MALATTIA E LA MORTE NON SONO FATALI NE' INVINCIBILI: "DOV'È, MORTE, LA TUA VITTORIA?"



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MALATTIA E LA MORTE NON SONO FATALI NE' INVINCIBILI: "DOV'È, MORTE, LA TUA VITTORIA?" Giovanni Reale, Professore di Storia della filosofia antica e medioevale Facoltà di Filosofia Università Vita Salute San Raffaele, Milano riflessione tenuta il 13 dicembre 2004 Da molte parti si osserva che nella società moderna è stata in vario demitizzata l'idea di morte, fino a farla scomparire, o a renderla quantomeno sostanzialmente marginale e ormai insignificante e quindi rimossa più o meno totalmente. Si osserva anche che la demitizzazione morte non sarebbe se non il corrispettivo della demitizzazione della vita nel suo valore e della sua sacralità: oggi, da non pochi scienziati, la vita è infatti ritenuta un evento del caso, quindi privo di un significato assiologico, vale a dire di valore metafisica e ridotta ad un puro e insignificante atto fisico. Ed ecco come l'immagine dell'uomo - di cui la cultura scientistico- tecnologica oggi imperante è portatrice - appare quando venga spogliata del travestimento e della maschera dorata, con cui la si nasconde. Come è noto, si sta discutendo da varie parti se il cadavere dell'uomo, per ragioni funzionali e più adeguate dal punto di vista tecnologico alle necessità di oggi, non debba essere eliminato in modo razionale con una cremazione e una eliminazione elle ceneri, in sostituzione dell'antica cerimonia del funerale e di tutto ciò che esso comporta, ormai distonia con la impostazione e la dinamica della vita moderna. La vita del single rende problematico il funerale che è fatto di chi è in vita e non dei morti e il vissuto come single a chi interessa? Gli organi morto potrebbero essere proficuamente "reimpiegati", mentre ciò che rimane del cadavere potrebbe essere "smaltito" con la cremazione. Umberto Galimberti - che è stato il primo a sollevare il problema in Italia, riprendendo una discussione aperta su organi di stampa americani e francesi ha fatto, in merito, alcuni rilievi assai pertinenti, rilevando alcune agghiaccianti analogie tra questo trattamento proposto per i cadaveri con il trattamento dei rifiuti. Mentre alle antiche discariche - egli dice - si stanno via via sostituendo inceneritori e raccolte differenziate dei rifiuti per un loro riciclaggio, alle antiche tombe nei cimiteri si propone di sostituire una cremazione ("smaltimento"!) dei cadaveri e una riutilizzazione ("riciclaggio"!) degli organi. Galimberti scrive: "Le soluzioni prospettate per lo smaltimento dei rifiuti indicavano un progressivo abbandono delle discariche a favore degli inceneritori o meglio ancora della raccolta differenziata per il riciclaggio. Il parallelismo con la sorte dei cadaveri è difficilmente occultabile: progressivo abbandono della sepoltura dei cimiteri a favore della cremazione o meglio ancora di quella raccolta differenziata che è il prelievo degli organi per i trapianti, che un recente dispositivo di legge, salvo esplicito dissenso, ha esteso in Italia a ogni corpo umano. Le intenzioni sono nobilissime, ma questo non ci impedisce di scorgere ad esse sottesa quella insidiosa filosofia che concepisce l'uomo merce e il cadavere come resto da riciclare e incenerire". Lo smascheramento della Sirena scientistico- tecnologica con il suo travestimento non potrebbe essere fatto in modo più efficace. In effetti, come lo stesso Galimberti rileva, le immagini religiose e filosofiche dell'uomo sono state pressoché del tutto distrutte. L'uomo: immagine di Dio; l'uomo: fine e mai come mezzo. L'uomo è diventato cosa e materia: "Ciò dipende dal fatto che sia l'escatologia che l'antropologia sono state dissolte nella tecnologia il cui sguardo non sporge oltre la strumentalità mondana senz'altro scopo o ragione che trascenda, soprattutto se lo scopo o ragione sono scolpiti nell'eternità." Il senso della morte viene in tal modo completamente vanificato e quindi rimosso: "Spogliato dei suoi valori religiosi, metafisici e simbolici non ospitati dallo scenario tecnologico, la morte

oggi giunge con un tratto più disadorno, più nudo, più privo di significato, quasi uno scatto di produzione della vita, un residuo inutile, l'assoluto straniero in un mondo frenetico e affaccendato non per raggiungere una vera e presenta finalità com'era nello sguardo religioso o umanistico, ma con nessun altro scopo se non quello di esorcizzare la morte segregandola, separandola, nascondendola, nel deposito dei rifiuti, nello scarico dell'oblio". Risulta di per se evidente, sulla base di quanto detto, che l'uomo di oggi nella dimensione della ragione scientistico- tecnologica non comprende più il senso ultimativo della morte perché ha ormai smarrito il vero senso della vita e viceversa. Eppure scrive giustamente Gadamer: "la fede religiosa e la semplice laicità si accordano su un punto, nel rispettare la sovranità della morte. Le proposte dell'illuminismo scientifico incontrano nel mistero della morte un limite invalicabile. Per di più, davanti a questo confine si rivela l'autentica solidarietà reciproca di tutti gli uomini nel difendere il segreto in quanto tale. Chi vive non può accettare la morte, tuttavia deve affrontarla. Noi siamo viandanti sul confine tra l'aldiquà e l'aldilà". E ancora: "Soltanto i messaggi religiosi concedono la possibilità di un superamento e di uno sguardo ulteriore," mentre al pensiero filosofico, con il suo procedere puramente razionale, è lasciato solo uno spazio esiguo e assai problematico. Uno spazio che un breve excursus sull'esperienza e l'interpretazione della morte nel mondo antico potrà aiutarci ad esplorare. In Omero, la morte è considerata il peggiore dei mali in assoluto, e la vita è amata, pure con le sofferenze che comporta. Se da un lato l'uomo viene presentato "come le foglie che il vento sparge a terra", "il più miserevole fra tutti gli esseri / quanti respirano e si trascinano sulla faccia della terra", dall'altro il grande Achille dice a Ulisse sceso nell'ade: "Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! / Vorrei da bracciante servire un altro uomo, / un uomo senza podere che non ha molta roba; / piuttosto che dominare tra tutti i defunti. Diversa appare la posizione dei poeti lirici e gnomici e dei tragici greci che sembrano piuttosto vedere nella vita un male da cui fuggire. "Per i terrestri" scrive Teognide "la cosa migliore è non essere mai nati, / non avere mai visto i raggi del sole acuto, / e, se nati, vedere al più presto le porte dell'ade, / e giacere coperti da un gran manto di terra"; mentre nell'edipo a Colono di Sofocle si legge:" Per me chi desidera prolungare la vita / di là dal termine giusto / è un folle. Un cadere lungo dei giorni aumenta il dolore. Se vai oltre, niente è piacevole più. / Alla fine viene la morte, / quella che tutto libera, / tutto eguaglia, tutto chiude; / l'ade senza canti, senza lira, senza danze: / smemorato abisso./ Non nascere: / è il mio pensiero più dolce./ Oppure, nati una volta, / è poco male andarsene subito dove eravamo." Ma forse non bisogna prendere troppo alla lettera tali lamenti: i Greci e i loro poeti hanno amato la vita; e in tutti loro si ritrovano i sentimenti contradditori presenti in Omero: lamenti per i mali del vivere, eppure, amore della vita. Come osserva Dario Del Corno: "Meditatio mortis per elezione era la tragedia, grazie alle domande ultime che l'immagine problematica del reale imponeva. Quale necessità metafisica si cela dietro il mistero della morte che è retaggio dell'umanità infera, e come essa può retrospettivamente conferire un significato al mistero di ogni esistenza individuale? Occorreva rappresentarla nella realtà alternativa del teatro, non già per entrare in una impossibile risposta, ma per comprendere almeno l'enigma che essa pone; e sebbene nella convenzione della tragedia uno scrupolo sacro relegasse l'ultimo spasimo di vita oltre la scena, l'universo tragico vive all'insegna della morte. Per la mente greca abbandonare per sempre la luce del sole e l'abbraccio dell'aria erano più doloroso che vivere nel dolore, e quell'assurda scomparsa in un nulla inconoscibile valeva come la più spietata delle necessità." Se vogliamo ora esplorare il campo più strettamente filosofico, troviamo che Parmenide è stato il primo a prendere una posizione di estrema drasticità. Esiste solo l'essere e null'altro è o sarà all'infuori dell'essere, di conseguenza, "per esso saranno nomi / tutte quelle cose che

hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere: / nascere e perire, essere e non essere...". Dunque, la morte è solo un nome privo di senso. Paradigmatica appare la posizione assunta da Socrate. La morte può essere una di queste due cose: "O è come un non essere nulla e chi è morto non ha più alcuna sensazione di nulla; oppure, stando ad alcune cose che si tramandano, è un mutamento e una migrazione dell'anima da questo luogo che è quaggiù a un altro luogo". In nessuno dei due casi è da considerarsi un male. Se fosse vero il primo, la morte sarebbe un lungo sonno totale, senza un solo sogno; eterna notte che potrebbe essere soltanto un bene. Se, invece, fosse vero il secondo, la morte implicherebbe una riunione con tutti quelli che sono morti e vivono nell' aldilà: allora "quale bene ci potrebbe essere più grande di questo?" Platone va oltre. Accoglie e fonda filosoficamente il messaggio degli Orfici, considerando la morte una liberazione dal corpo e l'inizio di vera vita per l'anima. Le pagine del Fedone in cui descrive gli ultimi istanti di Socrate si sono imposte come esemplare punto di riferimento. Entra nella cella del carcere l'uomo portando la tazza con il veleno della cicuta, e dice a Socrate di berlo e poi di passeggiare fino a quando non comincerà a sentire un peso alle gambe, quindi di coricarsi, perché subito dopo il veleno farà il suo effetto. E Socrate "prese la tazza, col volto sereno, senza tremare e senza alterare il colore e l'espressione del viso; [...] e trattenendo il respiro, bevve fino all'ultimo goccia, senza alcun segno di disgusto e con facilità". E quando già gran parte del suo corpo era paralizzata, scoprendosi il volto che prima si era coperto disse: "Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo, non dimenticatevene!" Il gallo ad Asclepio, dio della medicina, si offriva in voto quando si guariva da una malattia. Il messaggio che Platone con quelle parole pone in bocca a Socrate ha dunque un fortissimo valore emblematico: io sono ormai nell'aldilà; dunque dovete offrire per me ad Asclepio il gallo per la mia guarigione dalla malattia della vita terrena. La scena della morte di Socrate è artisticamente splendida: ma viene spontaneo chiedersi se non sia, in qualche modo, una forma di sublime rimozione intellettuale e metafisica del male della morte, una sublime menzogna, come estremo medicamento offerto dalla filosofia. Platone era fermamente convinto che la morte segnasse l'ingresso nella vera vita: ma il movimento drammatico della dissoluzione del corpo, in questo modo, viene di fatto cancellato. Ancora più totale appare l'impassibilità degli Stoici mentre Epicuro porta alle estreme conseguenze l'atteggiamento filosofico di indifferenza di fronte alla morte. A suo avviso, questa è un male soltanto per quanti nutrono in merito opinioni fallaci. In realtà, egli afferma, con la morte l'anima si separa dal corpo; gli atomi del corpo e dell'anima si sciolgono e si spargono per ogni dove; cessa la sensibilità dell'uomo, e di lui restano solo delle macerie che si disperdono nell'universo. Quello che viene ritenuto da tutti gli uomini il più terribile dei mali in realtà non è niente: quando ci siamo noi la morte non c'è; quando sopravviene la morte, noi non ci siamo più. L'uomo e la morte non si trovano mai insieme. Ma - si noti - questo potrebbe valere per l'animale; non per l'uomo, che della morte ha coscienza e precisa consapevolezza. La filosofia greca, in realtà, ha in qualche modo aggirato il problema della morte, cercando di ridurne il più possibile la consistenza ontologica fino a giungere ad affermare che in qualche modo non è, fino alla negazione totale, al sublime inganno della ragione di Epicuro. In realtà la morte costituisce l'evento in assoluto più sconcertante, un vero e proprio scandalo, che la filosofia, da sola, non è in grado di spiegare fino in fondo. Ne sono testimoni i testi evangelici che parlano della morte di Cristo. In Matteo (26,36-42) si legge: "Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsemani, e disse ai discepoli: 'Sedetevi qui, mentre io vado a pregare.' E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia, Disse loro: 'La mia anima è triste fino alla

morte; restate qui a vegliate con me'. E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra pregava dicendo: 'Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!' Poi tornò fra i discepoli e li trovò che dormivano. E disse a Pietro: Così non siete stati capaci di vegliare un'ora sola con me? Vegliate e pregate per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole.' E di nuovo, allontanandosi, pregava dicendo: 'Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io beva, sia fatta la tua volontà'. Questo è Matteo (26,36A2), ma le stesse cose si leggono in Marco e Luca. Nella lettera agli Ebrei si dice addirittura che Cristo implorò "con molte grida e lacrime Colui che poteva liberarlo dalla morte". Da tempo gli studiosi hanno messo in rilievo il contrasto fra la scena del Fedone sulla morte di Socrate e quella dei Vangeli sulla morte di Cristo: la differenza tra l'atteggiamento assunto da Socrate che affronta la morte con volto sereno, "senza tremare e senza alterare il colore né l'espressione del viso", e quello assunto da Cristo che si lamenta e invoca soccorso è veramente totale. La morte viene vissuta da Cristo in tutto il suo orrore, come il più grande dei mali per l'uomo. Oscar Cullmann giustamente osserva che per la Bibbia la morte è brutta - proprio come la si rappresentava con la metafora della scheletro - e richiama Grunewald come uno dei pochi pittori che hanno raffigurato la morte di Cristo in modo adeguato. Ma proprio per questo" sottolinea il medesimo pittore "le ha rappresentato a fianco, in modo incomprensibile e unico, la grande vittoria. La Resurrezione di Cristo". E a buon diritto aggiunge: "Chi dipingesse una bella morte, non saprebbe dipingere la risurrezione. Chi non ha provato l'orrore della morte, non può cantare insieme con Paolo l'inno della vittoria: 'La morte è stata distrutta: vittoria! Dov'è, morte, la tua vittoria? Dov'è morte il tuo pungiglione?". E davvero le numerose crocifissioni dipinte da Grunewald (prima fra tutte quella dell'altare di Isenheim, 1515 ca.), raffigurano Cristo con la bocca aperta da cui sembra promanare un urlo di morte di incredibile drammaticità. Lo scandalo della morte appare qui, proprio nella figura del Redentore, in tutta la sua atrocità sconvolgente. Gli studiosi più attenti hanno poi osservato che la corona di spine sembra addirittura uscire dal capo di Cristo. Tutto il corpo è piagato e trafitto di spine, e anche queste sembrano nascere dalla pelle più che esservi state infitte.

Giovanni Testori (in Grunewald, la bestemmia e il trionfo) scrive: "Sarà proprio in Cristo, nello strazio del suo corpo, nella coesistenza, in esso, dell'atemporalità più assoluta e abbagliante e della temporalità più caduca e sanguinante (del verbo, insomma, e della materia) che Grunewald realizzerà il sunto, la figura tipica o, diciamolo pure, il prototipo, rovesciato e arrovesciante, insieme vindice e schiavo, prono o vittorioso, di quello scandalo". Nel Cristo di Grunewald viene riassunto il modo emblematico "l'enorme, povero strazio di tutti i servi e di tutti i vinti che sempre furono e saranno infangati, assassinati e distrutti". Albert Camus nella sua opera l'uomo in rivolta - scriveva a proposito della passione di Cristo sulla croce quanto segue: "Cristo è venuto a risolvere due problemi principali, il male e la morte, che sono appunto i problemi degli uomini in rivolta. La sua rivoluzione ha consistito innanzitutto nell'assumerli in sé. Anche il dio uomo soffre, con pazienza. Né male né morte gli sono più assolutamente imputabili perché è straziato e muore. La notte del Golgota ha tanta importanza nella storia degli uomini soltanto perché in quelle tenebre la divinità, abbandonando ostensibilmente i suoi privilegi tradizionali, ha vissuto fino in fondo la disperazione, compresa l'angoscia della morte. Si spiega così il Lamma sabactani e il dubbio tremendo del Cristo in agonia. L'agonia sarebbe lieve se fosse sostenuta dall'eterna speranza. Per essere uomo il dio deve disperare. Ma proprio per aver profondamente compreso ed efficacemente rappresentato lo scandalo della morte Grunevald può darci la gloria straordinaria della resurrezione. In essa, scrive ancora Testori: "Cristo sembra lasciar il sepolcro trascinandosi dietro qualcosa che non ha

soltanto la forma e la sostanza d'un sudario ma quella d'una placenta inzuppata di liquidi amniotici e accesa, insieme, di zolfi e di lampi innici e come trafugatori di ciò che sembra essere e appartenere veramente al Dio eterno...". In verità, non si comprende a fondo il dramma della morte se non in rapporto con la Resurrezione così come, viceversa, non si comprende la Resurrezione se non si comprende il dramma della morte. Oltre ai testi dei Vangeli che descrivono il modo in cui Cristo ha vissuto l'esperienza della propria morte, converrà allora leggere la parte finale del testo in cui Giovanni (11,32-44) narra la resurrezione di Lazzaro: "Maria dunque, quando giunse dov' era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo: 'Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto!' Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: 'Dove l'avete posto?' Gli dissero: 'Signore, vieni a vedere!' Gesù scoppio in pianto. Dissero allora i giudei: 'Vedi come lo amava!' Ma alcuni di loro dissero: 'Costui che ha aperto gli occhi ai ciechi non poteva anche far si che questi non morisse?' Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra. Disse Gesù: 'Togliete la pietra!' Gli rispose Marta, la sorella del morto: 'Signore, già manda cattivo odore, perché è di quattro giorni.' Le disse Gesù: 'Non ti ho detto che, se credi vedrai la gloria di Dio?' Tolsero quindi la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: 'Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno perché credano che tu mi hai mandato. E detto questo gridò a gran voce: 'Lazzaro vieni fuori!' Il morto usci, con i piedi e le mani avvolte in bende e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: 'Scioglietelo e lasciatelo andare'." Dunque, Cristo piange non solo per la propria morte, ma anche per la morte di Lazzaro; e piange mentre si accinge a compiere il miracolo della resurrezione. Questo dimostra che davvero il senso della morte nella sua tragicità di male estremo per l'uomo, in quanto perdita del dono più grande della vita, si comprende solo in rapporto con la resurrezione che rinnova quel dono. Si impone di conseguenza quanto afferma Gadamer, che in quella esperienza di frontiera dell'uomo al confine fra l'aldiquà e l'aldilà solo i messaggi religiosi concedono possibilità di vedere oltre. E con Testori si potrebbe davvero dire: "Non sarà, per caso, un pauroso trionfo quello che aspetta l'essere a verifica ultimata del suo stato di scandalo?" Ancora con Testori, "che crede potrebbe affermare e ben comprendere la necessità che lo scandalo si verifichi; che avvenga; sempre e comunque; ove pur fosse contro il corpo di Cristo e contro l'essenza stessa della vita e dell'essere; perché in ogni modo, non ne potrebbe derivare che una controprova, incarnante e concettuale, della realtà di quel corpo, di quell'essere e insomma di quella vita". E in questo senso assume in dimensione paradigmatica e globale la domanda - che è insieme risposta - di Paolo: "morte, dov'è la tua vittoria?". "La verità cristiana - come dice S. Quinzio - può ancora inghiottire tutte le mezze verità del mondo", comprese tutte quelle della scienza.