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1 1 Il Foglio Letterario FIERE DEL LIBRO DI PISA E VENTURINA 2013 Il Foglio Letterario dal Editore in Piombino dal 2003 Anno 14 - Numero 3 - INVERNO 2013 Catalogo aggiornato libri Mail per contatti: ilfoglio@infol.it Una piccola Casa Editrice che ha partecipato 4 volte al PREMIO STREGA e ha lanciato scrittori per GUANDA, RIZZOLI, NEWTON & COMPTON, ANORDEST, STAMPA ALTERNATIVA, MINIMUM FAX... I fumetti pubblicati in questo numero sono di Agata Matteucci, Garrincha ed Hernan Henriquez. Non posso restare fedele a un ideale perduto, ma posso esserlo a una città perduta (G. C. Infante) 1

2 2 AGATA MATTEUCCI STRIPS LE TERRIBILI LEGGENDE METROPOLITANE IL FOGLIO LETTERARIO Rivista fondata nel 1999 Numero 3 - Anno 14 Testata Registrata al Tribunale di Livorno Direttore Responsabile. Fabio Zanello Direttore Editoriale: Gordiano Lupi Redazione: Via Boccioni, Piombino (LI) - CP 66 Sito Internet: Mail: ilfoglio@infol.it Telefono La collaborazione è gratuita e per invito. Manoscritti e materiale inviato (non richiesto) non verrà restituito. Il Foglio Letterario è il bollettino aperiodico della omonima casa editrice, pubblica opere di autori inseriti nella struttura e materiale selezionato dai direttori di collana, ritenuto in sintonia con il programma editoriale. 2

3 3 Esce in e-book "Dichiarazione di Roberto Malini. In anteprima uno degli inediti La raccolta di poesie "Dichiarazione" di Roberto Malini (Edizioni Il Foglio) uscirà a giorni anche in versione e-book, con due inediti all'interno: "L'amore secondo don Gallo" e "Siamo l'arcobaleno". Ecco, in anteprima, "L'amore secondo don Gallo". L'amore secondo don Gallo Dolce brivido dolce brivido amabilmente ruvido, l'ortica delle tue gote sul mio viso rasato di fresco. Petali d'anima petali d'anima, pioggia di silenziosi sì i tuoi baci di ragazza sulle mie labbra di donna. Perché dobbiamo osare amarci cuori nascosti come topi in un covo - quando l'amore sorge chiaro orgoglioso libero, simile all'alba che fa cantare le valli? Perché le nostre membra tremano come candele in una cattedrale al mostrarsi fugace di un'ombra sul diaframma di carta che ci separa dal mondo? Perché ci abbracciamo trattenendo il fiato se in un solo respiro nascono sinfonie e poemi, si generano galassie e iniziano ere di fuoco e di ghiaccio? Si alzi da terra l'amore reietto, esca dai sotterranei del mondo e cammini orgoglioso di sé cantando le sue mille canzoni! Don Gallo ripeteva le parole di Gesù: Adesso voi che siete affranti venite a me venite a me! Adesso voi che siete oppressi venite a me venite a me! E veniva la gente della suburra, accorrevano accorrevano gli emarginati e i perseguitati con i loro cuori amareggiati, con i loro cuori spaventati, con i loro cuori smarriti. Allora il prete di strada li invitava a levare gli occhi in alto verso il sole e diceva loro: Guardate senza farvi abbagliare, ma guardate: tutto quello che cercate è amore e l'amore è luce. L'amore è energia umana, energia maschile, energia femminile, energia omosessuale, energia transessuale. Siamo uguali uguali uguali fatti di carne e anima, con un cuore piantato nel petto e abbiamo ricevuto da un cielo generoso gli stessi doni: intelligenza, creatività, Spiritualità e passione. Così diceva don Gallo a coloro che soffrivano perché si sentivano diversi e respinti dal mondo. L'amore secondo lui era un transito dalla solitudine a Dio. No, di più ancora: l'amore secondo don Gallo era Dio. Dio è amore a perdere, una corda di fuoco, un dono e un enigma. Come si fa a capirlo fino in fondo? Basta che ci sia amore, amore a perdere. L'amore secondo don Gallo è Dio. L'amore secondo don Gallo è Dio. L'amore secondo don Gallo è Dio! Ho scritto questa poesia nella dolorosa circostanza della morte di don Andrea Gallo, un caro amico, un sacerdote che ha portato nella Chiesa un nuovo spirito di solidarietà, un difensore dei diritti umani che ha lasciato un vuoto incolmabile. L'ho letta per la prima volta durante il mio reading al Festival Internazionale di Poesia di Genova 2013, dedicato al "prete di strada". (Roberto Malini). Il silenzio dei violini di Paul Polansky e Roberto Malini - Euro 14 Pag Paul Polansky e Roberto Malini sono ben conosciuti per il loro attivismo a tutela del nostro popolo Rom. In questo commovente volume i nostri cuori e le nostre menti sono toccati dal loro eccezionale talento poetico ed è giusto che abbiano utilizzato l arte letteraria per il loro obiettivo. Due ristampe. 3

4 4 La goccia di latte di Luca Nardini È successo per l ennesima volta. Eppure mi ero riproposto di scandirle bene le parole Un caffè macchiato freddo. Ovviamente il tonto non ha capito: Come dice signor Goretti?. Macchiato grazie. Subito. Subito un accidente! rièccotelo qui il caffè in vetro. E per giunta affogato nella schiuma calda del latte! Il bicchierino al posto della maiolica mi fa schifo. È disgustoso. Però non protesto, ingurgito velocemente il tutto, sorrido e pago. Allora arrivederci. Arrivederci e buona giornata. Buona giornata anche a lei. Sono un cliente fisso, io dovrei entrare e fare appena un cenno con il capo. Il tonto dovrebbe preparare il mio caffè in tazza porgermelo sul banco e avvicinarmi anche quel piccolo bricco con il latte freddo. Freddo : è così semplice, non bollito e ribollito, freddo. Allora prenderei il bricco per il manico e plik! appena una goccia di latte, purissima. Invece no. Tutto si complica, tutto si rovina irrimediabilmente Dev essere per colpa dell assonanza: freddo/in vetro. Oppure per un mio difetto di pronuncia. Forse, più semplicemente, si tratta soltanto dell incapacità professionale del tonto. Domani gli parlo, glielo dico: Senta, facciamo così: non appena entro, la mattina, lei mi prepara un caffè, un caffè espresso, in tazza. Magari soltanto un tantino più basso, se possibile Poi non ho bisogno d altro, nemmeno dello zucchero, è sufficiente una goccia, una gocciolina di latte freddo. Plik! Fatto. Pago, la saluto e me ne vado. Non c è bisogno nemmeno di una parola. Non mi faccia domande inutili, del tipo: In tazza grande? Alto? O che so, all americana? Sarebbe assolutamente superfluo. Io ho bisogno di quello che le chiedo, capito? Soltanto di quello. Si chiede per avere, per sapere invece si domanda. E qui non c è nulla da sapere. Ho bisogno di una sola goccia di latte. Freddo. Perché lei, vede, tutti i giorni - tranne la domenica quando il suo bar è chiuso - tutti i giorni lei mi augura una buona giornata. Ma con questo schifo di caffè la mia giornata invece me la rovina! E io allora che cosa posso farci! Sarò libero o no di frequentare il suo bar? Avrò almeno diritto ad una sacrosanta goccia di latte? Sente? Dico freddo, freddo e non in-vetro! Non si distragga per favore, mi ascolti. Io sono un suo cliente, ha capito? Non le chiedo certo di stendermi un tappeto rosso mi tratti soltanto come tutti gli altri, magari semplicemente con un po più di riguardo se non altro per rispetto della mia fedeltà,o della mia caparbia. La schiuma ribollita mi fa vomitare, per me è peggio di un insulto. E poi nel bicchierino ci bevono tutti i vecchietti catarrosi di questo bar, vuol mica che mi becchi una malattia mortale? Così il giorno seguente il signor Goretti Mario si alzò come ogni giorno di buon ora, si lavò, si vestì, indossò gli occhiali e scese le scale di casa sua. Dopo cinquanta metri si fermò per un attimo. Ripassò mentalmente il discorso che si era preparato e si avviò verso il bar. Entrò deciso. Si rivolse al barista con un cenno del capo, il barista capì e avvicinò l orecchio alle labbra del signor Goretti, per ascoltare meglio quello che il suo cliente aveva da ordinargli anche se lo sapeva, avrebbe preso il solito caffè in vetro macchiato caldo, con la schiuma. Il discorso invece fu lunghissimo, il signor Goretti gli parlò di quel suo figlio morto in giovane età in un incidente stradale; di come questa sciagura avesse rovinato il rapporto con Rosa, la sua ex-moglie; di quanto sia difficile vivere per quindici anni da solo; della sua passione per i bengalini e della cifra che spendeva alla settimana per il loro mantenimento. Aveva anche un gatto che si chiamava pensa un po, Alfredo. Alfredo dava pochi problemi, in casa, essendo castrato. Il barista non capiva bene il perché di quella lunghissima confessione, ma stette ad ascoltare tutto, per filo e per segno - in fondo si trattava dei problemi personali di un cliente Finché al signor Goretti non scese una lacrima, una sola, densa e appiccicosa, quasi come una goccia di latte. Non se la prenda su signor Mario sono cose che capitano cose che fanno parte della vita E invece bisogna pur viverla la vita! Adesso sa che cosa facciamo? Le preparo il suo solito caffè, macchiato come lo vuole lei, con una bella schiuma di latte nel bicchierino di vetro. Il mio supereroe preferito di Luca Nardini - Euro 16 Pag. 200 Marilena lo guardava sbalordita, ma non disse una parola, si limitò a fare un movimento impercettibile con le labbra, come un brivido. Lui attraversò la cucina, prese il cappotto dall'appendiabiti dell'ingresso, e dopo aver controllato se le chiavi di casa fossero in una delle tasche - sì, c erano - con un movimento energico aprì la porta e uscì. Senza dire altro. Perché l'unica cosa da dire a sua moglie, in quel momento, sarebbe stata: Ma tu lo sai chi sono io, bimbetta mia? Io sono l uomo lucciola. Luca Nardini è nato a Empoli (1962) dove vive. Ha già pubblicato La carrozza affogata (2007), A far tempo da(2009) e Dolls (2010). 4

5 5 Estratto da Piombinorama di David Marsili Fumava, come se nulla fosse e senza neanche chiedermi il permesso. Poi ha tirato fuori dei fogli dalla borsa ed ha preso a bruciarli. Li accendeva da un angolo, con un accendino rosso, poi li gettava a terra. Mi sono alzato ad aprire un po' la finestra. Ho sentito l'aria fresca e salmastra entrare nella camera e sostituire un po' quella miscela indefinibile di fumo, fragranze da marciapiede e vizi dei precedenti ospiti. Ho sentito fuori una macchina sfrecciare e poi inchiodare improvvisamente, con un gran fischio di freni. Ho avuto un sospetto e ho richiuso la finestra. Poi ho sentito una specie di allarme in lontananza. Se tornassero a cercarti? le ho detto. Non torneranno, boy. Sì, ma se tornassero?. In quel momento ho sentito bussare alla porta. Mi si è ghiacciato il sangue nelle vene. Le ho fatto cenno di stare zitta. Ho spento la luce e ho preso il telaio di un abat-jour di ferro battuto. La prima cosa che ho individuato come arma di difesa. Le ho detto di spengere la televisione. Quei figli di puttana ci avevano trovato e sicuramente non era gente che faceva sconti. Il cuore mi batteva a mille e avevo la vista annebbiata. Alla porta bussavano forte. La sirena fuori suonava sempre più distorta. Lei ha sbagliato pulsante e invece di spengere la televisione, ha rimesso l'audio. A quel punto ho visto la porta aprirsi di colpo. Nella semi oscurità ho visto la sagoma nera dell'uomo che correva nella stanza con qualcosa di grosso in mano. Ho chiuso gli occhi e colpito duro. L'ho sentito cadere a terra, e insieme al tonfo di un corpo, c'é stato anche un clangore metallico. Poi ho sentito l'urlo di lei. Ho aperto gli occhi e ho visto tutto. Ecco perché sono qui. Ormai non so più neanche da quante ore sto rinchiuso nel mio mostro di metallo. Ma questo non è un fumetto manga. È la storia di come ho ucciso quel povero portiere notturno della pensione. Il tutto per la sigaretta di Kelly e dei suoi stupidi fogli carbonizzati. Aveva fatto partire i rilevatori di fumo. L'uomo si era spaventato ed era venuto a bussare. Siccome noi non rispondevamo, ha temuto il peggio ed è entrato con un estintore. E io ho fatto il resto. Kelly se ne è andata. È stata lei a dirmi di non chiamare la polizia. Nella pensione eravamo soli. Ha cancellato a mano le registrazioni dei nostri nomi alla reception e mi ha chiesto di accompagnarla fino al porto di Piombino. Sulla banchina, il vento le scarmigliava quei riccioli rossi, sbatteva quella sua gonna vistosa come una bandiera, la risacca del mare creava echi sinistri, mentre un traghetto della Moby tentava di sdrammatizzare con le gigantografie di fumetti sulla sua fiancata. Poi lei mi ha chiesto scusa e mi ha detto di scordarmi di lei. Io me la sarei cavata. Io sono un bravo ragazzo. Smalltown boy. Un ragazzo di provincia. Questa provincia che è tutta qui, qui ai miei piedi. Credo che non scenderò più da questa gru a torre. Se mi concentro bene, nelle luci dei lampioni, nelle loro geometrie, riconosco tutto. Piazza Bovio e il suo faro, il piccolo centro e tutte le vie intorno. Il porto, con le navi e la gente ammassata sui ponti a fumare e a salutare i parenti, con la testa già nelle isole che visiteranno. Vedo anche le luci nelle case dell'isola d'elba. Sento nel vento tutto l'odore di questo nostro mare. Penso ancora per un attimo a lei. Inizio a dubitare di tutto. Non so chi sia, chi erano gli altri, da cosa l ho salvata. Sicuramente non è neanche una puttana. Forse non si chiama neanche Kelly. Poi non penso più a niente. Mi allungo sul sedile, inizio a vedere tutto sempre più opaco. Sempre più indefinito e rarefatto. La città finisce in una striscia di carbone e poi si perde in mare. Un diorama incompiuto che si diluisce nella provincia intorno. David Marsili (Livorno, 1973). Con Il Foglio Letterario ha pubblicato i romanzi Viscere L'indifferenza della notte (2008) e Uomo di Tungsteno (2011). Nel 2013, il racconto I am the resurrection è stato pubblicato nel primo numero della nuova collana Demian de IlFoglioLetterario. Il terzo romanzo è in lavorazione. Il brano che vi presentiamo è tratto da Raccontare Piombino. Raccontare Piombino di AA.VV. - Pagine 150 Euro 14 - Undici autori per raccontare una città, anzi dodici, perché gli splendidi scatti di Andrea Frediani immortalano Piombino in tutta la sua bellezza. Umberto Bartoli, Valentina Della Lena, Paolo Ferrari, Alessandro Fulcheris, Emilio Guardavilla, Federico Guerri, Gordiano Lupi, David Marsili, Marco Miele, Simone Pazzaglia e Paolo Silvestri. La città è la vera protagonista, in un libro che non vuol essere celebrativo, né agiografico. L azione degli undici racconti si svolge nei luoghi simbolo della città: Porto, Marina, Salivoli, Pinetina, Città Vecchia, Populonia, Baratti, Centro Storico. Un biglietto da visita per un luogo dell anima in rapido divenire, dalla monocultura dell acciaio alla diversificazione turistica. (Gordiano Lupi) 5

6 6 Una poesia di Patrizia Garofalo E venni a patti con il dolore Disorientato ospite Lo ebbi più volte a cena Lo abbracciai Tra i baffi di un medico Morte rapida di una bambola Occhi impossibili al pianto nell addio ad un cane Avrei attraversato secoli Smagrita dal cercare Appassionata fotografa di vita Mi firmai sempre angelo sbagliato con ali di terra Tutto desiderai Tranne la dimenticanza Al di là dei muri di Emilio Guardavilla [ ] Al di là di quei muri passano gran parte del loro tempo ancora circa tremila persone provenienti da tutto il comprensorio e da altre parti del mondo. A vari livelli di competenza lavorano dalle otto alle sedici ore per un totale di circa duecentotrenta giornate lavorative annue, giornata più giornata meno. Il tempo trascorso dentro dipende dalle loro necessità, ambizioni e aspettative ma è comunque regolamentato da terzi in base alla congiuntura economica del momento. Una certa flessibilità, ad oggi, è sempre stata garantita. Gli affetti che li attendono, in ogni caso, hanno adeguato tempi e ritmi delle proprie vite alle turnazioni settimanali programmate. Molto spesso la gita fuori porta non viene fatta di domenica e il pasto, pranzo o cena che sia, viene consumato molto prima del telegiornale. La loro giornata inizia con un riconoscimento digitale della loro presenza; il primo saluto che ricevono è il bip di un tornello infallibile che legge una banda magnetica stracolma di dati ma che non è in grado di apprezzare lo stato d animo a cui è abbinato. Quello lo si può riconoscere solo dalle mimiche facciali di ogni matricola, parametro che nessun sistema elettronico di vigilanza è ancora in grado qualificare o quantificare. In questo frangente, chi ha già versato una quota cospicua dei contributi alla Previdenza Sociale, difficilmente tradisce qualche sentimento dall espressione del viso: neutra, indifferente, distante da quella contingenza che è diventata il quotidiano dalla fine degli studi. I più eloquenti ed espansivi in termini ottimistici sono i più giovani e i non italiani. I primi per l incoscienza che grazie al cielo li contraddistingue, i secondi per il senso di appartenenza a quest america che si fa sempre più sicuro come il loro italiano orale. [ ] Garrincha è un fumettista cubano che vive a Miami, ma conosce bene vizi e virtù di casa nostra. In questo numero del Foglio Letterario vi faremo leggere alcune vignette divertenti. Raccontare Piombino di AA.VV. -Pagine 150 Euro 14 - Undici autori per raccontare una città, anzi dodici, perché gli splendidi scatti di Andrea Frediani immortalano Piombino in tutta la sua bellezza. (a cura di Emilio Guardavilla) 6

7 7 Bad Luck di Paolo Merenda L'asso di quadri rappresenta una notizia. Felice o triste, dipende, questo dicono le cartomanti. Dopotutto dovevo immaginarmelo. Quella partita non poteva finire tranquillamente. Non è che il poker fosse mai stato il mio forte, ma quella notte di Capodanno stavamo giocando a strip poker, io e altri tre amici. Niente di omosessuale, semplicemente eravamo ubriachi. Fuori c'era mezzo metro di neve. Eravamo tutti e quattro in mutande e gli alcolici erano finiti da un po'. Al prossimo perdente toccava levarsi le mutande, davanti a tre maschi e quattro donne. Eravamo amici da una vita, ma non avevamo mai giocato insieme a pallone o roba del genere. Non eravamo abituati a gestire la nostra nudità davanti agli altri. Pensai che le donne si sarebbero girate dall'altra parte, o almeno avrebbero fatto finta. Avevo in mano tre assi, rilanciai alla grande. Cambiai due carte e mi arrivò anche il quarto, quello di quadri. La posta era quella che era, cazzo mi fregava. Figurarsi se qualcuno poteva tirar fuori una scala reale. Era già tanto che in quelle condizioni sapevamo ancora riconoscerla da una normale. Lanciai le mie carte al centro della tavola rotonda e mandai tutti affanculo. Cazzi vostri, contate le fiches e calate le mutande. Il coglione che perse si vergognava. Dopo una discussione infinita gli effetti dell'alcol svanirono e la menata andò avanti per un'altra mezz'ora. Dopodiché la sua donna disse che si voleva spogliare al posto suo. Lui la squadrò, spalancò la bocca e avvampò. Lei non fece una piega e iniziò a levarsi il maglione. Sotto quella specie di coperta da hippy indossava una maglietta di Bob Dylan. Si levò anche l'altra e svelò un reggiseno bianco con stampato la carta che mi portò fortuna, l'asso di quadri. Per la cartomanzia rappresenta una notizia felice o triste. Quella volta parve parecchio felice. La tipa era una gran figa. Si levò le scarpe, i jeans a zampa e restò in mutande. Quella hippy sembrava aver lì sotto un gran bello zerbino, oppure due labbra molto protuberanti, perché le mutande erano un po' gonfie. Se le sfilò, ma prima si girò di culo, mostrandoci due chiappe palestrate. Et voilà, les juex son fait. Rien ne va plus. Intervenne il suo ragazzo oscurandoci la vista della tipa nuda. Noi protestammo. E che cazzo, i patti erano quelli, lui non s'era voluto spogliare. Ora ti levi dalla minchia. La tipa si voltò, ma a nessuno riuscì a vedere lo zerbino alla Gloria Guida che nascondeva sotto le mutande. Lei lo spintonò e si mostrò finalmente nella sua nudità. In mezzo alle gambe non aveva un tappeto di pelo nero, ma un bel pisello. A saperlo si faceva a gara a chi ce l'aveva più lungo, invece che lo strip - poker. Nella stanza calò l'imbarazzo totale. Le altre tipe si voltarono alla vista dell'arnese. Noi tre maschi rimanemmo ipnotizzati dal pendolo. Mi alzai e buttai nello stereo un cd a caso. Capitarono i Social Distorsion e Bad Luck sembrava stata scritta apposta per quella situazione. I cartomanti mi son sempre stati sul cazzo, ma c'azzeccano. L'asso di quadri mi fece vincere la mano, poi quella si spogliò mostrandoci un completino intimo a quadri. Mi resi conto solo in quel momento che uno dei miei migliori amici stava con un trans. Avevamo ancora davanti qualche giorno di vacanza. Dovevamo divertirci e non pensare all'episodio. In fondo eravamo sbronzi e fummo stronzi nell'accettare di far spogliare la tipa. La povera vittima della penitenza si rivestì. Guardammo altrove. Feci finta di studiare la scaletta di Somewhere between heaven and hell. Il perdente recuperò il portafoglio e sganciò la grana per pagare il conto degli alcolici. Continuava a nevicare, mentre albeggiava. Un altro anno se n'è andato e siamo tutti più vecchi. Sparai la mia ovvietà, tanto per rompere il ghiaccio in quel silenzio assurdo. Mike Ness continuava a gracchiare dallo stereo con quella sua voce nasale. Frutta fresca per verdure marce di Paolo Merenda - Pag Euro 12 Frutta fresca per verdure marce è un poliziottesco dallo stile energico e rapido. Il commissario Masciopiscio, uno sbirro metallaro e alcolizzato, ha a che fare con spacciatori insospettabili che solo la realtà della provincia sa partorire: pensionati, imprenditori, barboni e guardoni sono alcune pedine di questo traffico che pare infinito. Mascio trova per strada anche amicizia e amore. Il contadino, il negro e Culo-di-marmo diventeranno parte della sua vita e insieme i quattro metteranno in piedi una band con la quale andare in tour per mezza Europa. Culodi-marmo sarà la redentrice del commissario che, dopo aver lasciato la polizia, diventerà investigatore privato e salutista. Paolo Merenda vive in una città quieta, avvolta nella nebbia, ed è nato nell anno della frutta fresca per verdure marce. È un artigiano e suona hardcore-punk dal Attualmente canta nei Deep Throat. Ha pubblicato i romanzi brevi Le occasioni perdute (Genesi, 2010) e L angelopunk (Senzapatria, 2012). 7

8 8 Povero stronzo di Vincenzo Trama - Piacere. - Piacere mio. Vincenzo. VincenzoTrama. - Povero Stronzo. - Simpatico come una merda. - No, è il mio nome. - Ah, scusa allora. Piuttosto insolito. - Sì, è che è in funzione della storia che soggiace a questa narrazione. - Perché questa sarebbe una narrazione? - Un dialogo, piuttosto. - Difatti. Comunque suppongo che dovrei chiederti come mai ti chiami Povero Stronzo, a questo punto. - Esatto. - Facciamola breve che sennò Gordiano non ce la fa a farci stare sulla rivista. Come se ti avessi fatto la domanda, dunque. - Ti sei reso conto che con questo giro di parole hai occupato molto più spazio rispetto al farmi solo la domanda del perché mi chiamo così? - E tu ti sei reso conto di quanto la stiamo tirando per le lunghe? Fai prima a rispondermi, non trovi? - Hai ragione. - E dì. - Mi chiamo così perché, la vedi la fiera? Piena come un uovo? - Eh. - È piena di gente come me. - Sti cazzi. Cioè? - Gente che non legge, che viene qui con un manoscritto sottobraccio e all editore propone il suo testo, opera immancabile nella vasta galassia della letteratura nostrana. - Maremma quanto sei cinico. - No, solo un Povero Stronzo. Il bello è che se l editore fosse serio ti manderebbe a cagare senza tanti problemi, non appena fiutato l odore narcisistico ed egomaniaco del pennivendolo che non ama leggere gli altri. - E invece? - E invece succede come a me, Povero Stronzo, che ti trovi circondato di stampatori che ti assicurano una distribuzione nazionale versando un modico contributo per le prime copie, diciamo mille euro, finendo poi invece sommerso a casa tua di libri invenduti perché altrimenti vanno al macero. E dell editore, o presunto tale, più nessuna traccia. - Ma puoi anche dire di no, eh. Nessuno ti obbliga a pubblicare a pagamento. - Vabbè, pagamento. Che parolone. È un contributo. - Sempre pagamento è. - Perché tu mi vuoi dire che per pubblicare non hai pagato? - Dove hai detto che lo vuoi, il pugno? - Te sei violento. - Con gli ignoranti e gli arroganti sì. - Comunque non potevo dire di no. Vuoi mettere la soddisfazione di vedere finalmente il mio nome sulla copertina di un libro? - È simile a quella del verginello finalmente uomo dopo aver pagato la troia. Dignitoso. - Minchia che moralista. Sei proprio un comunista, sappilo. - Vero in ambedue i casi. - Comunque se ti sto tanto sulle balle perché mi parli, scusa? - Guarda che sei tu che mi hai salutato per prima, eh. - Ah, già. E com è che sto qui a perdere tempo con te, quindi? - Che ne so, sei tu il Povero Stronzo. Smettila di leggermi, per esempio. Faccio volentieri a meno della gente come te. - Lo faccio subito. - Bravo. Gira per gli stand, vedrai che ne trovi di belle persone come te. Vai, esplora pure. Vai. Vai. Oh, non ti faccio più parlare, ho detto. Vai pure, il racconto è finito. Ciao. N.B.: Sì, questo racconto è dedicato a tutti voi, Poveri Stronzi. Ma, essendo tali per natura, non credo nemmeno abbiate letto più di due righe di questo breve testo; anzi, probabilmente avete già cestinato la rivista. Nel raro caso invece voi non foste dei Poveri Stronzi, allora complimenti: siete razza rara e meritate un abbraccio. Finito di leggere potete pure tornare allo stand del Foglio di Gordiano che lo faccio per davvero. E se oggi non abbraccio nessuno vuol dire che siamo immersi da una marea di Poveri Stronzi, Poveri Noi. Vincenzo Trama ha scritto il più bel libro in circolazione sul Black Metal e un sacco di racconti divertenti come questo. Accatateveli! Ovvio che li abbiamo pubblicati noi... 8

9 9 La chiamano adolescenza di Alessandra Altamura Sono tossicodipendente da quando ho iniziato a fare un uso vagamente autonomo della ragione, non saprei dire quale giorno, quale anno è iniziata la tortura: no, non fumo, non bevo, non mi inietto eroina e non sniffo cocaina, non sono ninfomane né schiavo di un ottusa scatola televisiva e nemmeno di un intelligente Personal Cassa informatica. Non gioco d azzardo e nemmeno mi azzardo a bestemmiare un Dio o un uomo qualunque. Però, se ogni giorno non ho la mia dose, muoio di desolazione, di panico, di proibizione. Non importa se la mano che me la procura è quella di un degradato spacciatore o di un raffinato trasgressore, se a rimandare indietro il virus di autodistruzione del mio sistema è un esperto conoscitore degli uomini, o un filantropo generoso, o un rozzo zotico che per sbaglio una volta ha detto e fatto la cosa giusta; se un bambino con la sua tenerezza inconsapevole mi ha salvato dalla una morbosa, tediosa assenza di vita, oppure un adulto, meglio se con un accoglienza veramente affettuosa, ma, in mancanza di materiale autentico, anche con una convenevole faccia cordiale, con un diplomatico senso del tatto Tutto ciò che conta è che con quella dose andrò avanti un altro po : un giorno, forse due, forse anche un mese. Le crisi di astinenza sono al di là di ogni sopportazione: mi si impasta la lingua e non riesco nemmeno a sbiascicare qualche parola, mi si incolla il pensiero e mi ritrovo allergico ai sogni, ai sentimenti, ai valori. Ed è solo l inizio: dopo poco divento restio alla gente e tutto mi puzza di sudore, di piscio, di frutta marcia. Non posso proprio, non ho resistenza e nemmeno istinto di sopravvivenza senza la mia dose, magari meritata, magari comprata, trovata per terra, persino rubata, dall inafferrabile mercato internazionale della fiducia altrui. Non so se questa dipendenza inalienabile sia ciò che chiamano adolescenza o ciò che chiamano vita, forse. Mi faccio d amore o di qualche sua imitazione ogni giorno che il mondo mi schiaffa addosso e di quella sostanza allucinogena vivo. Rettangolo di scatole - Quattro scatole della frutta piazzate ai quattro angoli di un posto macchina raccontano una storia di uggia pomeridiana e antica solitudine. A due a due sono tenute ferme da un bastone della scopa, lungo i lati corti, un accorgimento contro il vento serale. Quattro occhi e un ricciolo di capelli bianchi spuntano da una fessura della porta appena socchiusa, di fronte al parcheggio. Non so dire cosa aspettino e da quanto: un figlio, un nipote, un parente, un amica Certamente è un attesa densa di anni, nascosti tra quattro mura, in compagnia del silenzio, sbadato testimone. Music Club Toscana Storie a tempo di musica di Alessandra Altamura - Pag Euro 15,00 Questo libro è un viaggio in Toscana attraverso ventidue locali di musica dal vivo, scelti all interno del vasto panorama della regione, non solo per la qualità della musica che ospitano, ma anche per altri motivi del tutto soggettivi: la conoscenza dovuta ad una personale frequentazione, l originalità di un esperienza che in quel posto ha avuto luogo, il fascino di un edificio che ha antiche storie da raccontare e cosi via. Non c e dunque nessuna pretesa di poter esaurire tutta la complessa realtà della musica live in Toscana. In ognuno dei ventidue racconti che compongono il libro, un personaggio parla di sé in prima persona e, nel libero fluire dei suoi pensieri, descrive qualcosa che lo riguarda e che in qualche maniera è legato a quel particolare ambiente: passioni, emozioni, ricordi, aneddoti, veri o verosimili e soprattutto il disagio e le difficoltà in cui ciascuno a suo modo si trova a barcamenarsi nella società attuale. (In Italiano e in Inglese). Questa sono io di Federico Guerri - Pag. 215 Euro 14 ISBN Benvenuti nello studio televisivo dentro la mia testa. Qua il buio è assoluto e si estende in ogni direzione. Laura Prete - ex reginetta di bellezza, ex soubrette, ex inquilina della più famosa Villa della televisione, attuale fidanzata d Italia e direttrice di una Scuola per lo Spettacolo - ha sparato in testa, in diretta televisiva, al più rispettato showman della nazione. Il pubblico, incollato al teleschermo, si sta chiedendo: perché? E Laura, in questo romanzo, ci dà le sue risposte. Purtroppo, però, conoscerete tre Laure e ognuna, a turno, vi consegnerà la sua verità. A chi sceglierete di credere: alla bambina in rosso, alla ragazza in visone o alla donna in ombra? Chi ha letto in anteprima questo romanzo ha sostenuto: È la roba più nera che mi sia capitata tra le mani ultimamente. L autore ha risposto: Ogni volta che lo rileggo mi rendo conto, invece, che è una meravigliosa commedia. Federico Guerri è drammaturgo, insegnante di teatro e scrittura creativa, regista, improvvisatore e Sindaco di Mondo di Nerd. Questo è il suo primo romanzo. 9

10 10 Perché scrivo e pubblico autori Piccola storia semiseria del Foglio Letterario Scrivo, perché da quando ho l età della ragione la mie passioni sono sempre state lettura e cinema. Da bambino divoravo libri, fumetti, pellicole di genere, commedie scanzonate, film d avventura e storie fantastiche. Un bel giorno ho cominciato a inventare qualche storia, imitando Salgari, Stan Lee, Walt Disney, De Amicis, Mario Bava e Verne. L elenco è incompleto, serve solo da esempio. Scrivo perché è un modo come un altro per sentirsi vivi in un mondo che fa di tutto per mandarti a fondo e che - lo confesso - mi piace sempre meno, ma ne faccio parte, quindi cerco di affrontarlo nel modo migliore possibile. Scrivo per essere sincero con me stesso, almeno davanti al computer, visto che carta e penna sono desueti. Scrivo per dare libero sfogo alle passioni e solo di argomenti che mi entusiasmano, non è colpa mia se sono molti, non credo sia un peccato avere interessi, invece di passare le serate a rimbambire davanti a un teleschermo. Scrivo la storia del vecchio cinema italiano e racconto Cuba, due amori della mia vita, il primo di vecchia data, l altro più recente, ma entrambi amori, spero non destinati a finire. Scrivo racconti horror e del mistero perché da bambino ho amato Lovecraft, Poe, Le Fanu, Polidori, ma persino Stephen King, al punto di riscrivere un sacco di loro storie ambientate in tempi moderni. Traduco gli scrittori cubani che amo, perché sono più bravi di me a raccontare una terra fantastica e mi fanno sentire parte del loro mondo. Scrivo tanto, persino troppo, ma non posso farne a meno. Ho solo il rimpianto che non riuscirò mai a scrivere un capolavoro, anche se come tutti gli scrittori mediocri penso di averlo sulla punta della penna (scusate della tastiera) il libro della mia vita. Ma tanto lo so che non verrà mai fuori. Da un po di tempo a questa parte - dal 1999 con la rivista Il Foglio Letterario e dal 2003 con la Casa Editrice omonima - non scrivo e basta, pubblico pure giovani autori che penso abbiano qualcosa da dire. Tutto è relativo, certo, ma insieme ad altri scrittori ho messo su un azienda che non è un azienda, ma vorrebbe produrre cultura, senza badare al profitto. Utopia, certo, ma è bello sognare, altrimenti si lavora in banca e festa finita, ché quello è il mio lavoro vero. Il Foglio Letterario l ho inventato insieme a Maurizio Maggioni - ancora compagno di viaggio e autore di libi esoterici - e ad Andrea Panerini - che dopo un po di tempo ha preso altre strade. La vita è pure questo: alti e bassi, dissidi, litigi, cose che vanno bene e altre peggio. In ogni caso la creatura va avanti, incurante dei difetti degli uomini, ché facciamo cose diverse dai grandi editori, altrimenti sarebbe inutile esistere. Diamo voce a chi non la possiede, siano giovani scrittori italiani come autori cubani della diaspora che in patria non possono pubblicare. Fabio Zanello dirige una collana di cinema che è il nostro fiore all occhiello, si occupa di horror, pellicole d autore, film asiatici, lavori italiani del passato. Patrizia Garofalo dà voce a un genere che non è per niente commerciale come la poesia, ma noi non pubblichiamo per denaro e non possiamo dimenticare che la letteratura nasce proprio con la lirica. E poi ci sono i generi, soprattutto l horror e il fantastico, da sempre vicini alla nostra linea editoriale, racchiusi nella collana ideata da Vincenzo Spasaro. Questo è Il Foglio Letterario, un coacervo di passioni che va dalla letteratura al fumetto e che si avvale dell arte grafica di Sacha Naspini, ideatore di copertine moderne e accattivanti. Inutile dire che nel corso degli anni abbiamo partecipato allo Strega per ben due volte, lo sapete tutti, non è un gran merito. Meglio dire che abbiamo lanciato parecchi giovani che adesso pubblicano con grandi editori e riscuotono successo. Lorenza Ghinelli rappresenta il modello di autrice che vorremmo sempre scoprire. Lorenza ha scritto Il divoratore, è passata a Newton & Compton, ha venduto un sacco di copie ma non si è dimenticata di noi. (Gordiano Lupi) 10

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12 12 Lontano dal Monte Athos di Roberto Mosi Il viaggio al Monte Athos gli apparve subito il modo giusto per superare il distacco da Diana, che era partita, d improvviso, per Lisbona. Preparò i bagagli e prese l aereo per Atene. All ufficio di Kiriès, all ingresso nella repubblica monastica, fu autorizzato a rimanere per tre giorni. La prima meta fu il Monastero di Vatopedi all estremità nord orientale della penisola. Impiegò quattro ore per arrivarci sul sentiero sprofondato nella macchia piena di profumi, invasa dal rumore assordante delle cicale. Il complesso monastico apparve d improvviso. Omero rimase a bocca aperta a guardare le alte mura disposte a triangolo, coronate in alto da terrazze, loggiati, balconi. Superò il portone di bronzo ed entrò nel cortile delimitato da edifici dipinti di rosso, al centro la grande chiesa a croce greca. Era l incontro con un mondo dai tratti raffinati e, allo stesso tempo, con i segni di un inarrestabile decadenza: le finestre delle celle erano occhi neri, sgomenti, abitate una volta da centinaia di monaci, ridotti oggi solo a una decina di confratelli. Dopo un bel po di tempo apparve il portàris, il monaco addetto ad accogliere gli ospiti, che lo accompagnò alla foresteria. Omero visitò in piena libertà il convento. Scese il sentiero verso il piccolo porto e salì più tardi alla chiesa, dove era iniziata la funzione religiosa. Fu invitato con modi bruschi a non muoversi per la chiesa. Si fermò vicino a una delle pareti affrescate. Dalla cupola centrale pendeva un lampadario a forma di corona regale, splendente d oro e di pietre preziose. Il canto invadeva la chiesa, a più voci, fluiva ininterrotto. La suggestione che provò Omero non fu minore quando visitò la vicina biblioteca - guidato dal monaco bibliotecario, il viviofylax - con seicento manoscritti, gran parte su pergamena, antichi libri decorati, reliquie conservate in scrigni d oro e d argento tempestati di zaffiri e rubini. Davanti a quelle meraviglie perse il senso del tempo e raggiunse il refettorio che la cena era già iniziata. Intorno alla tavola vi erano tre greci e due italiani davanti a fumanti scodelle. Fece appena in tempo ad assaporare un cucchiaio di zuppa, che suonò la campana: la cena era terminata e gli ospiti, secondo la regola, si alzarono e si avviarono alla sala comune della foresteria. Fra gli ospiti vi era un giovane restauratore di Atene, Diomedos, che aveva studiato a Firenze. Rompendo l incanto del luogo, prese a parlare dei locali che frequentava, della bellezza delle ragazze, della la squadra di calcio. Omero non sopportava questi discorsi. Raggiunse presto il silenzio della sua cella. Si era appena addormentato che fu svegliato da un rumore di motori che arrivava dalla finestra aperta sulla scogliera. Vide in basso due grossi motoscafi e un gruppo di uomini che stavano passando delle casse da un mezzo all altro. Che cosa stava succedendo? Qualcosa di losco? Si svegliò presto il mattino, nel momento in cui erano terminati i riti della notte e i monaci stavano rientrando nelle celle. Decise di partire subito. La meta era il monastero di Stavronikita sulla costa orientale. Il sentiero era a mezza costa, in continuo saliscendi. Arrivò che erano appena le dieci. Prima di arrivare aveva incontrato campi coltivati, recinti per gli animali, edifici per gli attrezzi della campagna. Il monaco portinaio portò direttamente Omero nel refettorio, dove da qualche tempo era iniziato il pranzo. I monaci, almeno una ventina, erano seduti intorno a una grande tavola, con vesti consunte, da lavoro; in basso un gruppo di ospiti. Gli fu fatto posto e mangiò un ottimo polpo al sugo accompagnato da un vino rosso niente male. L atmosfera appariva cordiale, gli ospiti parlavano, in lingua latina, dei loro viaggi. Terminato il pranzo, scoppiò una furibonda discussione fra il monaco portinaio e l - addetto alla foresteria. I due cominciarono a spingersi, a urtarsi fra urla sempre più alte. O- mero rimase sorpreso. Fu questa scena - o qualcosa che già coltivava dentro di sé - che lo spinse a correre fuori dal monastero e a saltare su un carro trainato da un trattore. Ritornò al porto di Dafne. Dovette aspettare un ora in attesa del battello per Ouranopolis. Entrò nella caffetteria. A una delle pareti troneggiava un apparecchio telefonico antidiluviano. Gli balenò improvvisa l idea di chiamare Diana, a Lisbona. Detto, fatto. 12

13 13 Particolare di scarsa consistenza di Marisa Cecchetti Prima di uscire la mattina l ultimo gesto è cercare una moneta nella borsa ed infilarla nella tascona, lesta, dell incerata gialla della pioggia o nelle tasche leggere dell estate. Alexandra è rumena di mezz età ma difficile è il calcolo lisci e tirati i capelli in una crocchia la pelle di sole dei gitani un po lunga la veste sempre scura. Sta alla porta del bar, poco di lato oppure dall altro lato della strada alla panetteria e s industria talvolta con la scopa e raccoglie una cartaccia o innaffia un fiore. Ma soprattutto attende le persone le stesse all ora stabilita. -Vai al lavoro signora? Oggi stanca? Vero Alexandra e non posso parlarti dei miei pensieri fondi, le parole dell Italiano che conosci forse non sono sufficienti. Allora affondo la mano nella tasca. -Domani vai via- mi dici. Ed io stupisco. -In Romania. Io malata - Ora capisco. Sorrido a lei e alla grammatica italiana. Il suo sguardo ora tocca veloce la sua mano che s è aperta pesa il valore di ciò che vi è caduto con pudore poi dice buona giornata e si allontana. Intorno ha una rete di volti Alexandra che la contiene la riconosce che ha qualche minuto e le parole poche per lei sono come un vocabolario pieno e i volti -stesse persone all ora stabilitason tanti volti che connotano un suolo non più estraneo. La sua mano che si sporge appena particolare di scarsa consistenza. 13

14 14 Vino e stinchi di Adriana Pedicini Luca era un ragazzo docile e sensibile. Suo padre aveva un podere in campagna dove soleva trascorrere la maggior parte del tempo libero lavorando con cura i campi, dedicandosi alla coltivazione delle viti e di alberi secolari di ulivo, che erano un po la testimonianza della tradizione di famiglia. Non c era occasione agricola che non si festeggiasse anche con riti di sicura provenienza pagana, come quando, prima di celebrare messa sull aia, le donne di casa ripulivano tutto lo spazio con fronde fresche legate a dei lunghi bastoni di legno e non si lasciavano pascolare gli animali da cortile per non compromettere la pulizia con improvvisi escrementi. Soprattutto erano benedetti il raccolto del grano e la trebbiatura. Si faceva gran festa fino a notte inoltrata con canti, balli, generose bevute di vino e paste farcite, pizze e pizzette ripiene, peperoni imbottiti e infine taralli e biscotti di ogni tipo. Sempre era lì, a portata di mano, il vino, nel fiasco di vetro impagliato. Il profumo che emanava era di fragole, altre volte di rosa, il colore rubino talvolta tendeva al prugna altre volte in trasparenza somigliava al colore delle gote delle nonne infuocate dalla fiamma del forno. Una lunga tavola, allestita con assi di legno formava il desco. Su di essa teli bianchi di lino o di canapa rendevano il tutto maestoso. Piatti e zuppiere di ceramica decorate a mano troneggiavano lungo l asse centrale della tavolata. Ciascuno si serviva a suo piacimento e con la soddisfazione di godere ancora una volta delle riunioni agricole familiari. Ma il colmo dell allegria era a fine di settembre, durante la vendemmia. Grandi e piccoli accorrevano alla vigna larga e abbondante e ciascuno dava il suo contributo nella raccolta di grappoli sempre tronfi, data la particolare ubicazione delle viti su colline solatie. Era regola condivisa che in tali serate di fine estate ognuno potesse invitare i suoi amici, i figli, i padri, i nonni..per una cena o solo per una bevuta. Non di rado si giocava a tressette e chi perdeva doveva pagare da bere a tutti, che poi era tutto a carico della casa ospitante, fino all ubriacatura. Quella sera Luca non era molto in vena. Aveva da poco lasciato la ragazza con cui era stato più di tre anni e decise così di rimanere in compagnia del nonno e dei suoi vecchi amici. Il nonno era molto malato e questo anche rendeva il ragazzo smanioso e con un groppo in gola difficile da mandare giù. Mentre guardava le mani raggrinzite del nonno che a mala pena reggevano le carte da gioco, concepì un idea. Pensò che al nonno poteva far piacere trattenere a cena i suoi quattro amici, anche se questi aveva escluso in precedenza tale ipotesi per non affaticare il suo corpo stanco. Corse dal fornaio e si fece preparare delle focacce impastate col mosto che ancora ribolliva nei tini. Passò dal macellaio a comprare stinchi di maiale e carni di cinghiale particolarmente a buon mercato, data l enorme caccia che si dava a una popolazione di animali selvatici che infestavano i raccolti. Preparò un buon fuoco per ricavarne cenere e tizzoni incandescenti per arrostire le carni. Apparecchiò alla meglio e dispose sul tavolo capaci boccali di vino novello. L ora imbruniva, un sottile filo di fumo si spandeva nell aria denso di profumo di carni. Il nonno e i compagni di vita e di amicizia avevano riposto le carte pronti ad agguantare i bicchieri di rito dopo il tressette. Luca vestito con una tunica bianca, in realtà la camicia da notte della nonna, a piedi nudi e con in testa una corona di pampini, mimando una danza bacchica invitò i vecchi ad accomodarsi sulle panche che aveva sistemato in giardino. Non ricordò di aver visto altre volte scintillare di gioia gli occhi del nonno, come quella sera. S improvvisò coppiere, mescé il vino agli ospiti e tutti ad una sola voce, alzando i calici gridarono: Prosit! Fu appena l inizio. Le carni ebbero bisogno di altro vino per essere trangugiate e l atmosfera di altri canti per essere mantenuta allegra. Di quella incredibile serata è rimasta a Luca una necessità, da rispettare come un rito per onorare la memoria del nonno: ogni anno, dopo la vendemmia, sedere a tavola con amici e gustare stinchi di maiale e carni di cinghiale con l accompagnamento di un bel vino rosso, del vitigno delle sue terre appenniniche. 14

15 15 Estratto dal Demian di Alessio Santacroce - Quando nevica all inferno *** Fuori l aria è gelida, il manto di neve è candido e compatto. La tormenta non accenna a diminuire e la tramontana taglia il viso come una lama. Avanzano per circa venti metri a capo chino per proteggere gli occhi dalle piccole frecce di cristallo. Avrebbero già dovuto trovare la Nissan color rosso papavero, ma niente, si vede solo tanto, troppo bianco. Alberto fa un cenno a Damiano. E il momento di rincasare. Il ragazzino tenta di tornare sui suoi passi, ma sprofonda in quel soffice candore, rimanendo senza fiato. E un freddo mortale, che non perdona. Cerca invano di muoversi, ma continua a sparire nel bianco. Gridare non serve, il vento gli spinge in gola i fiocchi di neve che lo fanno strozzare. Un ombra appare dietro di lui. Non la nota subito, la tramontana gli impedisce di tenere gli occhi aperti, ma poi la vede, lì, in piedi in mezzo all inferno. E' ancora Lei. Fortunatamente, Alberto ha con sé la pala e quando si accorge che Damiano è in difficoltà torna indietro per soccorrerlo. Lo afferra per un braccio e lo trascina fuori dalla buca. Entrambi restano in piedi a fissarla. Anche Lei li sta guardando, un immagine che avrebbe sempre voluto vedere. Ma la vita è stata ingiusta. Damiano piange. Alberto lo porta via con la forza e riesce a bussare alla finestra. Lei non li segue, non è lì per quello. Sirio si sporge fuori dalla finestra e afferra un lembo del giaccone di Damiano che sta congelando. Poi con la poca forza che gli è rimasta, aiuta anche Alberto a salire sul davanzale. È fradicio e non si sente più le mani. *** 15

16 16 I nastri di Larrie di Luigi Musolino Villa Perla era un ottimo posto per annegare nell oblio. Delfino Actis osservò lo sfarzoso edificio immerso nel verde, affacciato su una piccola insenatura del versante meridionale del lago di Como. Le acque torbide riflettevano la costruzione in un tremolante gioco di specchi, trasformando porte e finestre in bocche spalancate da eterni sbadigli, le statue di ninfe seminude in creature muffose. Villa Perla. La casa che aveva acquistato un mese prima per isolarsi dal mondo. La casa che avrebbe dovuto condividere con lei. I ricordi lo travolsero come un onda di pece, ottenebrandogli i sensi. Le voci dei traslocatori che trascinavano su per le scale i suoi averi le poche cose che aveva deciso di portare con sé da Torino, il computer che non avrebbe usato e una ventina di casse di alcolici erano un borbottio confuso. Fermo davanti al cancello, estrasse dalla tasca la fiaschetta e la svuotò del whisky con una mezza dozzina di avidi sorsi. Erano le nove e trenta di mattina. Un rigurgito acidulo, un capogiro, ma i ricordi non se ne andarono. E perché mai avrebbero dovuto? Si sentiva in colpa. Perché cercava di dimenticare. Di nascondere sotto un velo alcolico ciò che era stato e ciò che era accaduto, per quanto si rendesse conto dell inutilità del gesto. Non che gliene fregasse più di tanto, ormai. Lo stile di vita adottato negli ultimi mesi l avrebbe presto portato a mangiare l insalata dalla parte delle radici, come diceva sempre sua nonna. Se lo augurava. Erano passati due anni. Due fottutissimi anni. Un groppo di lacrime gli risalì in gola, facendolo tossire. Le lacrime. Non credeva che un uomo potesse versarne tante. «Mi manchi. Quanto cazzo mi manchi», biascicò. Oltrepassò il cancello barcollando e la tempesta dei ricordi lo flagellò ancora una volta, l ennesima, e dovette sedersi sulla poderosa scalinata di Villa Perla. La sua nuova casa. Presumibilmente, l ultima. «Guarda là! Guarda là che gran figata!», aveva urlato Maria col solito entusiasmo sporgendosi dal finestrino, puntando un dito verso la sponda meridionale del lago. I suoi capelli, capelli di tenebra, stridevano con l azzurro del cielo.si stavano allontanando dal lago di Como sull Opel Corsa sgangherata che sferragliava come una locomotiva. Il weekend era finito. Aveva poca importanza. La vacanza volgeva al termine, stavano tornando a casa, sì, ma insieme. Delfino non ricordava di essere mai stato tanto felice. Si frequentavano da un anno dopo essersi conosciuti a un concerto, convivevano da sei mesi. Erano anime affini. Semplice. Perfetto. Raro.Si erano goduti ogni secondo della vacanza, un weekend senza troppe pretese: lunghe passeggiate, buon cibo, vino, sesso e discussioni interminabili su musica, libri, cinema, arte. Non c è bisogno di fare chissà che, quando si sta bene insieme. Contano le piccole cose. Le minchiate. Lei lo ripeteva sempre. Come se avesse capito qualcosa. Poi rideva. E la perfezione della sua dentatura, e gli occhi scuri e luminosi come specchi d acqua illuminati dal plenilunio lo sconvolgevano sempre. «Deviamo per quella sterrata e andiamo a vedere», aveva proposto Delfino. Villa Perla. L avevano scoperta così, per caso. Abbracciati, erano rimasti a contemplare la meravigliosa abitazione per alcuni minuti, mentre calava la sera. «Chissà chi ci abita», aveva sussurrato Maria con voce divertita, per poi aggiungere: «Sarebbe bello venire a viverci, un giorno». «Seee, contaci», l aveva canzonata lui, rollandosi una sigaretta. «Riusciamo a malapena a pagarci la birra». «Finirai il romanzo, avrai successo. Ci sposiamo. E poi potremmo venire a stare qui. Tu scrivi, io finisco gli studi di cinese, mi trovo un lavoro. E vissero per sempre felici e contenti. Ne sono sicura». Delfino l aveva guardata con un sorriso ebete. «Ti amo». «Io no», aveva ribattuto lei, scoppiando a ridere. Dio, avrebbe fatto qualunque cosa per sentire ancora una volta quella risata. «Dài, ti amo anch io, non fare quella faccia. Offrimi una birra, va». C era stato il tempo per una birra. E per fare l amore in auto, sotto costellazioni luminose come ciò che provavano, mentre la radio suonava Jeff Buckley. Delfino si alzò e si trascinò all interno della villa. Quasi non notò il tripudio di marmi e ottoni del salone d ingresso, né i traslocatori che se ne andavano, le schiene piegate dalla fatica. Si lasciò cadere su un divano, un sorriso triste a deturpargli il volto emaciato. Maria ci aveva visto giusto, in fondo. Due mesi dopo il weekend romantico Delfino aveva concluso il suo primo romanzo, I giorni della Stazione Vecchia, e aveva spedito il manoscritto a una ventina di case editrici, senza farsi troppe illusioni. Il thriller non tirava più, in Italia. Poi una sera era arrivata la telefonata. Una proposta di pubblicazione, la tiratura limitata esaurita in un paio di settimane, recensioni entusiastiche, la scalata alle classifiche dei best-sellers, bum, il secondo romanzo, i soldi, tanti, il successo. La loro vita aveva subito uno stravolgimento repentino nell arco di pochi mesi. Mesi di gloria. Felicità. Tenerezza. I mesi migliori. Finché una notte era il 15 agosto, e non l avrebbe mai scordato Maria si era tirata a sedere nel letto e l aveva chiamato. «Devo vomitare», aveva bisbigliato, ridendo, sempre con quel sorriso, e poi aveva inondato le lenzuola di liquido verde scuro. Il vomito si era ripresentato il giorno seguente. E quello dopo ancora. E ancora. E ancora. Dopo una settimana erano arrivati i dolori alle gambe, al collo. I mesi successivi, nella mente di Delfino, erano una serie di immagini sgranate proiettate da un caleidoscopio impazzito. Gli ospedali. Le TAC. Le risonanze. Qualcosa che non andava nella testa, nel cervello di Maria, quel cervello che l aveva fatto innamorare più di qualunque altra cosa. I dottori che scuotevano il capo, perplessi. Mentre lei rideva e parlava e cucinava e cantava e ballava e lo amava e viveva, come se nulla fosse. «Non è niente, vedrai», sussurrava, accendendosi una sigaretta dietro l altra. Dimagrendo. Ci era voluta una biopsia cerebrale per capire l origine dei disturbi, sempre più violenti, debilitanti. La dottoressa Durà, una cordiale sessantenne specializzata in patologie cerebrali, li aveva convocati una mattina di settem- 16

17 17 bre all ospedale Molinette di Torino per discutere degli esiti dell esame. Quel giorno Maria, sebbene molto smunta, era bellissima. Lo sguardo fiero, i capelli raccolti, la gonna decorata da greche rosso fuoco, la scollatura impreziosita da una collana d argento. Profumava di mandorle e cose buone. Delfino aveva capito subito, non appena erano entrati nella saletta della Durà e l aveva guardata in faccia, che sarebbero stati cazzi amari. Si erano seduti. Maria era seria. Non sorrideva, e capitava di rado. La donna aveva spiegato, con uno sguardo triste. Nella miriade di paroloni sciorinati dalla Durà, Delfino aveva colto solo una frase. «La gliomatosi meningea è un raro tumore delle meningi. Cominceremo con la chemio, poi, se sarà il caso, passeremo alla radioterapia, che però è più invasiva e dolorosa». Aveva ascoltato la dottoressa tenendosi aggrappato al bordo della scrivania per non cadere. Non riusciva a parlare. A muoversi. Sembrava che qualcuno gli avesse fracassato le rotule con una mazzetta da muratore. Sudava, in quel maledetto martedì mattina torinese, sudava e cercava di non svenire. Aveva guardato Maria, dritta come il tronco di un albero secolare. Non avrebbe mai dimenticato il suo sguardo. Il viso di una guerriera che ride in faccia al nemico. Un nemico imbattibile. «E allora bombardiamolo di chemio, sto maledetto bastardo!» aveva tagliato corto, stupendo lui e la Durà, senza indagare oltre. Non aveva chiesto quante fossero le possibilità di sopravvivenza, il decorso della malattia. Si era semplicemente voltata verso di lui, sorridendo e alzandosi, facendo l occhiolino alla dottoressa. «Oh, ce lo facciamo un kebab? Sto morendo di fame». Erano andati a mangiare in una rosticceria araba e nel pomeriggio avevano visitato il Museo del Cinema, situato all interno della Mole Antonelliana. Erano saliti in cima al monumento con l ascensore, e lassù si erano limitati a guardare i tetti di Torino, il cielo limpido, tenendosi per mano. Senza dire nulla. Le parole, in quel momento, erano un accessorio superfluo. Tenersi per mano bastava. Si erano goduti ancora due mesi di relativa tranquillità. Poi il Maledetto Bastardo avevano iniziato a chiamarlo così, da quel giorno aveva sfoggiato tutto il suo arsenale di torture e devastazione. E dopo sei mesi aveva vinto. Maria si era spenta una notte di febbraio. L aveva guardato, sprofondata nel materasso antidecubito, il viso gonfio di dolore e cortisone, e aveva sorriso. Un sorriso diverso da tutti gli altri. Aveva sospirato. Un lungo, interminabile sospiro di liberazione Poi più niente. Fuori, nella notte gelida e scura e insensibile, erano caduti i primi fiocchi di neve, mentre lui se ne stava lì scioccato a tenerle la mano e a piangere e a fregarle il petto perché il cuore ricominciasse a battere, a carezzare la sua chioma di tenebra, maledicendo il caso e Dio e il Maledetto Bastardo e se stesso e l abisso che gli si spalancava dentro. Avevano dovuto portarlo via, e coccolarlo, e rimboccargli le coperte come a un bambino impaurito, mentre la neve cadeva, cadeva, cadeva Trascorse le prime due settimane di permanenza a Villa Perla in una realtà alternativa, avvolto da un manto di stordimento dal quale si risvegliava sdraiato sul pavimento, o con la testa infilata nella tazza del cesso. Una mattina provò a lavorare al suo ultimo libro, Fauci, ma abbandonò il computer dopo mezz ora per andare a recuperare il whisky. Una sera, doveva essere trascorso un mese dal suo arrivo, trovò le VHS. Erano in cantina un dedalo scuro e umido di pilastri e ragnatele che si allungava nel sottosuolo e le scoprì per caso, durante una delle quotidiane peregrinazioni etiliche nella villa. Erano riposte ordinatamente in degli scatoloni e chiuse in un armadio a muro ricavato all interno di un enorme colonna portante. Erano migliaia. Seppur ubriaco, non poté fare a meno di notare la quantità impressionante di videocassette, e, particolare ancora più bizzarro, come fossero state sistemate negli scatoloni in ordine cronologico. Una piccola etichetta su ogni nastro, con una data. Continuando a ingollare whisky, tirò gli scatoloni fuori dall armadio. Su un ripiano inferiore trovò un vecchio proiettore a muro per VHS, un mostruoso Panasonic anni ottanta con la vernice scrostata. I nastri coprivano un periodo che andava dal 29 giugno 1986 all 11 febbraio Circa ventisei anni, una VHS al giorno. Un totale di videocassette, suppergiù, nastri da mezz ora. S interrogò su quella curiosa eredità. I filmati di famiglia dimenticati lì dai precedenti inquilini? No, la cadenza giornaliera pareva escluderlo. E soprattutto, chi erano i precedenti inquilini? Lui aveva trattato l acquisto di Villa Perla con l agenzia immobiliare. Delfino provò a far funzionare il proiettore la curiosità lo rodeva ma dopo alcuni minuti rinunciò. L alcool e il passato lo tiravano verso il basso. Le mani gli tremavano. Immaginò Maria, lì con lui, e pensò a come avrebbe reagito di fronte alla strana scoperta. Col solito entusiasmo, contagioso, illimitato. Si mise a sedere e pianse, la schiena poggiata a un pilastro. Poi crollò addormentato tra i misteriosi nastri di Villa Perla. Fuori, nella sera immobile, il lago di Como era un lastrone d oro macchiato di smeraldo dal tramonto. La mattina, al risveglio, impiegò alcuni secondi a ricordare gli avvenimenti della notte precedente. Si tirò in piedi a fatica e dovette correre in bagno a vomitare. Dormì ancora un poco sul divano, poi preparò il caffè e si concesse il piacere di una doccia bollente. Dalla porta-finestra della cucina poteva vedere la piccola insenatura, il lago che lambiva la spiaggetta privata di Villa Perla. Smaltita la sbornia, tornò in cantina. Armeggiò alcuni minuti col proiettore per capire come funzionasse, poi infilò la prima cassetta nel dispositivo quella datata 29 giugno 1986 e diresse il fascio di luce verso una parete. Alcuni secondi d immagini sgranate, poi la messa a fuoco. La telecamera riprendeva il piccolo lembo di lago di Villa Perla. Era notte, ma pareva esserci un piccolo faro puntato verso la striscia d acqua. Delfino osservò le immagini perplesso, poi un uomo entrò nel raggio d azione della videocamera. Poteva avere una cinquantina d anni, baffetti a spazzola, occhiali rotondi, pochi capelli. Gli altoparlanti del proiettore diffusero nella cantina la voce dell uomo, una voce delicata, simpatica. 17

18 18 «Mi chiamo Enzo Niccoli. Ho acquistato Villa Perla tre anni fa. Un anno fa ho scoperto una cosa, qui al lago. La cosa più meravigliosa e stupefacente che mi sia mai capitata. E ho deciso di riprenderla, non so perché. Per ricordare, forse, se un giorno tutto questo dovesse finire. Lei arriva tutte le sere. Spero che non dia forfait alla prima». Poi Niccoli si allontanava dall obiettivo per portarsi sulla sponda dell insenatura; si toglieva le scarpe e avanzava di alcuni passi nello spicchio d acqua. Per alcuni minuti non accadde nulla. Delfino schiacciò il tasto PAUSE e andò di sopra a prendere una bottiglia. Tornò in cantina, fece ripartire il nastro. Quello che vide proiettato dopo pochi secondi lo fece trasalire. Ecco, il delirium tremens, ci siamo, pensò. Nel lago si muoveva qualcosa. Era impossibile descriverlo. Le immagini, seppur sgranate e amatoriali, parevano sublimate, tridimensionali, vive, sconcertanti. Era una creatura, senza dubbio, ma sfidava qualsiasi legge anatomica e fisica conosciuta. Poliedri cangianti, simili a cristalli, eppure viventi, che s intersecavano e incastonavano a formare una sagoma vagamente rettiloide, ma allo stesso tempo umana, antica, animale. Una forma che pareva mutare in continuazione, smontandosi e riassemblandosi in un processo alieno atto a raffigurare piccole porzioni del tutto. Non avrebbe saputo come altro spiegarlo. Piante, animali, minerali, costellazioni, steppe, volatili, forme geometriche, calcoli numerici, assiomi, isole. Niccoli rideva, allungando le braccia verso il lago, verso la cosa. Poi un urlo: «Larrie! Larrie, sei qui!» Larrie. Delfino aveva sentito parlare di quella storia, ne aveva persino scherzato con Maria durante il loro fortuito arrivo il primo e l unico a Villa Perla. Larrie, il Nessie italico del lago di Como. Una creatura mitica, una leggenda urbana, così come quella più conosciuta di Loch Ness. Tornò a piantare gli occhi sulle immagini, rabbrividendo. Dalle acque emerse prima la testa una deviazione della materia in cui brillavano due occhi enormi, stupendi, terribili. Poi un collo affusolato crocevia di ellissi e strutture botaniche in perenne germoglio. Infine il corpo, gigantesco e al tempo stesso minuscolo, un Big-Bang in divenire di speculazioni trigonometriche e amebe, strutture cellulari, gas interstellari e cemento ed erba e montagne. La bestia uscì dall acqua, mutando, e si adagiò sul bagnasciuga ai piedi di Niccoli. Era evidente l estasi, la gioia, nella postura dell uomo. Che infine allungò un braccio e toccò Larrie, la fantasmagorica creatura del lago di Como. Ci fu una sorta di fusione tra i due, una serie di movimenti schizoidi che esprimevano una gioia e un dinamismo e una compenetrazione difficilmente spiegabile a parole, poi una sorta di esplosione, e la videocamera traballò, la scena cancellata da una luce rossastra. Dopo alcuni minuti, in cui Delfino rimase a fissare la proiezione esterrefatto, le immagini ricomparvero, e Niccoli si parò dinanzi all obiettivo. Il volto di chi ha trovato tutto ciò di cui ha bisogno. «Ecco. Ecco la cosa migliore che mi sia mai capitata». Poi spense la telecamera. Delfino spense il proiettore. Afferrò la bottiglia e ne scolò metà senza battere ciglio. Delirium tremens, senza dubbio. Bestemmiò. Niccoli. Quell ometto buffo, il suo sorriso, il volto di chi ha trovato il paradiso in Terra. Lo odiò con tutto se stesso, prima di attaccarsi nuovamente alla bottiglia e inserire nel proiettore la seconda VHS. Rimase barricato nella villa per giorni, senza mangiare, infilando VHS nel proiettore e alcool nello stomaco. Di tanto in tanto emergeva dalla cantina per contemplare il lago, domandandosi se Larrie fosse ancora lì, nascosta (o nascosto?) nella sua tana subacquea. Chiedendosi che fine avesse fatto Niccoli. Le riprese video, giorno dopo giorno, erano sostanzialmente identiche. L'uomo sulla spiaggia, la bestia cangiante, la fusione. Ma il loro fascino non diminuiva. C'era qualcosa di commovente nello strano rapporto tra l'uomo e Larrie. Amore? Amicizia? Difficile dirlo. Ma il volto di Niccoli, dopo gli incontri con la creatura, esprimeva una gioia incomparabile. Delfino pensò che anche lui, tempo prima, quando Maria stava bene, doveva aver avuto un'espressione simile. Ogni volta che posava gli occhi sulla scena dell'insenatura, sulla fusione e sull appagamento assoluto di Niccoli, la mente correva in automatico al suo amore perduto. I pensieri annaspavano, i ragionamenti s'ingarbugliavano, incapaci di metabolizzare la tragedia. E la rabbia gli mangiava le viscere. Poi, una sera, Delfino inserì nel proiettore la videocassetta datata 29 ottobre Circa dieci anni prima. Larrie, quella volta, non arrivò. Il lago rimase immobile. Le immagini continuarono con Niccoli in riva al lago di Como, le spalle curvate dalla tristezza, finché il nastro fini. Le videocassette seguenti mostravano la stessa scena. La bestia se n'era andata. O forse era morta. Niccoli era solo, abbandonato, perduto. Delfino provò una fitta al petto. VHS dopo VHS, l uomo dimagriva, si consumava, vagando sulla spiaggia come un automa. Di tanto in tanto levava le braccia al cielo e urlava: «Dove sei, Larrie? Mi manchi, dove sei?» Provò pena per Niccoli, per se stesso, per il mondo. La vita era un continuo perdere pezzi. Una veloce discesa lungo uno scivolo punteggiato di rasoi e sporgenze, che tagliavano e squarciavano e portavano via amori, affetti, emozioni. Uno scivolo affacciato sull Abisso. Lui lo sapeva bene. Cristo, se lo sapeva. Eppure, nonostante la disperazione, nonostante l assenza, Niccoli tornava sulla spiaggia ogni sera, e piazzava la sua telecamera per riprendere il lago, la notte squarciata dal faretto. E aspettava, in quel luogo isolato, con l'unica compagnia dei ricordi. Aspettava qualcosa. Delfino guardò tutte le VHS, bevendo come non aveva mai bevuto prima. Dieci anni. Niccoli aveva aspettato dieci anni la creatura aliena davanti all'insenatura appartata, tutte le notti, solo e inconsolabile. Larrie. La cosa più stupefacente e meravigliosa che fosse mai capitata a quell'ometto. 18

19 19 Estrasse l'ultima VHS dallo scatolone con mano tremante. Si domandò cosa avrebbe visto. L'ultimo nastro di una serie interminabile, datato 11 febbraio All'incirca un anno prima. Delfino tornò in soggiorno e recuperò una bottiglia. Lanciò un'occhiata fuori dalle finestre di Villa Perla. Era arrivato l'inverno. Ombroso, famelico. Il lago era invisibile, ammantato d'oscurità. Tornò in cantina e si sedette sul pavimento umido, aprì la bottiglia e pigiò il tasto PLAY del proiettore. L'insenatura, il lago, quel frammento di una realtà assurda e di un passato impresso su pellicola che era ormai diventato familiare. Niccoli in piedi sul bagnasciuga, in attesa. Ancora lì, ad aspettare, dopo dieci anni. Invecchiato, stanco, ma ancora lì. Trascorse un quarto d'ora. Di attesa, tristezza. Poi, in lontananza, la superficie del lago vibrò. «Larrie!» urlò Niccoli. Inebriato. Qualcosa spuntò dall acqua, distante. Una pinna, una mano? Era poco chiaro, ma il movimento di quell appendice esprimeva più delle immagini in sé. Un arrivederci. Un saluto. Delfino ripensò al sospiro di Maria. L ultimo. Il vecchio Niccoli crollò in ginocchio sulla sabbia. Rimase lì alcuni secondi, poi sollevò la mano, come a ricambiare il gesto. Quando tornò verso la telecamera, il suo viso sembrava aver perso la cupezza, la tristezza degli ultimi anni. Era sereno. Si parò davanti all obiettivo e disse: «Qualcosa rimane. Rimane sempre». Un sorriso, luminoso, poi spense la telecamera. La cantina piombò nell oscurità, rischiarata solo dal fascio biancastro del proiettore. Delfino rimase seduto per terra, scagliò la bottiglia di whisky lontano, in un angolo buio. Si domandò che fine avesse fatto quell uomo col suo mistero. Si disse che svelare i misteri non aveva poi così importanza. L unica cosa che contava, come aveva detto Niccoli, era che qualcosa rimaneva. Rimaneva sempre. Tornò al piano superiore e accese il computer. Doveva scrivere una nuova storia. Per se stesso. Per Maria. Soprattutto per Maria. Rivide l attimo in cui si erano tenuti per mano in cima alla Mole Antonelliana. Il suo ultimo sorriso, diverso da tutti gli altri, che ora gli pareva una promessa. Si piegò sulla tastiera e digitò: I nastri di Larrie Poi si allontanò dal computer, aprì la porta-finestra e si diresse alla spiaggia. Rimase a contemplare le acque immote, mentre i pensieri, così confusi negli ultimi mesi, sembravano prendere un ordine preciso. Si sedette, un vento freddo soffiò sulle rive del lago di Como, un vento che portava con sé un vago sentore di mandorle e cose buone. Credette di scorgere qualcosa, in lontananza, che guizzava sul pelo dell acqua. Qualcosa di nero, tenebra nella tenebra, eppure splendente come una supernova. Delfino si alzò e sollevò lo sguardo al cielo. Nella notte gelida e scura e insensibile cominciavano a cadere i primi fiocchi di neve. Luigi Musolino è nato nel 1982 in provincia di Torino, dove vive e lavora. Affascinato dall universo fantastico e horror sin da bambino, comincia a scrivere durante il liceo. Collabora da alcuni anni con la rivista Studi Lovecraftiani, pubblicata dalla Dagon Press. Sempre per questa casa editrice ha tradotto e curato due antologie di racconti di Carl Jacobi ( Rivelazioni in Nero, 2009; Ritratti al Chiaro di Luna, 2010). Per Edizioni XII ha tradotto il romanzo horror-apocalittico I Vermi Conquistatori di Brian Keene, nelle librerie dal Suoi racconti sono stati premiati in molti concorsi letterari. In particolare, ha vinto il Trofeo RiLL nel 2010, con il O Mammone, e nel 2012, con Il Carnevale dell Uomo Cervo. Ho conosciuto e apprezzato Luigi Musolino nella mia qualità di giurato del Trofeo Rill e ho pensato di pubblicarlo sul Foglio Letterario. L UMORISMO DI GARRINCHA 19

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