DON VINCENZO RACCONTA

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1 DON VINCENZO RACCONTA Storie di guerra e di famiglia di Vincenzo Barbato a cura di Giancarlo Toràn Proprietà letteraria riservata Copyright 2005 by Famiglia Barbato

2 Prefazione Le storie qui raccontate sono state raccolte dalla viva voce del protagonista, Vincenzo Barbato, e poi riordinate e arricchite di particolari importanti, grazie anche al lavoro dei familiari. Iniziano con la chiamata di leva, il trasferimento a Taranto e in vari altri porti italiani, e poi a Lero, isola greca molto vicina alle coste turche. Episodi divertenti o drammatici si susseguono, fino al culmine dell'affondamento della nave su cui era imbarcato, la Ugolino Vivaldi. Poi, il salvataggio, la prigionia, il periodo romano, con la liberazione, e il ritorno a casa. Ce n'è quanto basta per rivivere, come per molti anni ha fatto la famiglia Barbato, tanti momenti della storia patria, e quella personale di un uomo che è rimasto profondamente segnato da quegli episodi. Da parte mia, oltre al lavoro di sintesi, ho messo qualche nota storica, con parsimonia, qua e là, per aiutare il lettore ad inquadrare storicamente gli avvenimenti. Completano questo lavoro foto e dati tratti da Internet, qualche notizia sulla famiglia, e una postfazione che racconta com'è nata l'idea del libro che avete fra le mani. Buona lettura! Il libro è tutto per mio suocero, don Vincenzo. Sarà contento, spero, se qui gli rubo uno spazio piccolino, per dedicarlo a sua figlia Anna, mia amatissima moglie: mi ha stimolato in ogni modo perché lo completassi al più presto, per esaudire un desiderio, che era anche il suo. 3

3 Introduzione Don Vincenzo - consentitemi di chiamare mio suocero, anche qui, come sono abituato a fare - partì per il servizio militare nei primi mesi del La seconda guerra mondiale era già iniziata, nel 1939, con l invasione della Polonia da parte della Germania nazista: ma l Italia, per prudenza e opportunismo, aspettò alquanto prima di schierarsi a fianco dei suoi alleati, che furono Germania e Giappone, nei primi anni. I successi iniziali dell esercito tedesco, e la preoccupazione di Mussolini di trovarsi escluso dai benefici di una probabile vittoria, spinsero quest ultimo ad entrare in guerra, ufficialmente, il 10 giugno del 1940, malgrado la palese impreparazione dell esercito italiano. Migliore, senz altro, era la condizione della Marina, che poteva contare su una flotta ragguardevole che, però, non fu utilizzata al meglio. Insuccessi e perdite furono attribuiti, da taluni, a conflitti interni o a veri e propri tradimenti, perpetrati al fine di accelerare la caduta del regime. assegnato al distaccamento della Marina Militare, dal 10 maggio al 15 luglio del 43. S imbarca, quindi, sulla Ugolino Vivaldi, sino all affondamento della nave, il 9 settembre 1943, presso le Bocche di Bonifacio. Portato in salvo ad Arles, il 12 settembre, vi rimane sino al 12 dicembre, quando si mette in viaggio per Roma, dove arriverà il 15 dello stesso mese. Vi si fermerà fino al 5 di giugno del 44, il giorno dopo l arrivo degli americani, quando si metterà in viaggio per tornare a casa, ad Acerra... Possiamo dividere le storie qui raccontate in vari periodi. Il primo va dall inizio del servizio di leva alla prima destinazione sul teatro delle operazioni, a Lero: dal 14 febbraio 1940 al 21 gennaio Inizia poi il periodo nell Egeo, che si può dividere in due parti: dal 21 gennaio 1941 al 29 marzo 1942, in cui Vincenzo Barbato era di servizio a Portolago, sull isola di Lero, e partecipò agli sbarchi nelle isole Cicladi; e dal 30 marzo 1942 al 9 maggio 1943, in cui fu imbarcato sulla petroliera Cerere, con frequenti viaggi fra Creta, Salonicco, Patrasso e il Pireo, oltre che Lero. In seguito, don Vincenzo va a Napoli, prima in licenza, e poi 4 5

4 La partenza per il servizio militare Taranto Partii per il servizio militare il 14 febbraio del Avevo appena compiuto i venti anni. Mi presentai alla Capitaneria di porto di Napoli, e mi destinarono a Taranto, con partenza immediata. Alle cinque del mattino dopo partii dalla stazione di piazza Garibaldi, insieme ad una ventina di altre reclute. Giunti a Taranto, ci fecero salire su un pullman e ci portarono a Maridepo, il distaccamento della Marina Militare, dove, appena giunti, dovemmo fare la doccia e sottoporci a visita medica, per una verifica dello stato di salute: ottima, nel mio caso. Poi, dopo la consegna del vestiario d'ordinanza, fummo trasferiti a varie destinazioni. Ero specializzato come operaio tornitore meccanico, e perciò mi assegnarono alla base navale di Taranto, sulla nave Buttafuoco, dove alloggiai per diversi giorni, mentre frequentavo un corso di specializzazione, in Arsenale: conobbi così tutte le armi in dotazione alla Regia Marina Militare, come mitraglie, siluri, cannoni e proiettili di varie dimensioni. La Spezia In questa cartina si possono trovare tutte le località greche citate successivamente nel testo: Lero, Nio, Amorgo, Sira, Samo, Atene e il Pireo, Patrasso, Salonicco, Creta. Al termine, ebbi la prima vera destinazione, che allora immaginavo definitiva: il giorno 11 marzo del 1940 partii da Taranto per andare al Maridepo Varignano di La Spezia, dove fui distaccato alla sala d'armi, addetto alla collaborazione col capo cannoniere. Questa sala conteneva armi e munizioni, per rifornire tutte le batterie costiere della Liguria. Al Varignano alloggiavano 6 7

5 anche i marinai che frequentavano il corso di radiotelegrafista, che due volte la settimana venivano a addestrarsi al tiro con la mitraglia, ed a conoscere le altre armi. Di tanto in tanto, consegnavo loro i caricatori con qualche proiettile in meno, e nessuno si accorgeva di nulla. Utilizzavo, poi, quando ero solo, i proiettili avanzati, per esercitarmi anch'io, e in breve tempo divenni bravissimo: tanto che affidavano spesso a me il compito di far brillare le mine, con precisi colpi di mitraglia. Di nuovo a Taranto, poi Brindisi, Gaeta, e partenza per Lero Il 21 ottobre 1940 fummo di nuovo destinati al Maridepo di Taranto, in attesa della partenza per oltremare. L'Italia era entrata ufficialmente in guerra. Attendemmo lì per 43 giorni, poi fummo trasferiti al Maridist di Brindisi, per 37 giorni, poi a Gaeta, per 9 giorni, e intanto ci esercitavamo all'uso delle armi in dotazione e alla loro costante manutenzione, oltre a mantenere in efficienza la nave. Nella serata del nono giorno sapemmo che di lì a poco si sarebbe ancorata nel porto una nave di nome Calino, con il compito di prelevarci e portarci verso una destinazione segreta. Così avvenne, e non appena la nave si ancorò, raccogliemmo rapidamente le nostre cose e c'imbarcammo, senza fare domande. Partimmo senza attendere l'alba, per guadagnare il largo al più presto, in quella notte senza luna. Mentre ci allontanavamo dalla costa, e guardavo le flebili luci della città, tornai col pensiero al mio paese natio, alla mia famiglia, ai miei campi a quella ragazzina che, appena adolescente, già aveva rubato il mio cuore, Mariuccia: chissà se l'avrei più rivista! Nei giorni seguenti ebbi conferma della segretezza della nostra meta, perché navigammo solo di notte, mentre di giorno ci riparavamo nelle strette insenature delle isole che erano sulla nostra rotta. All'alba del quarto giorno di navigazione ci preoccupammo sentendo il rombo degli aerei: ma poi ci tranquillizzammo nel sapere che erano i caccia italiani, che dovevano scortarci fino a destinazione, e ci segnalarono che potevamo navigare senza preoccupazioni. Raggiungemmo tranquillamente, nella serata, l'isola di Lero, nell'egeo. Approdammo nella zona di Portolago, e con nostra sorpresa fummo accolti dagli isolani con saluti e applausi: la Calino era la prima nave che raggiungeva il porto, e con essa viveri e medicinali, dall'inizio del conflitto, perché il Mediterraneo era costantemente sorvegliato dai nemici. Sbarcati, ci condussero subito al Maridist di Portolago (Lakki). Vincenzo Barbato a Taranto, con due commilitoni. La motonave Calino, colata a picco per urto contro una mina, di notte, fra Biserta e Napoli, il 10 gennaio

6 L isola di Lero L'isola di Lero era una importante base strategica, e per questo motivo fu al centro di ripetuti attacchi, prima da parte degli inglesi, poi, dopo l'armistizio, da parte dei tedeschi, che infine la presero, infierendo con brutalità sui difensori. La conformazione dell'isola la rendeva adatta ad ospitare, in almeno due insenature, navi, sommergibili e un intero piccolo arsenale, oltre ad un piccolo idroscalo. Le creste montuose ospitavano formidabili batterie di tiro, mentre varie grotte si prestavano a proteggere depositi di munizioni e la centrale elettrica. Lakki è il più grande porto naturale del Mediterraneo orientale ed è situato nella costa sud-occidentale di Lero. Quando nel 1923 gli Italiani vi si stabilirono, lo chiamarono Porto Lago. Il maremoto A Maridist dipendevamo tutti dal Capitano di bassa forza, sig. Buchicchio, che si comportava con noi come un buon padre di famiglia. Quando seppe che io, qualificato come armarolo, nella vita civile ero operaio tornitore, mi destinò all'officina siluri di Portolago, e raramente mi fece montare di sentinella. Non fu un periodo molto piacevole: il vitto era pessimo, e tante altre cose lasciavano a desiderare perché, a causa della continua sorveglianza aerea nemica, i mezzi dall'italia arrivavano di rado. Un giorno ero di sentinella al deposito della benzina, su una banchina lunga circa cento metri, che finiva presso un monte in una zona chiamata Punta Gistra. Da lì, a circa 150 metri di altezza, si accedeva ad una zona chiamata Zero Campo, dove abitavano numerosi greci, agricoltori. La garitta della sentinella era proprio lì sotto, e quello che mi accadde quel giorno non riuscirò più a dimenticarlo. All'improvviso, il vento iniziò a soffiare impetuoso, accompagnato da gocce di pioggia. Per ripararmi, posi quattro fusti di benzina, vuoti, davanti alla garitta dove mi trovavo, e per combattere la noia, iniziai ad incidere il mio nome sulla parete interna della garitta, con la punta della baionetta, come tanti altri commilitoni avevano fatto prima di me. La luce che filtrava attraverso i bidoni era appena sufficiente, ma all'improvviso divenne più forte: mi voltai, e mi accorsi che i fusti vuoti erano finiti in mare. Intanto, le sirene delle navi e delle casermette della base navale iniziarono a suonare tutte insieme, ed io rabbrividii nel vedere che tutti i piccoli natanti sulla banchina erano stati trascinati in acqua dai marosi, mentre si spezzavano con fragore i grossi cavi d'acciaio che trattenevano alle banchine le navi. Queste, in preda ai flutti impazziti, finivano con la poppa sulla banchina, subendo danni gravissimi: si salvarono solo quelle ancorate nella baia. Mi resi conto che stavo assistendo ad un maremoto. Mi ripresi dallo stupore, rendendomi conto del grave pericolo che correvo anch'io, e l'istinto di conservazione prevalse: abbandonai la mia posizione e corsi verso il monte, ad un'altezza che ritenevo sicura. Verso la mezzanotte, quando il cataclisma sembrava essersi placato, tornai al posto di guardia: ma la garitta non c'era più, travolta dal mare come i bidoni. Tornai alla base, dove si commentava l'accaduto: se ci fosse stato un bombardamento a ondate successive, e per tutta la notte, non avrebbe potuto fare più danni di quelli che avevamo constatato. Per colmo di sfortuna, subito prima del maremoto era arrivata dall'italia una grande nave da carico, piena di viveri, che aspettavamo con ansia da più di un anno. Era la Vittor Pisani, che fu colta da una grande ondata proprio mentre scaricava. Il traghetto che doveva trasportare i viveri a terra si rovesciò, e tutto il carico finì in mare. Prosciutti, salumi, formaggi, pasta e scatolame vario: tutto quel ben di Dio, tanto a lungo atteso, spinto dalle onde, finì in parte nella zona in cui erano ormeggiati gli idrovolanti. Il personale dell'aviazione non si lasciò sfuggire l'occasione, e fece sparire anche quel poco che si 10 11

7 sarebbe potuto recuperare: ma anche i loro aerei ne uscirono malconci e ridotti a brandelli dalla furia del mare. Sapemmo, in seguito, che l'ufficiale in seconda della nave "Cerere", Luigi Bosso, aveva fatto trasmettere al Comando Difesa di Lero la richiesta di far uscire al largo tutti i natanti ancorati, perché dai movimenti dell'acqua si poteva prevedere, a breve, un maremoto. La richiesta fu ignorata. A quei tempi, il Comando era sotto la responsabilità del Capitano di Vascello Luigi Mascherpa. Tempo dopo, alcuni ufficiali vennero in visita per parlare con Bosso: avrebbero voluto chiedergli come aveva potuto prevedere il maremoto. Ma lui si chiuse in cabina, e rifiutò di riceverli. Luigi Mascherpa divenne poi Contrammiraglio, comandante italiano di tutto l'egeo, e fu catturato dai tedeschi insieme al pari grado Inigo Campioni, dopo la sanguinosa battaglia per la conquista di Lero, che dai tedeschi fu strappata agli italiani e agli inglesi. Mascherpa e Campioni furono consegnati alla Repubblica di Salò, e fucilati a Parma, e gli fu concessa la medaglia d'oro alla memoria. La bandiera Un giorno, nel tardo pomeriggio, molti di noi furono prelevati da tre motopescherecci scortati da un Mas, e partimmo da Portolago per partecipare agli sbarchi sulle isole Cicladi di Nio, Amorgo, Sira e Samo. Io ero, all'epoca, collaboratore del Comandante della Compagnia da sbarco. A Sira bassa, accompagnato da due sentinelle, andai a sistemare la bandiera italiana sull'edificio del Comune. Tornato giù, il comandante della Regina Margherita, Colonnello Farina, mi richiamò facendomi notare che, sullo stesso edificio, ma su un altro pennone, la bandiera tedesca era posta più in alto di quella italiana. Tornai quindi indietro per sistemare la nostra bandiera alla stessa altezza dell'altra. Sul posto trovai tre soldati tedeschi. Uno di loro trovò da ridire, e venimmo alle mani. Il litigio degenerò, il tedesco estrasse dal fodero la sua baionetta, e mi ferì due volte al braccio destro: ancora ne porto i segni. Quando tentò di colpirmi per la terza volta, alzando il braccio destro, mi scagliai prontamente contro di lui, colpendolo con una violenta testata al petto. A questo punto la rissa divenne generale, coinvolgendo i tre tedeschi e anche le sentinelle che mi scortavano, ma null'altro accadde di più grave. Quando il Colonnello Farina e l'ammiraglio Biancheri seppero cosa era successo, si complimentarono con me elogiandomi per il mio comportamento, perché avevo reagito, senza però utilizzare le armi. Riandando con la memoria a quei giorni, come mi riesce difficile comprendere il comportamento di certi nostri parlamentari che mostrano scarso rispetto per la bandiera, simbolo della nostra Patria, per cui tanto sangue è stato versato: ma non disdegnano di percepire il denaro italiano, e tutti i vantaggi italiani che la loro carica comporta Dopo Sira ci fu lo sbarco a Creta, cui, però, non partecipai, con grande dispiacere: ci tenevo, infatti, anche per lo stato di servizio, ad essere presente a tutti gli sbarchi. A causa delle due ferite al braccio avevo avuto l'incarico di smistare i civili greci, di cui alcuni L'isola di Lero 12 13

8 rientravano, ed altri dovevano spostarsi sulle varie isole. Venni a sapere, in seguito, che i miei compagni erano sbarcati, per un fortunato errore, in un posto diverso da quello previsto, salvandosi da un agguato: ad attenderli, nel posto giusto, c'erano gli inglesi, che però rimasero a bocca asciutta. Vincenzo Barbato, il primo da sinistra, a Sira Un altro gruppo, ad Amorgos o a Sira: Vincenzo Barbato è sdraiato, al centro Un gruppo di italiani, con Vincenzo Barbato, dopo lo sbarco ad Amorgos 14 15

9 Sulla nave Cerere Nel riportare i nomi delle isole citati da don Vincenzo, li ho leggermente modificati, dopo aver verificato i percorsi, affinché concordassero con quelli riportati sulla cartina della Grecia. In quel periodo Mussolini, che puntava sulla definitiva conquista di quei territori, provvedeva a italianizzare i nomi locali, come avete già visto per Portolago, da Lakki. Nel precedente episodio della bandiera di Sira, abbiamo registrato il dispiacere del protagonista per non aver potuto partecipare allo sbarco a Creta. L'isola fu al centro di una furiosa battaglia, prima di finire in mano ai tedeschi, fra questi ultimi e gli inglesi. Ma poco prima, il 26 marzo del '41, aveva avuto successo un'ardita azione italiana. Sei barchini esplosivi dei Mas della Marina Militare erano penetrati nella base militare inglese di Suda ed avevano colpito varie unità. La più importante era l'incrociatore inglese York, che fu fatto arenare per evitarne l'affondamento. Non sono riuscito ad identificare le altre unità affondate, salvo la nave cisterna "Pericle". Ho trovato le foto della "York", prima e dopo l'azione in cui fu colpita; e notizie sull'affondamento di due grosse navi mercantili, di cui una potrebbe essere la St. Elizabeth, sotto citata: da non confondere con la Queen Elizabeth, corazzata britannica colpita in precedenza, sempre dagli italiani, ma nel porto di Alessandria. immediatamente tutte a mare. Intanto, e per due volte, un mio commilitone gridava: Barbato, aiutami!, mentre altri urlavano: Vengono di nuovo!. Solo a quel punto divenni pienamente cosciente dell attacco aereo che stavamo subendo, e vidi che il Cacciatorpediniere (il Sella, o il Crispi, non sono sicuro) ormeggiato presso il fianco destro della mia nave era stato colpito. Stavo per correre al rifugio, per mettermi in salvo, quando ripensai all amico ferito che mi chiedeva aiuto: tornai indietro a prenderlo, e lo trascinai fino alla scaletta del castello, che portava in coperta. Dopo i primi gradini me lo caricai sulle spalle e poi, in coperta, non facendocela più, lo trascinai sulla banchina fino al rifugio. Subito dopo, quando l ebbi lasciato, un altro commilitone mi disse: Barbato, hai del sangue alla gamba sinistra!, ed io: E il sangue del compagno che ho aiutato. Mi toccai allora dietro la gamba, dove iniziavo a sentire un certo prurito, e mi resi conto che le dita entravano in una ferita! Mi chiesi allora chi mi avesse dato la forza di trasportare il mio compagno, malgrado la ferita. Dopo tre o quattro giorni, in ospedale, il Comandante in seconda, sig. Basso Luigi, Sottotenente di vascello, venne a farmi visita, e mi chiese di scegliere: mi avrebbe proposto per una medaglia, o per la promozione a sottocapo. Feci la mia scelta, e dopo una decina di giorni tornò in ospedale e mi fregiò dei galloni di sottocapo. Un bombardamento a Portolago Tornato a Portolago, il 30 marzo del 1942, fui imbarcato come armarolo di bordo sulla nave Cerere, una petroliera. Un giorno, mentre ero di servizio, sentii gridare: Le riservette sul castello si stanno incendiando!. Mi precipitai sul posto, e le scaraventai 16 17

10 In posa, alla mitragliatrice. Sul ponte della Cerere, in un momento di relax Sulla petroliera Cerere Sottocapo, di guardia a Portolago La petroliera Cerere 18 19

11 I rifornimenti di nafta e gli ebrei salvati Spesso ci portavano a Salonicco per caricare la nafta lì trasportata dall'italia, e portarla a Creta con la Cerere. Attraversavamo così il canale di Zea, incantevole sia per il mare, ricco di pesci di ogni specie e di meduse enormi, sia per le coste ricche di insenature fitte di alberi, e fiori da mille e una notte. Scaricavamo la nafta nel porto di Suda, a Creta, dove erano arenate due navi inglesi, colpite dai nostri mezzi d'assalto Mas, all'inizio della guerra. Erano l'incrociatore York e la petroliera St. Elizabeth, e nelle taniche di quest'ultima noi scaricavamo la nafta caricata a Salonicco. Poi, come di solito quando si giungeva in un porto, sostavamo almeno due o tre giorni, per dare a tutti noi dell'equipaggio il tempo di andare in franchigia, e godere delle bellezze del luogo. Approfittavamo di quel tempo libero e dei frequenti viaggi per piccoli scambi commerciali: da Creta prendevo l'olio, pochi litri in una lattina, e lo scambiavo con le sigarette, a Salonicco. Un'oga d'olio, poco più di un litro, mi costava un pacchetto di sigarette, e a Salonicco me ne fruttava cinque. Proprio a Salonicco, in quel periodo, conobbi un ebreo di cui non ricordo il nome: ma ne conservo alcune fotografie. Parlava molte lingue, e davo a lui l'olio, in cambio delle sigarette. Lo incontravo con una certa frequenza, perché i viaggi fra Creta e Salonicco avvenivano ogni dieci giorni circa. Facemmo amicizia, e notai subito che aveva sul petto la stella di David, che era costretto a portare per le tristemente note leggi razziali. Glielo dissi, e mi rispose: "Vincenzo, questa è la mia rovina!". Altre volte, in seguito, mi disse: "...cosa pagherei per togliermi questa stella dal petto!". Un giorno mi venne un'idea, e gli promisi che presto avrebbe potuto togliersela. Sapevo già come fare. Tempo prima avevo incontrato, ad Atene, l'avvocato Caporale, un mio compaesano di poco più anziano di me, che era ufficiale dell'esercito, e prestava servizio presso il Comando congiunto italo germanico. L'ufficio si trovava in piazza Omomio, mi pare, dove era la stazione centrale della metropolitana. Mi chiese di accompagnarlo nel suo ufficio, che era pieno di gente, e lì si accorse che mi arrangiavo piuttosto bene a parlare in greco, tanto da farmi capire dalla gente: i miei piccoli traffici mi erano serviti anche a questo, evidentemente. Saputo che le soste della nave erano abbastanza frequenti e prolungate, a volte anche quattro o cinque giorni, mi chiese, e chiese all'ufficiale in seconda, il tenente di vascello Luigi Bosso, il permesso di tenermi in ufficio in quei periodi, per fargli compagnia e dargli una mano. Lì conobbi Marlène (mi pare fosse questo il suo nome), la segretaria, e fra noi nacque una forte simpatia. Andavo spesso a trovarla, nel pomeriggio, quando era sola in ufficio. Mi accorsi, frequentandola, che a lei era affidato il registro su cui erano segnati i nomi degli La nave York, prima e dopo l affondamento, e in una foto dall alto scattata da uno Junker, durante il bombardamento nella baia di Suda, quando fu colpita

12 ebrei che dovevano periodicamente presentarsi per il controllo. Pensai quindi di aver trovato il modo per dare una mano all'amico ebreo. Un pomeriggio, approfittando dell'uscita di Marléne dalla sua stanza, aprii il registro, trovai il nome del mio amico e cercai di cancellarlo, ma la pagina iniziò a rompersi. Strappai allora il foglio dal quinterno, voltai le pagine fino a trovare quella corrispondente alla pagina strappata, e la tolsi, eliminando i residui di carta che potevano rivelare l'accaduto: le pagine, infatti, non erano numerate. Mentre ero con i fogli in mano, e stavo infilandomeli all'interno della giacca, Marlène arrivò, e con un'occhiata si rese conto di quanto avevo fatto. Si arrabbiò moltissimo, e minacciò di denunciarmi. Non volli restituire le pagine, e la minacciai a mia volta: se mi avesse denunciato, avrei detto a tutti che lei se la intendeva con me. Potevo provarlo, come lei ben sapeva. Dovette cedere. Portai con me le pagine strappate, che ad occhio e croce dovevano contenere una sessantina di nominativi, una quindicina per facciata, e qualche giorno dopo, a Salonicco, le detti al mio amico. Non potete immaginare la sua gioia. Mi abbracciò, dimostrò in ogni modo la sua felicità, poi iniziò a scucirsi la stella dal petto. Decise presto che era un lavoro da fare a casa, e ci salutammo. Quando ci incontrammo di nuovo, il giorno dopo, sprizzava felicità da tutti i pori. Aveva già fatto conoscere l'accaduto ai suoi compagni di sventura, quelli che lui conosceva fra quanti risultavano sull'elenco, e tutti avevano tolto la stella dal petto, con immenso sollievo. Da quel giorno, tutte le porte si aprirono per me, e il mio amico ebreo mi agevolò in ogni modo nei miei piccoli traffici, e per tante altre cose. Mi presentava, ogni volta, qualche suo amico: probabilmente ebrei come lui, presenti su quella lista. Tutti mi dicevano di essere a mia disposizione, e spesso mi facevano regali, come catenine d'oro o monete: molti di loro erano negozianti ed orefici. Da Salonicco a Creta, sulla Cerere Gruppo a Salonicco, sulla Cerere Vari momenti con l amico ebreo, qui in primo piano, in giro per Salonicco nelle foto della pagina seguente

13 Il tedesco ubriaco Un giorno, a Creta, il mare era molto agitato e la nave non poté attraccare come di solito. Fui allora incaricato di andare, in motobarca, presso il Comando tedesco, per ricevere ordini da riportare al mio Comando. Sbarcai, portando con me la scorta di due marinai armati, e mi presentai. Mi dissero di attendere: se volevo, intanto, potevo girare lì intorno, ripresentandomi ogni mezz ora circa. Ingannai quindi l attesa passeggiando, nelle vicinanze di una sentinella tedesca, messa di guardia ai bidoni della benzina. Mentre camminavo, mi venne incontro una coppia: un tedesco barcollante, mezzo ubriaco, con una donna greca. Gesticolavano e litigavano. Il tedesco, giunto di fronte a me, disse: Tu camerata, conserva, conserva!. Pensai che volesse della conserva di pomodoro, e pensai di procurarmene un po su un peschereccio che era lì al molo, dato che sapevo farmi intendere anche dai greci. Perciò andai a prenderne, e gliela portai. Per tutta risposta, il tedesco me la buttò in faccia, imbrattandomi per bene. Lo mandai a quel paese in tutte le lingue che conoscevo, e il tedesco, per farsi bello con la donna, prese a minacciarmi. Decisi di lasciar perdere, ed arretrai. Ma lui incalzava, e sembrava deciso ad arrivare alle vie di fatto, mentre io volevo evitarlo, per ovvi motivi. Giunto in un punto oltre il quale non potevo più arretrare, fra l ospedale e il Comando, mi rivolsi allora ai militari che vedevo alla finestra dell ospedale, per chiedere il loro intervento, ma mi ignorarono. Il tedesco insisteva, e sembrava che lo scontro fosse inevitabile. A quel punto intervennero i due marinai armati che erano di scorta, e lo minacciarono col fucile. Il tedesco si fermò, ma subito accorsero i suoi compatrioti, armati anche loro, e fummo portati tutti quanti al Comando, dove ce ne dissero di tutti i colori, minacciandoci. Venne anche l ufficiale di collegamento italiano, cui dipinsero le cose nel modo peggiore. Ce la vedevamo brutta, e non sapevamo come uscirne senza danni, quando si fece viva la sentinella tedesca di guardia ai bidoni della benzina. Parlò a lungo 24 25

14 con l ufficiale tedesco, ed evidentemente riferì correttamente i fatti. Tutto cambiò in un attimo. Dagli insulti e le minacce, si passò di colpo ai complimenti e alle lodi per il nostro comportamento esemplare. Il tedesco ubriaco fu portato via. Don Vincenzo, il primo in piedi da sinistra, durante uno degli sbarchi in Grecia. L incontro con mio fratello Una mattina, arrivati nel porto di Patrasso, ebbi l ordine di scendere a terra per acquistare vettovaglie fresche, non comprese fra quelle della sussistenza. Questo compito toccava ai sottocapi di turno. Scesi quindi a comprare quanto necessario. Prima di rientrare, mi accorsi che un maresciallo dell aeronautica mi fissava con insistenza. Prima che fosse lui a farlo, presi l iniziativa e mi avvicinai, e gli chiesi perché mi fissasse in quel modo. Mi rispose: Lei è forse il fratello del Maresciallo pilota Barbato Massimo?. Alla mia risposta affermativa, mi disse che mio fratello alloggiava con lui in un albergo locale, e teneva sul comodino una foto mia e di mia madre: perciò mi aveva riconosciuto. Misi da parte ogni altra incombenza, e mi feci subito accompagnare in albergo. Il maresciallo bussò alla porta, e mio fratello rispose: Chi è?. Riconobbi la voce, e spalancai la porta: dopo un attimo ci abbracciavamo piangendo dalla gioia. Gli chiesi come mai fosse a Patrasso, e lui mi rispose che era di passaggio: doveva raggiungere il 72 Gruppo ad Atene, ma per il cattivo tempo era atterrato a Patrasso, da cui sarebbe ripartito appena possibile. Lo pregai allora di venire a bordo della mia nave, così ne avremmo approfittato per stare un po di tempo insieme, e così fece. Lo presentai ai miei superiori, con cui fece subito amicizia, e si trattenne a bordo per l intera giornata. Tornò poi in albergo, promettendomi di farsi vivo il giorno dopo. Invece, con mio immenso dispiacere, alle due di quella notte ci fu una sveglia generale per portarci al posto di manovra: era arrivato l ordine di partenza. Durante la navigazione, verso le nove del mattino, la vedetta di bordo comunicò la presenza di un aereo in direzione ore cinque: l allarme generale cessò, quando si seppe che era un aereo italiano. L aereo si avvicinò alla nave, dal lato destro, volando a pelo d acqua. Il pilota salutava col braccio sinistro, e faceva cenno di proseguire tranquilli. Ci passò vicino più volte, sempre a pelo 26 27

15 d acqua, e poi passò anche sopra la nave, tanto da provocare la reazione scherzosa del Comandante che, in dialetto genovese, disse: Belin, figeu, ora lo buttiamo giù!. Ancora qualche passaggio, e prima che giungessimo al canale di Corinto il pilota ci salutò ancora una volta, e se ne andò. Dopo circa mezz ora venne da me il capo cannoniere per dirmi che il signor Bosso, ufficiale in seconda, aveva detto al Comandante della nave, signor Crovari, che il pilota dell aereo era mio fratello. Il Comandante aveva risposto che ne era convinto anche lui, e che Massimo Barbato aveva dimostrato di essere un bravo pilota. Il giorno dopo, mentre eravamo ormeggiati in rada nel porto del Pireo, malgrado il mare agitato, venne a trovarmi mio fratello, che mi apostrofò scherzosamente per essermene andato da Patrasso senza avvisarlo, malgrado il nostro accordo di rivederci il giorno dopo. Mentre così scherzavamo, si avvicinarono il Comandante Crovari e il Comandante in seconda, Bossi, e rimasi colpito dai loro modi cordiali e affabili nei confronti di mio fratello, come se fossero amici di vecchia data. Massimo Barbato, con un Generale dell Aereonautica Massimo Barbato, col fratello Vincenzo, ad Atene, in piazza Omomo 28 29

16 Massimo Barbato a spasso per Napoli. La licenza negata, che forse mi salvò la vita Una mattina entrò nel porto di Portolago una nave ospedaliera proveniente dall Italia. Fui avvisato dal sergente furiere (addetto alla segreteria) che dovevo prepararmi per imbarcarmi su quella nave, perché il Comandante aveva deciso di concedermi una licenza premio: ero, infatti, l unico a bordo che non aveva mai goduto di una licenza dall inizio del servizio militare, sia nel periodo trascorso in Italia, sia nel periodo all estero. Pieno di gioia per la bellissima notizia, mi preparai, salutai gli amici e il Comandante, che ringraziai. Raggiunsi poi la nave ospedaliera con la nostra motobarca. Salii a bordo, e mentre il capo guardia della nave annotava i miei dati sul registro di bordo, il megafono della Cerere annunciava che dovevo rientrare immediatamente, perché la licenza era annullata. Deluso e innervosito rientrai a bordo della mia nave, dove gli amici mi manifestarono la loro solidarietà. Il Comandante in seconda, signor Luigi Bosso, mi disse: Caro Barbato, sono anch io dispiaciuto per questo contrordine: ma non siamo riusciti a trovare in nessun modo, malgrado i nostri ripetuti tentativi, qualcuno in grado di sostituirti nel tuo ruolo. La mia delusione aumentò nel pomeriggio, quando la nave ospedaliera iniziò le manovre per la partenza. I miei amici, che si preparavano per uscire in franchigia, sapendo che anche io ero in libertà, e non avevo toccato cibo a mezzogiorno, mi costrinsero quasi ad uscire con loro. Andammo a Zero Campo, in montagna, in una bettola dove si mangiava bene, e si beveva un buon Grassì, il vino locale. Mangiai pochissimo ma, ahimé, bevvi tantissimo, contro la mia abitudine. Il ritorno, in quello stato di quasi totale incoscienza, fu disastroso. Non riuscivo a camminare, e i miei compagni si sforzarono a lungo per portarmi con loro. Alla fine desistettero, e mi abbandonarono in una cunetta lungo la strada che costeggiava la montagna. Fortunatamente, due miei amici, non vedendomi rientrare, si preoccuparono e vennero a cercarmi nel punto in cui gli altri avevano detto di avermi lasciato. Io non mi rendevo conto 30 31

17 di quanto avveniva, né della mia fortuna. Lo scoprii la mattina successiva, quando mi ritrovai adagiato sulla banchina della base navale, e sentii dalle persone che erano lì intorno quanto era successo: durante la notte c era stato un forte bombardamento da parte degli inglesi, con danni ingenti. Nella base c era grande agitazione, per il trasporto di morti e feriti, e per le riparazioni dei natanti colpiti. Il giorno dopo, la radio inglese affermò che l Isola di Lero era stata soprannominata l isola dell inferno, e che non si doveva più bombardarla, ma occuparla, perché i militari e i civili sull isola non erano più in grado di opporre nessuna resistenza: erano infatti privi di munizioni e di viveri, e non ne avrebbero ricevuti altri, perché gli inglesi avrebbero impedito l arrivo di navi e aerei dall Italia. Ci avrebbero presi per fame. Foti Carmelo, l eroico pescatore Dopo questi fatti, per un certo tempo siamo stati attraccati, sempre con la nave Cerere, sul lato opposto dell isola di Lero, e precisamente nella zona di Parteni. Non essendoci banchina, fummo costretti ad ormeggiare agganciando i cavi d acciaio agli scogli, dietro i quali sorgeva un monte. In quel periodo avevo preso a benvolere, tenendolo sotto la mia protezione, il marinaio Foti Carmelo: un siciliano, di una famiglia di pescatori, che era spesso preso in giro dai compagni per la sua ignoranza. In quel periodo di scarsità di viveri, seppe riscattarsi procurando cibo per tutta la nave. A Parteni, e poi in seguito anche a Portolago, e più di una volta, mise al servizio della nave le sue capacità davvero notevoli. Mi chiese il materiale per preparare un palamito: uno strumento per pescare, consistente in un lungo cavo da cui pendevano, ad intervalli regolari, numerosi ami. Trovai spago ed ami, e lui confezionò il palamito a regola d arte. Poi, un pomeriggio, si tuffò e lo agganciò alla catena dell ancora, e disse a noi sulla barca come posizionare il palamito con le esche. La mattina dopo, all alba, tornammo a verificare se la cosa aveva funzionato. Non restammo certo delusi: dagli ami pendevano gronghi, murene, scorfani e tanto altro pesce, sufficiente per spegnere la fame e risollevare il morale di tutto l equipaggio. Ma Foti aveva in serbo anche altre sorprese. Un giorno, fu chiamato a sostituire il marinaio, ammalato, che guidava la barca del capitano di vascello Mascherpa, comandante della base italiana. Ammarò a Portolago, nei pressi dell idroscalo, un idrovolante tedesco che, per un errore di manovra, o per il mare mosso, non saprei dire, si capovolse, e affondò rapidamente, portando giù con sé i due piloti. Foti era nelle vicinanze, con la motobarca, e pregò il comandante di permettergli di andare rapidamente sul posto. Si tuffò quindi senza indugio, risalì, e chiese un coltello. Scese nuovamente, e riuscì con quello ad aprire la cabina di pilotaggio, tirandone fuori un primo pilota. Lo portò su, e sebbene stremato, ridiscese subito per salvare anche il secondo. Quando risalì, si sentì male, e fu portato nell ospedale italiano con i due tedeschi. L ufficiale di grado più elevato, appena gli fu possibile, volle andare a ringraziare il suo salvatore, e gli regalò l aquila d oro che teneva appuntata sul petto. Foti fu elogiato dal Comando tedesco, e poi da quello italiano. Era diventato un eroe, e nessuno osò più prenderlo in giro. Le spie inglesi Quando eravamo ancorati a Parteni, nei giorni di libertà eravamo costretti a percorrere circa nove chilometri a piedi per raggiungere il luogo abitato più vicino: si chiamava Timegno, ed era particolarmente apprezzato dai militari, perché vi si trovava una casa di piacere. Lascio immaginare con quale stanchezza si percorreva la via del ritorno Una sera, di ritorno da una di queste scorribande, giunsi a bordo alle undici di sera. Mentre già pregustavo il riposo, il sergente furiere mi comunicò che, invece, dovevo montare di guardia da mezzanotte alle quattro di mattina, per sostituire il sottocapo addetto a quel turno, che si era ammalato. Iniziai malvolentieri il servizio, perché ero davvero stanchissimo, e temevo di 32 33

18 addormentarmi. Per evitarlo, decisi che sveglio io, svegli tutti!, e sparai tre colpi verso la montagna, dopo aver intimato l altolà. Dopo il comprensibile trambusto, sopraggiunto il personale di bordo, spiegai che avevo sparato perché avevo intravisto delle ombre aggirarsi nei pressi della nave, verso poppa. Ma i colpi da me sparati avevano messo in allarme anche i vari comandi attestati sull isola. Informati del fatto (!) che erano state viste delle persone nei pressi della nave, inviarono varie pattuglie a perlustrare tutta la zona. Immaginate i vari commenti espressi nei confronti di chi aveva suscitato questo pandemonio e che, probabilmente (!), si era semplicemente impressionato! Tutto ciò, in effetti, aveva creato non pochi fastidi, e per tutta la notte le pattuglie dovettero perlustrare la zona. Qualcuno, cadendo, finì anche col ferirsi. Nella mattinata, però, sapemmo, dai vari comandi, che tre spie inglesi erano state arrestate. Pertanto, fu proposta una licenza premio di cinque giorni, da trascorrere sull isola di Rodi, per l attento marinaio di guardia, che aveva lanciato l allarme Ancora con la Cerere, al Pireo. Sotto, in divisa tedesca: l effetto con le donne era garantito! Al Pireo, con la Cerere 34 35

19 A Napoli Il 10 maggio 1943 Vincenzo Barbato è in licenza straordinaria in Italia, per trenta giorni, trascorsi ad Acerra, in famiglia. Per i successivi trentacinque giorni fu destinato al Distaccamento della Marina Militare di Napoli, che all epoca si trovava presso l Ospedale Gesù e Maria. Era terminato ormai il periodo della forte espansione nazista, bloccata a Stalingrado dai russi, e in Africa dalle forze alleate anglo-americane. Presto, subito dopo l imbarco di don Vincenzo sulla Vivaldi, Mussolini sarà destituito ed arrestato, il 25 luglio del 43; e l Italia si avvierà all armistizio, e ai disordini che ne seguirono. Intanto, la pressione delle forze alleate si faceva sempre più forte, e anche Napoli doveva subire pesanti bombardamenti. Il 15 luglio 1943 mi imbarcai sul Cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi, ormeggiato nella baia di Pozzuoli, dove aveva la sua base operativa. Durante la navigazione, a prua della nave c è sempre un uomo col compito di avvistare eventuali mine disperse, periscopi di sommergibili o altro, per avvisare tempestivamente. Mi piaceva molto la sensazione degli spruzzi d acqua salmastra, soprattutto col mare agitato, per cui spesso mi prestavo, con il nulla-osta dei superiori, a sostituire i miei commilitoni addetti a quel servizio. Un ufficialetto sorprendente Un giorno assegnarono al nostro reparto, come nuovo direttore di tiro, un giovane ufficiale, che sembrava un pesce fuor d acqua. Disordinato nel vestire, poco attento alla disciplina, sembrava che vivesse in un mondo tutto suo. Il comandante se ne lamentò con i superiori, chiedendo chi gli avessero mandato. Di lì a poco, si organizzò un esercitazione, in cui il nuovo ufficiale puntatore sarebbe stato messo alla prova. Si presentò in ritardo, con il suo atteggiamento svagato da Giamburrasca, e si mise al lavoro. Gli si propose un primo bersaglio, lui diede le coordinate ai cannonieri, e questi spararono: centro! Nuovo bersaglio, coordinate, centro! E così via, senza sbagliare un colpo. Rimanemmo tutti a bocca aperta. Poi sapemmo che quel giovanotto era il secondo sull Andrea Doria. Ciullo, il mitragliere Circa un mese prima dell armistizio eravamo intenti a disporre uno sbarramento di mine più al largo, insieme ad un posamine armato dai tedeschi. Si andava insieme, italiani e tedeschi, a Capo Miseno, per caricare le mine, da sistemare a bordo del Cacciatorpediniere, dove erano i binari per lo scarico a mare, che era di nostra competenza; ai tedeschi spettava il compito di posarle, mentre noi li scortavamo. Durante questa operazione, vedemmo un aereo che ci sorvolò ad altissima quota, facendo un solo passaggio, impedendoci, così, di individuarne la nazionalità. Dopo una ventina di minuti avvistammo cinque o sei aerei ad ore cinque, rispetto alla nave, e scattò l allarme. Io ero a ridosso come si dice in gergo, cioè a riposo, dopo aver fatto quattro ore di guardia. Mi trovavo, in quel momento, tra i due fumaioli della nave, vicino alla mitragliatrice n 37 a quattro canne. Seduto su di essa era il sottocapo mitragliere Ciullo. L allarme rientrò quasi subito, perché il comandante ritenne trattarsi di aerei italiani. Mi misi a chiacchierare con Ciullo, che però frattanto continuava, col binocolo, ad osservare le evoluzioni degli aerei amici. All improvviso gli aerei si separarono, e presero diverse direzioni, e subito Ciullo prese la posizione di combattimento: erano aerei inglesi! Un primo aereo scese a quota bassissima, verso la fiancata destra della nostra nave, sparando senza misericordia, mentre Ciullo rispondeva da par suo con la mitragliatrice, mettendolo in difficoltà. Forse fu questo a salvarci: l aereo sganciò il suo siluro un 36 37

20 attimo troppo tardi. Il siluro cadde in mare, scese per inerzia sotto la chiglia della nave e passò dall altra parte senza urtarci, mentre io avevo già le mani sulle orecchie pronto all inevitabile scoppio. Pochi attimi, che sembravano non finire mai: Ciullo, intanto, continuava a seguire e mitragliare l aereo, colpito prima al motore destro, poi a quello sinistro, fino al suo inabissarsi tra la nostra fiancata sinistra e il posamine tedesco. Due aerei ancora furono abbattuti da altre nostre mitragliatrici, mentre gli altri rinunziarono all attacco, e si ritirarono. Terminata la pioggia di fuoco, completammo lo sbarramento di mine. Poi, i tedeschi del posamine ci segnalarono che la mitragliatrice di centro (quella di Ciullo), per seguire l aereo inglese che si spostava a quota bassissima, aveva colpito a morte il Comandante in prima del posamine, ed altri cinque uomini dell equipaggio. Tuttavia il mitragliere era stato segnalato per una decorazione, perché aveva vanificato le intenzioni degli aerei nemici: che erano, evidentemente, di distruggere la Vivaldi e il posamine. Puniti, ma salvi In quel periodo (dal 16 luglio al 7 settembre 1943) Napoli era costantemente in stato di allarme. Ne avevo viste e passate tante, dall inizio della guerra: ma questo mi era servito a costruirmi una solida esperienza, che mi aiutò a capire come comportarmi in caso di pericolo. Un giorno eravamo attraccati alla banchina del porto di Napoli, in Piazza Municipio. A soli dieci metri da quel punto della banchina c era un rifugio di cemento armato che poteva ospitare fino a cinquanta persone, in caso di attacco aereo. Il giorno 4 agosto ero di guardia come sottocapo di prima comandata, cioè dalle otto alle sedici, ed avevo perciò l obbligo di restare a bordo anche durante i bombardamenti, per spegnere eventuali incendi: ma il rischio di morire, in quei casi, era alto. Dissi ai miei compagni che era stupido morire in quel modo, con il rifugio a soli dieci metri da noi. Perciò chiesi loro: Preferite morire, o il massimo di rigore?. Il massimo di rigore era la punizione prevista in caso di abbandono della nave, ma la risposta era scontata. Allora continuai: Se ci bombardano, voi scappate, ed io fingo di non vedervi. E poi, per venirvi a cercare, mi metto in salvo anch io. Ma, in caso di inchiesta, nessuno riveli il nostro accordo. Puntuale, arrivò l attacco aereo: centinaia di velivoli oscurarono il cielo, e tutti scappammo verso il rifugio. Una piccola folla di curiosi rimase sull ingresso, affascinata dallo spettacolo impressionante: ma la curiosità fu loro fatale perché, di lì a poco, una bomba cadde proprio fra la nave e il rifugio. Terminato l allarme, al nostro rientro a bordo, vedemmo una scena da Apocalisse: gente che urlava, sirene di ambulanze, tanti morti per terra. Il porto aveva subito danni gravissimi, e anche la nostra nave era stata colpita in più punti. Nel pomeriggio, quando il trambusto si fu relativamente calmato, il Sottotenente di vascello signor Attianese riunì il gruppo di guardia e ci interrogò sui fatti della mattinata. Rivolgendosi direttamente a me, mi chiese come mai, con tutto quello che era successo, non c erano stati morti né feriti fra i nostri. Risposi che il gruppo di guardia, suonato l allarme, era sceso dalla nave per correre al rifugio che era lì vicino; e che io li avevo inseguiti urlando, dopo aver preso un accumulatore con una lampada, necessaria per vedere nel buio del rifugio, per identificarli e riportarli a bordo. L ufficiale si arrabbiò moltissimo, e diede il massimo del rigore a tutto il gruppo di guardia, escludendo me dalla punizione, come previsto. Incontrai il signor Attianese a terra, tre o quattro giorni dopo, quando entrambi eravamo in franchigia. Eravamo compaesani, ed abbastanza in confidenza. Mi chiese, perciò, di dirgli come erano andate veramente le cose. Gli risposi che era più intelligente pensare che i vivi potessero salvare la nave dagli incendi, piuttosto che i morti e i feriti. Capì, e anzi mi elogiò per il mio comportamento, ma non mancò di ironizzare sulla mia furberia

21 Nudo al rifugio, sotto le bombe Una mattina, giorni dopo, ero appena smontato dal turno di guardia dalle quattro alle otto del mattino. Mi preparavo a farmi una doccia, quando suonò l allarme, e subito iniziarono a cadere le bombe. D istinto, scappai subito verso la scaletta della nave, per scendere a terra e raggiungere il rifugio: ma era già pieno, e altra gente si accalcava per entrare. Corsi allora al rifugio del porto dalla parte di piazza Municipio, ma anche quello era pieno. Allora, sempre correndo nella confusione generale, andai al rifugio di piazza Augusteo, più distante. Le bombe continuavano a cadere, e più volte caddi a terra per lo spostamento d aria delle esplosioni. La botola d ingresso era davanti al cinema Augusteo, e mi c infilai per mettermi al sicuro nella profondità del rifugio. Arrivato giù, la gente, vedendomi, incominciò a gridare nei miei confronti: e solo allora mi resi conto di essere completamente nudo! Vergognandomi, abbassai la testa e cercai di coprirmi alla meglio con le mani. Qualcuno mi giustificava, altri protestavano, e a quel punto un brigadiere di pubblica sicurezza si avvicinò per rimproverarmi violentemente. E continuò a farlo a lungo, nonostante le mie scuse ripetute, a testa bassa. Sentii, a quel punto, una mano posarsi sul mio braccio. Era un militare dell esercito, che mi chiese come mai mi trovassi in quelle condizioni. Gli spiegai tutto, e gli mostrai il braccialetto d identificazione che portavo al polso. Gli dissi delle peripezie lungo il percorso, e dei primi rifugi già pieni di gente al mio arrivo, mentre le bombe cadevano tutt intorno. Mi rispose che anche lui aveva vissuto una brutta esperienza, trovandosi su di un treno durante un mitragliamento. Capiva, quindi, il mio stato d animo e il mio comportamento impulsivo, e mi diede la sua giacca per coprirmi. Ma il brigadiere non si era placato, e continuava a riprendermi. Ne nacque un diverbio fra lui e il militare - mancò poco che venissero alle mani - con la gente che prendeva parte alla contesa: e a me sembrava che mi giudicassero molto male. L allarme alla fine cessò, e il brigadiere, che voleva tenere il punto, sostenuto dalla gente che aveva intorno, disse che mi avrebbe portato al commissariato. Una volta fuori, però, ripresomi dallo spavento, ritrovai la mia lucidità. Dissi che, essendo un militare, dipendevo dal mio Comando, e solo questo poteva giudicarmi. Il militare fu d accordo con me, ma il brigadiere non mollò la presa. Entrambi, allora, vollero accompagnarmi a bordo della mia nave. Ottenuto il permesso di salire, fummo ricevuti tutti dal comandante Camicia, dal secondo Attianese, e da un altro ufficiale, Caterino. Messo al corrente degli avvenimenti, il mio comandante mi invitò ad allontanarmi, dicendomi: Sottocapo, se ne vada a prua!, e così feci. Da lì, potei solo sentire che la discussione era molto animata. Sopra tutte, si imponeva la voce del mio comandante, che inveiva contro il brigadiere. Non seppi null altro fino al pomeriggio. I miei commilitoni, che qualcosa avevano visto o sentito, mi dissero che il comandante aveva cacciato dalla nave il brigadiere, facendolo accompagnare fino a terra, inveendo contro di lui e urlandogli che non poteva neanche lontanamente immaginare quanto fosse dura la vita dei suoi marinai, e quanti pericoli dovevano affrontare! Tragica negligenza Un giorno eravamo in rada, nella baia di Pozzuoli. Era il mio turno di guardia, di prima comandata, cioè dalle otto alle sedici. Il mio compito di sottocapo era quello di annotare tutto ciò che accadeva a bordo. Erano le nove del mattino, e stavo annotando sul giornale di bordo i nomi del personale che scendeva a terra per una visita medica: a bordo, infatti, non era prevista la figura del medico, ma solo quella di un sottocapo infermiere. Ero vicino alla scaletta che collegava la nave al battello, che di lì a poco avrebbe portato a terra il personale che ne aveva fatto richiesta. Avevo le spalle volte ai siluri, e si presentò alla mia destra, spalle alla poppa della nave, il sergente di guardia Caserta, lamentando che mancavano dei proiettili nel caricatore delle pistole. Poiché l addetto alle armi, e responsabile della Santabarbara ero proprio io, lo invitai più volte 40 41

22 a non dire nulla, perché avrei potuto risolvere facilmente la faccenda: con la mia qualifica potevo entrare e uscire a piacimento dal deposito delle munizioni. Se, invece, il comandante fosse stato informato della cosa, avremmo ricevuto tutti una severa punizione. Mentre gli spiegavo tutto questo, l allievo cannoniere Volpato venne alla mia sinistra, spalle a prua, a torso nudo, e iniziò subito a raccontarmi cosa gli era accaduto: stava facendo la doccia con altri commilitoni, quando un guardiamarina aveva attraversato i bagni, ed era stato accolto da un inconfondibile verso. Credendolo l autore dell impertinente pernacchia, il guardiamarina si era voltato verso di lui, e i due avevano iniziato a discutere. Volpato mi raccontava l episodio sperando che, in qualche modo, io potessi appoggiarlo, evitandogli una punizione. Io ascoltavo e intanto, a testa china, continuavo a fare il mio lavoro, quando, all improvviso, dalla pistola che Caserta mi stava mostrando, partì un colpo. Sentii il colpo sfiorarmi la tempia destra, e subito Volpato si portò le mani al petto gridando: Barbato aiutami! Barbato aiutami!, poi si accasciò al suolo. Dal piccolo foro provocato dal proiettile, a pochi centimetri dal cuore, usciva un piccolo rivolo di sangue. Mi resi conto allora della gravità dell accaduto: Volpato era ormai morto, e non potevo fare più nulla per aiutarlo. Ero tremendamente scosso per l accaduto, per la morte del commilitone e per il rischio che avevo corso. L emozione prese il sopravvento, sentii venir meno le forze, e la lucidità abbandonarmi. Di lì a poco, Volpato fu portato a poppa, coperto dalla bandiera italiana. Dopo qualche ora giunse a bordo la commissione d inchiesta. Recatomi sotto castello per mettermi in ordine, notai in un angolo il sergente Caserta, che mi disse: Barbato, bada a quello che dici!, ed io: Cosa dovrei dire?. Mi rispose di raccontare che la pistola era rivolta verso il mare, e non verso la prua. Gli dissi allora che era una bugia molto stupida: era evidente che, se avesse puntato la pistola verso il mare, Volpato, che era alla mia sinistra, non sarebbe stato colpito. Durante l inchiesta, riferii l accaduto nei minimi particolari, e dovetti convenire che la fatalità era da imputare alla negligenza ed alla superficialità di Caserta. Ero ancora sconvolto all idea che il proiettile che aveva ucciso il povero Volpato avrebbe potuto, invece, uccidere me. Caserta fu prelevato da bordo e portato a terra. Non ne seppi più nulla fino a quando, terminata la guerra, lo incontrai a Napoli, mentre passeggiavo per via Caracciolo. Lo riconobbi da lontano, e stavo per cambiare direzione, per evitare l imbarazzo dell incontro. Ma lui mi vide, e mi venne incontro, deciso. Con mia grande sorpresa, volle abbracciarmi e ringraziarmi. Grazie a quell episodio e alle mie dichiarazioni, mi disse, aveva evitato la tragedia dell affondamento della Vivaldi, scampando ad una probabile morte, come tanti nostri compagni di equipaggio. Non ho mai saputo, né ebbi allora il coraggio di chiederglielo, a quale pena era stato condannato per l uccisione di Volpato. La Ugolino Vivaldi che supera il ponte girevole nel porto di Taranto, in una foto ufficiale

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