PARTE QUINDICESIMA. L'età dell'imperialismo. Decadentismo e Simbolismo. Le avanguardie.

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PARTE QUINDICESIMA L'età dell'imperialismo. Decadentismo e Simbolismo. Le avanguardie. 1

1.1 Premessa: La Belle époque (1896-1914) SEZIONE PRIMA LA STORIA Con l'espressione di Belle époque (la "Bella epoca") gli storici definiscono il periodo di prosperità e di pace vissuto dalla borghesia europea tra il 1900 e il 1914. Se la data conclusiva, con il suo riferimento allo scoppio della prima guerra mondiale, è indiscussa, perplessità sono emerse per la data iniziale, che alcuni storici vorrebbero anticipare al 1880 (anno di notevole importanza sul piano finanziario) o addirittura al 1870, l'anno della guerra franco-prussiana, dopo la quale l'europa visse il suo più lungo periodo di pace dall'inizio dell'età moderna. L'ottimismo e l'euforia che caratterizzarono la Belle époque sono giustificati non solo per l'assenza di conflitti militari (evitati dalle classi dirigenti mediante il ricorso alle "armi" della diplomazia), ma anche da altri fattori, come un diffuso allargamento del suffragio elettorale, una dinamica politica di riforme e di assistenza sociale, i progressi della scienza, ecc. Ma è anche vero che uno dei tratti distintivi del periodo fu la corsa al riarmo. Accanto alla realtà in sé positiva della Belle époque, c'è dunque il mito di essa, creato negli anni della prima guerra mondiale, quando si guardò con nostalgia all'epoca che precedette la catastrofe del conflitto internazionale. Scrisse nel 1915 R. M. Rilke, a guerra iniziata: Qualsiasi cosa succeda, il peggio è che quell'innocenza di vita in cui siamo cresciuti non tornerà mai più per nessuno di noi. Marcel Proust, a sua volta, immortalò il mito della Parigi della Belle époque, con i suoi ritrovi notturni, le sue mostre d'arte, i suoi teatri. Ma sia Rilke sia Proust, come anche R. Musil, F. Kafka, Toulouse-Lautrec (che fissò acutamente sulla tela le contraddizioni della società contemporanea) e tanti altri scrittori e artisti avvertivano i contrasti profondi e le inquietudini segrete di quell'epoca brillante ma fragile, già incrinata dalle lacerazioni che avrebbero gettato l'europa nella voragine della Grande Guerra. Con l'esposizione universale del 1900 l'illuminazione elettrica trionfò a Parigi, che divenne da allora la ville lumière. Vienna, altra capitale della Belle époque, era la città del valzer, dell'operetta, dei balli di corte. A ritmo di danza, l'europa precipitava verso l'abisso. 1.2 Le origini dell'imperialismo Concetto di "imperialismo". Con il termine "imperialismo" si intende, in generale, la tendenza di uno Stato o di un popolo a conseguire l'egemonia e il controllo economicopolitico (diretto o indiretto) su un altro Stato o su un altro popolo. Due sono gli aspetti più significativi del fenomeno dell'imperialismo: 1) la sempre più accesa concorrenza politico-economica tra le maggiori potenze nel periodo 1870-1914; 2) l'espansione coloniale, sempre più rapida, a partire dagli anni Ottanta dell'ottocento. Occorre sottolineare la novità dell'espansione coloniale di fine Ottocento: mentre in passato la conquista coloniale era stata affidata in gran parte all'iniziativa dei privati o delle compagnie mercantili, ora invece furono i governi stessi ad assumerla direttamente. Sul piano storico, il termine "imperialismo" ha la sua origine nella politica "imperiale" inaugurata dal ministro conservatore inglese B. Disraeli nel 1877, quando la regina Vittoria assunse il titolo di "imperatrice delle Indie". 2

I saggi sull'imperialismo. Il primo importante saggio sull'imperialismo è dovuto a uno studioso liberaldemocratico inglese, John Atkinson Hobson: in Imperialism, A Study (1902), Hobson individua le cause del fenomeno imperialista nella sovrapproduzione di merci e capitali e nella conseguente necessità di trovare nuovi sbocchi di mercato, controllando nel contempo le fonti di materie prime. La questione degli sbocchi è al centro anche della riflessione di Rosa Luxemburg (L'accumulazione del capitale, 1913), che considera l'imperialismo come caratteristica permanente del modo capitalistico di produzione (escludendo qualsiasi possibilità di sviluppo interno al sistema). Altri marxisti, invece, mettono in rilievo il mutamento del capitalismo nella fase della concorrenza monopolistica: in Imperialismo, fase estrema del capitalismo (1917), Nikolaj Lenin afferma che la caratteristica essenziale della nuova fase è, appunto, da individuare nel predominio del monopolio. Secondo Lenin, il movimento dei capitali prevaleva ormai nettamente su quello delle merci, e così il capitale finanziario su quello industriale, mentre si accentuava il colonialismo; una volta esaurite le aree colonizzabili, lo sbocco finale degli Stati ad economia capitalistica sarebbe stata necessariamente la guerra. Una posizione diversa è quella dell'economista austriaco Joseph Alois Schumpeter, che, in Sociologia dell'imperialismo (1919), considera l'imperialismo come una tendenza non necessaria, anzi, addirittura contraddittoria rispetto al capitalismo: la politica imperialistica, caratterizzata dallo sviluppo dei monopoli e da un militarismo aggressivo, costituisce, secondo lo studioso, una deviazione rispetto al capitalismo "puro", fondato sulla libera concorrenza: di qui la definizione schumpeteriana dell'imperialismo come l'assurda tendenza da parte di uno stato a perseguire un'espansione illimitata e violenta. Una nuova tesi sul fenomeno imperialista è stata di recente avanzata dallo storico inglese D. K. Fieldhouse (L'età dell'imperialismo. 1830-1914, 1975), che spiega l'imperialismo come una reazione a eventi che si verificano alla periferia del sistema industriale: secondo tale tesi, le classi dirigenti degli stati imperialistici avrebbero preferito una penetrazione puramente economica e non militare, ma sarebbero stati costretti a intervenire per l'instabilità politica dei Paesi sottosviluppati. 1.3 L'imperialismo nel mondo L'imperialismo degli Stati Uniti. Alla fine dell'ottocento, la dottrina di Monroe fu aggiornata, negli Stati Uniti, in chiave imperialistica (non più l'america agli americani, ma l'america agli Stati Uniti ), ricorrendo all'alibi della liberazione dei territori del continente americano dal dominio degli stati europei. Un caso esemplare, in questo senso, è la questione di Cuba. Colonia ancora spagnola, l'isola di Cuba era una grande produttrice di zucchero, grazie anche ai forti investimenti di capitale statunitense. Quando nel 1898 una nave statunitense, la Maine, saltò in aria nel porto de L'Avana, gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Spagna, attaccandola anche in Asia, nelle Filippine, e la costrinsero in brevissimo tempo alla resa: Cuba fu proclamata indipendente (ma in realtà sotto il controllo statunitense sulla sua economia), mentre le Filippine furono cedute direttamente agli Stati Uniti, che se ne servirono come base strategica per la penetrazione in Cina. Tale politica imperialistica in Asia fu mascherata con la dottrina della Porta aperta (1899): le maggiori potenze dovevano avere pari diritti nel commercio con la Cina (sfruttando a proprio vantaggio le convenienti tariffe doganali cinesi). La politica statunitense divenne ancor più aggressiva quando fu eletto presidente Theodore Roosevelt (1858-1919), che, in politica interna, si batté contro lo strapotere dei trust e, in politica estera, adottò il sistema del big stick ("grosso bastone"): convinto espansionista, Roosevelt intervenne duramente contro la Colombia (che si rifiutava 3

di concedere la striscia di terra necessaria alla costruzione del canale di Panama) e fece proclamare, sotto la protezione della flotta statunitense, la nuova repubblica del Panama. La nascita della repubblica cinese. Dopo la sconfitta subìta ad opera del Giappone (vedi Parte XIV, 1.14), si sviluppò dal 1898 in Cina un movimento xenofobo e anticristiano, promosso dai cosiddetti boxers ("pugili", con riferimento alle arti marziali praticate dagli affiliati ad alcune società segrete). La rivolta dei boxers si estese rapidamente (con aggressioni di missionari, di cinesi convertiti e di stranieri) fino a Pechino, dove il governo imperiale fu costretto a dichiarare la guerra alle potenze straniere. Fu allora inviato un corpo di spedizione internazionale, che, dopo aver avuto facilmente il sopravvento sulle bande dei boxers e sulle truppe regolari cinesi, si abbandonò a spaventosi massacri e devastazioni (compreso l'incendio del palazzo imperiale), distruggendo tra l'altro un vastissimo patrimonio artisticoculturale. Il riscatto della Cina è legato al nome di un medico di Canton, Sun Yat-sen (1866-1925), assertore della necessità di modernizzare la sua patria, diffondendovi i principî della scienza e della tecnica occidentali. Sun Yat-sen condensò il suo programma politico nei tre principî del popolo : indipendenza, democrazia e benessere; ma riuscì ad attuare solo l'indipendenza del suo paese. Grazie alle varie forme di lotta armata e di congiura da lui organizzate, nel 1911 cadde la dinastia mancese e fu proclamata la repubblica, della quale Sun fu il primo presidente. L'opposizione dei proprietari terrieri, ostili alle sue riforme, e dell'esercito lo costrinsero però a dimettersi a favore del generale Yuan Shih-K'ai, che instaurò un regime corrotto e succube degli stranieri. L'imperialismo giapponese. Le due potenze più accanitamente rivali in conseguenza dei contrastanti interessi in Cina erano la Russia e il Giappone: la posta in gioco era il controllo della Corea e della Manciuria. Confidando in una facile vittoria, i Russi ruppero le relazioni diplomatiche con il Giappone, che diede allora prova della sua formidabile potenza militare. Nel 1904, senza dichiarazione di guerra, la flotta nipponica attaccò quella russa a Porth- Arthur, distruggendola. Nel 1905 ebbe luogo la grande battaglia campale di Mukden, dove le truppe russe furono disastrosamente sconfitte. Poco dopo, anche una nuova flotta russa fu annientata presso l'isola di Tsushima. Non restò alla Russia che riconoscere la Corea e la Manciuria meridionale come zone d'influenza del Giappone, al quale inoltre fu ceduta la parte meridionale dell'isola di Sakhalin. La guerra russo-giapponese ebbe conseguenze importantissime: rivelò la debolezza della Russia, mise fine al mito della superiorità della razza bianca e segnò l'ingresso del Giappone come grande potenza nella politica mondiale. L'imperialismo inglese. Planetaria fu l'espansione dell'imperialismo inglese, che si giovava di un'esperienza secolare, grazie al dominio sui mari. A partire dal 1882, la Gran Bretagna si assicurò il controllo di vasti territori in Africa, nel subcontinente indiano, in Australia, nella Nuova Zelanda. I domini coloniali inglesi, che nel 1876 coprivano un'area di 22 milioni e 500.000 chilometri quadrati, raggiunsero, nel 1914, 33 milioni e mezzo di kmq, con circa 394 milioni di abitanti. Una delle più dure e sanguinose guerre colonialistiche sostenute dalla Gran Bretagna fu la guerra anglo-boera (1899-1902), combattuta nell'africa del sud tra i Boeri, discendenti dei coloni olandesi, e gli Inglesi: la posta in gioco era il controllo dei giacimenti diamantiferi, scoperti nell'orange e nel Transvaal. Dopo un'iniziale superiorità, i Boeri furono sconfitti e dovettero riconoscere l'annessione alla Gran Bretagna della Colonia del Capo, che nel 1909, insieme al Transvaal e all'orange, formò l'unione Sudafricana. L'imperialismo degli altri paesi europei in Africa. L'altro grande paese coloniale europeo, accanto alla Gran Bretagna, è la Francia, le cui colonie passarono, nel periodo dal 1876 al 1914, da 900.000 kmq con 6 milioni di abitanti a 10 milioni e 600.000 kmq con 55 milioni e 4

500.000 abitanti. Nel 1908 il Belgio acquisì ufficialmente il Congo sotto forma di proprietà privata della corona. Anche la Germania post-bismarckiana iniziò una politica di espansione coloniale in Africa acquisendo negli anni Ottanta territori estesi in un'area di 2,5 milioni di kmq. Più limitata fu l'espansione coloniale italiana (su un'area di 500.000 kmq), diversificata dalle altre colonizzazioni perché lo scopo primario dell'italia era quello di dirottare verso le colonie una parte della popolazione eccedente (di qui la definizione, per l'espansione italiana, di imperialismo straccione ). Dal 1905 al 1911 una gravissima tensione si manifestò tra Germania e Francia per il controllo sul Marocco. Con gesto teatrale, nel 1905 Guglielmo II si recò a Tangeri, per assumere una specie di protettorato sul Marocco. La crisi marocchina si risolse infine con un compromesso: alla Francia fu riconosciuta la supremazia in Marocco in cambio della cessione alla Germania di una parte del Congo francese. Sull'onda della duplice crisi marocchina e approfittando delle difficoltà della Turchia nei Balcani, l'italia, nel 1911-12, conquistò la Libia e occupò Rodi e il Dodecaneso (le isole del mare Egeo). Verso la prima guerra mondiale. Tra il 1912 e il 1913 ebbero luogo tra gli stati balcanici due gravi conflitti, determinati dallo sgretolamento progressivo dei tre imperi austro-ungarico, russo e ottomano. La prima guerra balcanica scoppiò nell'ottobre 1912: una coalizione, formata da Serbia, Bulgaria, Grecia e Montenegro, attaccò la Turchia per ridefinire gli equilibri territoriali nei Balcani. Dopo la sconfitta, i Turchi furono costretti ad abbandonare quasi tutta la penisola balcanica. Convinta di aver sostenuto il peso maggiore della guerra e insoddisfatta per la spartizione dei territori, la Bulgaria attaccò la Serbia (giugno 1913), provocando la seconda guerra balcanica; ma fu sconfitta in seguito all'intervento di Romania, Grecia, Montenegro e Turchia a fianco della Serbia. Poco tempo dopo, il 28 giugno 1914, un irredentista serbo della Bosnia assassinò a Sarajevo l'erede al trono d'austria Francesco Ferdinando: fu questa la scintilla della prima guerra mondiale. 1.4 Fordismo e taylorismo negli Stati Uniti Sul piano economico, la concorrenza tra grandi potenze si manifestò nel vertiginoso sviluppo dell'economia negli Stati Uniti agli inizi del Novecento. Bastino due esempi: l'estrazione del petrolio (nel Texas, nel Kansas, nella California) fu, a partire dal 1900, all'incirca pari a quella di tutto il resto del mondo; e la produzione siderurgica degli Stati Uniti, sempre nel 1900, fu superiore a quelle dell'inghilterra e della Germania sommate insieme. Decisivo fu inoltre il contributo dato da Henry Ford (1863-1947) alla più grande innovazione del secolo, l'automobile. Fu Ford a inventare la prima utilitaria, il famoso "modello T" (1908), una vettura non bella, ma semplice e pratica, alla portata di tutti. Nel 1912 la "Ford Motor Company" raggiunse gli ottantamila esemplari di automobili prodotte: per far fronte alla sempre crescente domanda, nel 1913 fu introdotta la prima catena di montaggio, con la conseguente standardizzazione e produzione in serie, che produsse una vera e propria rivoluzione nel sistema industriale. Già nel 1914, la produzione toccò la vetta dei 250.000 esemplari e l'azienda americana pose le sue basi in tutt'e cinque i continenti. Colui che sgombrò la strada alla prima catena di montaggio fu l'ingegnere statunitense Frederick W. Taylor (1856-1915), che, entrato in una fabbrica come operaio per capire dall'interno il sistema di produzione, elaborò una teoria economica dell'organizzazione scientifica del lavoro, nota, dal suo nome, con il termine di "taylorismo": essa si basava sul principio secondo cui la migliore produzione si determina quando a ogni lavoratore è affidato un compito specifico, da svolgere in un determinato tempo e in un determinato modo. 5

Occorreva in altre parole, secondo Taylor, scomporre e studiare nei minimi particolari ogni fase del ciclo produttivo, eliminando gli sforzi inutili e controllando i lavoratori mediante norme che evitassero ogni distrazione (divieto di parlare, di fumare, di assentarsi dal posto di lavoro, ecc.). Il taylorismo incideva così sulla figura dell'operaio, sottraendogli ogni tipo di discrezionalità: mentre prima egli poteva scegliere tempi e modi del suo lavoro, con il nuovo sistema produttivo fu costretto ad adattarsi a tempi e modi scelti dai dirigenti. Proprio nell'importanza attribuita ai dirigenti (soprattutto alla categoria degli ingegneri all'interno dell'azienda) è da riconoscere il carattere distintivo del taylorismo rispetto al fordismo, nel quale prevaleva invece il grande capitano d'industria. 1.5 Politica e società in Europa La lotta politica in Francia. Dopo l'«affare Dreyfus», le elezioni del 1899 in Francia diedero la maggioranza a un blocco radical-socialista, che batté la coalizione di destra. Fu attuata una politica laica e democratica: abolito il concordato, lo stato fu separato dalla chiesa (1905) e molte scuole confessionali furono chiuse. Il movimento operaio francese, intanto, si rafforzava grazie soprattutto all'operosità di Jean Jaurès, fondatore (1904) del quotidiano L'Humanité, dalle cui pagine condusse una serie di lotte a favore dell'istruzione laica e della legislazione sociale. Ma si rafforzerà anche la destra, in seguito alla fondazione (1908) della rivista Action Française e dell'omonimo movimento, da parte di Charles Maurras (1868-1952), cattolico conservatore e nazionalista. Nel 1906 la coalizione di sinistra si sfaldò, in seguito alla decisione, presa nel congresso di Amens dalla CGT (Confederazione generale del lavoro), di ricorrere allo sciopero generale come arma fondamentale di lotta, secondo le idee propugnate da Georges Sorel. I radicali rimasero da soli al potere, dal 1906 al 1909, con Georges Clemenceau (1841-1929). L'intensificarsi degli scioperi provocò uno scontro tra il governo e il movimento operaio. Dello spostamento a destra dell'asse politico beneficiò Raymond Poincaré (1860-1934), che, divenuto presidente del consiglio (1912-13), promosse un rafforzamento militare in funzione antitedesca e istituì un servizio militare di tre anni. Alla corsa agli armamenti si oppose vigorosamente Jaurès, che però, alla vigilia della prima guerra mondiale, fu assassinato. L'Inghilterra tra progresso civile e lotte sociali. Nel 1906 i liberali inglesi vinsero le elezioni contro i conservatori; ma il fatto nuovo fu l'elezione di 29 candidati laburisti, che diedero origine al Labour Party: finiva così il bipartitismo e sorgeva sulla scena politica inglese un terzo grande partito, che, alle elezioni del 1911, manderà al Parlamento un centinaio di deputati. Presidente del consiglio, dal 1908 al 1916, fu Herbert Henry Asquith; ma la figura di maggiore spicco del governo fu il cancelliere dello scacchiere David Lloyd George (1863-1945), che, nel 1909, elaborò una riforma fiscale volta a colpire la proprietà terriera e i redditi più alti, provocando una dura opposizione da parte della Camera dei Lord, che però fu costretta ad accettare una limitazione dei suoi poteri. Lloyd George promosse inoltre le leggi sulle pensioni di vecchiaia e sulle assicurazioni sociali (1911), gettando le basi del moderno welfare state (stato del benessere) in Inghilterra. Il notevole aumento del costo della vita, mentre i salari rimanevano stazionari, suscitò tuttavia numerose agitazioni sociali, ad opera soprattutto di minatori, portuali, ferrovieri. Ad essi si aggiunse il movimento delle suffragette, che si battevano per l'estensione alle donne del diritto al voto (concesso per la prima volta, nel 1906, alle donne finlandesi, e, subito dopo, alle norvegesi e danesi). Fondata nel 1903 da Emmeline Pankhurst (1858-1928), l'unione sociale e politica delle donne adottò metodi di lotta molto duri, che si spinsero anche fino a devastazioni di negozi e altri atti di violenza; ma, in genere, le suffragette si limitavano a interrompere i discorsi degli uomini 6

politici chiedendo ad alta voce: Quando il voto alle donne?. Dopo la morte di una giovane suffragetta, Emily Davidson (che, nel corso di un derby alla presenza del re Giorgio V, si era gettata sotto le zampe di un cavallo), l'opinione pubblica fu più favorevole alla concessione alle donne del diritto di voto, che però diventerà effettivo in Inghilterra solo nel 1928. Un'altra grave questione interna era quella irlandese. Nel 1912 il governo Asquith concesse finalmente all'irlanda l'home Rule (lo statuto autonomo); ma gli Irlandesi rimasero insoddisfatti, mirando ormai a una totale indipendenza. L'età guglielmina in Germania. Salito al trono nel 1888, Guglielmo II di Hohenzollern (1859-1941) inaugurò in Germania quella che dal suo nome fu detta età guglielmina, destinata a durare fino al 1918. Dopo le elezioni del 1890, nelle quali i cattolici del centro e i socialdemocratici (le due forze politiche contro le quali si era battuto Bismarck) ottennero un grande successo, Guglielmo II provocò le dimissioni di Bismarck, iniziando il nuovo corso della politica tedesca: la cosiddetta Weltpolitik ("politica mondiale"). Fu chiamato al potere, come cancelliere, Leo von Caprivi (1831-1899), che annullò le leggi antisocialiste, ma che, dopo quattro anni, fu costretto a dimettersi per l'opposizione dei proprietari agrari alla sua politica liberista. Si aprì così, a partire dal 1894, un decennio politico di tendenza conservatrice, mentre la Germania diveniva una delle più grandi potenze economiche mondiali e mentre si rafforzava sempre più il potere dei militari. Di conseguenza, si rafforzava il nazionalismo tedesco sotto la nuova forma del pangermanesimo, la cui ambizione era la creazione di una grande area dell'europa centrale, dominata dalla Germania. Un profondo influsso fu esercitato su alcuni strati della borghesia tedesca da un libro di Houston Chamberlain, un inglese naturalizzato tedesco, amico personale del kaiser: Fondamenti del secolo XIX (1899). Si trattava di un rozzo miscuglio di razzismo e di violenza, dove si esaltava il primato della mitica razza ariana, destinata a dominare il mondo, e si creavano le premesse dell'antisemitismo (negando addirittura che Cristo fosse stato un ebreo). Intorno al progetto di una grande flotta, che rivaleggiasse con quella inglese, Guglielmo II ottenne l'appoggio del blocco industriale-agrario e dell'esercito, mentre i socialdemocratici, dopo la sconfitta (1913) della corrente più rivoluzionaria, guidata da Rosa Luxemburg (vedi Parte XIV, 1.10), rinunciarono allo sciopero generale come metodo di lotta e si integrarono di fatto nella politica nazionale del Reich. Si disgregava intanto il sistema di alleanze creato da Bismarck allo scopo di isolare politicamente la Francia. Tra il 1890 e il 1894 si delineò una alleanza militare franco-russa. Nel 1904 l'inghilterra uscì dal suo splendido isolamento e, per far fronte alla corsa al riarmo dei Tedeschi, si alleò con la Francia ("intesa cordiale"); seguì, nel 1907, un trattato di alleanza tra Inghilterra e Russia. Lo sbocco conclusivo di questo nuovo sistema di alleanze fu la Triplice Intesa, cioè l'alleanza franco-russo-britannica, stipulata nel settembre 1914, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. Si era intanto indebolita la Triplice alleanza, il patto militare stipulato nel 1882 tra Germania, Austria- Ungheria e Italia. In occasione del rinnovo del patto, nel 1902, l'italia ne ribadì il carattere difensivo e, nel contempo, stipulò un accordo con la Francia, che si impegnava a non ostacolare un eventuale intervento italiano in Libia. Il cancelliere tedesco Bernhard von Bülow definì l'iniziativa dell'italia un semplice giro di valzer, perché non minacciava la fedeltà alla Triplice. In realtà, troppo forti erano i contrasti tra Italiani e Austriaci per le terre "irredente" (Trentino, Venezia-Giulia): lo sbocco inevitabile di tali contrasti sarà l'avvicinamento dell'italia all'intesa e la denuncia ufficiale della Triplice (3 maggio 1915). Il problema delle nazionalità nell'impero asburgico. Il più grave problema dell'impero austro-ungarico era quello delle nazionalità. Scontenti del compromesso del 1867 (vedi Parte XIV, 1.5) erano soprattutto i Boemi, in particolare il partito dei Giovani Cechi, mentre il più 7

moderato partito dei Vecchi Cechi accettò alcune concessioni di carattere culturale del governo di Vienna. Dopo il 1906 accrebbe la propria influenza in Austria il principe Francesco Ferdinando, erede al trono, che sostenne la riforma dell'impero in senso trialistico (cioè attribuendo il potere anche agli Slavi, oltre che agli Austriaci e agli Ungheresi). L'annessione (1908) della Bosnia-Erzegovina all'impero inasprì ulteriormente il conflitto delle nazionalità: in Serbia, si rafforzò la tendenza antiaustriaca, che mirava alla costituzione di un grande stato degli Slavi del Sud (Jugoslavi). La Russia tra rivoluzione e reazione. Alla fine dell'ottocento ebbe inizio in Russia il decollo industriale, che si giovò dell'afflusso massiccio di capitali stranieri, attirati dai profitti molto elevati che il basso costo della manodopera salariale consentiva di realizzare. Un impulso allo sviluppo industriale fu dato dal ministro delle Finanze Sergej Jul'evič Vitte (1849-1915), che favorì l'espansione dell'industria pesante, delle ferrovie, della flotta fluviale, e attuò un rigido protezionismo, elevando a livelli molto alti le tariffe doganali. Ma le richieste di una maggiore giustizia sociale, sollecitate da contadini e operai, vennero ignorate dallo zar Nicola II, che incoraggiò i pogrom (le sommosse antisemitiche) perché il malcontento popolare trovasse una valvola di sfogo nello sterminio degli ebrei. Il vero obiettivo della politica zarista era la supremazia militare in Estremo Oriente; ma le prime sconfitte subìte nella guerra russo-giapponese (vedi sopra, 1.3) tra il febbraio e il dicembre 1904 determinarono una situazione rivoluzionaria. L'anno precedente si era svolto a Bruxelles e a Londra (in due riprese) il congresso del partito socialdemocratico russo, in cui era avvenuta la suddivisione nel gruppo di maggioranza ( bolscevico ), capeggiato da Lenin, e in quello di minoranza ( menscevico ). Mentre i menscevichi miravano alla costituzione di un partito di massa di tipo occidentale che operasse per la trasformazione capitalistica e borghese della società russa (necessaria premessa per un programma socialista), Lenin puntava invece su un partito formato da rivoluzionari professionisti, in grado di trasformare la lotta democratica in una rivoluzione socialista. Il 22 gennaio 1905 una gran folla manifestò dinanzi al Palazzo d'inverno di Pietroburgo per rivolgere una petizione allo zar; la truppa allora aprì il fuoco sulla folla, uccidendo un migliaio di persone ( domenica di sangue ). Dopo l'eccidio, la rivoluzione dilagò in tutta la Russia, che fu sconvolta da una serie di scioperi e rivolte anche all'interno dell'esercito e della marina (celebre, grazie a un film di S. M. Ejzenštein, l'ammutinamento a Odessa della corazzata Potënkim). Un notevole contributo allo sviluppo rivoluzionario degli avvenimenti venne dall'azione dei gruppi socialisti: fu in questa occasione che a Pietroburgo, sotto la guida di Lev Davidovič Trockij (1879-1940), fu fondato il primo soviet (un organismo elettivo che rappresentava i lavoratori delle singole fabbriche). Come era accaduto ai tempi della Comune di Parigi, il movimento operaio sfidava apertamente il potere politico, applicando strumenti di democrazia diretta. Nell'ottobre 1905 lo zar dovette istituire un parlamento legislativo (duma), al quale furono però attribuite funzioni molto limitate. L'uomo forte del governo zarista fu Pëtr Arkad'evič Stolypin (1862-1911), primo ministro dal 1906 al 1911. Stolypin non si limitò tuttavia a reprimere duramente il movimento rivoluzionario, ma, al fine di separare i contadini dagli operai, affrontò con energia la questione agraria: le arcaiche comunità rurali (mir) furono smembrate, nel tentativo di creare una classe di contadini benestanti e di favorire l'esodo dei braccianti dalle campagne verso le città. Ma lo scoppio della Grande Guerra affrettò la fine del regime zarista. 1.6 L'Italia dalla crisi di fine secolo all'età giolittiana Il decollo industriale. Tra il 1896 e il 1914 l'economia italiana entrò (con forte ritardo rispetto alle economie dei maggiori paesi occidentali) nella fase del decollo industriale. Tale 8

processo fu favorito dalla riorganizzazione del sistema bancario, con la costituzione della Banca Commerciale Italiana (1894) e del Credito Italiano (1895), le prime banche miste nate in Italia, con il concorso di capitali tedeschi. Trainata da un nuovo ciclo di prosperità mondiale, l'industria italiana vide crescere notevolmente il proprio apparato produttivo specie nel settore dell'industria pesante e della produzione di beni strumentali (utilizzati per produrre altri beni, come le macchine), mentre diminuiva la produzione dell'industria leggera o addetta ai beni di consumo (come l'industria tessile), cioè quel tipo di produzione che è caratteristico della fase iniziale dell'industrializzazione. Straordinario fu, in particolare, lo sviluppo dell'industria elettrica, che si avvantaggiò della presenza di molte cascate d'acqua. Immediate furono le conseguenze, sul piano sociale, del decollo. Gli operai italiani, che percepivano salari molto minori rispetto a quelli degli altri operai europei, scioperarono massicciamente per ottenere un miglioramento delle loro condizioni di vita. Si trattò di un'ondata di scioperi in continua ascesa, documentata dalle seguenti cifre: 217 scioperi nel 1897, 256 nel 1898, 259 nel 1899, 383 nel 1900, ben 1034 nel 1901. Non scioperavano solo gli operai addetti all'industria, ma anche i portuali di Genova e di Napoli, gli zolfatari di Sicilia, le mondine delle risaie della Valpadana, perfino le sartine milanesi. In un primo tempo prevalevano tra gli scioperanti gli operai tessili ed edili (cioè i lavoratori meno qualificati); ma, in un secondo tempo, predominarono i metallurgici e i ferrovieri (cioè le categorie sindacalmente più organizzate). Occorreva dialogare con il nascente movimento operaio per incanalarlo nelle istituzioni; la scelta della classe dirigente italiana fu invece quella opposta: una violenta repressione, che provocò, alla fine dell'ottocento, una delle crisi più drammatiche della storia italiana. Il governo Di Rudinì e i fatti di Milano. Dopo la caduta di Crispi, rimaneva forte il blocco protezionista industriale-agrario (formato dall'industria siderurgica del nord e dalla grande proprietà terriera del sud) che lo aveva sostenuto. Ma non tutta la borghesia si identificava con tale blocco: una parte della borghesia industriale e professionale, di orientamento liberaldemocratico, si riconosceva nella componente più aperta del partito liberale, che faceva capo a Giolitti e a Zanardelli. Il re Umberto I (che non nutriva fiducia in Giolitti) chiamò al potere il marchese siciliano Antonio Di Rudinì, il cui governo (1896-1898) si caratterizzò per una politica anticrispina di controllo delle spese e di pacificazione sociale. Ma numerose erano le spinte verso una politica autoritaria di tipo crispino: se ne fece interprete, tra gli altri, Giorgio Sidney Sonnino, che in un famoso articolo ( Torniamo allo Statuto ), pubblicato il 1 gennaio 1897 sulla Nuova Antologia, avanzò la proposta di limitazione dei poteri del Parlamento e di rafforzamento del governo (il quale, sull'esempio tedesco, avrebbe dovuto rispondere dei suoi atti solo davanti al re). Aumentava intanto il prezzo del pane in seguito a un cattivo raccolto e alla guerra ispano-americana, che aveva impedito il normale afflusso sul mercato del grano degli Stati Uniti. Sommosse spontanee scoppiarono in varie città; i più gravi incidenti si verificarono a Milano (6 maggio 1898), dove più forte fu la protesta popolare, che le autorità scambiarono per un'insurrezione ordita dai "rossi" (i socialisti) e dai "neri" (i cattolici): di conseguenza fu proclamato lo stato d'assedio e fu chiesto l'intervento dell'esercito. Il generale Fiorenzo Bava Beccaris fece addirittura cannoneggiare la folla, provocando un centinaio di morti e ricevendo per questa sua azione da Umberto I un'alta onorificenza per i servizi resi alle istituzioni e alla civiltà. Durissima fu la repressione: furono sciolte numerose associazioni politiche e sindacali, fu limitata la libertà di stampa, furono condannati dai tribunali militari gli esponenti del movimento socialista e cattolico: Turati ebbe 12 anni di carcere e 3 furono inflitti al prete milanese don Davide Albertario. Di Rudinì fu sostituito al governo dal generale Luigi Pelloux, il quale presentò alla Camera progetti di legge liberticidi (divieto di sciopero nei pubblici servizi, limitazione delle libertà di 9