Commentary, 30 agosto 2016 AD ALEPPO SI DELINEA IL FUTURO DELLA SIRIA EUGENIO DACREMA In questi ultimi mesi sulle colonne di giornali online e cartacei ci si è spesso chiesti cosa sarà la Siria dopo. Dopo Isis, dopo il conflitto, dopo Bashar al-assad (quest ultima domanda a dire il vero sempre meno). Lentamente, nel dibattito si è cominciata anche a insinuare una variante piuttosto radicale della stessa domanda, e molto più inquietante: Ci sarà una Siria dopo?. Ed è forse questa la domanda che dovremmo iniziare a porci seriamente, soprattutto analizzando una per una le due recenti svolte nel conflitto civile siriano: la crisi dell Isis e, soprattutto, l assedio di Aleppo. L Isis in crisi esistenziale Certo, quella dello Stato Islamico è una crisi militare, dovuta all over-stretching delle sue forze nell anno precedente e al concomitante aumento della pressione su più fronti. Ed è anche una crisi economica, dovuta al crollo dei prezzi del greggio e alla distruzione (o riconquista) di molti suoi giacimenti e impianti di raffinazione. Ma è soprattutto una crisi esistenziale, dovuta al fallimento evidente del grande progetto che sottendeva alla creazione fisica del Califfato. Un progetto sostanzialmente mediatico, in fin dei conti non diverso dall 11 Settembre di Osama Bin Laden: creare un momento simbolico-emotivo che avrebbe portato alla sollevazione delle masse musulmane di tutto il mondo. E alla creazione del Califfato globale. Come per l 11 settembre, però, la sollevazione anche questa volta non è avvenuta. Certo, video splatter e grandi sforzi per rendere la propaganda del gruppo accessibile e comprensibile in ogni angolo del pianeta hanno forse riscosso più risultati del tentativo precedente. Qualche migliaio in più di soggetti complice anche la crisi economica globale si è effettivamente fatto catturare dalla narrativa del fatale avvento del Califfato globale. Ma non è durato molto, certamente non abbastanza. Oggi quello che regna intorno a Isis all interno degli ambienti dello Jihadismo globale è soprattutto disillusione: sempre in meno sono disposti a credere che il progetto di al-baghdadi sia benedetto da Dio. E questo, più di qualunque ritirata militare o problema economico, costituisce la vera crisi strutturale dello Stato Islamico. Eugenio Dacrema, Università degli Studi di Trento 1 Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell ISPI. Le pubblicazioni online dell ISPI sono realizzate anche grazie al sostegno della Fondazione Cariplo.
Ma non illudiamoci comunque che Isis cadrà presto. La creazione di al-baghdadi è ancora troppo utile a troppi dei contendenti in campo perché possa essere liquidata in tempi brevi. Al regime di Assad e i suoi alleati l esistenza del Califfato serve a continuare a vendere al mondo la propria immagine di ultimo argine moderato al dilagare del fondamentalismo. Anche se di moderato, ormai, è rimasto ben poco anche dentro al regime. Alla Turchia di Erdogan l Isis è invece necessario come arma anti-pyd curdo: da ormai due anni lo scontro con l Isis ha tenuto impegnate buona parte delle milizie curde, rallentandone (ormai sempre meno) l espansione lungo il confine turco. Lo Stato Islamico è inoltre lo spauracchio perfetto per giustificare qualunque operazione dell esercito turco oltre confine, come avvenuto pochi giorni fa con l intervento a Jarablus. Infine, il lento collasso dello stato islamico può servire come potenziale serbatoio di reclute per le fazioni ribelli più estremiste. Quando nacque l Isis, infatti, molti dei loro ranghi furono decimati dalle defezioni a favore della nuova formazione di Baghdadi. Ora che quest ultima è in grave crisi, gruppi come Jabhat Fateh al-sham (ln precedenza Fronte al-nusra, l ex succursale di al-qaeda), o Ahrar al-sham sperano nel processo inverso. Ma certo questo non si può ottenere giocando la parte di quelli che attaccano Isis direttamente. Meglio aspettare che ci pensino altri. L assedio di Aleppo Lo stallo de-facto dello Stato Islamico lascia perciò mano libera agli altri contendenti per continuare a ignorarne l esistenza (senza comunque danneggiarlo troppo) e ricominciare a combattersi in grande stile. In particolare, il regime rinvigorito dall assistenza russo-iraniana ha deciso di sferrare quella che potrebbe ma forse ora dovremmo dire avrebbe potuto essere l offensiva decisiva: l assedio di Aleppo. Il condizionale è d obbligo perché l operazione non sta andando esattamente come dovrebbe andare. I ribelli hanno rotto la cintura militare intorno alla città in più occasioni, e una vittoria in tempi brevi e forse perfino la possibilità di mantenere l assedio per molto tempo appare un obiettivo sempre meno raggiungibile. Ma l assedio di Aleppo, e la sua evoluzione, riportano a galla due tra i punti più critici del conflitto siriano, che ne hanno reso la risoluzione incredibilmente complessa. Da una parte, è chiaro che anche l alleato russo sia arrivato all ineluttabile conclusione che non esista una alternativa convincente a Bashar al-assad. I rumor di una discreta ma incessante ricerca da parte russa di una potenziale alternativa si erano fatti particolarmente insistenti durante il lungo cessate-il-fuoco della scorsa primavera. Era chiaro che al Cremlino si fossero resi conto di come la figura di Bashar al-assad alla testa del paese fosse diventata un ostacolo insormontabile per qualunque compromesso di pace che potesse essere accettato da gran parte dell opposizione interna così come dai suoi sponsor internazionali. Uomo pragmatico, Putin pareva aver dato ordine di esplorare varie opzioni per una alternativa che mantenesse in piedi le strutture del regime senza Assad al suo vertice. La ripresa a pieno regime delle ostilità con il pieno impegno dell aeronautica russa sembra però dimostrare come questo obiettivo sia fallito. Il regime, soprattutto dopo 5 anni di guerra, è una struttura sfilacciata, costituita da entità e soggetti molto diversi dai signori della guerra locali e i potenti servizi di sicurezza, ai grandi potentati economici del clan Assad-Makhlouf che ormai hanno in Bashar al-assad il solo centro di convergenza politico-simbolica in grado di garantire gli interessi di tutti. Tutto ciò ha portato a rinnovare ancora una volta un circolo vizioso diventato la peggiore caratteristica di questa guerra: quello secondo il quale se una delle due parti è in difficoltà i suoi sponsor esterni aumenteranno ulteriormente il loro sostegno in denari e mezzi, riportando la situazione in un sanguinoso equilibrio di conflitto perpetuo. Quando l Esercito Libero Siriano stava collassando all inizio del 2013 dopo l entrata in gioco delle milizie dell Hezbollah libanese e dei Pasdaran iraniani alleati di Assad, alcune potenze regionali avverse al regime in primis Arabia Saudita, Qatar e 2
Turchia risposero finanziando e armando massicciamente alcuni dei gruppi più estremisti, i quali grazie alla superiorità del proprio sostegno esterno conquistarono la leadership di fatto dell opposizione armata e fermarono il contrattacco del regime. Nel 2015, quando Assad sembrava avere i giorni contatti dopo la caduta di Palmira e la presa di Jisr al-shughur, i russi decisero di intervenire direttamente per fermare il collasso del regime. Ora che l intervento russo ha portato le forze di Assad ad assediare la più grande roccaforte dei ribelli, gli sponsor esterni sembrano aver aumentato nuovamente il proprio sostegno a quest ultimi. L improvviso re-branding di Al-Nusra che ha lasciato ufficialmente il network di Al-Qaeda in uno divorzio estremamente consensuale che lascia presagire quando i due gruppi rimarranno in ottimi rapporti anche in futuro sembra esser stato portato a termine proprio per rendere il gruppo più presentabile e quindi finanziabile nel prossimo futuro dalle potenze regionali. Questa dinamica, che porta gli sponsor esterni ad aumentare il proprio sostegno e il proprio coinvolgimento per evitare la sconfitta dei propri protègè in una spirale apparentemente inarrestabile, ha lentamente cambiato alla radice la natura del conflitto e dei suoi contendenti. Il regime ormai da molto tempo è una scatola vuota, un corpo in coma tenuto in vita da soldi, armi e combattenti stranieri. I molti siriani che ancora abitano nel suo territorio l unico risparmiato da bombardamenti a tappeto accettano di fatto Assad ma, come riconosciuto già nell autunno scorso dallo stesso Rais, ne sono rimasti ben pochi ancora disposti a morire per lui. A parte i fedelissimi reparti speciali dell esercito e alcune milizie paramilitari, gran parte delle forze del regime al fronte sono costituite da stranieri; Hezbollah libanesi, caccia russi, Pasdaran iraniani e i membri delle numerose milizie sciite irachene e afghane radunate da Teheran in questi anni. Dall altra parte, l opposizione non è in uno stato migliore, anzi. Gran parte dei membri del movimento che aveva animato pacificamente le strade nel 2011 o sono morti, oppure hanno abbandonato una ribellione trasformatasi in qualcosa di radicalmente diverso, e potenzialmente spaventoso. Il sostegno mirato ai gruppi più ideologicamente vicini alle monarchie del Golfo o al sempre più dispotico Akp di Erdogan ha creato una opposizione che sempre meno ha a che fare con la rappresentanza della società siriana e sempre più con l allineamento ideologico coi propri sponsor. L entrata di reparti dei ribelli siriani a Jarablus scortati dai tank turchi ne è l ultima prova lampante: l obiettivo militare, le priorità e, presto, con il riavvicinamento tra Turchia e Russia, probabilmente anche gli schieramenti, li decide il patron esterno di turno. In questo caso la Turchia di Erdogan, e la sua priorità assoluta di fermare l avanzata dei curdi del Pyd lungo il proprio confine. La dipendenza di entrambi i contendenti assai più dalla benevolenza di patron esterni che dal sostegno della popolazione interna ha avuto anche un altro risultato, il più spaventoso: un decrescente interesse per il sostegno da parte dei civili, e quindi la crescente noncuranza per la loro sorte. Viene da chiedersi, per esempio, cosa pensa materialmente di fare il regime con i quasi trecentomila civili rimasti sotto assedio ad Aleppo Est. Come pensa, in caso di vittoria, di convincerli della bontà della propria posizione e della propria guerra dopo aver metodicamente bombardato per anni le loro case, scuole e ospedali. Come pensa di reintegrarli in una narrativa unitaria dopo il conflitto dopo aver loro dimostrato in ogni modo come la loro morte e il loro terrore fossero funzionali per la sconfitta dei suoi nemici. Oppure, è possibile che Bashar al-assad immagini di fare come il padre Hafez, il quale dopo la ribellione di Hama del 1982 passò i dieci anni seguenti a esiliare, imprigionare ed eliminare metodicamente circa 10 mila persone sospettate di esseri membri, complici o simpatizzanti della ribellione. Con la differenza che questa volta si tratta di centinaia di migliaia di persone, solo ad Aleppo. O come pensa di fare l opposizione in caso ora molto remoto di vittoria sul regime. Come pensano i gruppi 3
che ora la guidano, alcuni dei quali fino all altro ieri facevano parte di al-qaeda e che ora ci flirtano soltanto, a convincere qualche milione di drusi, cristiani, alawiti e anche la maggior parte di sunniti siriani (che certo radicali non sono) che la loro visione salafita e fondamentalista è ciò che meglio si adatta a unificare il paese. È difficile, ormai, che schieramenti diventati molto più abituati a combattere al servizio di altri piuttosto che di se stessi riescano un domani a trovare un modo per governare che non sia, anch esso, al servizio di altri. Ed è per questo che c è da chiedersi, prima ancora di cosa sarà la Siria dopo, se oltre ai siriani, le loro case e i loro sogni per il futuro, a questa guerra sarà in grado di sopravvivere una qualsiasi idea di nazione in grado un domani di unificare ancora una volta il popolo siriano. È forse davvero arrivato il momento di chiedersi se, dopo, ci potrà essere ancora una Siria. 4
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