La storia che il protagonista narra non è frutto di fantasia, ma è alimentata dai ricordi e dalle esperienze personali realmente vissute da Gaetano

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1 La storia che il protagonista narra non è frutto di fantasia, ma è alimentata dai ricordi e dalle esperienze personali realmente vissute da Gaetano Di Vaio, uno degli autori (Salvatore Capone), pur rappresentata con linguaggio letterario.

2 1. «C aggi a fà, l aggi a mannà o no?» Penso, penso, penso. Mi giro nel letto e mi rigiro. Vuless piglià suonno, ma niente, non ci riesco. Oh, ma che r è stasera, tien a smania? mi chiede il Poppo. Sta steso sulla branda sotto alla mia. C ha ragione, hanno spento le luci da almeno un ora. Fuori è silenzio, manc nu rumore. Un poco di luce viene dal cortile oltre le sbarre, dove tengono i fari accesi tutta la notte. Lontano si sente un tossico che si lamenta, chiagne e si sbatte, starà in fondo al corridoio. Brutta cosa l astinenza. Meno male che sta llà abbasc, è un lamento brutto da sentire. Basta, aggi a scennere a ccà ncopp. Allungo la gamba giú per cercare l appoggio e quasi azzecco il piede in faccia al Poppo. Scusa, scusa. Ma chi sfaccimm Stellete, pure il piede in bocca mi bestemmia. Il Poppo dorme sotto la mia branda. Nella cella ci sono quindici brande, quindici detenuti, cinque castelli da tre brande. Un metro quadrato a testa. Poggioreale. A costo di cecarsi gli occhi, il Poppo sta con un libro in mano, cercando di acchiappare un po di luce dalla finestra. Poppo che ti stai leggendo? bisbiglio.

3 4 gaetano di vaio e guido lombardi Semp o stess, Stellete Siddharta. Ma se pò sapé di che parla stu Siddharta? Il Poppo alza le spalle, non risponde mai a domande inutili. Passo davanti a don Luigi, tiene gli occhi aperti e non dorme pure lui. Rallento un attimo, magari mi vuole dire qualcosa dopo quello che ci siamo detti oggi pomeriggio. Invece continua a guardare la rete e il materasso tutto deformato sotto il peso di Giggino o Schiattamuort, che dorme sopra di lui. Giggino è un altro che hanno seppellito qua dentro. È pazzo veramente, ma non gli vogliono dare l infermità. Si pensano che fa finta. Piú che pazzo, è che tiene la capa di un criaturo di sei anni. Ha mandato in coma a uno con un cazzotto in faccia. Per disgrazia quello è finito a terra e ha sbattuto con la testa. Dieci anni e sei mesi gli hanno dato. A me mi pare che non farebbe male a una mosca. Certo fa paura quando si piglia gli ingrippi e ci guarda con sospetto, come quando non trova una cosa e chiede a tutti se l abbiamo vista da qualche parte. All inizio ci cacavamo sotto: «Mò scatta», pensavamo. Alla fine non fa mai niente. Al massimo dice qualche bestemmia a mezza bocca, poi sale sulla brandina e tozzolea con la testa contro il muro, zitto zitto. Che pena. È uno che ha sempre lavorato Giggino. A dodici anni era già muratore finito. Dieci anni fa lo zio se l è pigliato nella sua agenzia di pompe funebri e da allora è diventato Giggino o Schiattamuort. Quella sera sfortunata si pigliò collera perché quel tipo, ubriaco come lui, lo chiamava cosí. Non si doveva permettere, non teneva confidenza. Qua tutti tengono n atu nomm, un soprannome. Pure io. Il mio lo tengo scritto in faccia, pure se non mi piacesse, niente ci potrei fare. Sta là e me lo tengo. Stelletella.

4 non mi avrete mai 5 Sia in carcere che fuori, parecchi mi sanno solo come Stelletella. Qui dentro solo gli anziani vengono chiamati per nome: don Carmine, don Eugenio, don Luigi. Una volta lo tenevano il soprannome. Ma si è fatto vecchio assieme a loro e nessuno lo usa piú. Per quelli come me che tengono meno di trent anni, è pure una questione di rispetto, non ci siamo cresciuti assieme e non ci possiamo permettere. I loro compagni, quelli che il soprannome se lo sono inventato e l hanno ripetuto per anni, chissà che fine hanno fatto. Don Luigi guarda la rete e il materasso, fra poco si accenderà una sigaretta, come sempre. Non ha voglia di parlare, come sempre. Vado in bagno e passando davanti alla scatola delle lettere, a fianco alla porta blindata della cella, vedo la mia lettera. Sta là, buttata in mezzo a quelle degli altri detenuti. E per l ennesima volta penso: «C aggi a fà, l aggi a mannà o no?» Mi fermo a guardarla, indeciso. Mò che ore sono? Guardo l orologio di Lucia, mia moglie. Me lo sono fatto dare oggi, quando è venuta a colloquio. Tenerlo al polso me la fa sentire vicina. È l una. Ho tutta la notte per decidere cosa fare. Perché qualcosa aggi a fà, se no io qua esco pazzo a furia di pensare alle mani di Lucia, rovinate dai mille palazzi che va lavando in giro per abbuscarsi qualcosa di soldi e dar da mangiare a nostro figlio. Antonio avrà sei anni quando uscirò di qui. L unica soluzione è mandare questa sfaccimma di lettera a Carminiello. Entro in bagno. Mentre piscio nella buca del cesso, mi assale un brivido. Mi piglia da dietro, come un morso alla schiena, come un

5 6 gaetano di vaio e guido lombardi dito gelato che mi conta una a una le vertebre. E non è il freddo. Non è la paura. Non mi sto masturbando, anche se forse mi aiuterebbe. È l angoscia. Questa è la parola che sto imparando stanotte. Di tutte le parole nuove che sto imparando in queste celle, questa è la piú infame.