GIAMBATTISTA MARINO ( ), da La lira. Descrive un Aurora marittima, in tempo che vide la sua ninfa

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1 GIAMBATTISTA MARINO ( ), da La lira Descrive un Aurora marittima, in tempo che vide la sua ninfa Spuntava l'alba, e 'l rugiadoso crine già la stella d'amor sparso cogliea, e già grembi di fior, nembi di brine dal celeste balcon Clori scotea. Le cerulee bellezze e mattutine il mar dal ciel, il ciel dal mar prendea: e tranquillo e seren senza confine un mar il ciel, un ciel il mar parea. Ridean vestiti di smeraldo i lidi, di smeraldo gli scogli; era ogni speco d'argento, di zaffir, di perle adorno: quando mi volsi, e la mia Lilla io vidi, e dissi: Or chi menar potea mai seco, altri che 'l mio bel sol, sì lieto giorno? A.G. BRIGNOLE SALE ( ), La cortigiana frustata La man che ne le dita ha le quadrella con duro laccio al molle tergo è avvolta. L'onta a celar ch'è ne le guance accolta, spande il confuso crin ricca procella. Sul dorso, ove la sferza empia flagella, grandine di rubini appar disciolta; già dal livor la candidezza è tolta, ma men candida ancor non è men bella. Su quel tergo il mio cor spiega le piume e per pietà di lui già tutto esangue, ricever le ferite in sé presume. In quelle piaghe agonizzando ci langue; ma nel languir non è il primier costume che il sangue corra al cor: ei corre al sangue. GIOVAN FRANCESCO MAIA MATERDONA ( ), A una zanzara Animato rumor, tromba vagante, che solo per ferir talor ti posi, turbamento de l'ombre e de' riposi, fremito alato e mormorio volante; per ciel notturno animaletto errante,

2 pon freno ai tuoi susurri aspri e noiosi; invan ti sforzi tu ch'io non riposi: basta a non riposar l'esser amante. Vattene a chi non ama, a chi mi sprezza vattene; e incontro a lei quanto più sai desta il suono, arma gli aghi, usa fierezza. D'aver punta vantar sì ti potrai colei, ch'amor con sua dorata frezza pungere ed impiagar non poté mai. CIRO DI PERS ( ), Orologio da rote Mobile ordigno di dentate rote lacera il giorno e lo divide in ore ed ha scritto di fuor con fosche note a chi legger le sa: Sempre sí more. Mentre il metallo concavo percuote voce funesta mi risuona al core né del fato spiegar meglio si puote che con voce di bronzo il rio tenore. Perch'io non speri mai riposo o pace questo che sembra in un timpano e tromba mi sfida ogn'or contro a l'età vorace e con que' colpi onde 'l metal rimbomba affretta il corso al secolo fugace e, perché s'apra, ogn'or picchia a la tomba. GABRIELLO CHIABRERA ( ), Belle rose porporine Belle rose porporine Che tra spine Sull'aurora non aprite; Ma, ministri degl'amori, Bei tesori Di bei denti custodite. Dite, rose preziose, Amorose; Dit'ond'è, che s'io m'affiso Nel bel guardo acceso ardente Voi repente Disciogliete un bel sorriso? E ciò forse per aita Di mia vita,

3 Che non regge alle vostr'ire? O pur è perchè voi siete Tutte liete, Me mirando'n su'l morire? Belle rose, ò feritate, O pietate Del si far la cagion sia Io vo dir in nuovi modi Vostri lodi; Ma ridete tuttavia. Se bel rio, bell'auretta Tra l'erbetta Su'l mattin mormorando erra; Se di fiori un praticello Si fa bello; Noi diciam: Ride la terra. Quando avvien, ch'un zeffiretto Per diletto Muova'l piè sull'onde chiare, Si che l'acqua in sull'arena Scherzi appena; Noi diciam, che ride il mare. Se già mai tra fior vermigli, Se tra gigli Veste l'alba un'aureo velo, E sù rote di zaffiro Muove in giro; Noi diciam, che ride il cielo. Ben è ver, quand'è giocondo Rid'il mondo, Rid'il ciel quand'è gioioso; Ben è ver; ma non san poi Come voi Far un riso grazioso. FULVIO TESTI ( ), Ne le squallide piagge, ove Acheronte (vv. 1-20) Ne le squallide piagge, ove Acheronte Volge tra fosca arena Liquidi ardor, fiamme cocenti e vive, A Sisifo infelice il Ciel prescrive Inusitata pena. Pel lubrico sentier d' alpestro monte A l erto giogo de l acuta balza Ei vasta pietra innalza, E ne gli eterni precipizi invano,

4 Senza posa trovar, stanca la mano. Pena quassù non disugual quegli ave Che da Fortuna amica Misero attende onor, spera grandezze. Ei sovra monti di sognate altezze Posar pur s affatica De i superbi pensier la soma grave; Ma il van desio come volubil sasso Indi rovina al basso; Quest' il solleva, e per l aeree strade Di novo il porta, e pur di novo ei cade [ ] LUDOVICO ANTONIO MURATORI ( ), Della perfetta poesia italiana, Modena 1706 Ma il Secolo seguente del 1500 infino al 1600 fu senza dubbio il più fortunato per l Italica poesia, essendo questa, per dir così, rinata, e giunta ad incredibile gloria in ogni sorta di componimenti. A Pietro Bembo, che fu poi Cardinale, è l Italia principalmente obbligata per sì gran beneficio. Non solamente la lingua nostra per cura sua tornò a fiorire più che ne tempi andati, ma il gusto ancor del Petrarca tornò a regnare ne gl Ingegni Italiani. [ ] Pochi son coloro, che non sappiano i meriti del mentovato Bembo, di Giovanni della Casa, dell Ariosto, d Angiolo di Costanzo, di Luigi Tansillo, di Giovanni Guidicioni, d Annibal Caro, di Torquato Tasso, del Caval. Guarino, e d altri senza numero, che vissero in quell illustre Secolo. Videsi per la prima volta allora da parecchi Italiani trasportato in Latino, e poscia in Volgare il prezioso libro della Poetica d Aristotele. Da loro ancor si scrissero ampiamente le regole, e i precetti della poesia Italiana, si trattò con singolare erudizione la Critica, e si apersero tutte le vie più sicure per giungere alla perfezione Poetica. Ora generalmente parlando i poeti di quel Secolo ebbero gusto sano, scrissero con leggiadria, adoperarono pensieri profondi, nobili, naturali, ed empierono di buon sugo i lor componimenti. Qualche differenza però si scorge fra gli Autori, che vissero nella prima metà del Secolo, e fra coloro, che fiorirono nell altra. I primi con maggior cura imitarono il Petrarca, nè potendo pervenire alla fecondità, e alle fantasie di quel gran maestro, parvero alquanto asciutti, eccettuando però sempre il Casa, e il Costanzo, i quali nella lor maniera di comporre sono da me altamente stimati. Gli altri poscia per ottener più plauso si dilungarono alquanto dal genio Petrarchesco; amarono più i pensieri ingegnosi, i concetti fioriti, gli ornamenti vistosi; e talvolta cotanto se ne invaghirono, che caddero in un de gli estremi viziosi, cioè nel Troppo. E conciossiachè questa maniera di comporre sembrasse più spiritosa, nuova, e piena d ingegno, e perciò fosse in grado al popolo più della prima, la quale ha in paragon di quest altra molto del ritroso, poco dell ameno: si diede taluno affatto in preda a tal gusto, il quale, non può negarsi, anche esso è ottimo, purchè giudiciosamente sia maneggiato, e in convenevoli luoghi. Ma qui non riflette la carriera d alcuni, i quali o per troppo desiderio di novità, o pure per ignoranza si rivolsero a coltivar certa viziosa sorta d Acutezze, o Argutezze, o vogliam dire di Concetti arguti, abbagliando collo splendore per lo più falso di queste gemme in tal guisa il mondo, che quasi smarrissi, non che il gusto, la memoria del Petrarca, e di tanti valentuomini fino a quel tempo fioriti. Comechè semi di questa nuova maniera di comporre talor s incontrino per le Rime di chi visse prima del Cavalier Marino, contuttociò a lui principalmente si dee l infelice gloria d essere stato, se non padre, almeno promotore di sì fatta scuola nel Parnaso Italiano. Quindi è, che dopo il 1600 la maggior parte de gl Italici poeti seguirono le vestigie del Marino, strascinati per dir così dalla gran riputazione, e dal raro plauso, ch egli aveva ottenuto, senza considerare, se andavano dietro ad un buono, o pure ad un cattivo Capitano. Potevano promettersi pochissima lode, e ben rado lettore quegli, che avessero allora calcate le vie del Petrarca; onde non è maraviglia, se tanti si lasciarono

5 trasportar dalla corrente, poichè in fine i versi per l ordinario o non isperano, o non conseguiscono altra mercede, che l asciuttissima dell essere lodati. GIOVAN MARIO CRESCIMBENI ( ), Storia dell'accademia degli Arcadi istituita in Roma l'anno 1690, Roma Per maggiormente coltivare lo studio delle scienze, e risvegliare in buona parte d'italia il buon gusto nelle lettere umane, ed in particolare nella Poesia Volgare, alquanto addormentato, fu da alcuni letterati instituita in Roma l'anno 1690 a' 5 d'ottobre une Conversazione letteraria in forma di repubblica democratica, che abbraccia quasi tutti i Letterati d'italia, e non pochi anche di là da i monti, e per togliere ogni riguardo di preminenza e precedenza tra i personaggi che la dovevano formare, e anche per allettare coll' amenità e novità, si stabilì d'andar tutti mascherati sotto la finzione de' Pastori dell' antica Arcadia, dalla quale la Conversazione prese il nome ; e i suggetti che la compongono Pastori Arcadi s'appellarono, e s'appellano. Questo congresso erudito, appena nato, ebbe il suo crescimento, non solo perchè varie accademie Italiane delle più celebri vi concorsero ; ma ben tutti i più insigni letterati, sì regolari come secolari ; e oltre acciò molti cardinali, e principi, e prelati d' ogni ordine ; e finalmente non poche dame al culto delle lettere applicate ; di modo che nel corso di ventidue anni è arrivato il numero degli Arcadi presso a mille e trecento. [ ] Il governo di questa Conversazione è democratico, o popolare, non avendo nè protettore, nè principe ; ma semplicemente un Custode, il quale rappresenta tutta l' Adunanza ; e questo ministro si elegge, o conferma dalla medesima Adunanza per polizze segrete ogni Olimpiade, cioè ogni quattro anni compiuti ; e non ha alcun superiore, fuorchè la stessa Adunanza, la quale da lui medesimo si convoca nel tempo d' inverno almeno due volte l anno ; e, bisognando, alcuna volta anche la state ; e simili convocazioni s' appellano Chiamate Generali. Quanto l'italia fiorisse, e fosse piena d'uomini insigni nelle scienze nel secolo decimosettimo a ognuno è palese, che a quelle attenda; ma egualmente palese è a' professori delle lettere amene quanto la condizione di queste fosse deteriorata, massimamente circa l'eloquenza, e la poesia volgare. E sebbene l'antica purità loro, e il loro decoro venivano gagliardamente sostenuti dalle nostre Accademie della Crusca, e Fiorentina, e da varj letterati specialmente Napoletani, Bolognesi, e Romani; nondimeno le più delle nuove scuole nello stesso secolo aperte tanto prevalevano dappertutto, che per poco non venivano derisi que' saggi vendicatori del buon gusto Toscano, non che fossero da alcuno seguitati. Per liberare adunque l'italia da si' fatta barbarie, pensarono alcuni professori dimoranti in Roma d'instituire un'accademia a preciso effetto di esterminare il cattivo gusto; e procurare che più non avesse a risorgere, perseguitandolo continuamente ovunque si annidasse, o nascondesse, e in fino nelle castella e nelle ville più inote e impensate. Ebbero oltre acciò un altro fine nella scelta dello stato pastorale ; e fu d'incominciare a moderare, senza mostrar di dar regola e precetti, la soverchia turgidezza e ampollosità dello stile poetico che allora regnava in Italia, colla semplicità e naturalezza dello stile pastorale che da principio si osservava con esattissima diligenza; benchè ora, che si è conseguito il fine, sì adoperino tutti gli stili approvati. In sì fatti esercizj il principal luogo tiene un ragionamento, che ora può tessersi di qualunque genere ; i più proprj e graditi però sono quelli che hanno il velame pastorale ; e poi due egloghe, l' una Latina e l' altra volgare ; e del resto possono recitarsi componimenti lirici d' ogni spezie. Contuttociò questo non è instituito ad altro oggetto che per coprire il suddetto fine : mentre per altro l' instituto precipuo si è un continuo carteggio del Custode con tutta la letteratura d' Italia, e anche in non pochi luoghi di là da i monti ; e tal corrispondenza ha portato, che a poco a poco estirpata affatto ogni barbarie, oggi si scrive nell' Adunanza, e per conseguenza in quasi tutta l' Italia, sì in prosa che in versi, con tanta purgatezza e finezza di gusto, che il presente secolo rispetto a ciò non ha invidia a qualunque altro passato, come ben dimostrano i sette volumi di rime, e i tre di prose volgari, che gli Arcadi hanno già pubblicati col mezzo delle stampe, e a suo tempo il dimostreranno anche i volumi delle cose Latine che presentemente si stan preparando.

6 G.M. CRESCIMBENI (ALFESIBEO CARIO) dalle Rime degli Arcadi, vol. I 1 (58) Non per vaghezza d'immortal corona L'erto ascesi di Febo aspro sentiero, Né desioso dell'onor primiero Seguii di Flora i Cigni, e di Savona. Ma un rio fato a placar, ch'unqua non dona Tregua a mie cure, e cresce ognor più fiero, L'agitato rivolsi egro pensiero Talor verso l'altissimo Elicona. Né spero già che favorevol sorte Apra, ove nasce il Sole, ove vien meno, A' versi miei d'eternità le porte. Bastami che vil segno oggi non sieno Di scherno, e chi gli udrà dopo mia morte Preghi riposo alle fredd'ossa almeno. 15 (74) Tal m'ha ridotto un fiero volto, e bello, Ove Amor pose a darmi legge il trono, Che vario da me stesso io son pur quello, Ma ben tosto qual fui già più non sono: Ché, fatto il senso alla ragion rubello, Ed ardo e gelo, e spero e m'abbandono; Or la vita m'aggrada, or morte appello, Or oso, or dell'osar chieggio perdono. Or liete, or meste voci Io spargo al vento, Ed or questa cercando, or quella parte, M'affliggo e rido, e godo e mi lamento. Lasso, tra voglie pur sì varie e sparte, Ond'egli avviene, o mio dolce tormento, Ch'io non so mai bramar di non amarte? VINCENZO DA FILICAIA ( ) La Provvidenza Qual madre i figli con pietoso affetto Mira, e d' amor si strugge lor davante,

7 E un bacia in fronte, ed un si stringe al petto Uno tien su i ginocchi, un sulle piante, E mentre agli alti ai gemiti all' aspetto Lor voglie intende sì diverse e tante, A questi un guardo, a quei dispensa un detto, E se ride, o s' adira, è sempre amante-. Tal per noi Provvidenza alta infinita Veglia, e questi conforta, e quei provvede, E tutti ascolta, e porge a tutti aita ; -., E se niega talor grazia o mercede, O niega sol perché a pregar ne invita, O negar finge, e nel negar concede- Italia, Italia, o tu cui feo la sorte Italia, Italia, o tu cui feo la sorte Dono infelice di bellezza, ond' hai Funesta dote d'infiniti guai Che in fronte scritti per gran doglia porte; Deh fossi tu men bella, o almen più forte, Onde assai più ti paventasse, o assai T'amasse men chi del tuo bello ai rai Par che si strugga, e pur ti sfida a morte! Che or giù dall'alpi non vedrei torrenti Scender d'armati, né di sangue tinta Bever l'onda del Po gallici armenti; Né te vedrei, del non tuo ferro cinta, Pugnar col braccio di straniere genti, Per servir sempre o vincitrice o vinta. GIAMBATTISTA FELICE ZAPPI ( ) In quell'età ch'io misurar solea In quell'età ch'io misurar solea me col mio capro e il capro era maggiore, i' amavo Clori che 'nfin da quell'ore maraviglia e non donna a me parea. Un dì le dissi: - Io t'amo, - e 'l disse il core, poichè tanto la lingua non sapea; ed ella un bacio diemmi e mi dicea: - Pargoletto, ah non sai che cosa è amore! -.

8 Ella d'altri s'accese, altri di lei ; io poi giunsi all'età ch' uom s' innamora, l'età degli infelici affanni miei. Clori or mi sprema, io l'amo insin d'allora: non si ricorda dal mio amor costei, io mi ricordo di quel bacio ancora. Ardo per Filli: ella non sa, non ode Ardo per Filli: ella non sa, non ode i miei sospiri, io pur l'amo costante, chè in lei pietà non curo; amo le sante luci, e non cerco amor, ma gloria e lode. E l'amo ancor che il suo destin l'annode con sacro laccio a più felice amante, chè il men di sua bellezza è il bel sembiante, ed io non amo in lei quel ch'altri gode. E l'amerò quando l'età men verde fia che al seno ed al volto il fior le tolga, ch'amo quel bello in lei che mai non perde. E l'amerei quand'anche orrido aveilo chiudesse in sen l'informe arida spoglia, chè allor, quel ch'amo in lei, saria più bello PAOLO ROLLI (EULIBIO DISCEPOLO, ) La neve è alla montagna La neve è alla montagna, L'inverno s'avvicina, Bellissima Nerina, Che mai sarà di me? I giorni brevi e rigidi, Le notti aspre e lunghissime Come potrò mai vivere, Cara, lontan da te? O la nojosa pioggia, O l'aer freddo ingrato, Di gire al colle e al prato, Mio ben, t'impedirà: E il mio desir che pascesi Sol di tua vista amabile, Dove mirar solevati, In van mi guiderà. Quel faggio che tant'aria Co' verdi rami ingombra,

9 E tanto stuol con l'ombra, Le frondi perde già : L'ore soavi e rapide, Ch' ei ne coprì dal fervido Altissimo meriggio, Sol ne rammenterà. La selva, oh ciel! la selva Che si spesso ne accolse, Quando per noi si volse Bel tempo di piacer, O dalle nevi,carica Vedremo curva gemere, O d'aquilone l'impeto Appena sostener. Oh se la mia capanna In qualche dì festoso Potesse dar riposo Al tuo leggiadro piè! D'alghe tessuta e vimini Sia pur campestre e rustica Non vi saria delizia Altra maggior per me. Perchè dal freddo acuto Non fossero toccate Tue membra dilicate Tutte spiranti amor, Porrei sul caldo cenere Aride legna ad ardere Con rami di giunipero, E piante d'altro odor. M'accorsi ove sta un lepre Nel cespo d'una balza, All'alito che s'alza Qual nebbia sul mattin: So come vivo prenderlo, E allora vo' donartelo: Sì potess' io far cambio Del mio col tuo destili. Un candido capretto, Che sugge latte ancora, Farò svenare allora, E cuocer tutto intier; Entro a schidon di frassino Sovra la brace a volgerlo Ci penserà Massilio Di capre condottar. Angusta botte ho piena Di vino generoso, Amabile, odoroso, E vo forarla allor: E di radice d'acero Ho due ben fatte ciotole

10 Che a nuova sete invitano Labbre già sazie ancor. Ninfa o pastore ad esse Non appressò la bocca ; S una la tua ne tocca, La prima ella sarà: Dell'altra il dono accettane; Quell una io vo serbarmela, Nè ad altri che a me proprio I labbri bagnerà. Soave condimento Daran la tua bellezza, Le grazie e la dolcezza A quanto io possa dar: E i Numi allor, che gustano In ciel l'ambrosia e il nettare, II desco e il mio tugurio Potranno invidiar. La primavera (1717: testo dall edizione del 1761) Tornasti, o Primavera, E l'erbe verdi e i fiori E i giovanili Amori Tornarono con te. E il mio felice stato, Teco una volta nato, Col dolce tuo rinascere Tornò più dolce a me. Su la nativa spina Aspetta già la rosa Che l'alba rugiadosa Tempri il suo bel color. Son nati i bei giacinti, Gli anemoni dipinti, Le mammole, i ranuncoli E ogn'altro amabil fior. Già pria dell'altre frutta Spuntò su la collina La verde mandolina Sollecita a fiorir: E la cerasa anch'ella. Che fiorì dopo quella, Già la sua veste pallida Comincia a colorir. Con queste prime fronde Con questi primi fiori. Nacque, vezzosa Dori, Il nostro fido amor: E non fu già qual fiore Che nato appena, muore;

11 Né il Sol, che lo fa' sorgere. Fé' perdergli 'l vigor. Sull'erbe già fiorite Il praticel ne aspetta Presso alla collinetta Con quella fonte al piè: Vieni; più bel riposo, Del tufo tuo muscoso Che le circonda il margine, Nel nostro suol non v é. Vedremo lungo intorno E il pallido terreno, Perchè recise in seno Le stoppie vi restar; E in seminati solchi, Speranza de' bifolchi, Della maese giovine Le foglie verdeggiar: Vedrem quai riposati Campi l'aratro fende; E il vomero che splende Sovra il lavor che fa. Se le gramigne ingrate Ucciderà la state, E più nudrita e prodiga La messe crescerà. Or dal varcato mare Appena si riposa La quaglia numerosa. Che accendesi di amor: Fiutando il can da lungo, La siepe, la raggiunge, E con la zampa in aria Fa cenno al cacciator. Udremo l'usignuolo Con l'altro che risponde All'ombra delle fronde Un bel concento far; E la prontissìm' Eco, Vigile nel suo speco, Delle lor note flebili L'estreme replicar. Dei geli dell' inverno A compensarne il danno, Ringiovenisce l anno, Torna ogni bel piacer: Ma oh quanto pochi sono. Che tal celeste dono Al par di noi conoscano, E il sappiano goder! L'ambizione, il fasto, L'avida brama avara

12 Non san che sia la cara Campestre libertà. L'error, che tanti inganna. Ha in odio umil capanna; Ama le turbe, ed abita Le reggie e le città. EUSTACHIO MANFREDI ( ) Dalle Rime (1713): Per la monacazione di Giulia Caterina Vandi (1700) Donna, ne gli occhi vostri Tanta sì chiara ardea Maravigliosa, altera luca onesta, Ch agevolmente uom ravvisar potea Quanta parte di cielo in voi si chiuda, E seco dir: Non mortal cosa è questa. Ora si manifesta Quell'eccelsa virtude Nel bel consiglio che vi guida ai chiostri. Ma perché i sensi nostri Son ciechi incontro al vero, Non lessa uman pensiero Ciò che dicean que' santi lumi accesi: Io li vidi e gl intesi Mercè dì chi innalzommi, e dirò cose Note a me solo, e al volgo ignaro ascose. Quando piacque a Natura Di far sue prove estreme Ne l'ordir di vostr'alma il casto ammanto, Ella ed Amor si consigliaro insieme. Sì come in opra di comune onore. Maravigliando pur di poter tanto. Crescea il lavoro intanto Di lor speme maggiore, E col lavoro al par crescea la cura. Fin che l alta fattura Piacque a l anima altera, La qual pronta e leggera Di mano a Dio, lui ringraziando, uscia, E raccogliea per via, Di questa spera discendendo in quella, Ciò ch' arde di più puro in ogni stella. Tosto che vide il mondo L'angelica sembianza ch' avea l' anima bella entro il bel velo, Ecco, gridò, la gloria e la speranza De l età nostra : ecco la bella immago Sì lungamente meditata in cielo.

13 E in ciò dire ogni stelo Si fea più verde e vago, E l'aer più sereno e più giocondo. Felice il suol cui 'l pondo Premea del bel piè bianco del giovenil fianco, percotea lo sfavillar de gli occhi! Ch' ivi i fior visti o tocchi Intendean lor bellezza, e che quei rai Movean più d'alto che dal sole assai. Stavasi vostra mente Vaga intanto e serena. D'alto mirando in noi la sua virtute; Vedea quanta dolcezza e quanta pena Destasse in ogni petto a lei rivolto, E udia sospiri e tronche voci e mute; E per nostra salute Crescea grazie al bel volto, Ora inchinando il chiaro sguardo ardente, Ora soavemente Rivolgendolo fiso Contro de l altrui viso. Quasi col dir: Mirate, alme, mirate In me che sia beltate. Che per guida di voi scelta son'io, E a ben seguirmi condurròvvi in Dio. Qual io mi fessi allora. Quando il leggiadro aspetto Pien di sua luce a gli occhi miei s offrio, Amor, tu l sai, che il debito intellatto Al piacer coufortando, in lei mi festi Veder ciò che vedem tu solo ed io, E additasti al cor mio In quai modi celesti Costei l'alme solleva e le innamora; Ma più d' Amore ancora Ben voi stesse il sapete, Luci beate e liete, Ch io vidi or sovra me volgendo allora Guardar vostro potere, Or di pietate in dolce atto far mostra, Senza discender da la gloria vostra. O lenta, e male avvezza In alto a spiegar l ale Umana vista! o sensi inermi e tardi! Quanto sopra del vostro esser mortale Alzar poteavi ben inteso un solo Di que' soavi ìnnamorati sguardi! Ma il gran piacer co dardi

14 Vi lece al nobil volo, Cbe avvicinar poteavi a tanta altezza ; Che né altrove bellezza Maggior sperar poteste, Follia e tra voi diceste, Quella mirando allor presente e nova : Qui di posar ne giova, Senza seguir la scorta del bel raggio, Qual chi per buon soggiorno oblia 'l viaggio. Vedete or come accesa D'alme faville e nove Costei corre a compir l alto disegno! Vedi, Amor, quanta in lei dolcezza piove, Qual si fa il Paradiso, e qual ne resta Il basso mondo, che di lei fu indegno! Vedi il beato regno Qual luogo alto le appresta, E in lei dal cielo ogni pupilla intesa Confortarla a l'impresa; Odi gli spirti casti Gridarle : Assai tardasti; Ascendi, o fra di noi tanto aspettata. Felice alma ben nata! Si volge ella a dir pur ch'altri la siegua, Poi si mesce fra i lampi e si dilegua. Canzon, se d'ardir troppo alcun ti sgrida. Digli che a te non creda. Ma venga infnché puote egli, e la veda. PIETRO METASTASIO ( ) La Primavera Scritta in Roma l'anno Già riede primavera Col suo fiorito aspetto: Già il grato zefiretto Scherza fra l'erbe e i fior. Tornan le frondi agli alberi. L'erbette al prato tornano; Sol non ritorna a me La pace del mio cor. Febo col puro raggio Su i monti il gel discioglie, E quei le verdi spoglie Veggonsi rivestir. E il fiumicel che placido Fra le sue sponde mormora Fa col disciolto umor

15 Il margine fiorir. L'orride querce annose Su le pendici alpine Già dal ramoso crine Scuotono il tardo gel. A gara i campi adornano Mille fioretti tremuli, Non violati ancor Da vomere crudel. Al caro antico nido Fin dall'egizie arene La rondinella viene Che ha valicato il mar; Che, mentre il volo accelera, Non vede il laccio pendere, E va del cacciator L'insidie ad incontrar. L'amante pastorella Già più serena in fronte Corre all'usata fonte A ricomporsi il crin. Escon le greggie ai pascoli; D'abbandonar s'affrettano, Le arene il pescator, L'albergo il pellegrin. Fin quel nocchier dolente Che sul paterno lido, Scherno del flutto infido, Naufrago ritornò, Nel rivederlo placido Lieto discioglie l'ancore, E rammentar non sa L'orror che in lui trovò. E tu non curi intanto, Fille, di darmi aita, Come la mia ferita Colpa non sia di te. Ma se ritorno libero Gli antichi lacci a sciogliere, No che non stringerò Più fra catene il piè. Del tuo bel nome amato, Cinto del verde alloro, Spesso le corde d'oro Ho fatto risonar. Or, se mi sei più rigida, Vo' che i miei sdegni apprendano Del fido mio servir Gli oltraggi a vendicar. Ah no; ben mio, perdona Questi sdegnosi accenti, Ché sono i miei lamenti

16 Segni d'un vero amor. S'è tuo piacer, gradiscimi; Se così vuoi, disprezzami: O pietosa, o crudel, Sei l'alma del mio cor. Dalle Rime I Scrivendo l'autore in Vienna l'anno 1733 la sua Olimpiade, si sentì commosso fino alle lacrime nell'esprimere la divisione di due teneri amici: e meravigliandosi che un falso e da lui inventato disastro potesse cagionargli una sì vera passione, si fece a riflettere quanto poco ragionevole e solido fondamento possano aver le altre, che soglion frequentemente agitarci nel corso di nostra vita. Sogni e favole io fingo; e pure in carte Mentre favole e sogni orno e disegno, In lor, folle ch'io son, prendo tal parte, Che del mal che inventai piango e mi sdegno. Ma forse, allor che non m'inganna l'arte, Più saggio io sono? È l'agitato ingegno Forse allor più tranquillo? O forse parte Da più salda cagion l'amor, lo sdegno? Ah che non sol quelle ch'io canto o scrivo Favole son: ma quanto temo o spero, Tutto è menzogna, e delirando io vivo! Sogno della mia vita è il corso intero. Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo, Fa ch'io trovi riposo in sen del Vero! Didone abbandonata. Argomento Didone vedova di Sicheo, uccisole il marito da Pigmalione, re di Tiro, di lei fratello, fuggì con ampie ricchezze in Africa, dove edificò Cartagine. Fu ivi richiesta in moglie da molti, e soprattutto da Iarba, re de' Mori, e ricusò sempre per serbar fede alle ceneri dell'estinto consorte. Intanto portato Enea da una tempesta alle sponde dell'africa, fu ricevuto e ristorato da Didone, la quale ardentemente se ne invaghì. Mentr'egli, compiacendosi di tale affetto, si trattenea presso lei, gli fu dagli dei comandato che proseguisse il suo cammino verso Italia, dove gli promettevano una nuova Troia. Partì Enea, e Didone disperatamente si uccise. Tutto ciò si ha da Virgilio, il quale con un felice anacronismo unisce il tempo della fondazion di Cartagine agli errori di Enea. Ovidio, lib. III de' Fasti, dice che Iarba s'impadronisse di Cartagine dopo la morte di Didone; e che Anna di lei sorella (che sarà da noi chiamata Selene) fosse anch'essa occultamente invaghita d'enea. Per comodo della scena si finge che Iarba, curioso di veder Didone, s'introduca in Cartagine come ambasciadore di se stesso, sotto nome d'arbace. L Olimpiade. Argomento

17 Nacquero a Clistene, re di Sicione, due figliuoli gemelli, Filinto ed Aristea: ma, avvertito dall'oracolo di Delfo del pericolo ch'ei correrebbe d'esser ucciso dal proprio figlio, per consiglio del medesimo oracolo fece esporre il primo e conservò la seconda. Cresciuta questa in età ed in bellezza, fu amata da Megacle, nobile e valoroso giovane ateniese, più volte vincitore ne' giuochi olimpici. Questi, non potendo ottenerla dal padre, a cui era odioso il nome ateniese, va disperato in Creta. Quivi assalito, e quasi oppresso da masnadieri, è conservato in vita da Licida creduto figlio del re dell'isola; onde contrae tenera e indissolubile amistà col suo liberatore. Avea Licida lungamente amata Argene, nobil dama cretense, e promessale occultamente fede di sposo. Ma, scoperto il suo amore, il re, risoluto di non permettere queste nozze ineguali, perseguitò di tal sorte la sventurata Argene, che si vide costretta ad abbandonar la patria e fuggirsene sconosciuta nelle campagne d'elide, dove sotto nome di Licori ed in abito di pastorella visse nascosta a' risentimenti de' suoi congiunti ed alle violenze del suo sovrano. Rimase Licida inconsolabile per la fuga della sua Argene; e dopo qualche tempo, per distrarsi dalla mestizia, risolse di portarsi in Elide e trovarsi presente alla solennità de' giuochi olimpici, ch'ivi, col concorso di tutta la Grecia, dopo ogni quarto anno si ripetevano. Andovvi lasciando Megacle in Creta, e trovò che il re Clistene, eletto a presiedere a' giuochi suddetti, e perciò condottosi da Sicione in Elide, proponeva la propria figlia Aristea in premio al vincitore. La vide Licida, l'ammirò, ed, obbliate le sventure de' suoi primi amori, ardentemente se n'invaghì; ma disperando di poter conquistarla, per non esser egli punto addestrato agli atletici esercizi, di cui dovea farsi pruova ne' detti giuochi, immaginò come supplire con l'artifizio al difetto dell'esperienza. Gli sovvenne che l'amico era stato più volte vincitore in somiglianti contese; e (nulla sapendo degli antichi amori di Megacle con Aristea) risolse di valersi di lui, facendolo combattere sotto il finto nome di Licida. Venne dunque anche Megacle in Elide alle violenti istanze dell'amico; ma fu così tardo il suo arrivo, che già l'impaziente Licida ne disperava. Da questo punto prende il suo principio la rappresentazione del presente drammatico componimento. Il termine o sia la principale azione di esso è il ritrovamento di quel Filinto, per le minacce degli oracoli fatto esporre bambino dal proprio padre Clistene; ed a questo termine insensibilmente conducono le amorose smanie di Aristea, l'eroica amicizia di Megacle, l'incostanza ed i furori di Licida e la generosa pietà della fedelissima Argene. HEROD. PAUS. NAT. COM. ec. GIUSEPPE PARINI ( ) La primavera La vaga Primavera Ecco che a noi sen viene; E sparge le serene Aure di molli odori. L'erbe novelle e i fiori Ornano il colle e il prato. Torna a veder l'amato Nido la rondinella. E torna la sorella Di lei a i pianti gravi: E tornano a i soavi Baci le tortorelle. Escon le pecorelle Del lor soggiorno odioso; E cercan l'odoroso Timo di balza in balza. La pastorella scalza Ne vien con esse a paro;

18 Ne vien cantando il caro Nome del suo pastore. Ed ei, seguendo Amore, Volge ove il canto sente; E coglie la innocente Ninfa sul fresco rio. Oggi del suo desìo Amore infiamma il mondo: Amore il suo giocondo Senso a le cose inspira. Sola il dolor non mira Clori del suo fedele: E sol quella crudele Anima non sospira. Dalle Odi: La Caduta Quando Orion dal cielo Declinando imperversa; E pioggia e nevi e gelo Sopra la terra ottenebrata versa, Me spinto ne la iniqua Stagione, infermo il piede, Tra il fango e tra l'obliqua Furia de' carri la città gir vede; E per avverso sasso Mal fra gli altri sorgente, O per lubrico passo Lungo il cammino stramazzar sovente. Ride il fanciullo; e gli occhi Tosto gonfia commosso, Che il cubito o i ginocchi Me scorge o il mento dal cader percosso. Altri accorre; e: oh infelice E di men crudo fato Degno vate! mi dice; E seguendo il parlar, cinge il mio lato Con la pietosa mano; E di terra mi toglie; E il cappel lordo e il vano Baston dispersi ne la via raccoglie: Te ricca di comune Censo la patria loda; Te sublime, te immune Cigno da tempo che il tuo nome roda Chiama gridando intorno; E te molesta incìta Di poner fine al Giorno, Per cui cercato a lo stranier ti addita. Ed ecco il debil fianco Per anni e per natura

19 Vai nel suolo pur anco Fra il danno strascinando e la paura: Nè il sì lodato verso Vile cocchio ti appresta, Che te salvi a traverso De' trivii dal furor de la tempesta. Sdegnosa anima! prendi Prendi novo consiglio, Se il già canuto intendi Capo sottrarre a più fatal periglio. Congiunti tu non hai, Non amiche, non ville, Che te far possan mai Nell'urna del favor preporre a mille. Dunque per l'erte scale Arrampica qual puoi; E fa gli atrj e le sale Ogni giorno ulular de' pianti tuoi. O non cessar di porte Fra lo stuol de' clienti, Abbracciando le porte De gl'imi, che comandano ai potenti; E lor mercè penètra Ne' recessi de' grandi; E sopra la lor tetra Noja le facezie e le novelle spandi. O, se tu sai, più astuto I cupi sentier trova Colà dove nel muto Aere il destin de' popoli si cova; E fingendo nova esca Al pubblico guadagno, L'onda sommovi, e pesca Insidioso nel turbato stagno. Ma chi giammai potrìa Guarir tua mente illusa, O trar per altra via Te ostinato amator de la tua Musa? Lasciala: o, pari a vile Mima, il pudore insulti, Dilettando scurrile I bassi genj dietro al fasto occulti. Mia bile, al fin costretta Già troppo, dal profondo Petto rompendo, getta Impetuosa gli argini; e rispondo: Chi sei tu, che sostenti A me questo vetusto Pondo, e l'animo tenti Prostrarmi a terra? Umano sei, non giusto. Buon cittadino, al segno Dove natura e i primi

20 Casi ordinàr, lo ingegno Guida così, che lui la patria estimi. Quando poi d'età carco Il bisogno lo stringe, Chiede opportuno e parco Con fronte liberal, che l'alma pinge. E se i duri mortali A lui voltano il tergo, Ei si fa, contro ai mali, Della costanza sua scudo ed usbergo. Nè si abbassa per duolo, Nè s'alza per orgoglio. E ciò dicendo, solo Lascio il mio appoggio; e bieco indi mi toglio. Così, grato ai soccorsi, Ho il consiglio a dispetto; E privo di rimorsi, Col dubitante piè torno al mio tetto. Per l'inclita Nice Quando novelle a chiedere Manda l'inclita Nice Del piè, che me costrignere Suole al letto infelice, Sento repente l'intimo Petto agitarsi del bel nome al suon. Rapido il sangue fluttua Ne le mie vene: invade Acre calor le trepide Fibre: m'arrosso: cade La voce: ed al rispondere Util pensiero in van cerco e sermon. Ride, cred'io, partendosi Il messo. E allor soletto Tutta vegg'io, con l'animo Pien di novo diletto, Tutta di lei la immagine Dentro a la calda fantasìa venir. Ed ecco ed ecco sorgere Le delicate forme Sovra il bel fianco; e mobili Scender con lucid'orme, Che mal può la dovizia Dell'ondeggiante al piè veste coprir. Ecco spiegarsi e l'omero E le braccia orgogliose, Cui di rugiada nudrono Freschi ligustri e rose, E il bruno sottilissimo Crine, che sovra lor volando va:

21 E quasi molle cumulo Crescer di neve alpina La man, che ne le floride Dita lieve declina, Cara de' baci invidia, Che riverenza contener poi sa. Ben puoi ben puoi tu rigido Di bel pudor costume, Che vano ami dell'avide Luci render l'acume, Altre involar delizie, Immenso intorno a lor volgendo vel: Ma non celar la grazia Nè il vezzo, che circonda Il volto affatto simile A quel de la gioconda Ebe, che nobil premio Al magnanimo Alcide è data in ciel. Nè il guardo, che dissimula Quanto in altrui prevale; E volto poi con subito Impeto i cori assale, Qual Parto sagittario, Che più certi fuggendo i colpi ottien. Nè i labbri or dolce tumidi Or dolce in sè ristretti, A cui gelosi temono Gli Amori pargoletti Non omai tutto a suggere Doni Venere madre il suo bel sen: I labbri, onde il sorridere Gratissimo balena, Onde l'eletto e nitido Parlar, che l'alme affrena, Cade, come di limpide Acque lungo il pendìo lene rumor; Seco portando e i fulgidi Sensi ora lieti or gravi, E i geniali studii E i costumi soavi; Onde salir può nobile Chi ben d'ampia fortuna usa il favor. Ahi, la vivace immagine Tanto pareggia il vero, Che, del piè leso immemore, L'opra del mio pensiero Seguir già tento; e l'aria Con la delusa man cercando vo. Sciocco vulgo a che mormori, A che su per le infeste Dita ridendo noveri Quante volte il celeste

22 A visitare Ariete Dopo il natal mio dì Febo tornò? A me disse il mio Genio Allor ch'io nacqui: L'oro Non fia che te solleciti, Nè l'inane decoro De' titoli, nè il perfido Desìo di superare altri in poter. Ma di natura i liberi Doni ed affetti, e il grato De la beltà spettacolo Te renderan beato Te di vagare indocile Per lungo di speranze arduo sentier. Inclita Nice. Il secolo, Che di te s'orna e splende, Arde già gli assi. L'ultimo Lustro già tocca, e scende Ad incontrar le tenebre, Onde una volta pargoletto uscì: E già vicino ai limiti Del tempo i piedi e l'ali Provan tra lor le vergini Ore, che a noi mortali Già di guidar sospirano Del secol, che matura il primo dì. Ei te vedrà nel nascere Fresca e leggiadra ancora Pur di recenti grazie Gareggiar con l'aurora; E di mirarti cupido De' tuoi begli anni farà lento il vol. Ma io, forse già polvere, Che senso altro non serba Fuor che di te, giacendomi Fra le pie zolle e l'erba, Attenderò chi dicami Vale passando, e ti sia lieve il suol. Deh alcun, che te nell'aureo Cocchio trascorrer veggia Su la via, che fra gli alberi Suburbana verdeggia, Faccia a me intorno l'aere Modulato del tuo nome volar. Colpito allor da brivido Religioso il core, Fermerà il passo; e attonito Udrà del tuo cantore Le commosse reliquie Sotto la terra argute sibilar.

23 Da Il giorno (Il mezzogiorno, vv ) Tal ei parla o signor: ma sorge in tanto A quel pietoso favellar da gli occhi De la tua dama dolce lagrimetta Pari a le stille tremule brillanti, Che a la nova stagion gemendo vanno Da i palmiti di Bacco entro commossi Al tiepido spirar de le prim'aure Fecondatrici. Or le sovvien del giorno, Ahi fero giorno! allor che la sua bella Vergine cuccia de le Grazie alunna, Giovanilmente vezzeggiando, il piede Villan del servo con gli eburnei denti Segnò di lieve nota: e questi audace Col sacrilego piè lanciolla: ed ella Tre volte rotolò; tre volte scosse Lo scompigliato pelo, e da le vaghe Nari soffiò la polvere rodente: Indi i gemiti alzando, aita aita Parea dicesse; e da le aurate volte A lei la impietosita eco rispose; E dall'infime chiostre i mesti servi Asceser tutti; e da le somme stanze Le damigelle pallide tremanti Precipitàro. Accorse ognuno: il volto Fu d'essenze spruzzato a la tua dama: Ella rinvenne al fine. Ira e dolore L'agitavano ancor: fulminei sguardi Gettò sul servo; e con languida voce Chiamò tre volte la sua cuccia: e questa Al sen le corse; in suo tenor vendetta Chieder sembrolle: e tu vendetta avesti Vergine cuccia de le Grazie alunna. L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo Udì la sua condanna. A lui non valse Merito quadrilustre: a lui non valse Zelo d'arcani ufici. Ei nudo andonne De le assise spogliato onde pur dianzi Era insigne a la plebe: e in van novello Signor sperò; chè le pietose dame Inorridìro; e del misfatto atroce Odiàr l'autore. Il perfido si giacque Con la squallida prole e con la nuda Consorte a lato su la via spargendo Al passeggero inutili lamenti: E tu vergine cuccia idol placato Da le vittime umane isti superba. LORENZO MASCHERONI ( )

24 Dall Invito a Lesbia Cidonia (1793): vv. 1-26, 57-79, Perché con voce di soavi carmi Ti chiama a l'alta Roma inclito Cigno, Spargerai tu d'oblio dolce promessa, Onde allegrassi la minor Pavia? Pur lambe sponda memore d'impero, Benché del fasto de' trionfì ignuda, Di Longobardo onor pago il Tesino: E le sue verdi, o Lesbia, amene rive Non piacquer poi quanl'altre al tuo Petrarca? Qui l'accoglie gentil l'alto Visconte Nel turrito palagio, e qui perenne Sta la memoria d'un suo caro pegno. Te qui Pallade chiama, e te le Muse, E l'eco che ripete il tuo beli'inno Per la rapita a noi, data alla Dora, Come più volte Amor, bionda donzella. Troppo altra volta rapida seguendo Il tuo gran cor, che l'opere de l'arte A contemplar ne la città di Giano, E a Firenze bellissima ti trasse, Di leggier orma questo insegnasti. Ma fra queste cadenti antiche torri guidate, il sai, da la Cesarea mano L'attiche discipline, e di molt'oro Sparse ed altere di famosi nomi Parlano un suon, che attenta Europa ascolta. [ ] Quanto nell'alpe e nelle aeree rupi Natura metallifera nasconde; Quanto respira in aria, e quanto in terra E quanto guizza negli acquosi regni Ti fia schierato all'occhio: in ricchi scrigni Con avveduta man l'ordin dispose Di tre regni le spoglie. Imita il ferro Crisoliti e rubin; sprizza dal sasso Il liquido mercurio; arde funesto L'arsenico; traluce ai sguardi avari Dalla sabbia nativa il pallid'oro. Ché se ami più dell'eritrea marina Le tornite conchiglie, inclita Ninfa, Di che vivi color, di quante forme Trassele il bruno pescator dall'onda! L'aurora forse le spruzzò di misti Raggi, e godé talora andar toccando Con la rosata man le cave spire. Una del collo tuo le perle in seno Educò verginella; all'altra il labbro Della sanguigna porpora ministro Splende; di questa la rugosa scorza Stette con l'or sulla bilancia, e vinse.

25 [ ] Chi è costui che d' alti pensier pieno Tanta filosofia porta nel volto? È il divin Galileo, che primo infranse L idolo antico, e con periglio trasse A la nativa libertà le menti: Novi occhi pose in fronte a l uomo. Giove Cinse di stelle; e fatta accusa al Sole Di corruttibil tempra, il locò poi, Alto compenso, sopra immobil trono. L'altro che sorge a lui rimpetto, in vesta Umil ravvolto, e con dimessa fronte, È Cavalier, che d infiniti campi Fece a la taciturna Algebra dono. O sommi lumi de i' Italia! il culto Gradite de l'orobia pastorella Ch'entra fra voi, che le vivaci fronde Spicca dal crine, e al vostro piè le sparge. In questa a miglior genj aperta luce Il linguaggio del ver Fisica parla. All Italia Bell' Italia, alza la fronte, Or si cangia il tuo destino; Il tuo figlio è già vicino, Che dall'africa volò. Idol caro ad ogni ciglio Nell' attonita Parigi Si sovvenne esserti figlio, Di te subito parlò. Sulla spada insuperabile Il ritorno avea giurato, Se t' avesse iniquo fato Ricondotta in schiavitù. Dato a te l'addio d' un padre, Verso il Nil mosse le squadre. Senza arcano alto consiglio La grand' opera non fu. Bonaparte dentro il vano Delle barbare piramidi All' incurvo munsulmano Ragionò di libertà. Le tre fascie in seno ai venti Errar libere si videro Sui pesanti monumenti Dell' oppressa umanità. Col favor dalla fortuna Là dov' ebbero la cuna Sotto l'ombra del suo alloro L' arti belle ei richiamò.

26 D' una dotta eletta schiera, Bonaparte uno tra loro, Fece ricca, fece altera La colonia che fondò. Ahi! che intanto Italia bella, Corser gonfj ne'tuoi piani I torrenti oltramontani II tuo viso a sfigurar. Chi per te moriva in guerra Già gridando Bonaparte! E chiedendo Bonaparte Tu correvi in riva al mar. L' asta sua su l'afre arene Il terror, la fuga ha sparsa : Oggi in Francia è ricomparsa, Bell' Italia, ancor per te. Sotto il lucido diadema Si rannuvolan le fronti Dei lontani Rodomonti, E de' tuoi piccoli re. Bell' Italia, antico nido Di grandezza, e di valor, Oggi abbietta, e senza grido, Oggi preda del furor, Bell' Italia, alza la fronte, Sarai ricca e grande ancor. VITTORIO ALFIERI ( ) Sublime specchio di veraci detti (Rime, 178) Sublime specchio di veraci detti, mostrami in corpo e in anima qual sono: capelli, or radi in fronte, e rossi pretti; lunga statura, e capo a terra prono; sottil persona in su due stinchi schietti; bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono; giusto naso, bel labro, e denti eletti; pallido in volto, più che un re sul trono: or duro, acerbo, ora pieghevol, mite; irato sempre, e non maligno mai; la mente e il cor meco in perpetua lite: per lo più mesto, e talor lieto assai, or stimandomi Achille, ed or Tersite: uom, se tu grande, o vil? Muori, e il saprai. Tacito orror di solitaria selva (Rime, 173)

27 Tacito orror di solitaria selva di sì dolce tristezza il cor mi bea, che in essa al par di me non si ricera tra' i figli suoi nessuna orrida belva. E quanto addentro più il mio piè s'inselva, tanto più calma e gioia in me si crea; onde membrando com'io la godea, spesso mia mente poscia s'inselva. Non ch'io gli uomini abborra, e che in me stesso mende non vegga, e più che in altri assai; nè ch'io mi al buon sentier più appresso; ma non mi piacque il vil secol mai: e dal pesante regal giogo oppresso, sol nei deserti tacciono i miei guai. O cameretta, che già in te chiudesti (Rime, 58) O cameretta, che già in te chiudesti Quel grande, alla cui fama angusto è il mondo; Quel si gentil d amor mastro profondo, Per cui Laura ebbe in terra onor celesti : O di pensier soavemente mesti Solitario ricovero giocondo; Di qual lagrime amare il petto inondo. Nel veder ch oggi inonorata resti! Prezioso diaspro, agata, ed oro Foran debito fregio, e appena degno Di rivestir sì nobile tesoro. Ma no: tomba fregiar d uom ch ebbe regno Vuolsi, e por gemme ove disdice alloro: Qui basta il nome di quel divo ingegno GIOVANNI FANTONI (LABINDO) ( ) A Venere (1782) Diva dal cieco figlio, Speme e timor di verginelle tenere, Volgi al tuo vate il ciglio Dai serragli di Menfi, egioca Venere. Se l'are tue fumarono Per me d'incenso, se le losche cetere Il tuo gran nome osarono

28 Seguendo i carmi miei spingere all'etere ; Licori dal volubile Cuore flagella col severo braccio, E annoda indissolubile Quell'anima proterva in aureo laccio. Tentai sprezzar l'instabile Tiranna e l'empia mia catena frangere: Sedeva inesorabile Su quel volto il destin che mi fa piangere. In me di strali gravido Tutto vuotò il turcasso Amor terribile; Né vuol che più l'impavido Canti duce del mar Rodney invincibile, Ma un sen di latte tumido Su cui tra i fiori azzurro vel s'intreccia. Due negre ciglia, un umido Labbro di rose ed una bionda treccia. IPPOLITO PINDEMONTE ( ) A Venere (traduzione da Saffo) Venere eterna, in variopinto soglio, Di Giove fìglia, artefice d'inganni, O Augusta, il cor deh tu mi serba spoglio Di noje e affanni. E traggi or quà, se mai pietosa un giorno, Tutto a' miei prieghi il favor tuo donato, Dal paterno venisti almo soggiorno, Al cocchio aurato Giugnendo il giogo. I passer lievi, belli Te guidavano intorno al fosco suolo Battendo i vanni spesseggianti, snelli Tra l'aria e il polo, Ma giunser ratti: tu di riso ornata Poi la faccia immortal, qual soffra assalto Di guai mi chiedi, e perchè te, beata, Chiami io dall'alto. Qual cosa io voglio più che fatta sia Al forsennato mio core, qual caggìa Novello amor ne' miei lacci: chi, o mia Saffo, ti oltraggia?

29 S'ei fugge, ben ti seguirà tra poco, Doni farà, s'egli or ricusa i tuoi, E s'ei non t'ama, il vedrai tosto in foco, Se ancor nol vuoi. Vienne pur ora, e sciogli a me la vita 25 D'ogni aspra cura, e quanto io ti domando Che a me compiuto sia compj, e m'aita meco pugnando. La sera (da Le quattro parti del giorno) I. Immagine di questa umana vita, Che siccome al suo fin piú s avvicina, Piú del cammin par correre spedita Quel resto, che dal Ciel le si destina, È il Sol, quando con bella dipartita, Ch è ritorno ad altrui, ratto declina, E tinge il muro del ritiro mio D un roseo raggio, che par dirmi: Addio. II. Dalla sua grotta in sen d'atra foresta, Ove condusse il dí chiuso e lontano, Esce il Silenzio, e della grave testa Ai suoi ministri accenna, e della mano Onde subito il cocchio a lui s'appresta, Sul qual benché qua e là discorra il piano, Pur né di calpestio mai, né di ruote, Né di sferza romor l'aura percuote. III. Ma tanto ancora ei dominar non pare, Che non susurro alcun fera gli orecchi. E or pur la villanella a quelle chiare Fonti, che sul mattin le furo specchi, Per attigner s'affretta, e al cigolare Cantando va degli ondeggianti secchi: Mentre forse da un lato è chi la mira, E dal ruvido cor su lei sospira. IV. Dalla capanna in ruote bianche ed adre, Dolce al villan richiamo, il fumo ascende, Dalla capanna, ove solerte madre A preparar la parca cena intende: Mentre il fanciullo corre incontro, e al padre La faccia innalza, e le ginocchia prende, E arcani amor va balbettando: stanco Quel piú non sente e travagliato il fianco. V. E il figlio in alto leva, ed entro viene; E il minor fratellin tolto, ed assiso, L'un sul ginocchio, e in braccio l'altro tiene,

30 Di cui la mano scherzagli sul viso; La madre ora al bollir dell'olle piene, Ed ora a quei tre cari ha l'occhio fiso; E già la mensa lor fuma, non senza I due sali miglior, fame e innocenza. VI. O bella Sera, amabil Dea fra mille, Che non suonano i miei versi piú dolce, E il gentile tuo viso, e le pupille, Onde melanconia spira sí dolce, E il crin, che ambrosia piove a larghe stille, E quel, che l'aure rinfrescando molce, Respiro della tua bocca rosata, Che non ho per lodar voce piú grata? VII. Ma o sia che rompa d'improvviso un nembo, Che a te spruzzi il bel crin, la Primavera, O il sen nuda, e alla veste alzando il lembo L'Estate incontro a te mova leggiera, O che Autunno di foglie il casto grembo Goda a te ricolmar, te, dolce Sera, Canterò pur; s'io mai potessi l'ora Tanto o quanto allungar di tua dimora. VIII. Già torna a casa il cacciator vagante. Ah sí crudo piacer me non invita, L'innocente a mirar pinto volante Cader dall'alto, e in ciel lasciar la vita, O a sentirlo non morto e palpitante Tra le mie calde e sanguinose dita. Piú mi piace, campestre cavaliero Sul mio bruno vagar ratto destriero. IX. Vien dalla stalla; ei rode il ferreo morso, E trema impaziente in ogni vena: Mille de' passi suoi prima del corso Perde, e in cor batte la lontana arena. Vedelo poi volar con me sul dorso Fanciulla, che dell'occhio il segue appena, Vede sotto ai suoi piè la bianca polve, Che s'alza a globi, e la via tutta involve. X. E talor gioverà per vie novelle Porlo, e piagge tentar non tocche avanti; Perdermi volontario, e di donzelle Smarrite in bosco, e di guerrieri erranti I lunghi casi e le vicende belle Volger nell'alma, e sognar larve e incanti: Poi, riuscendo al noto calle e trito, Goder del nuovo discoperto sito. XI. Ma già il Sole a mirar non resta loco,

31 Che in quelle nubi, a cui l'instabil seno Splende di fuggitiva ambra e d'un foco, Che al torcer sol d'un guardo mio vien meno. Par che il colle s'abbassi; e a poco a poco Fugge da sotto all'occhio ogni terreno: Già manca, già la bella scena verde Entro a grand'ombra si ritira e perde. XII. Oh cosí dolcemente della fossa Nel tacito calar sen tenebroso, E a poco a poco ir terminando io possa Questo viaggio uman caro, e affannoso. Ma il dí, che or parte, riederà: quest'ossa Io piú non alzerò dal lor riposo; Né il prato, e la gentil sua varia prole Rivedrò piú, né il dolce addio del Sole. XIII. Forse per questi ameni colli un giorno Moverà Spirto amico il tardo passo, E chiedendo di me, del mio soggiorno, Sol gli fia mostro senza nome un sasso Sotto quell'elce, a cui sovente or torno Per dar ristoro al fianco errante e lasso, Or pensoso ed immobile qual pietra, Ed or voci febée vibrando all'etra. XIV. Mi coprirà quella stess'ombra morto, L'ombra, mentr'io vivea, sí dolce avuta, E l'erba, del miei lumi ora conforto, Allor sul capo mi sarà cresciuta. Felice te, dirà fors'ei, che scorto Per una strada, è ver, solinga e muta, Ma donde in altro suol meglio si varca, Giungesti quasi ad ingannar la Parca. XV. L'alme stolte nodrir non aman punto Il pensier della loro ultima sorte, E che solo ogni dí morendo appunto Può fuggirsi il morir, non fansi accorte. Cosí divien come invisibil punto Il confin della vita e della morte; Onde insieme compor quasi n'è dato Di questo, e del venturo un solo stato. VINCENZO MONTI ( ) Dai Pensieri d amore (1783) VIII. Alta è la notte, ed in profonda calma dorme il mondo sepolto, e in un con esso par la procella del mio cor sopita.

Attimi d amore. Scende come la pioggia un petalo di rose e quando ti vedo perdo la testa per te mia cara ragazza

Attimi d amore. Scende come la pioggia un petalo di rose e quando ti vedo perdo la testa per te mia cara ragazza Attimi d amore Scende come la pioggia un petalo di rose e quando ti vedo perdo la testa per te mia cara ragazza Distesa davanti alla collina Occhi verdi come il prato distesa e non pensi a nulla. Ricordo

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