DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO



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A 349171 NICCOLO MACHIAVELLI DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO A cura di Francesco Bausi TOMO II SALERNO EDITRICE ROMA

INTRODUZIONE TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI IX XXXIV DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO LIBRO PRIMO Proemio 3 1. Quali siano stati universalmente i principii di qualunque città, e quale fusse quello di Roma 9 11. Di quante spezie sono le republiche, e di quale fu la republica romana 17 in. Quali accidenti facessono creare in Roma i tribuni della plebe, il che fece la republica più perfetta 30 iv. Che la disunione della plebe e del senato romano fece libera e potente quella republica 33 v. Dove più sicuramente si ponga la guardia della libertà, o nel popolo o ne' grandi; e quali hanno maggiore cagione di tomultuare, o chi vuole acquistare o chi vuole mantenere 37 vi. Se in Roma si poteva ordinare uno stato che togliesse via le inimicizie intra il popolo e il senato 41 VII. Quanto siano in una republica necessarie le accuse a mantenerla in libertade 50 vili. Quanto le accuse sono utili alle republiche, tanto sono perniziose le calunnie 56 ix. Come egli è necessario essere solo a volere ordinare una republica di nuovo, o al tutto fuor degli antichi suoi ordini riformarla 62 x. Quanto sono laudabili i fondatori d'una republica o d'uno regno, tanto quegli d'una tirannide sono vituperabili 68 xi. Della religione de' Romani 76 XII. Di quanta importanza sia tenere conto della religione; 949

e come la Italia, per esserne mancata mediante la Chiesa romana, è rovinata 83 XIII. Come i Romani si servivono della religione per riordinare la città e seguire le loro imprese e fermare i tomulti 89 xiv. I Romani interpetravano gli auspizii secondo la necessità, e con la prudenza mostravano di osservare la religione, quando, forzati, non la osservavano; e se alcuno temerariamente la dispregiava, punivano 93 xv. I Sanniti, per estremo rimedio alle cose loro afflitte, ricorsero alla relligione 96 xvi. Uno popolo uso a vivere sotto uno principe, se per qualche accidente diventa libero, con difficultà mantiene la libertà 100 XVII. Uno popolo corrotto, venuto in libertà, si può con difficultà grandissima mantenere libero 107 XVIII. In che modo nelle città corrotte si potesse mantenere uno stato libero, essendovi; o, non vi essendo, ordinarvelo 112 xix. Dopo uno eccellente principe si può mantenere uno principe debole; ma dopo uno debole non si può con un altro debole mantenere alcuno regno 119 xx. Dua continove successioni di principi virtuosi fanno grandi effetti; e come le republiche bene ordinate hanno di necessità virtuose successioni, e però gli acquisti e augumenti loro sono grandi 123 xxi. Quanto biasimo meriti quel principe e quella republica che manca d'armi proprie 124 XXII. Quello che sia da notare nel caso de' tre Orazii romani e tre Curiazii albani 127 XXIII. Che non si debbe mettere a pericolo tutta la fortuna e non tutte le forze; e, per questo, spesso il guardare i passi è dannoso 128 xxiv. Le republiche bene ordinate costituiscono premii e pene a' loro cittadini, né compensono mai l'uno con l'altro 132 xxv. Chi vuole riformare uno stato anticato in una città libera, ritenga almeno l'ombra de' modi antichi 135 950

xxvi. Uno principe nuovo, in una città o provincia presa da lui, debbe fare ogni cosa nuova 138 XXVII. Sanno radissime volte gli uomini essere al tutto cattivi o al tutto buoni 139 XXVIII. Per quale cagione i Romani furono meno ingrati contro agli loro cittadini che gli Ateniesi 143 xxix. Quale sia più ingrato, o uno popolo o uno principe 145 xxx. Quali modi debbe usare uno principe o una republica per fuggire questo vizio della ingratitudine; e quali quel capitano o quello cittadino per non essere oppresso da quella _.- 152 xxxi. Che i capitani romani, per errore commesso, non furano mai istrasordinariamente puniti; né furano mai ancora puniti quando, per la ignoranza loro o tristi partiti presi da loro, ne fusse seguiti danni alla republica 155 xxxii. Una republica o un principe non debbe differire a benificare gli uomini nelle sue necessitadi 158 XXXIII. Quando uno inconveniente è cresciuto o in uno stato o contro a uno stato, è più salutifero partito temporeggiarlo che urtarlo 160 xxxiv. L'autorità dittatoria fece bene e non danno alla republica romana; e come l'autorità che i cittadini si tolgono, non quelle che sono loro da suffragii liberi date, sono alla vita civile perniziose 167 xxxv. La cagione perché la creazione in Roma del Decemvirato fu nociva alla libertà di quella republica, non ostante che fusse creato per suffragii publici e liberi 172 xxxvi. Non debbano i cittadini che hanno avuti i maggiori onori sdegnarsi de' minori 175 xxxvii. Quali scandoli partorì in Roma la legge agraria; e come fare una legge in una republica, che riguardi assai indietro e sia contro a una consuetudine antica della città, è scandolosissimo 177 XXXVIII. Le republiche deboli sono male risolute e non si sanno diliberare; e se le pigliano mai alcun partito, nasce più da necessità che da elezione 186 xxxix. In diversi popoli si veggano spesso i medesimi accidenti 194 951

XL. La creazione del Decemvirato in Roma, e quello che in essa è da notare: dove si considera, intra molte altre cose, come si può salvare, per simile accidente, o oppressare una republica 198 XLI. Saltare dall'umiltà alla superbia, dalla piata alla crudeltà sanza i debiti mezzi, è cosa imprudente e inutile 211 XLII. Quanto gli uomini facilmente si possono corrompere 212 XLIII. Quegli che combattono per la gloria propria sono buoni e fedeli soldati 213 XLIV. Una moltitudine sanza capo è inutile; e come e' non si debbe minacciare prima, e poi chiedere l'autorità 215 XLV. È cosa di maio esemplo non osservare una legge fatta, e massime dallo autore d'essa; e rinfrescare ogni di nuove ingiurie in una città è a chi la governa dannosissimo 217 XLVI. Li uomini salgono da una ambizione a un'altra; e prima si cerca non essere offeso, dipoi si offende altrui 222 XLVII. Gli uomini, come che s'ingannino ne' generali, ne' particulari non s'ingannono 225 XLvin. Chi vuole che uno magistrato non sia dato a uno vile o a uno cattivo, lo facci domandare o a uno troppo vile e troppo cattivo, o a uno troppo nobile e troppo buono 232 XLIX. Se quelle cittadi che hanno avuto il principio libero, come Roma, hanno difficultà a trovare legge che le mantenghino, quelle che lo hanno immediate servo ne hanno quasi una impossibilità 234 L. Non debba uno consiglio o uno magistrato potere fermare le azioni delle città 240 LI. Una republica o uno principe debbe mostrare di fare per liberalità quello a che la necessità lo constringe 243 LII. A reprimere la insolenzia d'uno che surga in una republica potente, non vi è più sicuro e meno scandoloso modo che preoccuparli quelle vie per le quali viene a quella potenza 244 LUI. Il popolo molte volte disidera la rovina sua, ingannato da una falsa spezie di beni; e come le grandi speranze e gagliarde promesse facilmente lo muovono 249 LIV. Quanta autorità abbi uno uomo grave a frenare una moltitudine concitata 258 952

LV. Quanto facilmente si conduchino le cose in quella città dove la moltitudine non è corrotta; e che, dove è equalità, non si può fare principato, e, dove la non è, non si può fare republica 260 LVI. Innanzi che seguino i grandi accidenti in una città o in una provincia, vengono segni che gli pronosticono o uomini che li predicano 270 LVII. La plebe insieme è gagliarda, di per sé è debole 273 Lvin. La moltitudine è più savia e più costante che uno principe 276 LIX. Di quale confederazione o lega altrui si può più fidare, o di quella fatta con una republica, o di quella fatta con uno principe 287 LX. Come il consolato e qualunque altro magistrato in Roma si dava sanza rispetto di età 291 LIBRO SECONDO Proemio 295 1. Quale fu più cagione dello imperio che acquistarono i Romani, o la virtù o la fortuna 303 11. Con quali popoli i Romani ebbero a combattere, e come ostinatamente quegli difendevono la loro libertà 311 in. Roma divenne gran città rovinando le città circunvicine, e ricevendo i forestieri facilmente a' suoi onori 324 iv. Le republiche hanno tenuti tre modi circa lo ampliare 328 v. Che la variazione delle sette e delle lingue, insieme con l'accidente de' diluvii o della peste, spegne le memorie delle cose 339 vi. Come i Romani procedevano nel fare la guerra 345 VII. Quanto terreno i Romani davano per colono 349 vili. La cagione perché i popoli si partono da' luoghi patrii e inondano il paese a altrui 351 ix. Quali cagioni comunemente faccino nascere le guerre intra i potenti 359 x. I danari non sono il nervo della guerra, secondo che è la comune opinione 362 xi. Non è partito prudente fare amicizia con uno principe che abbia più oppinione che forze 371 953

XII. Se gli è meglio, temendo di essere assaltato, inferire o aspettare la guerra 374 XIII. Che si viene di bassa a gran fortuna più con la fraude che con la forza 383 xiv. Ingannansi molte volte gli uomini, credendo con la umiltà vincere la superbia 388 xv. Gli stati deboli sempre fiano ambigui nel risolversi; e sempre le diliberazioni lente sono nocive 390 xvi. Quanto i soldati de' nostri tempi si disformino dagli antichi ordini 397 XVII. Quanto si debbino stimare dagli eserciti ne' presenti tempi le artiglierie; e se quella oppinione, che se ne ha in universale, è vera 406 XVIII. Come per l'autorità dei Romani e per lo esemplo della antica milizia si debba stimare più le fanterie che i cavagli 419 xix. Che gli acquisti nelle republiche non bene ordinate, e che secondo la romana virtù non procedano, sono a mina, non ad esaltazione di esse 431 xx. Quale pericolo porti quel principe o quella republica che si vale della milizia ausiliare o mercennaria 440 xxi. Il primo pretore che ' Romani mandarono in alcuno luogo fu a Capova, doppo quattrocento anni che cominciarono a fare guerra 444 XXII. Quanto siano false molte volte le oppinioni degli uomini nel giudicare le cose grandi 448 XXIII. Quanto i Romani, nel giudicare i sudditi per alcuno accidente che necessitasse tale giudizio, fuggivano la via del mezzo 454 xxiv. Le fortezze generalmente sono molto più dannose che utili 463 xxv. Che lo assaltare una città disunita, per occuparla mediante la sua disunione, è partito contrario 478 xxvi. Il vilipendio e l'improperio genera odio contro a coloro che l'usano, sanza alcuna loro utilità 482 XXVII. Ai principi e republiche prudenti debbe bastare vincere; perché il più delle volte, quando e' non basta, si perde 485 954

XXVIII. Quanto sia pericoloso a una republica o a uno principe non vendicare una ingiuria fatta contro al publico o contro al privato 492 xxix. La fortuna acceca gli animi degli uomini, quando la non vuole che quegli si opponghino a' disegni suoi 496 xxx. Le republiche e gli principi veramente potenti non comperano l'amicizie con danari, ma con la virtù e colla riputazione delle forze 502 xxxi. Quanto sia pericoloso credere agli sbanditi 509 XXXII. In quanti modi i Romani occupavano le terre 512 XXXIII. Come i Romani-davano agli loro capitani degli eserciti le commissioni libere 520 LIBRO TERZO 1. A volere che una setta o una republica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio 523 11. Come egli è cosa sapientissima simulare in tempo la pazzia 536 in. Come egli è necessario, a volere mantenere una libertà acquistata di nuovo, ammazzare i figliuoli di Bruto 539 iv. Non vive sicuro uno principe in uno principato, mentre vivono coloro che ne sono stati spogliati 543 v. Quello che fa perdere uno regno ad uno re che sia, di quello, ereditario 545 vi. Delle congiure 549 VII. Donde nasce che le mutazioni dalla libertà alla servitù e dalla servitù alla libertà, alcuna ne è sanza sangue, alcuna ne è piena 599 vili. Chi vuole alterare una republica, debbe considerare il suggetto di quella 601 ix. Come conviene variare co' tempi, volendo sempre a- vere buona fortuna 607 x. Che uno capitano non può fuggire la giornata, quando l'avversario la vuoi fare in ogni modo 612 xi. Che chi ha a fare con assai, ancora che sia inferiore, pure che possa sostenere gli primi impeti, vince 620 XII. Come uno capitano prudente debbe imporre ogni ne- 955

cessità di combattere a' suoi soldati, e a quegli degli inimici tórla 625 XIII. Dove sia più da confidare, o in uno buono capitano che abbia lo esercito debole, o in uno buono esercito che abbia il capitano debole 633 xiv. Le invenzioni nuove che appariscono nel mezzo della zuffa e le voci nuovi che si odino, quali effetti facciano 637 xv. Che uno e non molti sieno preposti ad uno esercito, e come i più comandatoli offendono 643 xvi. Che la vera virtù si va ne' tempi difficili a trovare, e ne' tempi facili non gli uomini virtuosi, ma quegli che per ricchezze o per parentado hanno più grazia 647 XVII. Che non si offenda uno, e poi quel medesimo si mandi in amministrazione e governo d'importanza 653 XVIII. Nessuna cosa è più degna d'uno capitano, che presentire i partiti del nimico 656 xix. Se a reggere una moltitudine è più necessario l'ossequio che la pena 661 xx. Uno esempio di umanità appresso i Falisd potette più che ogni forza romana 664 xxi. Donde nacque che Annibale, con diverso modo di procedere da Scipione, fece quelli medesimi effetti in Italia che quello in Ispagna 667 xxii. Come la durezza di Manlio Torquato e la comità di Valerio Corvino acquistò a ciascuno la medesima gloria 673 XXIII. Per quale cagione Cammillo fusse cacciato di Roma 683 xxiv. La prolungazione delli imperii fece serva Roma 685 xxv. Della povertà di Cincinnato e di molti cittadini romani 688 xxvi. Come per cagione di femine si rovina uno stato 693 XXVII. Come e' si ha ad unire una città divisa; e come e' non è vera quella opinione che, a tenere le città, bisogni tenerle divise 695 xxviii. Che si debbe por mente alle opere de' cittadini, perché molte volte, sotto una opera pia, si nasconde uno principio di tirannide 701 xxix. Che gli peccati de' popoli nascono dai principi 704 xxx. A uno cittadino che voglia nella sua republica fare di sua autorità alcuna opera buona, è necessario prima 956

spegnere l'invidia; e come, venendo il nimico, si ha a ordinare la difesa d'una città 707 xxxi. Le republiche forti e gli uomini eccellenti ritengono in ogni fortuna il medesimo animo e la loro medesima dignità 713 XXXII. Quali modi hanno tenuti alcuni a turbare una pace 723 xxxm. Egli è necessario, a volere vincere una giornata, fare lo esercito confidente, e infra loro e con il capitano 725 xxxiv. Quale fama o voce o opinione fa che il popolo comincia a favorire uno cittadino; e se ei distribuisce i magistrati con maggiore prudenza che un principe 731 xxxv. Quali pericoli si portano nel farsi capo a consigliare una cosa; e quanto ella ha più dello istrasordinario, maggiori pericoli vi si corrono 738 xxxvi. Le cagioni perché i Franciosi siano stati e siano ancora giudicati, nelle zuffe, da principio più che uomini, e dipoi meno che femine 744 XXXVII. Se le piccole battaglie innanzi alla giornata sono necessarie; e come si debbe fare a conoscere uno inimico nuovo, volendo fuggire quelle 748 XXXVIII. Come debbe essere fatto uno capitano nel quale lo esercito suo possa confidare 754 xxxix. Che uno capitano debbe essere conoscitore de' siti 757 XL. Come usare la fraude nel maneggiare la guerra è cosa gloriosa 761 XLI. Che la patria si debbe difendere o con ignominia o con gloria, e in qualunque modo è bene difesa 764 XLII. Che le promesse fatte per forza non si debbono osservare 766 XLIII. Che gli uomini che nascono in una provincia osservino per tutti i tempi quasi quella medesima natura 768 XLIV. E' si ottiene con l'impeto e con l'audacia, molte volte, quello che con modi ordinarii non si otterrebbe mai 773 XLV. Quale sia migliore partito nelle giornate: o sostenere l'impeto de' nimici, e, sostenuto, urtargli; ovvero da prima con furia assaltargli 777 XLVI. Donde nasce che una famiglia in una città tiene un tempo i medesimi costumi 778 957

XLVII. Che uno buono cittadino, per amore della patria, debbe dimenticare le ingiurie private 781 XLVIII. Quando si vede fare uno errore grande a uno nimico, si debbe credere che vi sia sotto inganno 782 XLIX. Una republica, a volerla mantenere libera, ha ciascuno di' bisogno di nuovi provedimenti; e per quali meriti Quinto Fabio fu chiamato Massimo 785 DEDICA. Niccolo Machiavegli a Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai salutem 789 APPENDICE 1. Al molto reverendo monsignore messer Giovanni Gaddi, cherico di Camera Apostolica, padrone e benefattore osservandissimo 795 11. Bernardo di Giunta a Ottaviano de' Medici patrizio fiorentino salute 799 NOTA AL TESTO 803 INDICI INDICE DEI NOMI 941 958