L'intervento russo in Siria visto da Mosca pag. 3 di Martina Napolitano

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Transcript:

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INDICE L'intervento russo in Siria visto da Mosca pag. 3 di Martina Napolitano L'intesa tra Russia e Iran. L'inizio di un'alleanza strategica? di Giovanni Parigi Gli interessi della Turchia nella guerra in Siria di Irene Vlad La via della diplomazia passa sulle macerie di Aleppo di Lorenzo Marinone Il sogno dei curdi è l'autonomia del Rojava di Lorenzo Marinone pag.4 pag.5 pag.6 pag.8 2

L'intervento russo in Siria visto da Mosca di Martina Napolitano Il 30 settembre 2015 iniziava l'intervento russo in Siria. È la prima volta dalla fine dell'urss che la Russia porta avanti una significativa operazione militare fuori dall'ex-orbita sovietica. A marzo 2016 Putin etichettava l'operazione come un ottimo test per la tecnica militare russa e annunciava il ritiro: l'obiettivo è stato raggiunto. Il presidente conteggiava che la Russia aveva compiuto 10.000 raid (fino a 75 al giorno), colpendo 30.000 obiettivi. In realtà la decisione del ritiro non ha riguardato l'interità delle forze russe: le strategiche basi aerea di Latakia (in funzione dal 30 settembre) e navale di Tartus (attiva dal 1971 secondo accordi russo-siriani) hanno continuato a lavorare a pieno regime, contribuendo anche alla liberazione di Palmira a fine marzo. Ad agosto 2016 la Russia ha poi siglato un accordo con l'iran per utilizzare in maniera temporanea la base aerea di Hamedan. La lotta russo-siriana al terrorismo islamico L'intervento russo in Siria si prefigge ufficialmente di contrastare i terroristi, Isis in primis. Tuttavia, non ci sono dubbi sul fatto che raid russi abbiano colpito i ribelli, ostili ad Assad ma non per questo proseliti dell'isis. Fondamento di divergenze tra Mosca e Washington, infatti, resta l'appoggio russo al leader siriano, da una parte, e la decisione irremovibile, dall'altra, della sua destituzione, con possibile ammiccamento, anche forse troppo alla leggera, verso le forze ribelli. La tregua che poteva far ben sperare non ha avuto i risvolti sperati e gli incontri tra le due nazioni continuano a produrre poco. Esempio è il recente G20, durante il quale, anzi, la Russia si è portata a casa un importante accordo con l'arabia Saudita che permetterà forse di aiutare l'economia russa grazie alla stabilizzazione del prezzo del greggio. Implicazioni economiche La Russia è da anni economicamente in stallo: il prezzo delle materie prime cala, mentre l'inflazione cresce e la produzione resta al palo. Le sanzioni che avrebbero potuto dare uno stimolo all'industria leggera, hanno debilitato ulteriormente il paese, la cui moneta è stata anche fortemente svalutata. Una pessima situazione per uno stato coinvolto in un conflitto. Non stupisce che a molti russi torni alla memoria l'avventura sovietica in Afghanistan del 1979. Medvedev in dicembre dichiarava che i costi rientravano nel budget della Difesa. In marzo Putin li quantificava in 33 mld di rubli (oltre 450 mln di euro). Ma c'è chi propone altri numeri. Bloomberg, ad esempio, riportava nel dicembre scorso una spesa giornaliera sui 3-8 mln di dollari. Queste cifre non tengono inoltre conto degli aiuti umanitari che Mosca stanzia al governo di Assad e ai civili siriani dal 2012 (2 mln di dollari nel 2015). Implicazioni politiche Tali spese non spaventano evidentemente Putin e il suo paese, che continua, per ora (vedremo alle presidenziali 2018), ad appoggiarlo, come hanno dimostrato le elezioni del 18 settembre. L'intervento ha dimostrato le capacità militari della Russia post-sovietica e potrebbe avere come obiettivo quello atavico e a tratti anacronistico di presentarsi come potenza alternativa agli Usa 3

nel planisfero del post Guerra Fredda. Con questa operazione la Russia è riuscita a spostare l'attenzione mondiale dall'ucraina ed è uscita, in un modo o nell'altro, dall'isolamento diplomatico. Avere la Siria e Assad come alleato storico le dà diritto di sedere ai tavoli delle trattative di oggi, e soprattutto a quelli del futuro, dove potrà giocarsi la carta dei rapporti e delle influenze politico-economiche su tutta l'area mediorientale. L'utilizzo della base iraniana di Hamedan e il recente accordo sul greggio con l'arabia Saudita sembrano dei buoni primi passi verso questo obiettivo. L'intesa tra Russia e Iran. L'inizio di un'alleanza strategica? di Giovanni Parigi L'intervento russo in Siria, nel settembre del 2015, fu letto da molti come l inizio di una alleanza strategica tra Russia e Iran, l altro grande alleato di Assad. Si arrivò addirittura a parlare di un ingresso russo nell'alleanza sciita guidata da Teheran, in contrapposizione al blocco sunnita, più vicino a Washington. In realtà, per comprendere a fondo le relazioni tra Russia e Iran, è più istruttivo quanto recentemente successo con l uso della base aerea iraniana Shahid Nojeh ad Hamedan. Lo scorso 16 agosto ne fu concesso l uso ai bombardieri di Mosca, ma meno di una settimana dopo fu improvvisamente revocato. Questa inedita concessione fu attaccata da molti iraniani perché contraria alla costituzione, che vieta ingerenze militari esterne. Ma per i russi fu occasione per rilasciare roboanti dichiarazioni pubbliche, per nulla gradite da Teheran. Se è vero che mai negli ultimi 200 anni i rapporti tra i due paesi sono stati così buoni, di fatto permangono forti divergenze e una storica diffidenza. Oggi Russia e Iran, per motivi contingenti, privilegiano la convergenza di interessi comuni, ma sotto il tappeto della diplomazia rimangono tensioni irrisolte che rendono spesso le relazioni contraddittorie. Un esempio di queste ambiguità è l accordo sul nucleare iraniano: Mosca non vuole che l Iran acquisisca armi nucleari, ma teme che l accordo possa aprire ad un riavvicinamento persiano con gli USA. Cosa unisce i due paesi? L interesse a salvare l alleato siriano, quello a sconfiggere il jihadismo sunnita e quello di contenere l influenza americana in Medio Oriente. Ed è proprio la Siria il punto di incontro di questi tre elementi. Ma non bisogna sottovalutare che russi e iraniani hanno approcci, ruoli e visioni a lungo termine diversi. Per Mosca la Siria è solo una delle tante pedine sulla scacchiera geostrategica con gli USA. Vuole mantenere un governo amico a Damasco, le basi navali sul Mediterraneo e riaffermare il suo status di grande potenza. I russi rifiutano un regime change a guida occidentale, ma non chiedono necessariamente la sopravvivenza politica di Assad. Per Teheran la Siria rappresenta il vitale polmone strategico di Hezbollah, garantisce la continuità territoriale della mezzaluna sciita (Baghdad, Damasco, Beirut) in opposizione ad Arabia Saudita e alleati. L'Iran sembra meno incline a sacrificare Assad e vede nella Siria un teatro di confronto coi nemici sunniti. A queste divergenze sulla Siria, se allarghiamo la prospettiva se ne aggiungono di ulteriori. Innanzitutto c è Israele, nemico esistenziale per Teheran, con cui Mosca però ha relazioni 4

amichevoli e pragmatiche. Mosca mantiene rapporti con Egitto, Turchia e altri stati sunniti con cui l Iran non sempre è in buone relazioni. Infine, le rivalità economiche tra due esportatori di idrocarburi come Russia e Iran, oltre che le reciproche pretese sul Mar Caspio. In conclusione, in Siria i due paesi han trovato una intesa, ma è difficile si cementi un alleanza strategica. Differenze ideologiche di fondo, l eredità storica dei rapporti tra i due paesi e la volontà russa di agire da superpotenza, rendono diffidente Tehran, mentre il Cremlino, che non limita la sua prospettiva al Medio Oriente, sembrerebbe preferire una cooperazione privilegiata ma senza implicazioni che pregiudichino irrevocabilmente relazioni e opportunità con gli altri paesi dell area. Gli interessi della Turchia nella guerra in Siria di Irene Vlad Il 24 agosto scorso la Turchia ha valicato il confine siriano per la prima volta dall'inizio del conflitto, dando luogo ad una grande svolta nel panorama delle alleanze sulla guerra in Siria. Jarablus è stata liberata dalla morsa dell'isis nel giro di poche ore, senza che ci fosse neppure bisogno di arrivare ad uno scontro tra soldati turchi e militanti del Califfato. Le unità speciali si sono addentrate nella città a ridosso del fiume Eufrate e del confine turco-siriano con il sostegno di circa 5.000 ribelli siriani e dell aviazione statunitense, dichiarando che "lo scopo dell intervento consiste nel proteggere i confini e nel mantenere l integrità dello stato siriano con la coalizione Usa anti Isis". Perchè entrare nella guerra in Siria? Jarablus è rimasta sotto il controllo dell'isis per più di due anni senza che vi fossero interventi armati significativi. La tempistica dell intervento turco dunque non è casuale e risponde ad esigenze concrete. La volontà di esercitare maggior influenza nel pantano siriano è infatti frutto di diversi cambiamenti interni e di considerazioni del presidente Erdogan. Da una parte, uscire dall'isolamento nel quale la Turchia versa da tempo è priorità del presidente fin dalle dimissioni del primo ministro Davutoglu. Sono stati riallacciati i rapporti con Tel Aviv e con Mosca, e più recentemente si è intrapreso un riavvicinamento all Iran. Dall altra, il colpo di stato del 15 luglio ha consentito alla Turchia di recuperare margine negoziale con gli Usa, accusati da Ankara di proteggere il golpista Gülen. Come anche la Russia di Putin, Washington aveva a lungo ostacolato un eventuale ingresso turco nella guerra in Siria. La visita di Joe Biden ad Ankara nei giorni dell operazione e l implicito assenso concesso alla manovra hanno posto le condizioni necessarie per entrare a Jarablus. La questione curda La questione curda rimane la più grande preoccupazione del presidente Erdogan. La crescente popolarità dei curdi a livello globale e i successi ottenuti in battaglia hanno contribuito a rendere sempre più concreta l'eventualità di un'autonomia curda. Il controllo della zona tra Azaz e Jarablus consentirebbe al Pyd (il principale partito curdo-siriano) e alle Ypg (le unità di difesa popolari del Pyd) di collegare i cantoni di Efrin e Kobane, coronando il sogno Rojava. La possibilità 5

che nel nord della Siria si realizzi una zona simile a quella del governo regionale del Kurdistan dei Barzani in Iraq (Krg) rappresenta il peggior incubo per Erdogan, che considera Pyd e Ypg una cosa sola con l'acerrimo nemico Pkk. Non a caso l operazione è stata lanciata poco dopo la conquista curda di Manbij e poco prima che le Ypg raggiungessero Jarablus. Il 18 agosto scorso inoltre, Damasco lanciava un sottile messaggio ad Ankara: bombardando le posizioni delle Ypg ad Hasakah, i soldati di Assad rompevano un tacito accordo di non - aggressione tra Damasco e le Ypg, che da tempo gestivano la regione. L improvviso attacco ad Hasakah e l operazione a Jarablus gettano le basi per una potenziale intesa Assad- Erdogan in chiave anti-curda, dove le aspirazioni nazionali della minoranza rappresentano una minaccia per entrambi. Le probabilità che Ankara modifichi le proprie posizioni rispetto alla Siria diventano sempre più tangibili, come fanno pensare recenti dichiarazioni del premier Yildirim. Ambigua la posizione Usa, fino a poco fa grande sponsor dei curdi nella proxy war siriana e ora di fronte ad una Turchia sempre più forte. L intimazione americana al Pyd di spostarsi ad est del fiume Eufrate è un ulteriore espressione di questo quadro: far la pace con Ankara, anche se a discapito degli (ex?) alleati curdi, sembra essere diventata priorità del governo Usa. La via della diplomazia passa sulle macerie di Aleppo di Lorenzo Marinone «Il risultato dell'intervento russo in Siria? Damasco non è in mano né ad al-nusra né all Isis», commentava Peskov, il portavoce di Putin, il 30 settembre a un anno esatto dall'inizio delle operazioni. Il giudizio corrisponde a verità. L'intervento giova ricordarlo fu annunciato come un contributo russo alla lotta all Isis, ma è sempre stato chiaro che l obiettivo reale era un altro: evitare il collasso del regime di Assad. Un regime che nel corso del 2015 aveva perso pericolosamente terreno, tanto che i ribelli arrivavano a minacciare addirittura la roccaforte costiera di Latakia. Le bombe di Mosca li hanno bloccati e restituito l iniziativa ad Assad e alleati. Ma questa iniziativa non si è tradotta in rapidi progressi militari, né nell'unico obiettivo davvero fondamentale in questa guerra: la conquista di Aleppo. Non potendo sbandierare avanzate sbalorditive, Peskov ha imbellettato la realtà si è salvato il salvabile, e poco altro rispolverando l assai di moda lotta al terrorismo globale. Addio cambio di regime In realtà, Mosca ha ottenuto ben più di qualche chilometro quadrato di terreno. L'intervento russo in Siria infatti non va misurato soltanto col metro militare, ma anche con quello della diplomazia. La conseguenza più evidente dell arrivo dei russi a Damasco è stata la necessità, per tutte le potenze coinvolte nel conflitto, di ripensare a fondo la propria strategia. Se prima Qatar, Turchia, Arabia Saudita puntavano a rovesciare Assad con una vittoria militare, adesso questa possibilità è di fatto sparita dal tavolo. Discorso analogo vale anche per gli Usa, che non hanno probabilmente mai smesso di sperare in un cambio di regime nonostante le dichiarazioni contrarie degli ultimi anni. Il Golfo litiga, la Turchia scende a patti 6

Da un anno a questa parte, quindi, non stupisce che il mantra sia diventato: per la guerra in Siria esiste solo una soluzione politica. Uno scontro frontale con la Russia appare troppo complesso, non risolutivo, oppure semplicemente troppo rischioso. Così i paesi del Golfo lo scorso novembre hanno provato a raccogliere in una sola piattaforma politica decine dei più importanti gruppi ribelli, per avere fin dal principio un peso maggiore durante i futuri negoziati. Impresa ardua, che infatti è nata e quasi subito morta con una conferenza a Riyadh. Certo, le divergenze tra milizie ribelli e i loro sponsor regionali non dipendono dalla Russia. Ma l intervento di Mosca le ha senz'altro fatte venire a galla prima, rendendo questo fronte ben più debole di quanto potrebbe essere. Nel frattempo la Turchia si è smarcata ed è intervenuta a sua volta in Siria il 24 agosto. Quattro giorni prima il premier Yildirim aveva ventilato la possibilità che Assad resti in carica per un periodo di transizione. Una svolta a 180 gradi rispetto alla linea tenuta fin dal 2011. È probabile che questo annuncio sia il pegno pagato da Ankara a Mosca per avere il via libera all'intervento. Ad entrambi ormai conveniva ricucire i rapporti dopo l incidente del caccia russo abbattuto un anno prima, ma è la Turchia ad avere fretta (vuole bloccare l avanzata delle milizie curde ai suoi confini), e questa fretta in qualche modo va pagata. I problemi degli Usa Prima di fare la propria mossa, ormai, è pressoché necessario per tutti parlare con la Russia. Ovviamente ciò non significa che Mosca domini incontrastata, o che non debba affrontare problemi seri soprattutto con i suoi stessi alleati. Significa, però, spender tempo (e credibilità) nella ricerca di un nuovo equilibrio giocando per l appunto sul piano della diplomazia. Un esercizio di fino che può costringere a pagare prezzi decisamente alti. Ne sanno qualcosa gli Usa, che da un anno a questa parte hanno due grossi problemi. Il primo è l impossibilità di spazzare subito via l'isis senza aver prima imbastito una fase di transizione tra regime e ribelli: sarebbe come consegnare la Siria ad Assad (e alla Russia). La lotta all Isis infatti è l unico motivo per cui gli Usa possono colpire in Siria e appoggiare apertamente gruppi ribelli, a meno di non accettare uno scontro diretto con la Russia. Il secondo è impedire a Mosca di usare i negoziati come vetrina e come scusa: come vetrina perché la Russia dichiara di voler bloccare le ostilità, come scusa perché continua a bombardare come prima accusando l altra parte di aver violato le tregue concordate. Le macerie di Aleppo Su questo punto, gli Usa stanno finora fallendo miseramente. Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che l intervento russo in Siria ha, per così dire, fissato una data certa per il successo della soluzione diplomatica: il giorno in cui Aleppo tornerà sotto il controllo del regime. Senza la seconda città della Siria né Putin né Assad accetteranno davvero di porre fine alla guerra, perché non avrebbero il controllo della cosiddetta Siria utile. Lo testimoniano se ce ne fosse ulteriore bisogno i massacri indiscriminati che i russi compiono in queste settimane ad Aleppo est. 7

Il sogno dei curdi è l'autonomia del Rojava di Lorenzo Marinone I curdi siriani stanno attraversando i caotici conflitti in medio oriente degli ultimi anni come una opportunità storica. Là dove più o meno tutti gli attori coinvolti tra Siria e Iraq cercano soltanto di non scomparire dallo scacchiere, o di mantenere intatta la propria influenza nel caso migliore, i curdi vedono una concreta possibilità di rivalsa. L obiettivo è l autonomia, la forma di questa autonomia ancora incerta. Ma che sia un entità federale entro i confini siriani o una vera e propria nazione indipendente, il Rojava (Kurdistan occidentale in lingua curda) non è mai stato più a portata di mano quanto oggi. La lezione di San Francisco La via per ottenere un riconoscimento esplicito, però, è assai tortuosa e modellata secondo esigenze e umori altrui: Russia, Usa, regime di Assad, Turchia più di altri. È una strada, quella che può portare al Rojava autonomo, costellata di contatti, intese, alleanze esplicite e altre più taciute. Una strada dove guerra e politica sono continuamente intrecciate e procedono di pari passo per evitare che si arrivi allo stallo. La Turchia è contraria da quasi un secolo a ogni forma di autonomia curda nella regione, e anche in questo caso si oppone. Ma il principale partito curdo siriano, il Pyd che oggi amministra il Rojava, negli ultimi anni ha intessuto rapporti con Mosca e Washington e mantenuto tutto sommato un atteggiamento neutrale verso Damasco. Il gioco è rischioso: per l intera opposizione siriana i curdi sono ormai collaborazionisti, mentre troppa propensione verso Russia o Usa può costare l appoggio dell altra potenza. Ma, allo stesso tempo, agli occhi dei curdi questo percorso appare necessario. Storicamente i curdi e i loro (frammentati) movimenti di liberazione sono stati pedine mosse da Iraq, Iran, Turchia e Siria e dalle potenze con interessi nella regione. E quando si trattava di riscrivere i confini erano sempre troppo deboli per far valere le proprie ragioni. E anche troppo ottimisti. Alla conferenza di San Francisco, al termine della seconda guerra mondiale, si presentarono con la loro cartina del Kurdistan: dall Armenia al golfo Persico. Troppo, e senza alcuna forza per negoziare. Infatti non parteciparono nemmeno alla seconda seduta e il Kurdistan rimase soltanto su quella cartina. Amici di tutti, alleati di nessuno Oggi, con la guerra in Siria, possono arrivare ai negoziati di pace con molta più forza. Ma prima di tutto devono arrivarci, cioè ottenere una qualche forma di riconoscimento, come insegna l esperienza di San Francisco. Quanto fatto finora stesa una costituzione, riavviata la macchina amministrativa, promesse elezioni a breve, rassicurati i vicini che non cercano la secessione ma solo un assetto federale non basta. Serve l ok da parte di tutti. Così i curdi siriani continuano a procedere con cautela. Nessuna offensiva contro Assad, che anzi mantiene ancora oggi, indisturbato, alcune basi militari nel nord-est. Un passo verso la Russia con il primo ufficio di rappresentanza del Rojava all estero aperto lo scorso febbraio a Mosca. Il leader del Pyd Salih Muslim ha persino ringraziato 8

la Russia perché avrebbe impedito che la Siria diventasse parte di un nuovo impero ottomano, ed è solo l ultimo degli apprezzamenti. Ma la cautela è reciproca: l ufficio non ha il rango di una missione diplomatica, soltanto di una organizzazione internazionale. Eppure senza l appoggio russo i curdi sanno che otterranno ben poco. Così è arrivata anche la collaborazione sul campo: insieme hanno tagliato due volte la linea di rifornimento dei ribelli a nord di Aleppo. L intesa sembra continuare. Con gli Usa i curdi siriani vantano più crediti: sono l unica forza valida che Washington può usare contro l Isis. Un ruolo determinante, che adesso fanno valere sul piano diplomatico. Per l offensiva di Raqqa si vuole l appoggio dei curdi? Bene, allora si riconosca il Rojava e ci si faccia sedere al tavolo della diplomazia, hanno replicato di recente. Quello stesso tavolo cui la Russia li ha già invitati, gli Usa finora no per evitare reazioni scomposte della Turchia. La lezione di Losanna Per quanto i curdi siriani cerchino di mantenere relazioni equilibrate con tutti gli attori in gioco in Siria, sulla loro idea di Rojava autonomo continua però a pendere una pesante incognita. Proprio come in passato tra Sèvres e Losanna, all indomani della prima guerra mondiale anche questa volta gli interessi delle grandi potenze possono schiacciare ogni loro aspirazione. Continuano, cioè, ad apparire sacrificabili se l opportunità politica lo richiedesse. Il loro federalismo mal si concilia con una Siria unita (per come viene pensata fino ad ora, almeno). Ma anche l opzione opposta, quella di uno smembramento del paese in più staterelli, non consegnerà necessariamente loro l indipendenza. La Turchia ad esempio farà carte false per evitarlo. Mosca potrebbe essere troppo indaffarata a mantenere Damasco per appoggiare la causa curda. Gli Usa, se dicessero di sì, da un lato potrebbero giocarsi le relazioni con un altro membro Nato come la Turchia, mentre dall altro, finché il Rojava resta in mano al Pyd, si troverebbero ad appoggiare un entità ideologicamente agli antipodi rispetto alla propria e difficilmente controllabile. 9