Non gioco più, me ne vado



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Transcript:

Gianni Mura Non gioco più, me ne vado Gregari e campioni, coppe e bidoni A cura di Andrea Gentile e Aurelio Pino

Gli articoli di Non gioco più, me ne vado sono stati pubblicati sulla Gazzetta dello Sport, su Epoca e sulla Repubblica. Sito & estore www.ilsaggiatore.com Twitter twitter.com/ilsaggiatoreed Facebook www.facebook.com/ilsaggiatore il Saggiatore S.p.A., Milano 2013

Non gioco più, me ne vado

Sommario Nota editoriale 13 Il gol non è tutto, ma quasi Mundial a Siviglia 19 Samba e torcida 21 Quel sogno dell 82 23 Il silenzio dello stadio 25 Li manda Maradona 27 Inter al Bernabéu 30 Dalla parte dei respinti 33 La Francia oltre Platini 36 Come un sasso nello stagno 39 I giorni della sfiducia 41 Van Basten, alla fine 43 La Scala a San Siro 46 Massima follia Inter 49 Cenone con Gullit 52 Milano, un derby 54

La Nazionale più brutta del 1994 56 Il cuore ha sempre ragione 58 L Arrigo baciato dalla fortuna 60 Presagi prima della finale 63 A testa alta 65 Il naufragio 67 I rigori, giudizio di Dio 69 Il ritorno dei numeri 10 71 Il tunnel di Ronaldo 73 Formiche guerriere 75 Maledetto l ultimo secondo 78 Mondiale 2006: colori & profumi 80 Benedetti undici metri 84 Vincere senza essere i più forti 87 Ciclismo, un quadro d epoca Kübler e il ciclismo che esalta 93 Sedrina tra favola e storia 95 Il «miracolo» italiano 99 Non hanno visto il mare 103 Zandegù sottovoce 105 Garofani bianchi per Motta 107 Italia d attacco nelle Ardenne 109 Anquetil, il duro dal cuore d oro 113 Motta e l odio 116 La gente lo sapeva 119 La Tre valli di Motta 122 Un giorno in Toscana con Cuorematto Bitossi 125 Merckx e l arte del capitano 132 I lamenti di Durante 135

Il facchino Gimondi 138 Gimondi alla Vuelta 141 Motta se gira la gamba 144 Polidori giura guerra 147 Come in una quadriglia 149 Patron Molteni al Tour 152 Piccole storie Dancelli, dongiovanni smitizzato 157 Pepp Fezzardi, ds in corsa 160 Occhiobello Chiarini e il bon sens di Rousseau 163 Sgarbozza il ciociaro 166 La rivincita dei dimenticati 169 Della Torre, troppo buono per vincere 172 Il radicchio di Bartolozzi 175 Benfatto, il ciclista coi baffi 178 Il paese indifferente 181 Marino Basso, ex vagabondo 184 Ora e ciò che è stato Viaggio nello stile Juve 189 Alfredo Binda, the Greatest 192 Luciano Pezzi: eravamo felici, o forse solo umili 196 Il mito della Sanremo/1 200 Il mito della Sanremo/2 203 Lontano da Coppi 206 Quando Piola filava 210 Gli anni d oro del Casale 214 I campioni dell acqua perduta 219 Quelle sfide con Coppi 223

Puskás, pancia da fuoriclasse 226 Da Angelillo a Ibra i 100 anni dell Inter 229 La squadra della felicità 232 Il secolo in contropiede 235 Mariolino, il re della foglia morta 239 Da quella curva spunterà Bartali, salvatore della patria 245 Francesco Moser, il galletto in bicicletta 250 Bull Chiappucci 254 Bugno, l eroe freddo 257 Rominger, il roditore 260 Povero Casartelli 263 Cip, il grande seduttore 267 Il valzer degli addii 270 Come quelli di una volta 273 Il posto di Pantani 276 I mondiali del Pirata 279 M illumino di Pantani 281 Con le ali aperte 284 Paesaggi, passaggi Poulidor, eroe incerottato 289 Il ciclismo che mangia i suoi figli 292 Strade per uomini forti 294 Una Sicilia inattesa 296 I colori di Monet 298 Ci chiamavano les Gimondì 301 Le curve cupe dei Pirenei 304 La montagna maledetta 307

Pantani risorge sul Ventoux 310 La strada del vino 313 Ciclisti in mare 316 Sassi, polvere e fango 319 Di fronte e di profilo Rocco in esilio 325 Il bimbo che guarda le stelle 329 I maestri del Trap 333 La lunga avventura di Ondina 336 Zeno Colò, che trovò l oro sotto la neve 340 Conti, dal baseball al mundial 344 San Pablito 347 L Osvaldo in riva al mare 351 Una panchina sul fiume 354 L irresistibile ascesa di Arrigo S. 357 La zona furba di Galeone 360 Serena, figlio del boom 363 Ti sia lieve la terra, Giovanni 366 Mazzone, quanno ce vo ce vo 370 La resurrezione di san Diego 373 Normalità Spalletti 375 La corsa felice di Martini 379 Ciotti, la voce dello sport 382 Le ali chiuse 385 Gigi Riva, 60 anni duri e puri 388 Pesaola, il nottambulo 392 A casa di Bearzot 396 Best, il quinto Beatle 400 Mazzola, una vita con i baffi 402

A bordo campo Brera-Rivera, l eterna polemica 409 Il ragazzino del Vicenza 414 C eravamo tanto amati 416 L assassino viaggiava sul Falcão Express 421 Le nuove danze del pallone 424 I presidenti diseguali 427 Calciomercato a Milanofuori 429 Lasciate che Rush venga al pub 432 Alle radici dell Arrigo 435 1988, i nuovi Ridolini 438 Fidel tifa Napoli, Gramsci tifava Juve 441 I pericoli dell ombrello 443 Le sciocchezze del Duemila 446 Zoff, un uomo di trincea 449 Caro amico ti scrivo Mr. Platini, l italien 455 Le scelte di Cabrini 458 Lettera di uno che ha visto tutto 460 Gli occhi di Schillaci 463 Tanti auguri a voi 465 Vialli, scappa in Provenza 468 Cara Fbi, confesso tutto 470 In morte di un tifoso 472 Come quando pedalavi 475 Nostalgia di te, Gioann 478 Indice dei nomi 483

Nota editoriale Il giorno prima, l attesa lieve, agitatissima: cosa accadrà? E poi è il giorno. Lo stadio è una muraglia di colori, di cori, di rumori. Ai lati del percorso gli appassionati di ciclismo si accalcano, attendono, scalpitano sui sandali. Sfilano i campioni in campo. I panchinari. Gli arbitri. Il quarto uomo. Sfilano i campioni sulla strada. I gregari. I fotografi. I suiveurs e i giornalisti. Il durante e il dopo. L attesa, la tensione, la rassegnazione, la gioia. L euforia. La poesia. In «Rinascono la valentia e la grazia», Vittorio Sereni invoca la corsa di un ragazzo che gioca all ala: «O tu così leggera e rapida sui prati / ombra che si dilunga / nel tramonto tenace». Si dilungano ombre nei tramonti tenaci, per decenni, in questo libro. Un libro di sport, di calcio e di ciclismo. Un libro su di noi, che ci riconosciamo in quelle sfide, in quei momenti. Come eravamo, dove eravamo, quando Tardelli urlava sotto il cielo di Madrid, e dove quando, nel 2006, il cielo di Berlino si tingeva d azzurro e noi ridevamo, piangevamo, urlavamo. Come e dove quando Pantani volava sul colle del Galibier, e come e dove e quando e perché Pantani chiuse le ali in quell alba grigissima, in quella grigia stanza d albergo. Ci sono quei giorni che è impossibile dimenticare e poi c è tutto il resto, che passa e che è tutto un costruire, un crescere, sbagliare, e pensare e fare un passetto in avanti, e poi tornare indietro, sbagliare strada, fare una salita, e una discesa, una salita, e una discesa. C è tutto questo, c è il giorno memorabile e il giorno comune, il giorno euforico e il giorno disperato, in questo libro. E il giorno come un altro.

14 Non gioco più, me ne vado È proprio così, è tutto un correre, uno stare, un aspettare, è tutto così, come nella vita. Non ancora compiuti vent anni, Gianni Mura inizia la sua carriera alla Gazzetta dello Sport. Assiste alle partite di provincia, ma subito dopo si trova a raccontare, nel 1965, quello che succede sulle salite estreme, strette, affollate, e sulle discese ventose, armoniose, spericolate, «a tomba aperta», del Giro. Rileggerli, selezionarli, montarli, i pezzi di Gianni Mura, da quel 1965 a oggi, fa uno strano effetto. È che i pezzi che sono usciti nel corso degli anni sui quotidiani la Repubblica, dopo la Gazzetta, quei pezzi destinati il giorno dopo a svolazzare agli angoli delle strade, ebbene, quei pezzi vivono. E non solo. Pulsano di vita e non soltanto di passato e di nostalgia, odorano di erba, dell asfalto dopo la pioggia. Ci sono giorni, ci sono anni, che sono ormai troppo lontani, i giorni di ciclisti in bianco e nero, che qui Gianni Mura disegna, come in diretta, come in una macchina del tempo, e sono veri e propri quadri d epoca. Ci sono giorni in cui è come se una nuvola avvelenata ammorbi l aria. Sono quelli in cui si scopre che il calcio non è più sport, che il ciclismo non è più sport; quando si perde e non si è sicuri di aver perso davvero, perché sono i giorni, gli anni, del calcio truccato dalle scommesse, del doping rabbioso e compulsivo. Ci sono giorni, poi, in cui i calciatori sono come colori Buffon è fucsia, perché non passa inosservato, Pirlo è bianco come un ermellino, Totti giallo come un girasole e sono, quei giorni, quelli della vittoria mitica del 2006. Non è una galleria, non è un polittico: è una sinfonia. E allora ci ritroviamo qui, attraverso lo sguardo del cronista-colorista, a ripercorrere tutto, come se fosse la prima volta; ad attraversare vicoli che non abbiamo mai attraversato; a guardare scorci di cielo che no, non avevamo mai notato. Colli, pianure e distese e le note di Jean Ferrat e George Brassens, borghi illividiti dalle furie del tempo. I colori e i profumi della Provenza e di Sanremo. Passeggiate nei cimiteri marini e nel Père Lachaise, tra Jim Morrison, circondato da margherite sciolte, Balzac, Proust e il poeta Apollinaire, colonna spezzata di granito, una poesia e un calligramme incisi sulla lapide. Odore di limone. Di strada. Di vino forte, come il Pineau des Charentes, o di un distillato fortificante come il Bas-Armagnac. Ci ritroviamo lì, ai Mondiali del 1982. Grazie a loro, siamo andati in giro a cantare, a gridare, a baciarci, a tamponarci. Era come aver avuto la patente d esser vivi. E, ora, lo riviviamo. Siamo nel 1985: c è un uomo, al comando della nave dei sogni: la sua maglia è azzurra, il suo sinistro non perdona. Il suo nome è Diego Armando Maradona.

Nota editoriale 15 Con gli occhi di Gianni Mura, si può entrare nelle stanze d albergo dei corridori del Giro, dove i campioni si riposano e giacciono come albatri baudelariani. Si può sostare davanti alla tomba di Girardengo o di Coppi, veder giocare in allenamento Peppin Meazza con un promettente pulcino dell Inter, il futuro campione Sandro Mazzola, o entrare al pub con Ian Rush, scrivere, leggere, una lettera a Marco Pantani: «In morte sei stato generoso come in vita». E poi, in Francia, percorrere i sentieri e i paesaggi del Tour, transitare tra le valli, e le spiagge e il mare di Le Havre, o accanto alla Cattedrale di Rouen dipinta da Monet. E poi l Italia che cade e l Italia che vola. Vola il pallone calciato da Roberto Baggio nella finale dei mondiali del 1994, ma vola troppo in alto e va su, sopra la traversa, a due passi dal cielo. Ha vinto il Brasile, ai rigori. Quanti rigori battuti e quanti brindisi subito dopo e quanti silenzi, quando invece si capisce che la festa è finita. I rigori sono come la ghigliottina in piazza. Sono uno psicodramma in cui non si saprà mai chi ha ragione. Quanti momenti. Quei sei minuti. Quelli di Mazzola e Rivera, brevissimi, eterni, tanto da giungere fino a oggi. Quelli di Ronaldo, che torna a calcare i campi di gioco dopo tanto, e che in sei minuti cade di nuovo nel tunnel del crac, passa dal paradiso del ritorno in campo all inferno del dolore e della sventura, e si copre la faccia e piange, disteso su una barella. E poi le pedalate. Gimondi che attacca, bello e duro come il diamante, Bitossi che corre, corre e poi si ferma, Bitossi Cuorematto. E le corse di Anquetil, duro dal cuore d oro, Michele Dancelli, abile finisseur, Merckx che appena giunto in Italia va a comprare un 33 giri di Gianni Morandi e che per un lapsus ciclistico chiede un disco di Gianni Motta. Le corse di Sgarbozza il ciociaro, di Bartolozzi. Di Alfredo Binda, che se fosse in America certo lo chiamerebbero the Greatest. Quelle di Bartali e Coppi, Bugno e Chiappucci e Cipollini. E quelle di Marco Pantani, che corre e che va, e che soffre e che poi vive, e quelle rose che lo attendono, ma piene di spine e di dolore. E i mondiali, e gli europei, e i pianti e le gioie. Ora e ciò che è stato. Il mito della Sanremo, quando Coppi vince con 14 su Teisseire e getta le basi per il mito dell uomo solo al comando. Gli anni mitici del Casale e della Pro Vercelli, il fascino delle storie di ieri. La pancia da fuoriclasse di Puskás e la traiettoria a foglia morta di Mariolino Corso. I volti: era italiano e triste Gino Bartali, la sera del 14 luglio 1948. È alto, biondo e ha i capelli da paggetto, Giancarlo Antognoni, 22 anni, capitano della Fiorentina. È un divo, anche se non recita. È il 1982. Mentre arriva la grande crisi, tutti si abbracciano a lui: è San Pablito. Da Fusignano, è arrivato un profeta: si chiama Arrigo Sacchi. E poi il ds partigiano Alfredo Martini, la «voce» di Sandro Ciotti, e gli allenatori-filosofi e

16 Non gioco più, me ne vado gli urlatori, e Bruno Conti, e il calcio che non c è più e quello che c è, e il fuori campo, e l eterna polemica tra calciatori, come Rivera, e giornalisti, come Brera. «Nostalgia di te, Gioann» scrive Gianni Mura a Gianni Brera. Dicono che la nebbia sia il vestito migliore, nella Lombardia di pianura. Ma in questo libro, la nebbia appare e poi scompare, spolvera la cosmetica del ricordo, e quello che rimane sono le corse e le lotte e i pianti e le risate e, insomma, la vita. A.G. A.P.

Il gol non è tutto, ma quasi

Mundial a Siviglia Tornarci e trovarla diversa, questa città, meno aperta. Illudersi una volta passi, ma due fa male. Per la prima illusione, la colpa è ovviamente della Nazionale spagnola e del tecnico Santamaria: il termine più gentile che si sente, riferito a lui, è «caprone». Tutto era previsto, tutto era sicuro: qui dovevano giocare le furie rosse, in una città orgogliosa e un po dimenticata, talmente bella da rischiare di essere una città-museo. La gente, una volta viste sbiadire sempre di più sul teleschermo le furie rosse, aveva adottato il Brasile. Scelta logica, oltre che sentimentale. La squadra di Santana aveva giocato tre partite qui, i suoi quindicimila tifosi avevano animato i giorni e le notti con la loro allegria, le orchestre, un colore mai invadente e sempre di basso tenore alcolico. Innamorarsi del Brasile era andare sul sicuro, e invece no, vedi, che scherzo fa l Italia. Due volte colpita al cuore, Siviglia si riavvoltola intorno ai ritmi usuali. Solo nei bar delle zone povere si sente ancora parlare di mundial, con recriminazioni tipo: «Se il caprone chiamava Cardenosa, al centrocampo avremmo avuto un cervellone e le cose potevano andare diversamente». I grandi affari, i vagoni di pesetas rimangono un sogno. I guadagni migliori li hanno realizzati gli alberghi, facendosi pagare in anticipo a prezzi tripli (come altrove) e poi chi c è c è e chi non c è affari suoi. Ma i ristoranti sono semideserti, più di metà del personale è stato rispedito a casa, i tassisti si incolonnano risentiti nelle zone d ombra, senza nessuno da trasportare. Per il periodo del mundial hanno avuto diritto a un sovrapprezzo di venti pesetas, meno di trecento lire. Sul quotidiano locale l aumento dello zucchero a 80 pesetas al chilo (12,67 per cento in più) è stato annunciato con maggiore evidenza di Germania-Francia. Desta invece un certo interesse la notizia che Siviglia è in ballottaggio con Chicago per l allestimento di Expo 92, fiera iberoamericana coincidente col quinto

20 Non gioco più, me ne vado centenario della scoperta dell America. Da Chicago dicono di lasciar fare a loro, che hanno più mezzi. Qui ribattono che Siviglia, da Giulio Cesare in poi, è una culla di storia, che era la capitale dei regni di Castiglia e León, e anche la capitale del Nuovo Mondo, e in quest altalena fra il peso della storia e quello dei dollari vedremo chi vincerà. La scelta definitiva sarà fatta a Parigi l 8 dicembre. Dieci anni sono tanti e sembrano troppi a una popolazione delusa e in una certa misura sconfitta. Perché tutti i pezzi grossi dei partiti e dello stato, tutta la Spagna che conta doveva venire qui, illuminando la città del suo potere, e invece grazie all incapacità del «caprone» tutti rimangono dove sono, e tutto qui rimane com era, con in più la sensazione di aver subìto un torto dalla Nazionale, dall Italia, da Dio, dalla fortuna, da Mundiespaña. In questo quadro di naufragio progressivo, Francia e Germania sono state chiamate «convivados de pietra», ci sono ma è come se non ci fossero. Oggi l aeroporto di San Pedro ha accolto un infinità di voli charter, Francia e Germania sono abbastanza vicine, si riparte subito dopo per un altra città, Alicante o Madrid. Siviglia offre birra e panini, non c è tempo per altro, torna a essere una quinta teatrale ospitando di contraggenio una sfida franco-tedesca cui si sente profondamente estranea, quasi come i giornalisti italiani che si addormentano a metà di un tablao flamenco. Nel barrio di Santa Cruz, già ghetto ebreo, le voci dei venditori ambulanti rompono il silenzio, si può campare comunque anche solo vendendo terra da invasare, o peperoncini, o torroni. Il mundial era qui. Il mundial è passato. (1982)

Samba e torcida C è già spettacolo un ora e mezza prima della partita. Cinquemila tifosi brasiliani dimostrano cosa è la vera «torcida», il calcio in tribuna cantato, suonato, ballato, sofferto, mimato. La curva alla sinistra della tribuna d onore è solo un grande samba. Tutti e cinquemila, uomini e donne, vecchi e giovani, hanno la maglia gialla con i bordi verdi, i più organizzati hanno tromba, tamburi, bidoni di latta, birimbaos, cuícas, formano vere orchestre. Sulle maglie predomina il numero 10, il re è Zico. Lo stadio Pizjuan è bello per il calcio. Invece al Maracanà dai posti alti non si vede quasi nulla e si registra la situazione, che altrove sarebbe assurda, demenziale, di gente che balla con la radiolina all orecchio per sapere cosa succede nel campo, troppo lontano. E così credo che alla torcida non importi molto di sapere se gioca o no Paulo Isidoro. La festa sono loro, il calcio è un pretesto per il solito rito di allegria. Agitarsi così, col caldo che fa, è una sfida di sopravvivenza. Il Brasile esporta questa immagine di felicità bonaria, senza aggressività né fanatismi, regalando musica e danze. La realtà di tutti i giorni in Brasile sarà un altra, lo sappiamo, ma qui è lontana, sembra più lontana del Maracanà. I tamburi rullano due volte più forte, prima era solo un intrattenimento, adesso è la fede. È subito Zico a mettersi in luce con un tiro che costringe il portiere Dasaev a volare all incrocio dei pali per deviare la palla. Sul successivo calcio d angolo il colpo di testa di Sócrates ha poca fortuna. Risponde l Urss con un assist di Blochin per la testa di Oganesian. È un botta e risposta fatto di azioni veloci e piacevoli. Al 4 Junior si fa ammirare per una conclusione rabbiosa, di destro, che esce di poco. Giocano con semplici geometrie gli uomini di Beskov, trattenendo poco il pallone, Shengelia si trova solo davanti al portiere, e a Serginho non resta che trattenerlo vistosamente per la maglia. Reclama il rigore l attaccante sovie-

22 Non gioco più, me ne vado tico, ma l arbitro non è dello stesso avviso. Subito dopo lo stesso Serginho raccoglie di testa un lancio dello specialista Eder inviandolo poco sopra la traversa. Per niente intimorita l Unione Sovietica ritesse le sue trame senza affanno e con molta nitidezza; quasi tutte le azioni si dipanano da Blochin, capace di lungimiranti lanci che trovano quasi sempre un compagno smarcato sulle fasce laterali. Non delude certo le aspettative questa partita presentata come confronto-scontro fra due scuole: l allegria e la fantasia dei brasiliani contro l atletismo spinto dei sovietici. E al 37, da una delle tante azioni tipo dell Urss, Bal da fuori area riceve un passaggio che lo trova libero e pronto col destro al tiro fulminante: si piega sulle gambe Peres, il trentunenne portiere brasiliano, ma forse è ingannato dallo stesso effetto della palla che gli sguscia via. È l 1-0 per l Urss. Tre minuti dopo su un fallo di mano in area sovietica Falcão grida al rigore, ma ottiene solo un calcio di punizione a due che Eder spreca. Spreca anche Bessonov un gol quasi fatto a portiere ormai fuori gioco. La palla finisce sul palo e va fuori. Nella ripresa il Brasile si presenta con Paulo Isidoro al posto di Dirceu. Su un contropiede russo e successivo scambio Blochin-Gavrilov condensato con un gran tiro di quest ultimo, il portiere brasiliano Peres si impappina e blocca in due tempi. Si innervosisce la manovra brasiliana perdendo smalto e lucidità e quando Falcão smista su Serginho in posizione ideale, questi s incanta in inutili e infruttuosi dribbling a due passi dal portiere avversario. Eder che tanto si è prodigato a lanciare i compagni in meta questa volta ci prova da solo: gran sinistro, ma la mano di Dasaev è lì pronta ad alzare sulla traversa. Beskov al 28 sostituisce Gavrilov con Susloparov. Un attimo dopo Sócrates si destreggia fra un nugolo di avversari, finta, e da fuori area improvvisa un tiro ciclopico che s insacca nonostante il volo di Dasaev. Finale incandescente con un Brasile rinvigorito: Zico sbaglia incredibilmente a un soffio dalla linea di porta. Raggela buona parte dello stadio Shengelja, quando agli sgoccioli della partita insacca solo davanti a Peres, ma l arbitro spagnolo Castillo annulla per fuorigioco. Si continua sul filo delle emozioni ma in un altra area: finta di Falcão, Eder al volo col suo sinistro, piede rinomato, scova l angolo alto e regala al Brasile la vittoria. Potrebbe essere anche un 3-1 se Zico in scivolata non mancasse un assist pulito di Serginho. Il risultato resta lo stesso: Brasile-Urss 2-1. (1982)

Quel sogno dell 82 italia, regalaci un sogno. Ce n erano tanti, di cartelli così, la sera dell 11 luglio 82. E a tutti i milioni di persone appesi al risultato l Italia regalava una realtà. Una regia incredibile, dai balbettii di Vigo, alla voce alta di Barcellona, al trionfo di Madrid, tutto in un crescendo che ingigantiva le emozioni e che, lo si sarebbe visto dopo, avrebbe molto contribuito alla calcistizzazione del paese. Oggi c è a Zurigo una partita fra Italia e Germania che è molto diversa da quella di Madrid e da quella, fino a Madrid sul piedistallo, dell Azteca. Non è una rivincita, non è granché, forse è solo un pretesto per voltarsi indietro. Dagli uomini di Palazzo agli uomini della strada, un gran bagno di festa, mai viste tante bandiere (stoffa aumentata del 350 per cento, l ultima settimana), né tanto orgoglio nazionale né tanta solidarietà. Madrid e l Italia, un ingorgo tricolore, e tutto per una squadra di calcio. Che, ricordiamo anche questo, aveva tutti contro, il tragitto polvere-altare scandito da forze occulte, non individuabili nel solito stellone. Da indegni brocchi a supermen i giocatori, da mentecatto a Garibaldi l allenatore. Grazie a loro, i più forti, tutti si sono sentiti i più forti, sono andati in giro a cantarlo a gridarlo a baciarsi a tamponarsi, il clacson come un incubo, ma si sa che il disordine è la gioia della fantasia, deve averlo detto Paul Claudel. Era come aver avuto la patente d esser vivi e, anche più, di contare qualcosa e, infine, di essere i primi nel mondo, traguardo difficilmente raggiungibile nel campo della giustizia fiscale, dell assistenza sanitaria, nella riconsegna dei bagagli all aeroporto, nella tutela del verde o in un sacco d altre cose. Le mobilitazioni popolari legate alle imprese sportive, tramontati i tempi di Bartali e Coppi (e poi il ciclista vince sempre da solo) sono ormai esclusivamente a sfondo calcistico. Con l eccezione dei paesi di nascita, nessuno andrebbe in

24 Non gioco più, me ne vado piazza per una vittoria della Vaccaroni, di Mennea, di Oliva. È l idea della squadra (che si chiama Italia) a fare dell Italia una squadra: a patto che si sia vinto, conta partecipare, mettere le mani e il cuore sulla torta, sentirsi così bene da star quasi male. Abbracciando i suoi eroi d una sera, dal Nord al Sud l Italia abbracciava se stessa, scoprendosi unita, per una volta, e dal giorno dell Unità non è che siano poi state tante. A Madrid c era la tribù del calcio, i più giovani con la faccia dipinta, indiani metropolitani esaltati e miti. C era l Italia dei comuni («Grumo Nevano è con voi», «Forza Azzurri! Botteghelle Casalnuovo», «Da Torino l urlo del bar Nino») e c era naturalmente Pertini. C era anche la Germania, ci voleva la Germania per rendere più grossa la festa. Una finalissima Italia-Francia avrebbe avuto altro significato e sapore (e magari l avrebbe vinta la Francia). L hombre del partido, naturalmente, Paolo Rossi, così italiano che di più non si può, reduce da un viaggio altare-polvere-altare-polvere-altare che non sembra finito, lui il Davide buono per stendere ogni Golia. Tante cose son cambiate da quei giorni di questa follia collettiva. Regalata una realtà, l Italia del pallone s è incagliata in risultati opachi e mortificanti ed è giusto riconoscere a tutti, anche agli eroi, il diritto d invecchiare da uomini, di essere all altezza di se medesimi e non dei desideri e degli appetiti inesauribili di una nazione. Tutte le stelle vengono a giocare qui, la Juve vince una Coppa, la Roma aspetta di vincerne un altra, nel 1990 si organizzeranno i mondiali. Tutto è cominciato quell 11 luglio e il ricordo non placa la fame, ma come si fa a dimenticare? (1984)

Il silenzio dello stadio Lo stadio vuoto è l amara conseguenza di uno stadio riempito troppo e male a Bruxelles. Ma questo stadio non è del tutto vuoto. Un centinaio di persone in tribuna d onore, si scomoda perfino l Avvocato, ma se ne va dopo il primo tempo, esattamente come Platini. E poi 72 giornalisti, 32 fotografi, 14 addetti alla manutenzione del campo, 12 raccattapalle, 14 baristi, 6 barellieri e altri spiccioli di gente a vario titolo autorizzata a esserci. Poter dire «io c ero» non sembra un gran privilegio, ma è interessante esserci, e resistere alla tentazione di definire surreale un atmosfera che è reale. Non c è da arrivare molto in anticipo, manca il traffico che precede le altre partite. All unico cancello aperto, un gruppetto di fedelissimi grida di non far passare nessuno. Trecento poliziotti guardano tutte le entrate, un tentativo di invasione (quindici ragazzi, nemmeno tanto convinti) è subito contrato. I tifosi si raggrumano davanti ai cancelli chiusi, anche per loro è una situazione strana, vissuta con curiosità, senza rabbia. E poi hanno organizzato una specie di staffetta, sono informati periodicamente di quello che succede. Niente radio, ovviamente, né tv in diretta. Non è la Jeunesse una squadra da brividi, ci sarà pathos la prossima volta, sempre a porte chiuse, contro avversari più forti. Il figlio di Boniperti, Paolo, arriva con nove amici. Provano a stendere uno striscione bianconero (Vinci per noi) ma prevale il buongusto (degli altri). L altoparlante dà le formazioni e conclude con un «A tutti buon divertimento» degno di segnalazione. Squadre allineate a centrocampo, braccia alzate, tanta è l abitudine che Favero si gira a salutare anche dall altra parte, dove non c è assolutamente nessuno. Il cielo è grigio, gli applausi di cortesia, l impegno una pura formalità. Platini trotta come se gliel avesse ordinato il medico, Mauro è molle come un budino di fichi, Scirea e Laudrup rifiatano in panchina. La separazione chirurgica fra Juve e ti-

26 Non gioco più, me ne vado fosi appare netta e indolore. Tira aria da allenamento, non c è cattiveria né grande agonismo, c è solo da tirare fino in fondo i novanta minuti. Qualcuno azzarda un paragone con Blow up ma non vale: lì non c era la pallina, qui il pallone c è. Manca il sonoro, la partita sarebbe un perfetto film muto se non ci fossero le urla dei giocatori che chiamano palla, il rumore sordo dei tackle, quello più morbido del pallone calciato, i garbati battimani dei «privilegiati» in tribuna d onore, né è il caso di mettersi a urlare per un gol di Platini da tre metri, per uno di Pin da diciotto, per i due di Serena, uno di testa e uno su rigore, se mai un po più di convinzione negli applausi al gol del piccolo Guillot. M immaginavo la purezza del gesto atletico isolato, all aperto ma come sotto vetro. Errore. Per dare un idea, dirò che occorre invece immaginarsi il Palio di Siena senza gente attorno, o un concerto senza spettatori, qualcosa come un fuoco acceso senza nessuno che si scaldi. Il calcio ha bisogno di spettatori quasi come gli spettatori hanno bisogno di calcio. Lo stadio chiuso sarà una punizione dura, ma è anche un invito a riflettere come il calcio può ammalarsi o morire, così come di calcio si può morire. È difficile dire adesso quanto sia stato raccolto questo invito, e quanto sarà utile questo pomeriggio strano e deserto. Il silenzio, l assenza di rumore, è una conquista preziosa e difficile (una spiaggia, un letto, un bosco). Il silenzio attorno a una partita di calcio è una condanna: per chi non può entrare, per chi è entrato, per chi gioca e per chi fa finta di giocare. È finita 4-1, poteva finire 10-0 o 7-7 che era la stessa cosa, una faccenda da dimenticare in fretta o da ricordare per sempre, a scelta. (1985)