho conosciuto lì, era nel mio Kommando di dieci deportati assegnati al lavoro nei boschi. Era abitudine, quando si aveva dei bisogni, di chiedere il permesso al cosiddetto Kommando führer. Il bosco era grande e la sicurezza piuttosto allentata, perché oltre al comandante c'erano quattro SS. Un bel giorno questo Meda non rientra dai suoi bisogni e allora il Kommando führer mi manda a chiamare. Italienisch! Komm hier! Dov'è l'altro italiano?. Io ho risposto Kommando führer, Ich weiss es nicht, non lo so. Allora cercalo! E io ho iniziato a chiamare Meda! Meda! Purtroppo il Meda oramai se ne era andato. Rientrati al campo, immediatamente mi hanno dato la punizione che loro chiamavano minima, venticinque nerbate sulla schiena, di esempio per tutti gli altri che così sapevano cosa li aspettava. Oltretutto io ero indiziato come collaboratore della fuga del Meda. Non era vero, ma era la deduzione fatta da quelli della SS. Sono stato lasciato otto giorni solo al campo, in questo piccolo lager, in attesa del mio destino. Nel contempo però ero confortato dagli Spagnoli. Ero giovanissimo e mi volevano molto bene. In particolare Agapito mi faceva da papà, da fratello, da amico e mi sorreggeva dicendo Ramon, devi avere fiducia, non perderti d'animo, io farò di tutto perché tu non debba rientrare a Mauthausen, dove la morte era certa. Agapito era lì già da quattro anni, dal 1940, e conosceva il tedesco. Lavorava nella vaccheria del colonnello SS, padrone di quei terreni,

e mi portava da mangiare di nascosto. Lui aveva accesso alla villa del colonnello SS, che aveva fiducia in lui, e un giorno senti dire che i due Italiani li avrebbero fucilati quando avrebbero preso il Meda. Lui ebbe la prontezza di intervenire nel discorso dicendo Ramon non è italiano, es un español! E a me in seguito disse di non preoccuparmi, che alla cattura del Meda io sarei stato trasferito nella baracca degli Spagnoli. Alla fine il Meda l'hanno preso quelli della Gestapo e l'hanno ridotto malissimo. Aveva commesso l errore di andare a chiedere da mangiare a due vecchi in montagna, i quali l avevano denunciato giù in paese alla Gestapo. Il comandante della SS ha voluto che io, che non avevo colpa per la sua fuga, restituissi le venticinque nerbate che avevo preso. Così è stato. Mi hanno dato questo nerbo, io l'ho preso in mano e picchiavo, ma dato che non picchiavo forte, loro mi dicevano più forte! più forte! si fa così! e alla fine, povero Meda, ne ha prese tantissime altre, conciato com'era. In attesa di rientrare al campo, io avevo cura di lui, cercavo di curarlo e di dargli da mangiare. Avevo anche una certa rabbia però. Mi raccontò che si era accordato con il maestro del taglio, al quale aveva promesso di far arrivare un mucchio di dollari in una banca a Lugano, e questo gli aveva preparato il sacco della fuga, con vestiti e cibo. Poi però si era imbattuto in questi due vecchi. Da St.Lambrecht siamo rientrati a Mauthausen. Doveva essere giugno inoltrato. Io avevo ancora tanta preoccupazione per le conseguenze su di me della fuga del Meda. Però credevo ciecamente nel mio compañero Agapito. Di notte sia le SS che i Kapò si ubriacavano di snaps. Lo snaps lo facevano filtrando la benzina ed era sui settanta ottanta gradi. Si ubriacavano e ogni volta che passavano davanti a noi, legati con la catena a degli anelli di ferro, si divertivano a perseguitarci. Una mattina all'alba viene un SS con un Kapò, prendono il Meda e se ne vanno, non so dove, ma sicuramente lo avranno ucciso. Viene un altro SS con uno spagnolo che mi prende in consegna. Mi porta giù al Wascheraum a lavarmi, mi dà dei vestiti e mi porta al blocco 16, il blocco degli Spagnoli! Agapito era riuscito nella sua impresa! Lì mi volevano tutti bene perché sapevano la mia storia, e avendo la qualifica di elettricista sono riusciti anche ad inserirmi nel Kommando elektrik, che era molto vicino al Krematorium. Il mio compito era girare attorno al campo con la borsa delle lampadine e cambiare le lampadine bruciate. Questo lavoro mi consentiva di vedere tutto ciò che succedeva e sentire tutto ciò che dicevano. Ovviamente quindi vedevo anche tutti gli orrori, ad esempio le fucilazioni che facevano contro il muro del Krematorium. Un'altra scena ormai normale, di tutti i giorni era vedere i deportati che si

aggrappavano ai reticolati dove passava l'elettricità a cinquemila Volt per morire, per finire la loro tremenda vita. Andavo a cambiare le lampadine anche alla baracca dell'ufficio politico e così sentivo le grida degli interrogatori che facevano le SS. Anche questo per me oramai era diventato, diciamo così, una normalità. Facevo finta di non vedere e di non sentire. Al Kommando elektrik aggiustavamo anche le radio delle SS e avevo così la possibilità di sentire radio Londra e le notizie che davano. Poi le riferivo, con molta discrezione, ad un gruppo di antifascisti, Paietta e tanti altri, che avevano formato gruppo nazionale e internazionale. Sono rimasto a Mauthausen altri dieci mesi, sempre lavorando al Kommando elektrik. La SS che comandava era di Merano, parlava un veneto bastardo, e per il primo mese mi perseguitava tu fascista, tu Badoglio, tu partisan, e così via. Io negavo tutto, dicevo che non era vero, che ero per caso in un cinema e lì mi avevano preso. Dopo un mese di torture psicologiche, un giorno ha cambiato atteggiamento e mi dice "se il Kapò ti fa qualcosa me lo vieni a dire che lo metto a posto io". Ho subito le attenzioni del Kapò per dieci mesi, specialmente quando andavo a lavare la centrale elettrica. Mi disgustava quello che faceva, anche se non mi ha mai messo le mani addosso. Un giorno, il Kommando führer mi dice "come va col Kapò?" e io " fa sempre il cretino di fronte a me". Non l'avessi mai detto. Il giorno dopo mi hanno trasferito a Schlier, un altro campo, da cui sono uscito che ero quarantadue chili, con la tbc, la flebite e la bronchite, distrutto. A Schlier operavamo in gallerie e trapanavamo le pareti, dove avrebbero messo la dinamite per far saltare tutto. In quelle gallerie veniva prodotto il propellente delle V1 e V2. Erano grandissimi serbatoi che venivano collocati almeno così si diceva in quel periodo sui treni diretti in Inghilterra. Il luogo di lavoro era vicino alle baracche del campo. A Schlier gli Italiani erano pochissimi, in prevalenza c erano Francesi. Anni dopo, questi Francesi mi hanno cercato, hanno fatto delle ricerche e sono venuti a Padova a trovarmi. Sono diventato amico del direttore dell Amical di Mauthausen che ha insistito perché mi iscrivessi all associazione. Mi hanno considerato uno dei loro e così oggi partecipo ai loro incontri nazionali. E stata una grande gioia che serbo nel cuore. A fine aprile i tempi stringevano, da mangiare non ce n'era più, ormai si sentivano i bombardamenti degli Americani e dei Russi, di tutte le truppe alleate. La fine era vicina e si è incominciato ad evacuare il campo. Gruppi di deportati che ormai non si sostenevano più in piedi venivano caricati sui camion e portati in crematorio di Ebensee. Quelli invece che come me ancora

potevano camminare hanno fatto la marcia della morte. Abbiamo camminato tanto, senza mangiare, mentre i bombardamenti continuavano, e ci abbiamo messo sei o sette giorni per fare ottanta cento chilometri e arrivare a Ebensee. Verso il quinto o sesto giorno abbiamo visto che tante SS di notte scappavano e rimanevano solo i criminali peggiori. Di questo ci si accorgeva perché specialmente gli Spagnoli, quelli che erano ancora in sesto, erano molto attenti a qualunque particolare per potersi difendere. Un giorno siamo arrivati a un bivio con una salita che conduceva a Ebensee. Ci hanno fatto riposare un attimo ma lì, guardando in alto, abbiamo visto un grosso carro armato che si affacciava sulla discesa. A fianco c erano due Jeep e abbiamo capito che stavano per arrivare gli Americani. Il poco tempo impiegato dagli Americani per scendere la discesa è stato sufficiente perché le SS cominciassero a dire "noi non siamo stati cattivi con voi! Ditelo agli Americani!". Ma nel frattempo alcuni deportati avevano già ucciso un gruppo di SS. Gli Americani sono arrivati filmando tutto. Erano le 18 del giorno 5 maggio, la stessa data della liberazione di Mauthausen. Ci hanno lasciato un po di tempo libero, dopodiché hanno deciso di portarci in un campo di quarantena. Eravamo a ridosso di una via principale e io ho avuto la grande gioia di vedere una macchina militare con la bandiera italiana. Con un altro italiano, che - poveretto - aveva solo sedici anni, due meno di me, quando ho visto questa macchina, ho cominciato a chiamare "Italiano! Italiano! Si sono fermati e ci hanno caricato. Ho fatto prelevare dei rifornimenti dai carri tedeschi e io ho indossato una tuta delle SS tutta sporca e sgualcita, con la quale però mi sono subito sentito più libero. Con questi militari italiani abbiamo girovagato otto giorni. A ogni posto di blocco americano ci requisivano la macchina e noi allora ci attivavamo per prenderne un altra. Siamo arrivati a Bregenz, sul lago dei tre cantoni, tra Svizzera, Germania e Austria. Lì in un albergo c'era un comando americano. La proprietaria era una spagnola, e avendo vissuto tanto con gli Spagnoli conoscevo abbastanza bene la lingua. Sono andato a parlarle a nome degli altri Italiani e le ho chiesto di poterci fermare una notte per proseguire l indomani oltre il confine e andare in Svizzera. Così è stato, abbiamo passato la notte lì, ci hanno rifocillato e l'indomani siamo partiti per il confine svizzero. Purtroppo non facevano passare nessuno e ci hanno fatto tornare indietro. Siamo dovuti tornare a Innsbruck, nel campo di Reichenau, dove ero già stato all inizio della mia storia. Lì c'era un grosso concentramento di Italiani in attesa di rientrare e anche degli ospedali attrezzati. Ci siamo fermati alcuni giorni, poi è arrivata una colonna della Pontificia Opera di Assistenza

che ha formato un gruppo. Col mio amico ci siamo dati da fare per rubare, per così dire, un camion, che sarebbe poi rimasto di nostra proprietà. Con questo camion ci siamo uniti alla colonna della Pontificia Opera di Assistenza. A Bolzano c'era un altoparlante, con tanta gente che attendeva di vedere se i loro familiari si erano salvati o meno. Ho subito fatto dire il mio nome, Pavarotti Romolo, e la cosa è stata recepita dai pompieri della Pirelli, la ditta in cui mio padre ha lavorato per cinquant anni. Sono venuti a prendermi subito, mi hanno caricato sulla Croce Rossa e mi hanno portato a Milano. A Milano c'era un centro di raccolta presso l'alfa Romeo. Ormai il mio papà lo sapeva, gli amici lo sapevano, e mi hanno accolto come un eroe. Mi hanno portato a casa dai miei genitori e subito dopo mi hanno portato all'ospedale Maggiore di Milano, dove sono stato per circa due mesi. Poi sono uscito per andare in sanatorio. Dieci anni dopo abbiamo saputo che i miei fratelli e lo zio erano stati trucidati presso San Martino di Varese dalle SS e dai fascisti, e messi in fosse comuni. C è stata la riesumazione con il riconoscimento presunto e trentasette cadaveri sono stati messi nell ossario del Monte San Martino. Io in qualche modo sapevo che non sarebbero più tornati, mentre i miei genitori continuavano a sperare. Speravano che fossero riparati in Svizzera e da lì magari in Russia, perché avevano dei grandi ideali. La mia famiglia ha sempre avuto dei grandi ideali. Dei miei compagni di deportazione italiani, ricordo quelli con cui ero arrivato, con cui c era un rapporto non solo di amicizia e di stima, ma anche di condivisione degli ideali per cui eravamo stati arrestati, la difesa della democrazia. C era Baratti e c era Marostica. Ma il mio amico più grande è stato Agapito, per tutto quello che ha fatto. Secondo me, il colonnello SS sapeva che aveva detto una bugia, ma volle prenderla per buona. E così mi salvò la vita. Agapito aveva combattuto la guerra civile in Spagna a sedici anni, poi si era rifugiato in Francia. Lì si era unito alla legione straniera francese e purtroppo erano tutti stati presi dai Tedeschi e portati a Mauthausen. Lì i suoi compagni erano quasi tutti morti in breve tempo alla cava. Il mio amico invece si era salvato. Lui non poteva più rientrare in Spagna perciò io non avevo il suo indirizzo. Io gli avevo dato il mio, ma siccome poi avevamo dovuto cambiare abitazione non ricevetti nessuna notizia. Ci siamo rivisti dopo quarantaquattro anni a Padova ed è stata una cosa stupenda, eccezionale. In seguito sono andato a trovarlo a Carcasson, dove abitava con la moglie e due figli, e anche lui è venuto a trovarmi a San Remo. Abbiamo avuto un rapporto epistolare molto stretto e bello.

Lui in Spagna, la sua città natale, è considerato un eroe. Per un periodo non ho avuto sue notizie, poi finalmente ho ricevuto una lettera con un libro Sobravivir a Mauthausen. L aveva scritto lui. E stato l ultimo suo messaggio, perché dopo poco è morto. Non lo dimenticherò mai.