Commissione Tributaria Regionale di Trieste, Sez. XI, sentenza n.9 del 26 marzo 2008



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Commissione Tributaria Regionale di Trieste, Sez. XI, sentenza n.9 del 26 marzo 2008 Fatto - La (omissis) con sede legale in Pordenone (incorporata, con effetto 1.8.2005, nella società "Compagnia di Banche Italiane per il Factoring Spa"), assistita e difesa dal dottor Lu., commercialista in Udine, ricorre in data 19.1.2004 contro l'avviso di accertamento n. (omissis) emesso dall'agenzia Entrate Ufficio di Pordenone, relativamente ad Irpeg, Irap ed Iva, sulla scorta del pvc del 28.10.2003 dallo stesso Ufficio elevato a carico della società verificata. L'avviso di accertamento è stato notificato il 17.11.2003 e contiene la rettifica del "modello Unico" prodotto dalla ricorrente per l'anno di imposta 1999. In particolare l'ufficio, dopo aver negato che alle operazioni di factoring, poste in essere dalla verificata, si applichi il regime di esenzione dall'imposta previsto dall'art. 10 D.P.R. 633/72: A) procede, ai fini Iva, al recupero di euro 1.130.724.46, per avere la società emesso fatture senza applicazione dell'imposta ex art. 10 citato a fronte di operazioni (suppostamente) imponibili; nonché al recupero di euro 115.145,75, per avere la società omesso di regolarizzare fatture di acquisto (per servizi di intermediazione o per le attività di supporto all'attività di factoring), che non dovevano essere emesse in esenzione di imposta ex art. 10 n. 1) o n. 9) del D.P.R. 633/72. B) riprende, ai fini imposte sui redditi a tassazione: 1) costi per euro 92.800,07 corrispondenti all'iva assolta dalla ricorrente sui propri acquisti, della quale viene a posteriori riconosciuta la detraibilità dall'iva e, contestualmente, disconosciuta la deduzione come componente negativo nella determinazione del reddito di impresa; 2) euro 43.106,94 pari ai due terzi dei costi sostenuti nel corso dell'esercizio per l'adeguamento all'euro, che secondo l'ufficio avrebbero dovuto essere considerati costi pluriennali e, pertanto, concorrere alla formazione in negativo del reddito nella misura di 1/3: accerta, di conseguenza, complessivamente un maggior reddito imponibile di euro 135.059,16. C) assume, ai fini Irap, gli stessi due rilievi operati in rettifica (in aumento) del reddito di impresa per incrementare il valore della produzione netta e, di conseguenza, accerta un maggior imponibile di euro 7.293,40. La società ricorrente preliminarmente eccepisce l'inammissibilità e l'assoluta invalidità e inefficacia dell'atto impugnato per essere stato emesso in violazione del comma 7 dell'art. 12 della legge 212/2000 che preclude agli Uffici la potestà di emanare avvisi di accertamento prima che siano trascorsi 60 giorni dalla consegna al contribuente di copia del pvc: nel caso di specie la consegna del pvc è avvenuta in data 28.10.2003 e l'avviso è stato notificato appena 20 giorni dopo e cioè il 17.11.2003. In via principale e nel merito eccepisce: A) l'erroneità delle premesse su cui l'ufficio ha basato il proprio accertamento, con conseguente infondatezza delle pretese impositive quasi tutte riconducibili al mancato

riconoscimento dell'applicabilità del regime di esenzione previsto dall'art. 10 del D.P.R. 633/72 alle operazioni di factoring poste in essere dalla società; B) l'infondatezza dello specifico rilievo relativo alla "indebita deduzione di oneri pluriennali". Per una migliore comprensione della eccezione A), la ricorrente espone in fatto quanto segue: 1) (omissis) iscritta nell'apposito elenco tenuto dall'ufficio italiano cambi e soggetta alla vigilanza della Banca d'italia, la cui attività finanziaria si realizza attraverso l'amministrazione e l'incasso di crediti di impresa che vengono acquistati con o senza assunzione del rischio di insolvenza dei debitori ceduti. 2) I contratti di factoring vengono conclusi mediante adesione da parte della clientela ad un formulario base (all. 7) contenente le "condizioni generali" del relativo rapporto, che obbligano i fornitori, ossia i cedenti, a proporre alla società la cessione onerosa pro solvendo dei crediti (in massa o singoli), ed eventualmente in base all'adesione ad una appendice alle "condizioni generali" (all. 8), per il caso in cui la cessione dei crediti avvenga con la clausola pro soluto e cioè nel caso in cui la società cessionaria si assuma anche il rischio di mancato pagamento del debitore. 3) Il formulario base prevede che, su richiesta del cedente, le parti possano convenire che il pagamento del corrispettivo della cessione dei crediti venga (in tutto o in parte) anticipato rispetto al momento dell'effettivo incasso di ciascun credito (o al momento fissato dall'art. 8 appendice nel caso del pro soluto). Evidenzia il contribuente che la concessione della anticipazione finanziaria costituisce il nucleo delle operazioni concluse dalla (omissis) con i clienti interessati al finanziamento, tant'è che gli interessi attivi sulle anticipazioni rappresentano, con i circa 19,5 miliardi di vecchie lire, la voce preminente dei componenti positivi di reddito: a fronte dei circa 6,5 miliardi derivanti dalla gestione amministrativa dei crediti ceduti (pag. 11 del pvc). 4) Gli interessi maturati sui capitali anticipati vengono tenuti distinti rispetto alle commissioni relative alla gestione dei crediti ceduti. Si tratta di una modalità puramente operativa, priva di implicazioni fiscali, dato che il rapporto contrattuale è unico e che tutti gli addebiti vengono fatturati, globalmente, in esenzione da Iva ex art. 10 n. 1) D.P.R. 633/72: in coerenza con tale impostazione la società ha ritenuto corretto che le prestazioni di intermediazione ricevute da terzi - strumentali alla propria attività di factoring - fossero considerate dagli emittenti come esenti [ex art. 10 nn. 1) e 9) D.P.R. 633/72] e che, pertanto, le relative fatture passive non recassero addebito a titolo Iva. La società ha pure considerato indetraibile (ex art. 19 D.P.R. 633/72), in assenza di operazioni imponibili, l'iva relativa alle (altre) fatture di acquisto inerenti all'attività in questione e, di conseguenza, ha dedotto tale costo in sede di determinazione del reddito imponibile di impresa. Ebbene, argomenta la ricorrente, l'ufficio distingue, nell'ambito delle operazioni poste in essere, le operazioni di finanziamento, fatturate a titolo di interessi, dalle "altre prestazioni di servizio" rese dalla

società, fatturate a titolo di commissioni. E, fermo il riconoscimento dell'esenzione alla prima tipologia di operazioni lo nega alla seconda. Viene rilevato, poi, che le prestazioni rese dalla società di factoring (ad esclusione della concessione delle anticipazioni) non sono riconducibili ad alcuna delle operazioni elencate nel n. 1) dell'art. 10 D.P.R. 633/72: non nelle "prestazioni di servizi" concernenti le "operazioni di finanziamento" e neppure nelle "operazioni, compresa la negoziazione, relative (..) a crediti"; sarebbero, invece, operazioni assimilabili al "recupero di crediti", che sono espressamente escluse dal novero delle operazioni "esenti". A supporto della tesi, l'ufficio richiama la sentenza C - 305/01 del 26 giugno 2003, con la quale la Corte di Giustizia UE (all. 10 ) - pronunciandosi sul caso di una società tedesca di factoring che aveva acquistato crediti di impresa nella forma del pro soluto - ha affermato che "una attività economica, con cui un operatore acquisti crediti assumendo il rischio di insolvenza dei debitori (c.d. factoring in senso proprio) e, come corrispettivo, fatturi ai propri clienti una commissione, costituisce un "recupero dei crediti" ai sensi dell'art. 13, parte B, lettera d), punto 3, in fine, della VI Direttiva n. 77/388 e, pertanto, è esclusa dalla esenzione stabilita dalla stessa disposizione". Sostiene l'ufficio che l'interpretazione della Corte di Giustizia UE, pur essendo stata espressa su quesito pregiudiziale formulato dal giudice tedesco in relazione ad una specifica fattispecie disciplinata dalla legislazione tedesca, sarebbe immediatamente e retroattivamente applicabile anche nell'ordinamento italiano. La società ricorrente obietta alla tesi dell'ufficio. In primis, contesta il disconoscimento, operato dall'ufficio, che l'attività di factoring assolva ad una precipua funzione di finanziamento e, quindi, la supposta esistenza - in presenza di un unico negozio giuridico - di una pluralità di cause contrattuali, a ciascuna delle quali corrisponderebbe una funzione, e correlativa prestazione, autonomamente rilevante ai fini fiscali: con la conseguenza che il contratto di factoring non sarebbe qualificabile come contratto di finanziamento, ma come contratto che dà vita sia ad operazioni di finanziamento (esenti ai fini Iva) sia ad operazioni di gestione (imponibili ai fini Iva). In effetti, dice la ricorrente, il factoring consiste in una tecnica contrattuale che in Italia utilizza l'istituto di diritto comune della cessione dei crediti (artt. 1260 e ss. CC) come "elemento strumentale", ma non di certo come "causa" negoziale, che è il finanziamento. Nel 1991, poi, il legislatore ha "legalizzato" il fenomeno disciplinandolo con la legge n. 52, che però non riguarda tutte le operazioni riportate dalla prassi operativa sotto la nozione di factoring, ma solo le cessioni che: a) hanno per oggetto crediti sorti da contratti stipulati nell'esercizio di una attività d'impresa; b) intervengono tra un imprenditore (cedente o fornitore) e una banca o un intermediario

finanziario (cessionario o factor), cioè un soggetto nel cui oggetto sociale sia previsto l'esercizio dell'attività di acquisto dei crediti d'impresa e che è sottoposto alla disciplina del testo unico in materia bancaria e creditizia. Ne deriva che, quando l'operazione è posta in essere nell'ambito della legge 52/1991 e, quindi, da una società finanziaria o da una banca, come nel caso di specie, la cessione dei crediti (di impresa) e tutta la gestione connessa perdono autonoma rilevanza per divenire componente di un'attività finanziaria e creditizia finalizzata "alla monetizzazione anticipata" dei crediti negoziati: attività del tutto simile alle altre attività tradizionali del credito, quali il mutuo o lo sconto bancario. E la differenza tra contratto di cessione crediti e contratto di factoring legge speciale 52/1991 sta, propriamente, nel fatto che la causa del secondo va ricercata nel finanziamento. Mediante la cessione dei crediti il cessionario - factor realizza un finanziamento del cedente - fornitore, anticipando a quest'ultimo l'importo dei crediti ceduti (dedotta la percentuale per la prestazione del servizio): su questa operazione principale si inseriscono le "altre prestazioni" fornite dal factor, che restano accessorie rispetto alla prima. Quando, quindi, sia prevista l'anticipazione del corrispettivo della cessione dei crediti, e a maggior ragione quando l'operazione è posta in essere da società finanziarie come nel caso di specie, il contratto di factoring assume i connotati propri del finanziamento, a prescindere dal fatto che la cessione dei crediti avvenga in forma di pro soluto o di pro solvendo. Essendo errate, prosegue la ricorrente, le premesse di diritto civile da cui parte l'ufficio, è anche errata la pretesa di ritenere "imponibili" operazioni che, pur strettamente connesse al factoring non sarebbero riconducibili alle fattispecie indicate nel numero 1) dell'art. 10 D.P.R. 633/72: operazioni "esenti" ai fini Iva. Né l'ufficio può pretendere di far valere (anche per il passato) il principio enunciato dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza richiamata nell'avviso di accertamento, dal momento che, nel caso che qui interessa, non si tratta della "medesima fattispecie" sottoposta all'esame della Corte, la quale non ha considerato la situazione che si verifica in Italia nel caso in cui le predette operazioni di factoring siano poste in essere da società finanziarie o da banche, ma ha considerato la diversa realtà tedesca: la controversia conosciuta dal giudice comunitario era stata originata dal mancato riconoscimento, da parte dell'a.f. tedesca, della possibilità per il factor, che operava secondo il sistema del pro soluto, di detrarre l'iva pagata sulle operazioni passive dall'imposta dovuta in relazione ai corrispettivi percepiti. La Corte ha finito per assimilare il factoring tedesco ad una attività di recupero crediti, omettendo di considerarne l'aspetto finanziario, dato che tale negozio, nell'ordinamento germanico, ha prevalente funzione

amministrativa anziché finanziaria. Quindi, argomenta la ricorrente società, poiché la pronuncia della Corte di Giustizia ha riguardato una fattispecie diversa dal nostro factoring finanziario, la stessa non può essere considerata in conflitto rispetto alla normativa del D.P.R. 633/72 e alla prassi amministrativa italiana che qualificano le "operazioni di finanziamento", e tra esse le operazioni di factoring, come "esenti da Iva": infatti l'art. 10 n. 1) del D.P.R. 633 dice che "Sono esenti dall'imposta: 1) le prestazioni di servizi concernenti la concessione e la negoziazione di crediti, la gestione degli stessi da parte dei concedenti e le operazioni di finanziamento; (...) le operazioni, compresa la negoziazione, relative a depositi di fondi, conti correnti, pagamenti, giroconti, crediti e ad assegni o altri effetti commerciali, ad eccezione del recupero crediti". La ricorrente cita la risoluzione 24 maggio 2000 n. 71/E (all. 19), secondo la quale "le operazioni di finanziamento realizzate anche mediante cessione di crediti pro soluto o pro solvendo, rilevano agli effetti dell'imposta in regime di esenzione". In definitiva, assume la ricorrente, in Italia non si è mai dubitato che il contratto di factoring - quanto meno quello in forma finanziaria praticato dalle società finanziarie e dalle banche - determinasse prestazioni rientranti nel regime di esenzione, essendo le stesse qualificabili come "operazioni di finanziamento" o comunque come "operazioni relative a crediti" aventi causa di finanziamento e giammai assimilabili al "recupero dei crediti". Comunque, afferma la difesa della ricorrente, l'eventuale applicabilità retroattiva della succitata sentenza della Corte di Giustizia troverebbe, nel caso di specie, un limite nel principio del legittimo affidamento, riconosciuto, a tutela del contribuente, sia dalla stessa Corte di Giustizia sia, in Italia, dall'art. 10 della legge 212/2000 secondo cui "I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria devono essere improntati al principio della collaborazione e della buona fede": l'a.f., soggetta al dovere di imparzialità e, pertanto, al canone di buona fede oggettiva, è altresì soggetta all'obbligo di non procedere contra factum proprium, ossia all'obbligo di non contraddirsi e, quindi, non può con un atto di accertamento smentire quanto precedentemente affermato in una circolare o risoluzione, avuto riguardo alla efficacia "esterna" e "autovincolante" di tali pronunciamenti ufficiali. Quanto, infine, allo specifico rilievo relativo alla "indebita deduzione di oneri pluriennali", la società ricorrente contesta la ripresa a tassazione di un importo pari a euro 43.106,94, corrispondente ai 2/3 del costo totale (di euro 63.660,40) suppostamente "sostenuto per l'aggiornamento dei programmi informatici per l'entrata in vigore dell'euro", ritenendo erroneamente che tali oneri non rivestano la natura di costi di esercizio, bensì rientrino tra gli oneri pluriennali da iscrivere, nello Stato Patrimoniale, tra i beni immateriali e da ammortizzare in tre

esercizi ai sensi dell'art. 68 Tuir (nel testo in vigore al 31.12.2003). Nell'avviso di accertamento si fa, erroneamente, riferimento all'"acquisto del software di adeguamento all'euro", mentre le poste rettificate si riferiscono a tre distinti contratti aventi ad oggetto, rispettivamente, l'assistenza specifica per un software e l'aggiornamento (in vista dell'introduzione dell'euro) dei software di cui la società era già titolare della licenza d'uso (all. 37): non si tratta, pertanto, dell'acquisto di nuovi software ma semplicemente dell'aggiornamento di prodotti informatici già in possesso della società, per cui il corrispettivo pagato rientra nell'ampia accezione di "spese di assistenza e di consulenza" successive all'acquisto di software ed è spesabile interamente nell'esercizio. Per tutto quanto esposto la società ricorrente chiede l'annullamento dell'avviso di accertamento: 1) in via preliminare, per essere stato emesso prima del decorso del "termine a difesa" stabilito dalla norma imperativa di cui all'art. 12, comma 7, legge 212/2000; 2) in via principale, per infondatezza di tutti i rilievi connessi con la presunta imponibilità delle operazioni poste in essere nell'ambito della propria attività di factoring, e, in via subordinata, per violazione del principio del legittimo affidamento prestato alla validità della norma di esenzione di cui all'art. 10 n. 1) del D.P.R. 633/72; 3) sempre in via principale, ma con riferimento alla ripresa a tassazione relativa alla "indebita deduzione di oneri pluriennali", per infondatezza del rilievo. Spese rifuse. Si costituisce in giudizio l'ufficio obiettando: 1) che, quanto alla presunta invalidità ed inefficacia dell'atto di accertamento per violazione dell'art. 12 dello Statuto del contribuente, gli unici motivi di nullità degli atti impositivi sono specificamente elencati dall'art. 42 del D.P.R. 600/73. Quando la legge 212, poi, ha voluto comminare la sanzione della nullità lo ha fatto esplicitamente come nel caso del comma 5 dell'art. 6, laddove vengono dichiarati nulli i provvedimenti emessi in violazione delle disposizioni ivi riportate, o come nel caso del comma 2 dell'art. 11 in riferimento alla risposta dell'a.f. all'istanza di interpello prodotta dal contribuente. Infine, si dice, la Cassazione con la sentenza n. 8344 del 19.6.2001, pronunziandosi in materia di inutilizzabilità di prove illegittimamente acquisite, e soffermandosi specificamente sul quinto comma dell'art. 12 dello Statuto del contribuente, ha affermato che "la violazione delle regole dell'accertamento tributario non comporta come conseguenza necessaria l'inutilizzabilità degli elementi acquisiti", in mancanza di una specifica previsione in tal senso. 2) che, quanto alla eccepita infondatezza del rilievo concernente il negato riconoscimento, alle operazioni di factoring, dell'applicabilità del regime di esenzione di cui all'art. 10 D.P.R. 633/72, il contratto di factoring è sì un unico accordo giuridico, ma all'interno di esso è possibile distinguere le diverse prestazioni oggetto delle obbligazioni cui sono tenuti i contraenti nell'adempimento del contratto: tali prestazioni sono descritte nelle condizioni generali di

contratto e solo ad esse bisogna guardare per identificare il rapporto giuridico. Il ragionamento fatto, dice l'ufficio, è stato lineare ed è il seguente: a) il contratto di factoring è un unico contratto; b) le prestazioni giuridiche cui sono tenute la parti contrattuali sono diverse e plurime; c) la società verificata è tenuta a incassare i crediti, sempre, come da art. 8 condizioni generali di contratto, ed a provvedere talvolta (anche se frequentemente) al finanziamento del fornitore, come dal successivo art. 9; d) il fatto che tali prestazioni siano oggetto di un unico sinallagma non comporta che l'imposizione fiscale sia necessariamente identica per tutte (pag. 7 pvc); e) nel caso de quo, si possono agevolmente individuare due tipi di prestazioni effettuate dalla ricorrente, un anticipo del capitale, remunerato con gli interessi, e un compenso per le altre attività, remunerato con la commissione: queste due attività, che sono anche materialmente distinte, sono assoggettate a regimi Iva distinti perché hanno una natura diversa; f) la remunerazione degli interessi è esente dall'iva ai sensi art. 10 n. 1) D.P.R. 633/72; la prestazione di servizio remunerata con la commissione, invece, non rientra tra le operazioni esenti ex citato art. 10, le cui esenzioni vanno interpretate restrittivamente ai sensi art. 14 delle Preleggi: pertanto, la commissione è assoggettabile ad Iva. Quindi, la tesi della società ricorrente non regge, e non regge nemmeno in merito alla validità ed efficacia da attribuire alla più volte citata sentenza della Corte di Giustizia UE, la quale, come già detto, afferma che l'attività del factor, anche quando è cessionario di un credito pro soluto, [non essendoci dubbi sulla imponibilità delle prestazioni rese nell'ambito della cessione crediti pro solvendo] si risolve in una prestazione di servizio fornita al cedente, e costituisce una attività economica imponibile ai sensi dell'art. 13, parte B, lett. d), punto 3 della VI Direttiva CEE 388 del 1977. Discende de plano l'applicabilità della pronuncia della Corte anche nel caso di specie per il noto principio per cui il giudice nazionale è tenuto ad interpretare l'ordinamento interno alla luce delle direttive come interpretate dalla giurisprudenza comunitaria. L'Ufficio, infine, ribadisce che i costi sostenuti per l'aggiornamento dei programmi informatici avrebbero dovuto essere iscritti nell'attivo patrimoniale come immobilizzazioni immateriali, ammortizzabili in tre esercizi, perché dalla lettura del contratto di acquisto (allegato al pvc) risulta chiaramente che si tratta di costi per l'acquisto del software di adeguamento all'euro, la cui utilità non si esaurisce nell'anno ma ha riflessi anche negli esercizi di imposta successivi. L'Ufficio chiede il rigetto del ricorso con spese rifuse. La "Ve.Fa. SpA", ricorrente, presenta una prima memoria illustrativa di data 23.6.04 e una seconda di data 11.11.04. L'Ufficio di Pordenone, dal canto suo, presenta una prima memoria illustrativa del 1.10.04 ed una seconda del 12.11.04.

Interviene anche la Direzione Regionale delle Entrate del FVG, ai sensi dell'art. 11 del d.lgs 546/92, con propria memoria del 8.11.04 per illustrare la interpretazione da dare alla nota prot. 2004/126747 del 5.8.2004 del Direttore centrale dell'agenzia delle Entrate, concernente l'applicazione della sentenza della Corte di Giustizia UE del 26.6.03. Può sicuramente, dice la DRE, configurarsi una attività del factor diretta unicamente alla gestione e recupero crediti, senza cioè che si faccia luogo ad una preventiva concessione di finanziamento: ragion per cui l'indagine deve essere condotta sulle concrete operazioni poste in essere dalla (omissis) S.p.A. al fine di stabilire se esse si risolvevano in una mera attività di finanziamento. Pertanto, per avere titolo alla esenzione, ex art. 10 D.P.R. 633/72, la società ricorrente, cui incombe l'obbligo, dovrebbe provare in relazione a ciascun contratto stipulato nel corso del 1999: a) la richiesta del fornitore all'anticipazione del pagamento del corrispettivo dovuto; b) lo specifico accordo sulla misura degli interessi e sulle modalità di pagamento degli stessi sulle somme anticipate. Inoltre, quando anche fossero provati, in relazione a ciascun rapporto contrattuale, i fatti di cui sopra, non si potrebbe comunque invocare il regime dell'esenzione anche per le commissioni attive di factoring relative al medesimo rapporto contrattuale per il tramite del richiamo ali'art. 12 D.P.R. 633/72: il giudizio di accessorietà tra prestazioni attiene, infatti, all'aspetto funzionale delle stesse, e non è, quindi, il valore economico della prestazione (cioè il prezzo e il relativo ricavo contabilizzato) a qualificarla principale o accessoria, bensì la funzione da essa assolta. Sicché è priva di pregio l'argomentazione di controparte che fa derivare l'accessorietà dell'attività di gestione e recupero crediti da un mero raffronto quantitativo tra i ricavi ascritti in conto economico sotto la voce "interessi attivi" e quelli qualificati come "commissioni attive di factoring". Contesta l'interpretazione data dalla DRE, con la nota del 8.11.04, la società ricorrente nella memoria illustrativa del 11.11.04, evidenziando che finalmente la centrale amministrazione dell'agenzia delle Entrate ha preso atto, come del resto aveva già fatto il Ministero delle finanze con la risoluzione 71/E/2000, che la causa essenziale del factoring tradizionalmente praticato in Italia dalle società e istituti finanziari integra una vera e propria operazione di finanziamento non dissimile dallo sconto delle cambiali e dalle altre operazioni similari. E, una volta appurata la natura creditizia del servizio prestato dalla società di factoring, tutte le operazioni attraverso le quali tale servizio viene fornito (compresa la modesta attività di istruttoria del contratto e di gestione dei crediti) rientrano tra le operazioni esenti dall'iva ex art. 10 del più volte citato D.P.R. 633. I Primi Giudici, quanto alla questione preliminare, richiamata la sentenza della Cassazione n. 17576 del 10.12.2003, nella quale si ribadisce

che le disposizioni dello Statuto del contribuente rappresentano i principi generali dell'ordinamento tributario, nonché la successiva sentenza n. 7080 del 14.4.2004 ove si evidenzia che i principi contenuti nello Statuto hanno un elevato valore ermeneutico vincolante, per cui tali principi costituiscono le regole fondamentali del particolare ordinamento cui devono attenersi tanto l'amministrazione quanto il legislatore, hanno ritenuto che non possono essere condivise le generiche osservazioni in merito svolte dall'ufficio, tendenti a sanare il mancato rispetto del termine di 60 giorni stabilito dal comma 7 dell'art. 12 della legge 212/2000 semplicemente rifacendosi alla normativa e alla prassi pre Statuto, le quali, invece, devono adeguarsi allo Statuto. L'Agenzia delle Entrate ha agito in vigenza di un temporaneo ma tassativo divieto a procedere, non sussistendo la circostanza dell'urgenza: non si capisce come l'ufficio, avendo avuto la possibilità durante tutto l'anno 2004 di rinnovare l'atto impugnato, non abbia provveduto con nuova notifica a sanare la situazione di irregolarità. L'atto impugnato, affermano i Primi Giudici, pur se materialmente esistente e nonostante lo Statuto non preveda esplicitamente la sanzione della nullità, dovrà essere considerato inefficace, nel senso che non è idoneo a spiegare gli effetti che gli sono propri, e come tale annullabile. I Primi Giudici, dopo essersi espressi incidenter tantum sul merito della controversia, hanno, quindi, accolto il ricorso della (omissis) S.p.A. con decisione n. 1 del 19.1.2005, avverso la quale ha proposto appello l'ufficio. L'Ufficio appellante eccepisce, sulla questione preliminare giudicata, la mancata espressa previsione della sanzione della nullità per l'inosservanza del termine di cui al comma 7 dell'art. 12 dello Statuto del contribuente, argomentando, come già fatto in primo grado, a contrario da alcune norme dello stesso Statuto. Quanto, poi, alla giurisprudenza, l'ufficio ribadisce che la Cassazione con sentenza n. 8344 del 19.6.2001, soffermandosi specificamente sul quinto comma dell'art. 12 in questione, ha affermato che "la violazione delle regole dell'accertamento tributario non comporta come conseguenza necessaria l'inutilizzabilità degli elementi acquisiti", in mancanza di una specifica previsione in tal senso. L'Ufficio appellante, sulla questione di merito, eccepisce l'errata e falsa applicazione dell'art. 10 n. 1) del D.P.R. 633/72, ribadendo l'autonoma rilevanza, ai fini dell'applicazione dell'iva, delle commissioni attive di factoring percepite dalla (omissis) S.p.A. Controdeduce il contribuente, il quale presenta memoria illustrativa in data 29.1.2008. Diritto - la controversia consta di una delicata questione di merito, la quale potrà essere o no affrontata solo dopo la soluzione di una altrettanto delicata questione preliminare sollevata dal contribuente in ordine alla interpretazione da dare al comma 7 dell'art. 12 dello Statuto

del contribuente, di cui alla legge n. 212/2000. Si evidenzia, innanzitutto, per un esame sistematico della questione preliminare, che le disposizioni dell'art. 12 della legge 212/2000 costituiscono principi generali (parzialmente innovativi, come ad esempio il comma 7) da osservare nello svolgimento dell'attività istruttoria della verifica fiscale che l'a.f. è chiamata a compiere ai fini dell'accertamento. Si premette a questo riguardo che la legge, com'è noto, non da una definizione precisa della verifica fiscale, limitandosi ad individuare i poteri ispettivi di cui gli organi dell'amministrazione Finanziaria possono avvalersi per controllare il regolare adempimento delle norme tributarie. Il fondamento normativo primario dei poteri ispettivi è rinvenibile per un verso nell'art. 23 della Costituzione (secondo cui nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge), dal momento che tali poteri impongono al contribuente una prestazione personale concretantesi nell'obbligo di rispondere, di fornire documenti, di consentire perquisizioni; dall'altro nell'art. 14, u.c. Cost. il quale stabilisce che le ispezioni ai fini fiscali sono regolate da leggi speciali. La riserva di legge, sia nell'art. 23 che nell'art. 14 u.c. Cost., è giustificata dal fatto che i poteri ispettivi fiscali incidono, comprimendoli, diritti fondamentali della persona, come la libertà personale, nonché l'inviolabilità del domicilio, la riservatezza della corrispondenza, la libera esplicazione delle attività economiche, che costituiscono articolazioni del diritto soggettivo dell'uomo alla propria libertà; sicché le leggi devono disciplinare le modalità e i termini per l'esercizio dei poteri di controllo in materia tributaria. E l'ispezione del Fisco, come meglio vedremo in seguito, è un'attività istruttoria, avente natura discrezionale, collocata nel più generale procedimento d'imposizione, volta a produrre risultati che assumono valore solo nella misura in cui sono recepiti, nel rispetto dei principi costituzionali sopra richiamati, a fondamento del provvedimento amministrativo conclusivo dell'intera attività di accertamento. In questo quadro l'art. 12 della legge n. 212/2000 disciplina, in particolare, i diritti e le garanzie del contribuente sottoposto a verifica fiscale, la quale è ontologicamente attività preparatoria del futuro provvedimento definitivo di accertamento tributario, e il pvc di chiusura delle operazioni di verifica è un atto interno al più vasto e complesso procedimento di accertamento, solo al termine del quale viene emesso l'atto impositivo che va ad incidere la posizione giuridica soggettiva del cittadino. È da ritenere che sia stato attribuito un diritto tutte le volte in cui la norma conferisce uno specifico, potere al soggetto sottoposto a verifica. "Attribuiscono diritti le disposizioni contenute nei commi 2, 3, 6 e 7, rispettivamente in tema: a) di informazione del contribuente su taluni aspetti che attengono alla verifica; b) di richiesta del contribuente volta ad ottenere che l'ispezione documentale sia effettuata al di fuori dei

locali di cui ha la disponibilità, e precisamente nell'ufficio dei verificatori o presso il professionista che lo assiste o rappresenta; c) di possibilità di rivolgersi al garante del contribuente in caso di verifica svolta con modalità non conformi alla legge; d) di comunicazioni e di osservazioni e richieste del contribuente dopo la chiusura delle operazioni di verifica". Le garanzie, invece, comportano restrizioni all'esercizio dei poteri istruttori da parte degli Organi di controllo. "I limiti all'area di operatività di tali organi, in sede di verifica fiscale, costituiscono altrettante garanzie per il contribuente circa il rispetto del principio del buon andamento della P.A. di cui all'art. 97 della Costituzione e delle esigenze di equilibrio degli interessi dell'organo di controllo e del soggetto verificato nel contesto di un rapporto tra soggetto attivo e soggetto passivo della obbligazione tributaria improntato al principio della collaborazione e della buona fede ex art. 10 dello Statuto. Tali limitazioni trovano la loro disciplina nei commi 1, 4 e 5 dell'art. 12 e attengono alle esigenze che giustificano la verifica, alle modalità e ai tempi di svolgimento della stessa nonché alla redazione del processo verbale delle operazioni di verifica". L'attività istruttoria degli Uffici impositori è direttamente strumentale alla emissione dell'atto finale del procedimento amministrativo di accertamento, e tale strumentalità pone il problema della refluenza della violazione delle disposizioni dell'art. 12 sulla validità dell'avviso di accertamento che dovesse fondarsi sul risultato della verifica fiscale. Ebbene, se le disposizioni dell'art. 12 dello Statuto del contribuente non prevedono espressamente, come nel nostro caso, la sanzione della nullità, ciò non significa sic et simpliciter che la violazione non sia produttiva di conseguenze negative con riguardo all'atto di accertamento. "Sarà compito dell'interprete chiedersi se la violazione sia suscettibile o meno di produrre effetti sull'atto finale del procedimento di accertamento, quali siano tali effetti e quali forme di tutela l'ordinamento appronti al contribuente". Si pensi ad esempio alla cartella di pagamento che non indichi il nome del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo e di quello di emissione. Questa cartella è nulla in base ai principi generali dell'ordinamento, senza bisogno di una norma specifica che commini una tale nullità: per convincersene basta leggere l'art. 4ter del decreto legge 31.12.2007 n. 248, convertito nella legge 28.2.2008 n. 31, dal quale emerge chiaramente come che il legislatore sia stato costretto a sancire, per tirar fuori l'amministrazione dai guai in cui si era cacciata, che la mancata indicazione dei responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pagamento relative a ruoli consegnati prima del 1.6.2008 "non è causa di nullità" delle stesse. "Mentre normalmente - si dice da parte di autorevole dottrina - le norme

fiscali impongono, nell'interesse pubblico generale, obblighi a carico del contribuente, la cui violazione è punita con l'irrogazione di sanzioni, le disposizioni dello "Statuto", e in particolare quelle contenute nell'art. 12, impongono, nell'interesse del contribuente, precisi comportamenti a carico dell'ufficio impositore con la conseguente possibilità per il soggetto passivo dell'obbligazione tributaria, in caso di violazione, di rivolgersi al giudice affinché sanzioni l'operato della amministrazione finanziaria". Ora, il comma 7 dell'art. 12 chiude la categoria dei diritti del contribuente sottoposto a verifica fiscale, attribuendo al soggetto verificato il diritto di comunicare all'ufficio impositore osservazioni e richieste entro 60 giorni dal rilascio della copia del processo verbale di chiusura dell'attività di verifica. La norma prevede, in aggiunta a ben noti istituti, come quello della procedura di accertamento con adesione, "una ulteriore forma di contraddittorio necessario nella fase istruttoria che precede la conclusione del procedimento di accertamento": un contraddittorio "differito (rispetto alla verifica) o "anticipato" (rispetto all'emissione dell'atto finale), un contraddittorio, per così dire, "preventivo" da svolgere subito dopo il pvc e prima della emissione dell'atto di accertamento, e cioè prima che sopravvenga il provvedimento che va ad incidere la posizione giuridica soggettiva del contribuente, il quale ha il diritto (soggettivo) di formulare osservazioni sulla verifica, che, se violato, va in una qualche forma risarcito o reintegrato. Ragion per cui la norma stabilisce che l'ufficio impositore, prima della scadenza del termine di 60 giorni concesso al contribuente per presentare osservazioni e richieste, non può emettere "l'avviso di accertamento". Se il comma 4 dell'art. 12 dello "Statuto" attribuisce al contribuente la garanzia che le osservazioni da lui fatte in corso di verifica siano verbalizzate, senza che ciò vada a limitare l'opera dei verificatori, i quali sono solamente tenuti ad annotare nei processi verbali giornalieri e in quello finale di chiusura i rilievi tecnico - fiscali mossi dal verificato, non v'è dubbio che il comma 7 dell'art. 12 ha avvertito la necessità di introdurre, con norma di rango primario, una vera e propria fase di contraddittorio post verifica, espressione del principio di collaborazione come codificato nel precedente art. 10. Il contraddittorio post verifica reso dalla norma obbligatorio per l'amministrazione, qualora il contribuente lo instauri, e che costituisce una delle maggiori novità endoprocedimentali, della complessa operazione di accertamento, in favore del contribuente, assume valenza di condizione di procedibilità per la successiva emanazione dell'atto impositivo finale che va ad incidere sulla sfera patrimoniale del contribuente. Consegue che l'inosservanza da parte dell'amministrazione del termine dei 60 giorni, riservati obbligatoriamente all'esercizio del diritto di contraddittorio che il verificato volesse instaurare in una fase

precontenziosa, cioè pregiurisdizionale, non può andare esente da sanzione perché il comportamento dell'amministrazione viola direttamente non solo il comma 7 dell'art. 12 della legge 212/2000, che il legislatore ha qualificato come attuativa di principi costituzionali, attribuendo ad essa particolare autorevolezza specie con riferimento all'ampliamento dei diritti fondamentali di partecipazione del cittadino - contribuente, ma anche la stessa norma costituzionale sul diritto al contraddittorio: il contraddittorio pregiurisdizionale post verifica discende direttamente dagli artt. 97 e 24 della Costituzione che, come ogni altra norma costituzionale non puramente programmatica, il giudice di merito è tenuto a far rispettare e la cui violazione non può essere considerata, in mancanza di una specifica norma di legge ordinaria che ne commini la sanzione, tamquam non esset. Il comma 7 dell'art. 12 dello "Statuto" attribuisce al cittadino - contribuente il diritto di comunicare all'ufficio accertatore osservazioni e richieste in ordine alla verifica svolta, da esercitare entro 60 giorni dalla notifica del processo verbale di constatazione, cui corrisponde l'obbligo dell'amministrazione di valutare i rilievi così formulati, anche, se del caso, facendo ritornare, nella sede del soggetto controllato, i verificatori per esaminare le osservazioni presentate e le richieste avanzate dal contribuente: l'ufficio accertatore non può violare questo suo obbligo strumentale alla soddisfazione di un diritto soggettivo del contribuente a mezzo della instaurazione del contraddittorio post verifica, senza conculcare lo stesso diritto del contribuente, la cui violazione non può rimanere senza esito sanzionatorio. La violazione dello specifico diritto del contribuente deve necessariamente produrre una conseguenza negativa per l'amministrazione autrice del fatto "illecito", che si estrinseca nella nullità dell'avviso di accertamento emesso contra ius, e cioè, nel caso di specie, appena 20 giorni dopo la notifica del processo verbale di chiusura delle operazioni di verifica. Il comma 7 dell'art. 12 della legge 212/2000 impone agli Uffici accertatori un temporaneo, ma tassativo, divieto a procedere al fine di garantire al contribuente il diritto di partecipare all'accertamento tributario, attraverso l'instaurazione del contraddittorio post verifica, disponendo, per il rispetto del divieto, una temporanea sospensione del potere impositivo. La conseguenza della violazione della norma da parte dell'ufficio è l'illiceità del comportamento della PA e l'invalidità dell'atto di accertamento per carenza di potere, che non consente all'autorità investita (in via ordinaria del potere impositivo) di esprimere un atto giuridicamente valido: di qui la nullità dell'atto emanato contra ius. Si verifica, quindi, l'ipotesi della cd. carenza di potere in concreto, nel senso che il potere di fatto esercitato dalla A.F. effettivamente risulta da un punto di vista normativo attribuito alla stessa, ma il suo esercizio è stato effettuato in difetto dei particolari presupposti e

circostanze previsti dalla norma del comma 7 dell'art. 12, e cioè è stato esercitato in presenza di difetti radicali che rendono nullo l'atto emesso in violazione della detta norma. Si esprime, in buona sostanza, lo stesso concetto sopra formulato dicendo che il comma 7 dell'art. 12 legge 212/2000 vincola l'amministrazione ad un comportamento fattuale di temporanea inattività accertativa, nel quale il contribuente confida ope legis e la cui omissione giustifica tout court l'inesigibilità della prestazione tributaria. Giova qui ricordare che, con riferimento alla rideterminazione dei ricavi d'impresa utilizzando gli studi di settore, l'orientamento della Suprema Corte è nel senso che gli studi di settore previsti dall'art. 62-bis del DL 30.8.1993, data la natura di atti amministrativi generali di organizzazione, non possono essere considerati sufficienti perché l'ufficio operi l'accertamento di un rapporto tributario di specie ultima, senza che l'attività istruttoria amministrativa sia completata nel rispetto del principio generale del giusto procedimento, cioè consentendo al contribuente, ai sensi del comma 7 dell'art. 12 dello "Statuto", di intervenire già in sede procedimentale amministrativa, prima di essere costretto ad adire il giudice tributario, al fine di vincere la mera "praesumptio hominis" costituita dagli studi di settore: di qui l'illegittimità di un accertamento in rettifica che prescinda dal processo verbale di constatazione (Cass. n. 13995/2002, n. 9946/2003, n. 9135/2005, n. 17229/2006 ). In altri termini, dalle citate sentenze si può dedurre che l'orientamento della Cassazione è nel senso che nella fase procedimentale amministrativa, che va dalla presentazione della dichiarazione tributaria all'emissione dell'avviso di accertamento allo spirare del "termine a difesa" stabilito dal comma 7 dell'art. 12 succitato, deve garantirsi lo svolgimento del contraddittorio post verifica, consentendo al contribuente di intervenire a "dire la sua" già prima di adire, eventualmente, il giudice tributario. Diventa, allora, inconferente il richiamo operato dall'ufficio appellante alla sentenza n. 12070 del 1.7.2004 della Cassazione che, con riferimento alla mancata previsione di sanzione nella ipotesi del secondo comma dell'art. 7 dello "Statuto", riguardante l'obbligo della indicazione negli atti tributari impugnabili dell'organo giurisdizionale cui poter ricorrere, ha affermato che, in tale fattispecie, si deve dedurre la volontà del legislatore di non assegnare a tale specifico vizio la capacità di produrre la nullità dell'atto. Come inconferente è anche la evocata sentenza della Cassazione n. 8344/2001, la quale, soffermandosi sul quinto comma dell'art. 12 in questione, ha affermato che "la violazione delle regole dell'accertamento tributario non comporta come conseguenza necessaria l'inutilizzabilità degli elementi acquisiti", in mancanza di una specifica previsione in tal senso: questa sentenza è stata superata dalla successiva, resa a sezioni unite, n.

16424/2002, in base alla quale "la inutilizzabilità (delle prove reperite mediante perquisizione illegittima) non abbisogna di una espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale secondo cui l'assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola". Ma c'è anche di più. L'atto emesso in violazione del comma 7 dell'art. 12 della legge 212/2000 non solo è nullo ma è anche giuridicamente inesistente. Emerge dalle norme che il provvedimento conclusivo del procedimento d'imposizione, cioè l'atto di accertamento, si configura come l'atto finale di una fattispecie complessa, a formazione successiva, composta: a) da una fase endoprocedimentale preliminare direttamente strumentale alla decisione finale, che è la verifica fiscale, col relativo atto conclusivo rappresentato dal pvc; b) da una fase endoprocedimentale intermedia, che è la pausa operativa, ex art. 12 legge 212/2000, di 60 giorni concessi al contribuente per l'esercizio del suo diritto, sintonizzato con i principi espressi dagli artt. 23 e 14 della Costituzione, alla instaurazione di un contraddittorio post verifica con l'a.f., durante la quale c'è sospensione del potere accertativo; c) dalla fase conclusiva del procedimento durante la quale si ha l'emanazione dell'atto finale di accertamento: quest'ultimo viene ad esistenza giuridica solamente dopo il compimento di tutte le sue varie fasi costitutive. Qui non si tratta di vizi del procedimento che ha preceduto l'atto di accertamento, vizi riguardanti la legittimità dell'atto stesso, ma si tratta della nullità/inesistenza dell'atto finale perché non realizzato nei suoi elementi essenziali e costitutivi per incompletezza della fattispecie: la sopravvenuta norma dell'art. 21 septies della legge 11.2.2005 n. 15, di riforma della legge fondamentale sul procedimento amministrativo n. 241/90, (la cui applicazione peraltro è esclusa nel caso di specie avendo l'amministrazione definito l'atto impugnato in vigenza della precedente disciplina), sancisce la nullità/inesistenza del provvedimento amministrativo che manchi degli elementi essenziali necessari ex lege per la sua giuridica esistenza, tra i quali devesi, a parere di questo Collegio, far rientrare la completezza della fattispecie, anche perché, come afferma autorevole dottrina, il legislatore, canonizzando la nullità dell'atto, non ha chiarito quali siano, poi, questi elementi essenziali. Secondo giurisprudenza consolidata il provvedimento amministrativo può considerarsi assolutamente nullo o inesistente, tra l'altro, ove manchi dei connotati essenziali dell'atto amministrativo necessari ex lege a costituirlo, quali possono essere la radicale carenza di potere da parte dell'autorità procedente, ovvero il difetto di forma, della volontà e dell'oggetto, mentre non può parlarsi di inesistenza dell'atto allorché si discuta unicamente dei vizi del procedimento che lo ha preceduto, in ciò risolvendosi la mancata corrispondenza del concreto procedimento, e cioè delle modalità di esercizio del potere da parte dell'amministrazione, al

relativo paradigma normativo (ex multis C.d.S. n. 948/1999, e da ultimo C.d.S. n. 6023/2005). Ora. sotto il profilo che si sta esaminando si verifica l'ipotesi della c.d. carenza di potere in astratto, nel senso che non può dirsi venuto ad esistenza alcun provvedimento fiscale perché nessun potere può dirsi esercitato, nemmeno di fatto: qui non ci troviamo di fronte ad un potere di fatto scorrettamente esercitato, ma di fronte all'inesistenza di qualsiasi potere accertativo in capo all'amministrazione, per aver questa emanato un avviso di accertamento in violazione di norme di relazione attributive del potere impositivo, in violazione cioè di norme come quella del comma 7 dell'art. 12 dello "Statuto", il quale nel momento stesso in cui dispone la sospensione del potere di accertamento lo riattribuisce scaduto il termine dei 60 giorni, configurandosi sotto questo aspetto norma di relazione attributiva del potere impositivo, e, con ciò, in violazione di norme come quelle degli articoli 39 e 40 del DPR 600/73, che conferiscono all'a.f. il potere di accertamento in rettifica delle dichiarazioni Irpeg, e dell'art. 54 del DPR 633/72 che conferisce all'ufficio il potere di rettifica delle dichiarazioni annuali Iva. Questa situazione è ben diversa da quella, avanti esaminata, che si verifica nell'ipotesi di violazione di norme di azione che disciplinano le modalità dell'esercizio del potere in concreto, nel qual caso il potere non manca totalmente e l'atto emanato è semplicemente nullo e non anche inesistente. In buona sostanza il comma 7 dell'art. 12 della legge 212/2000 (fermo restando che, considerato con riguardo al contribuente, conferisce a questi un diritto soggettivo di partecipazione all'accertamento attraverso l'instaurazione del contraddittorio "preventivo") viene in gioco, nei riguardi dell'amministrazione finanziaria, sotto due diversi profili: 1) sotto un primo aspetto rileva come norma di azione che disciplina le modalità di esercizio del potere in concreto, e la sua violazione produce la nullità dell'avviso di accertamento invalidamente emesso; 2) sotto un secondo aspetto rileva come norma di relazione attributiva di poteri e facoltà all'a.f., e la sua violazione produce nullità radicale, o inesistenza, dell'atto emesso in assenza di potere. La PA, che in concreto deve agire in vista del perseguimento dell'interesse pubblico, il quale costituisce la ragione stessa dell'attribuzione del potere, in teoria potrebbe essere lasciata "libera" di scegliere le modalità di azione ritenute più consone nei singoli casi: tuttavia così non avviene perché sovvengono le c.d. norme di azione che disciplinano l'attività amministrativa e si distinguono dalle norme di relazione che, invece, risolvono conflitti intersoggettivi sul piano dell'ordinamento generale o conferiscono poteri e facoltà alla PA. Si conclude dicendo che se per un verso l'avviso di accertamento, quando non reca la sottoscrizione, la motivazione, l'indicazione degli imponibili accertati,delle aliquote applicate e delle imposte liquidate, è nullo, ai

sensi art. 42 D.P.R. 600/73, perché contiene vizi che ineriscono alla sua funzione obiettivo, che è quella della esatta determinazione dell'an e del quantum dell'obbligazione tributaria, per altro verso l'avviso di accertamento, quale atto conclusivo del complesso procedimento di accertamento, in cui sono espresse le risultanze di fatto e di diritto dell'intera istruttoria, quando non siano stati realizzati tutti i suoi elementi strutturali costitutivi, è da ritenersi radicalmente nullo o inesistente: nel caso di specie, non si è realizzata la fase sospensiva dell'attività accertativa e, quindi, non si è potuto instaurare il contraddittorio post verifica ex comma 7 dell'art. 12 dello Statuto del contribuente, con conseguente lesione di un diritto fondamentale del contribuente. Sicché, in definitiva, l'atto di accertamento può dirsi giuridicamente esistente e legittimamente emanato solo se posto in essere dopo lo spirare del termine di cui al comma 7 dell'art. 12 dello "Statuto". Alla luce delle suesposte considerazioni il COLLEGIO ritenuta fondata, come sollevata dal contribuente, la questione preliminare, che assorbe le questioni di merito, in ordine alle quali ogni argomentazione diventa, pertanto, ultronea, la accoglie e rigetta l'appello dell'ufficio, confermando l'impugnata decisione. Data la novità della materia e la complessità interpretativa della normativa afferente si compensano le spese di lite. P.Q.M. - La Commissione, Sez. XI, rigetta l'appello dell'ufficio e conferma l'impugnata decisione. Spese compensate.