Intercultura e religioni in movimento ENZO PACE



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Allegato 1 Intercultura e religioni in movimento ENZO PACE Introduzione Il ciclo delle migrazioni verso l Europa per molti aspetti si è concluso. Non perché non arriveranno più donne e uomini dai quattro angoli del mondo. Ma per la semplice ragione che noi ora siamo già in grado di vedere e misurare ormai tutti i cambiamenti strutturali che il fenomeno ha prodotto sin qui e, su questa base, di intuire come potrà essere la società europea in un prossimo futuro. Fra i cambiamenti di lungo respiro su cui intendiamo attirare l attenzione è l inedito pluralismo religioso che sta ridisegnando la geografia socio-religiosa dell Europa. Il Vecchio Continente ha conosciuto e riconosciuto la pluralità delle fedi, pagando due prezzi elevati: da un lato, le guerre di religioni che alla fine hanno cristallizzato territorialmente le differenze storiche fra cattolici e protestanti, e, dall altro, la sistematica persecuzione degli ebrei sino al loro sterminio. I conflitti politici ed economici si sono spesso intrecciati a quelli religiosi. Quando parliamo di pluralismo inedito, allora, vogliamo alludere al fatto che in un Europa ormai pacificata per quanto riguarda le storiche contrapposizioni fra cattolicesimo e protestantesimo, hanno preso forma religioni che o erano marginali oppure lontane ed estranee rispetto alla storia stessa europea. Non pensiamo solo all islam, che in realtà e, per molti versi, è una religione occidentale tanto quanto l ebraismo e il cristianesimo delle origini, del resto non certo estraneo alla stessa vicenda storica, filosofica e culturale dell Europa medievale, ma allo hinduismo (Atglas, 2005), al buddismo (Lenoir, 1999; Pasqualotto, 2003), alla via dei sikh (sikh panth) (Denti, Ferrari, Perocco, 2005) e alle nuove forme di neo-buddismo che arrivano soprattutto dal Giappone (Wilson, Dobbelaere, 1994; Macioti, 1996; Raveri, 2006); ed inoltre alle tante nuove parrocchie ortodosse, espressioni d altrettante varie chiese autocefale (da quella rumena, a quella moldava per finire con quelle ucraina e russa), nonché alle nuove chiese pentecostali, soprattutto dell Africa sub-sahariana, ma non solo, poiché sono arrivate anche le nuove chiese cinesi, in particolare quelle che, ad esempio, sono nate, alla fine degli anni Novanta del secolo appena trascorso, nello Stato di Wenzhou (Yang, Tamney, 2005). Basterebbe solo riflettere sull impatto delle chiese neo-pentecostali d origine africana, asiatica o latino-americana e sul tipo di spiritualità che esse promuovono per comprendere come il cristianesimo così come storicamente si è radicato nelle società europee potrebbe subire una sorta di choc liturgico e teologico, non avvezzo com è né alle ritualità pentecostali tutte improntate all esaltazione della fisicità o della credenza nella manifestazione immediata dei poteri dello Spirito né tanto meno ad una dottrina, che in tali nuove formazioni è normalmente ridotta all essenziale o tradotta in semplici precetti morali (Jenkins, 2002; Pace, 2006). Religioni in movimento, dunque. Nel duplice senso: in primo luogo, l Europa va ridisegnando la propria cartografia del sacro e, in secondo luogo, nessuno esce indenne dal mutamento che tale nuova cartografia comporta. Né per le religioni che pretendono d essere immutabili né per quelle che ritengono di rappresentare la coscienza collettiva d intere nazioni né, infine, per le religioni approdate come corredo personale delle biografie di tanti immigrati e dei loro discendenti. Tutte o meglio tutti coloro che ad esse fanno riferimento apprendono presto che professare una fede in società ad alta complessità socio-religiosa (o ad alto tasso di pluralismo religioso, che è lo stesso) significa imparare (di malavoglia o facendo buon viso a cattivo gioco) a credere nel relativo e ad immaginare i confini simbolici dei rispettivi differenti sistemi di credenza non come frontiere invalicabili, ma piuttosto come paratie mobili che 1

possono essere attraversate liberamente. Fuor di metafora, la nuova cartografia del sacro costringe, innanzitutto, a tracciare nuove linee della memoria. Le religioni intrattengono una relazione speciale con la memoria collettiva. Inoltre, la nuova geografia socio-religiosa spinge a confrontare all interno di uno stesso macro-sistema di credenza una pluralità di modi di fare esperienza del sacro e del divino, a riconoscere il ruolo delle donne che sembrano più in grado del genere maschile di combinare la memoria religiosa ereditata con lo spirito d adattamento e di compromesso con una società aperta e dinamica, a riconsiderare, infine, l opportunità di non chiudere porte e finestre dei rispettivi luoghi di culto, a difesa simbolica di un integrità difficile da conservare, per mantenere aperta una linea di dialogo interreligioso, entrato ormai a far parte dell agenda politica delle amministrazioni pubbliche in tutta Europa (Pace, 2007). Quattro linee di tensione, dunque, che illustreremo narrando quattro episodi. Un etnografia minuta che serva a dare conto meglio di tanti discorsi astratti sulla complessità del presente. 1. Quattro scene in un interno. Prima scena: la memoria spezzata Prima scena: si svolge in un quartiere della periferia di Parigi. Siamo a casa di una famiglia di marocchini, emigrati in Francia da più di venti anni. Youcef è d origini berbere, viene dalla città di Marrakesh. Sua moglie Aisha - il nome glorioso di una delle spose del profeta Muhammad - proviene da un villaggio del profondo sud del Marocco. Lui lavora come autista in una piccola fabbrica. Hanno sei figli. Il maggiore, Moloud, studente universitario di Veterinaria, non è d accordo con quanto sta per accadere a casa sua il 13 luglio, alla vigilia della festa nazionale francese, la Bastiglia. Una data, quest ultima, che nel calendario lunare musulmano corrisponde al 10 del mese di dhu-al-hijjia, quando si celebra la festa del sacrificio ( aid al-kabir: letteralmente, la grande festa), o festa del montone. Suo padre ha acquistato per l appunto un agnello, lo ha portato a casa e la bestia, da giorni, viene amorevolmente accudito dalla madre e dai figli più piccoli, prima di essere sgozzata secondo un rito antico che accomuna tutti i musulmani in patria e in esilio. Nei Paesi a maggioranza musulmana, ma con forti presenze cristiane, quando tale festa cade in prossimità del Natale non è infrequente vedere in luoghi pubblici accanto all albero di Natale una gigantografia di un agnellino. E una testimonianza del fatto che, sì, esistono le frontiere simboliche che marcano l identità e la differenza fra diversi sistemi di credenza, ma che, tuttavia, esse non impediscono di guardare con attenzione nei rispettivi recinti del sacro. Moloud non è d accordo con quanto sta per accadere tra le mura domestiche, perché ama gli animali e contesta suo padre, affermando che il rito del sacrificio che sta per compiere è, in realtà, una crudeltà, un arcaico residuo del passato tribale. La pensa un poco come l exdiva del cinema, Brigitte Bardot, divenuta fervente animalista, la quale, da tempo e puntualmente, ogni anno, alla vigilia della festa del montone, lancia accorati e indignati appelli dai giornali e dalle televisioni, perché i governanti facciano cessare la carneficina degli ovini che viene compiuta ogni anno in Francia in occasione della grande festa. Una carneficina, a sua detta, che insanguinerebbe il territorio francese. Youcef, il padre del nostro Moloud, pur consapevole dei divieti delle autorità che proibiscono di procedere al rito del sacrificio in casa (o nei garage o nei cortili antistanti i condomini), procede imperterrito ad eseguire l atto sacrificale. Tra padre e figlio non c è più intesa su un gesto che, invece, altrove tende a trasmettersi di generazione in generazione senza particolari traumi. Siamo di fronte, invece, ad un conflitto fra generazioni, che investe un simbolo religioso, un codice d accesso al sistema d appartenenza socio-religiosa, chiamato islam. Il padre, infatti, si mostra fedele alla memoria religiosa e alle tradizioni della sua cultura d origine; suo figlio, invece, non coglie più il significato religioso del gesto rituale: egli è diventato più sensibile a stili di vita e visioni del mondo propri di una parte della cultura giovanile europea. I legami con la tradizione si sono in parte sciolti. Ciò non significa che egli rinneghi la sua fede di nascita. Moloud si sente ancora un buon musulmano: ciò che è cambiato 2

nel suo cuore di giovane, nato a Parigi e vissuto da vent'anni in terra francese, è il sentimento d appartenenza alla cultura dei padri e delle madri. Per credere secondo i precetti dell islam, Moloud non ritiene più necessario seguire alla lettera usanze antiche, come quelle del sacrificio del montone, ad esempio, che gli appaiono non più essenziali per essere a posto con la propria coscienza di credente. Il confronto fra due culture, che Moulud vive nel suo cuore, in realtà riflette un conflitto più vasto, presente in modo vivo nelle società europee, divenute multireligiose e multiculturali (Ambrosini, Molina, 2004; Cesari, 2005; Cesari, Pacini, 2000; De Wenden, 2001; Frisina, 2007; Mantovani, 2004; Queirolo Palmas, 2006; Sain-Blancat, 1999; 2004; Valtolina, Marazzi, 2006) Il sacrificio del montone, secondo una tradizione secolare, è un gesto liturgico che avviene in famiglia e fra famiglie che hanno fra loro vincoli di parentela. Gli immigrati d origine musulmana sono portati a compierlo tra le quattro mura domestiche. Non ci sarebbe nulla da ridire, se tutto ciò non suscitasse reazioni a volte negative da parte di chi non è musulmano e che magari abita nello stesso condominio dove dimora il nostro capo famiglia, Youcef. Quando in un condominio vivono persone di cultura diversa, che trovano insopportabile l afrore che la macellazione del montone inevitabilmente produce, le telefonate di protesta agli uffici d Igiene pubblica divengono frequenti. La multiculturalità passa anche per gli odori, familiari e gradevoli per gli uni, estranei e disgustosi per gli altri. Dunque è possibile trovare un compromesso fra il potere della memoria religiosa, i freddi regolamenti municipali che fissano i criteri per la macellazione degli animali secondo i criteri sanitari e le appassionate proteste degli animalisti, che del resto fanno breccia anche fra alcuni rappresentanti della seconda generazione d immigrati musulmani? 2. Seconda scena: incontri ravvicinati di tipo religioso Seconda scena. Siamo all interno di una chiesa. Una piccola chiesa di un piccolo comune nel cuore di uno dei tanti distretti industriali sorti nel Nordest italiano. Le fabbriche piccole e medie della zona hanno attirato un gran numero di Ghaneani. Essi appartengono ad una delle tante chiese neo-pentecostali africane, nate negli ultimi venti anni. Il parroco ospita alcuni immigrati nella sua canonica, trasformata in parte in centro di prima accoglienza. Egli da qualche tempo, inoltre, non si pone molti problemi nel costatare che l asilo parrocchiale ospita ormai più bambini di famiglie ghaneane che non di famiglie locali. Un giovane ghaneano, che temporaneamente aveva trovato una prima sistemazione nel centro d accoglienza in canonica, un triste giorno muore d infarto. Il parroco, dopo una prima incertezza, decide di celebrare il funerale in chiesa. Sa che il giovane era protestante. Telefona, perciò, al pastore valdese della chiesa di una città vicina ed, assieme, decidono d organizzare un rito funebre che in qualche modo si presenti come una preghiera ecumenica: celebrata in una chiesa cattolica, ma seguendo, per semplificare, un canovaccio più sobrio, vicino alla sensibilità protestante. Il giorno della celebrazione la chiesa si riempie all inverosimile di connazionali del giovane deceduto, accorsi da varie parti. I parrocchiani sono incuriositi e prendono parte anche loro all evento. La cerimonia ha inizio con una certa solennità. Ben presto uomini e donne del Ghana, vestiti a festa (le donne con i loro indumenti colorati) si appropriano lo spazio sacro e imprimono alla cerimonia un altro ritmo, secondo la loro spiritualità carismatica e secondo uno stile religioso africano (che esalta danza e canto). I due celebranti sono così tagliati fuori e assistono, fra lo stupefatto e l incuriosito, alla trasformazione di un rito d elaborazione del lutto in una festa gioiosa: al canto segue la danza in chiesa e, alla fine, la bara viene presa a spalla e portata fuori del sagrato, sempre cantando e muovendo a ritmo i corpi La cerimonia finisce. Il parroco intuisce lo stupore disegnato sui volti dei suoi parrocchiani, abituati alla dolorosa compostezza dei funerali cattolici. Tant è che egli sente il bisogno l indomani di tranquillizzare il suo vescovo. 3

La domanda che il parroco si pone alla fine è molto semplice: fin dove è possibile spingersi quando vengono superati i confini simbolici che marcano le differenze fra un sistema di credenza religioso rispetto ad un altro. Come cattolico si chiede il parroco- ho fatto bene a lasciare che in chiesa si celebrasse un rito secondo forme culturali e religiose diverse da quelle volute e dettate da Santa Madre Chiesa? In termini più generali, il confronto così ravvicinato fra culture ed identità etniche diverse solleva un interrogativo ancor più inquietante: come salvare le radici dell identità cristiana senza perdere di vista lo spirito della carità che consiglia il buon cristiano ad accogliere coloro che si presentano avendo fame e senza dimora? Come continuare ad essere accogliente rifugio dei migranti, senza smarrire la propria identità religiosa e culturale? Non c è il rischio di un metissage di credi religiosi che alla lunga potrebbe ingenerare ciò che le autorità ecclesiastiche temono di più, forme di sincretismo o peggio di relativismo? Del resto, da un po di tempo a questa parte si moltiplicano nuovi luoghi di culto degli ortodossi (rumeni e moldavi, in particolare) che si vedono offrire dalle chiese cattoliche locali edifici di culto un tempo cattolici, rimasti senza parroci, che si riempiono di nuovo ogni domenica, dopo essere rimasti deserti per mancanza di frequentanti. Anche in tal caso, ciò che colpisce l osservatore è il confronto ravvicinato fra modelli di spiritualità, quello cattolico e quello ortodosso, in parte diversi ma anche d altro canto prossimi per la devozione popolare alle immagini dei santi, confronto che genera una blanda competizione. 3. Terza scena: religioni e culture di donne in movimento Terza scena. Un modesto appartamento di una casa a schiera alla periferia di Bradford, in Gran Bretagna. Alle cinque di un tranquillo pomeriggio di un normale giorno feriale, vi sono riunite delle signore che stanno bevendo il the. Non si tratta di signore della buona borghesia anglosassone, ma di donne d origine pakistana. Si ritrovano, periodicamente e a rotazione a casa dell una e dell altra, ogni settimana. Bere il the fa parte dei loro costumi tradizionali. Infatti, queste donne stanno rinnovando un antico rito, quello del lena dena (letteralmente: dare e prendere); un rito domestico contrassegnato dallo scambio di doni, regolato in conformità ad un principio saldissimo: quando ricevo un dono, sono obbligato a ricambiarlo con qualcosa che superi il valore di quanto ho ricevuto. Secondo la tradizione, la cerimonia del the è prerogativa delle donne. Attraverso di essa, le madri di famiglia intessono una fitta rete di relazioni sociali, fondate sulla circolazione dei doni, una rete funzionale alla creazione e al rafforzamento di solidarietà fra famiglie, a volte, all origine legate dallo steso vincolo d appartenenza di casta. Nella società pakistana, infatti, questo sistema di relazioni consente di avviare i primi contatti fra famiglie per combinare i matrimoni e soprattutto per creare le condizioni favorevoli alla stipulazione d affari e scambi economici fra gli uomini dei diversi nuclei familiari coinvolti. Nella situazione migratoria della Gran Bretagna, la vasta comunità pakistana (che rappresenta oggi il 17% della presenza totale d immigrati nel Regno Unito, pari ad un 6% circa della popolazione inglese) riproduce lo schema del lena dena, perché la rete di solidarietà interfamiliare, creata e mantenuta in vita dalle donne, serve agli uomini per stringere alleanze economiche: per fare affari assieme, creare imprese economiche coordinate, studiando le migliori strategie da adottare per occupare nicchie di mercato che gli autoctoni, gli inglesibritish d origine o altri gruppi d immigrati hanno lasciato sguarnite. In tal modo si verifica un fenomeno interessante: per un verso, gli interscambi economici che avvengono nel mondo maschile favoriscono un graduale superamento delle tradizionali distinzioni di casta, che ancor oggi vigono nella società d origine, mentre, per un altro, la rete di gratuità stabilitasi fra le donne, e grazie a loro, tende a garantire la sopravvivenza di una regola che deriva, alla lontana, dalla cultura delle caste proprie del Pakistan: i matrimoni combinati fra famiglie (Legrain, 2007; Menski, 2000). Un retaggio etno-culturale che contrasta oggi (meno forse in passato) con la civiltà giuridica occidentale, dal momento che non si riconosce autonomia di scelta ai futuri sposi. Se, da un lato, i pakistani immigrati mostrano di sapersi adattare molto bene alle regole 4

del gioco economico, divenendo ben presto non solo ottimi lavoratori, ma anche abili imprenditori, alle donne si chiede di conservare la memoria culturale del gruppo sociale e difendere il valore della famiglia allargata, che tramite i matrimoni combinati rafforza e consolida il patrimonio economico. Qual è la domanda, allora, che ci si può porre, guardando la scena del the? La possiamo formulare nel modo seguente: l economia costringe anche chi ha una cultura diversa a adeguarsi alle regole del mercato; possiamo chiedere allora che le stesse persone abbandonino anche i loro costumi e le loro pratiche sociali che appaiono loro religiosamente ben termperate, quando queste ultime entrano in contraddizione con principi fondamentali della persona, come la libertà di contrarre matrimonio senza condizionamenti familiari? Viceversa, se accettassimo l idea dell eguaglianza di tutti nella sfera economica, lasciando assoluta autonomia nella sfera privata dunque anche in quella familiare dove ciascuno si possa regolare secondo usi, costumi e pratiche religiose che fanno parte del proprio corredo culturale, il possibile conflitto fra culture diverse si porrebbe in due modi diversi. Il primo: ciò che accade tra le mura domestiche e che non arreca offese e danni è un fatto privato; ma come dobbiamo comportarci, quando una ragazza è accasata, contro la sua volontà, in forza dei legami di solidarietà che abbiamo descritto poco sopra? È lecito che ogni comunità si adegui al proprio regime giuridico e religioso per regolare i rapporti fra le persone? Avverrebbe in tal modo un paradosso: in Europa tornerebbe a rivivere la secolare istituzione del millet inventato dagli Ottomani: alle comunità non musulmane, ospiti della Sublime Porta, e abolito da Mustafa Kemal Atatürk all indomani della fondazione della moderna Repubblica turca; secondo tale regime, com è noto, era riconosciuto alle diverse comunità nazional-religiose il diritto di seguire gli statuti in uso nelle loro rispettive patrie d origine e di rivolgersi ai loro tribunali o di sposarsi secondo le regole invalse nei regimi personali (Ferrari, Iban, 1997).. La questione che ci si pone in una società multietnica, è se contano allora di più le singole persone - i cittadini - titolari di diritti umani fondamentali, indipendentemente dalle diverse appartenenze etniche o religiose, o se debbano essere riconosciute le differenze culturali delle diverse comunità etniche nella sfera pubblica. In questo secondo caso, ogni comunità finirebbe per fare vita a se stante, rinchiudendosi nelle mura della propria cittadella giuridica, religiosa e morale (nel senso dei mores: dei modi di vestire e dei cibi da consumare), condannandosi probabilmente ad un impoverimento culturale progressivo nel passaggio da una generazione all altra. Le seconde e le terze generazioni alla lunga non sopportano di vedersi recluse, proprio perché, nate nelle società che i loro padri consideravano straniera, desiderano integrarsi e poter così riuscire nella vita, come tanti altri giovani autoctoni della loro età. Che cosa un domani potrà essere oggetto di compromesso culturale fra persone d identità e memoria etnica diverse? Un solo esempio per tutti: quando nel lontano 1983 fu introdotta in Gran Bretagna l obbligatorietà del casco per i conducenti di moto, una comunità etno-religiosa, come quella dei sikh, fece presente alle autorità britanniche che sia per motivi rituali (in pubblico deve indossare il turbante che tradizionalmente copre folte chiome) che per motivi pratici (non è certo facile indossare sopra il turbante un casco) sarebbe stato impossibile rispettare la norma in questione. La soluzione pratica trovata in Inghilterra fu banale: tutti devono indossare il casco, fatta eccezione per i membri della comunità sikh. E possibile estendere questo modello anche ad altre realtà sociali europee e fino a che punto? Nella laica Francia, non sarebbe assolutamente proponibile un analoga soluzione. Quali sono, allora, i limiti delle transazioni culturali - giuridiche, religiose, di costume - che non possono essere fatte per riuscire a garantire uguaglianza nella differenza? (Todorov, 1991) 5

4. Quarta scena: l intercultura sulle tracce della memoria Quarta scena: Mazaro del Vallo. Da almeno trent anni lì esiste una comunità tunisina che ha raggiunto la cospicua soglia del 5% circa della popolazione (che in totale conta 52.000 abitanti). La città siciliana vanta un ricco passato arabo-musulmano (Allievi, 2003). Il suo fiorente porto e la pesca hanno attratto molti immigrati. Essi provengono da due centri, Mahdiyya e Shebba, della vicina costa tunisina e lavorano prevalentemente nella flottiglia come pescatori. Senza la loro attiva presenza l economia cittadina entrerebbe in crisi. I tunisini sono arrivati agli inizi degli anni Settanta; lentamente si sono insediati in una zona del centro storico di Mazara (nome d origine araba), ribattezzata la casbah. Con il passare del tempo hanno richiamato le loro famiglie o hanno cominciato a sposarsi con donne siciliane, formando famiglie culturalmente miste. Progressivamente il desiderio di tornare presto in patria ha ceduto il passo al realismo: a Mazara c è lavoro, la famiglia è arrivata, un tetto è assicurato e i figli sono nati qui (Pace, 2000). Quando sono cominciati ad arrivare i bambini e le bambine la prima comunità d immigrati ha chiesto e ottenuto dal governo italiano l apertura di una scuola per i loro figli, dove potessero seguire i programmi della madrepatria ed avere insegnanti di madrelingua. E nata così, agli inizi degli anni Settanta del secolo appena trascorso, uno dei primi esempi di scuola riservata agli immigrati. Un caso allora passato inosservato, mentre tutti noi ricordiamo più di recente le accese discussioni quando a Milano un gruppo di famiglie egiziane ha preteso di aprire una scuola dove mandare i loro figli a studiare sui programmi egiziani. Mentre a Milano si discuteva se tenere aperta o chiudere la scuola, a Mazara da molti anni ormai un gruppo d insegnanti tunisini aveva già maturato l idea di chiudere l esperimento, riflettendo propria sulla sua stessa funzionalità in un contesto sociale e culturale profondamente mutato. In particolare in un contesto locale dove il processo di riconoscimento della differenza socio-religiosa e socio-culturale della comunità tunisina stava avvenendo sia per volontà dell autorità politiche locali sia in forza d oggettivi fattori d integrazione (matrimoni misti, elevata integrazione sociale dei figli degli immigrati, apertura di luoghi di culto senza particolari problemi, creazione di una prima rete associativa mista e così via). La domanda che gli insegnanti tunisino-mazaresi si poneva poteva riassumere così: che senso ha mantenere aperta una scuola tunisina, separata da quella dove vanno i ragazzi e le ragazze mazaresi, quando nei fatti il riconoscimento della nostra presenza comincia a farsi strada fra la gente e presso le diverse autorità pubbliche? Non si rischia di formare delle persone dissociate culturalmente: le quali conoscono poco e male la loro cultura (e anche la loro lingua e la loro religione, magari appresa sui banchi di scuola, ma per ovvi motivi non praticata nella vita quotidiana)?. Ci si è trovati così di fronte al dilemma: o chiudere la scuola differenziale, perché fonte di disagio sociale per i giovani nati da famiglie tunisine, ma ormai da un certo tempo residenti o addirittura registrati all anagrafe della città sicula (magari con nomi arabi sbagliati, perché nessuno si è preoccupato di trascrivere correttamente i nomi arabi), oppure tenere aperta la scuola nella speranza di salvare in qualche modo l identità culturale, la memoria storica e l universo dei valori religiosi dei tunisini immigrati? (Hannachi, 1998; Methnani, 1990). Fino a che punto si può cedere un po della propria memoria collettiva, se tutto ciò serve a costruire meglio un identità plurale? E forse più facile farlo, quando nella società d arrivo e d inserimento le tracce religiose e culturali lasciate dal passato non sono volutamente occultate e relegate nell oblio, ma riscoperte e trasformate in beni culturali collettivi (Slama, 1986)? Conclusione Le religioni, viste con gli occhi puntati sulle microstorie che abbiamo raccontato, possono essere considerate anche come archivi viventi di simboli collettivi. Repertori culturali e interculturali, allo stesso tempo. Le religioni possono comunicare fra culture diverse e perciò possono svolgere una funzione decisiva nelle società ad elevato pluralismo etnico, linguistico e 6

culturale. I grandi simboli, di cui le religioni sono spesse depositarie, infatti, non appartengono in modo esclusivo ad una civiltà rispetto ad un altra, ad una cultura sola e solitaria. I simboli si muovono all interno delle grandi famiglie religiose, finendo per formare, al di là delle gelosie dei singoli sistemi di credenza nel difendere le proprie pretese specificità, una sorta di capitale simbolico liberamente circolante nelle società umane, per il quale vale più la legge dell accrescimento che non quella del più radicale annichilimento. E difficile, infatti, incontrare religioni allo stato puro. Esse si presentano generalmente - come gli storici del resto c insegnano come sistemi di credenza che inventano nuovi linguaggi simbolici, ricomponendo allo stesso tempo strati simbolici pre-esistenti. I sistemi di credenza religiosa funzionano, entro certi limiti, secondo il principio che nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma. Gli storici parlano, a tal proposito, di sincretismo. In sociologia si preferisce ricorrere ad un altro concetto: i sistemi di credenza per riprodursi nel tempo e per espandersi in ambienti sociali diversi tendono a differenziarsi al loro interno e, così facendo, tendono ad includere (non ad escludere), ad accrescersi (non a ridursi all essenziale), a moltiplicare porte e finestre (non a chiudere tutte le soglie ed i varchi) attraverso cui entrano a far parte dell universo simbolico di una religione elementi, cifre, rituali, devozioni che non sono ascrivibili di per sé all atto di fondazione (al miracolo dell incipit) che segna la nascita, e solo successivamente la formazione, la persistenza e la riproduzione di un sistema di credenza. L immagine che preferisco usare, in tal caso, per sintetizzare quanto appena detto è quella della falesia. Una geologia delle religioni non esiste. Se esistesse, si potrebbe immaginare di studiare una religione come il geologo esamina la stratificazione di una parete rocciosa: cogliendo le differenze fra gli strati più antichi e quelli più recenti, individuandone, di volta in volta, la diversa conformazione e, allo stesso tempo, la straordinaria forza d integrazione (Pace, 2008). Viste con gli occhi di chi crede nell assolutezza del proprio punto di vista religioso da cui deduce spesso la matrice simbolica delle propria identità, esclusiva e pura, l immagine della falesia è improponibile. Soprattutto in tempi, come quelli che stiamo vivendo, in cui si tende a tracciare attorno alle identità collettive saldi e invalicabili confini sacri. La falesia è, metaforicamente parlando, il rovescio delle politiche d identità chiuse, gelose del mito delle loro origini pure e incontaminate. Alla lunga, tale politiche mostrano tutta la loro limitatezza, soprattutto quando esse divengono d impaccio al riconoscimento delle differenze fra persone di cultura e religione diverse. BIBLIOGRAFIA ALLIEVI S. (2003), Islam italiano, Einaudi, Torino AMBROSINI M., MOLINA S. (a cura di) (2004), Seconde generazioni, Fondazione Agnelli, Torino. ATGLAS V. (2005), Le nouvel hindouisme occidental, Editions CNRS, Paris. CESARI J. (2005), Islam in the West, Palgrave, New York. CESARI J, PACINI A. (a cura di) (2000), Giovani musulmani in Europa, Fondazione Agnelli, Torino. DENTI D., FERRARI M., PEROCCO F.(a cura di) (2005), I Sikh, Franco Angeli, Milano. DE WENDEN C. (2001), L Europe des immigrés, ADRI, Paris. FERRARI S., IBAN M. (1997), Diritto e religione in Europa occidentale, Il Mulino, Bologna. FRISINA A. (2007), Giovani musulmani italiani, Carocci, Roma. HANNACHI K. (1998), Gli immigrati tunisini a Mazara del Vallo, CRESM, Gibellina. JENKINS P. (2002), The Next Christendom, Oxford University Press, Oxford (trad. it. La Terza Chiesa, Fazi, Roma 2004). 7

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