Maruca Mauro Scuola professionale Albe Steiner classe 2^D Anno scolastico 1998/99 Italiano: Novembre (Giovanni Pascoli) Gemmea l'aria, il sole così chiaro che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, e del prunalbo l'odorino amaro senti nel cuore... GIOVANNI PASCOLI Ma secco è il pruno, e le stecchite piante di nere trame segnano il sereno, e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante sembra il terreno. Silenzio, intorno: solo, alle ventate, odi lontano, da giardini e orti, di foglie un cader fragile. E' l'estate, fredda, dei morti. Novembre è una poesia che appartiene alla raccolta "Myricae", dove emerge il tema preferito di Giovanni Pascoli: la natura con le sue immagini che si intrecciano alle sensazioni del poeta. Il titolo è costituito di una sola parola come quasi sempre nella prima raccolta del Pascoli (Carrettiere, Lavandare, Arano, Patria, Scalpitìo, Galline) che tuttavia è essenziale nel presentare il tono e il clima dei primi versi. La terza e ultima strofa termina con il verso "E' l'estate fredda dei morti". Mi sono chiesto il perché. Perché in molte poesie del Pascoli vi è un richiamo, a volte velato, a volte no, alla morte? Forse la risposta si può trovare in parte nelle vicende tragiche che il poeta ha vissuto: l'uccisione del padre, la prematura scomparsa della sorella maggiore e della madre, la morte di altri familiari. Queste vicende hanno interrotto brutalmente una felice infanzia caricando il Pascoli della consapevolezza che è difficile mantenere gioia e sicurezza e che ogni perdita persiste nella memoria.
Sicuramente le sue vicende personali sono intrecciate con quelle del suo periodo storico e letterario, nel quale venivano alla luce le ingiustizie sociali e le forti lotte sindacali. Pascoli fu sensibilissimo a questi temi sociali. Secondo lui se tutti avessero dato ascolto al proprio animo poetico, sarebbe stato più facile cogliere la Verità e realizzare la Giustizia. Pascoli elaborò la poetica del fanciullino. Secondo lui, c'è un fanciullino dentro di noi che resta tale anche quando si cresce. E' in tutti gli uomini, ha paura del buio, si meraviglia di tutto, è buono e generoso, piange e ride senza un perché, sa parlare alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole e alle stelle. Dice il Salinari: «Nelle pagine dedicate al Fanciullino, fin dalle prime battute, si trovano molti elementi della poetica pascoliana. In primo luogo il carattere irrazionale, intuitivo dell'arte insito alla natura stessa del fanciullino. (...) Ma un'altra caratteristica del fanciullino, abbiamo visto, è quella di essere in tutti gli uomini. La poesia, quindi, non è privilegio di alcune anime elette, ma può essere intesa da tutti. (...) La poesia ha in sé, in quanto poesia, "una suprema utilità"». (Carlo Salinari Miti e coscienza del decadentismo italiano, Milano, 1960- citato nel volume Giovanni Pascoli curato da Sandro Onofri, ed. l'unità, 1993) Giovanni Pascoli nacque a S.Mauro di Romagna (oggi S.Mauro Pascoli) il 31 dicembre 1855, da Ruggero e Caterina Alloccatelli Vincenzi. Quarto di dieci figli, due dei quali morti in tenera età, il ragazzo crebbe fino a dodici anni in un'atmosfera di forti legami familiari. Nel 1867, il 10 agosto, accadde un dramma: suo padre, che era amministratore della tenuta "La Torre" del principe Torlonia, di ritorno dalla fiera di Cesena, venne ucciso da assassini che non furono mai scoperti (anche per l'omertà della gente, oltre che per le indagini superficiali della polizia). La morte del padre fece crollare la famiglia nel disastro economico e nella disperazione. Il giovane Giovanni piombò in una situazione di insicurezza psicologica che non lo lasciò più anche perché l'anno successivo morì la sorella maggiore per tifo e poi la madre di crepacuore. Seguirono altri lutti in maniera desolante. Giovanni concluse gli studi liceali a Firenze e, grazie ad una borsa di studio, riuscì a iscriversi alla facoltà di lettere di Bologna. Nonostante l'aiuto morale e materiale che gli veniva dalla stima di Giosuè Carducci, di cui Pascoli frequentava con passione i corsi, gli anni bolognesi risentirono della depressione psicologica e della povertà in cui si trovava a dover vivere. In quegli anni, Pascoli aderì alle nuove tendenze socialiste molto diffuse tra gli studenti bolognesi e svolse propaganda sindacale. Durante una manifestazione fu arrestato e rimase in carcere due mesi. Al processo, nel quale Carducci medesimo si schierò in sua difesa, venne poi assolto, ma ne uscì così provato che voleva lasciare Bologna. Il Carducci e gli amici riuscirono a convincerlo aiutandolo a proseguire gli studi. Si laureò nel 1882 all'età di 27 anni.
Fu ancora aiutato dal Carducci e ottenne una nomina al liceo di Matera, cominciando la carriera d'insegnante che lo portò in varie città tra cui Massa, Livorno e Messina. Le due sorelle Ida e Maria (Mariù) lo seguirono e lo avvolsero con il loro affetto esclusivo e morboso. Nel 1891 pubblicò il primo volume di poesie dal titolo Myricae, che ebbe fra le recensioni positive quella di Gabriele d'annunzio. Ebbe molti riconoscimenti nel mondo. Pascoli, nel 1895, insieme alla sorella Mariù prese in affitto una casa a Castelvecchio, dove a contatto con la natura continuò a produrre. Scrisse "Primi poemetti" nel 1897, i "Canti di Castelvecchio" nel 1903 e i "Poemi conviviali" nel 1904. Nel 1905 dovette accettare la cattedra lasciata a Bologna dal suo maestro Carducci, il quale al momento del suo congedo aveva chiesto che a sostituirlo fosse proprio il suo pupillo. Scrive, nell'opera citata, Sandro Onofri: «E così l'umbratile Pascoli si trovò al centro di un mondo pieno di celebrazioni, di discorsi d'occasione e di compiti ufficiali. Negli ultimi anni della sua vita il poeta concluse un percorso che, dal socialismo giovanile, lo portò ad accettare pienamente l'ordine giolittiano e ad abbracciare il nazionalismo dominante della cultura di allora. Lo fece però ancora una volta in modo ambiguo, mascherando l'aggressività nazionalistica con aspettative di tipo umanitario, giustificando la politica coloniale dell'italia con obiettivi socialisteggianti, di solidarietà fra le diverse classi sociali. A tal punto che celebrò l'impresa di Libia del 1911 con un discorso rimasto famoso e dal titolo eloquente "La grande Proletaria di massa"». Pascoli morì nel 1912, il 6 aprile a Bologna per un cancro al fegato. Alcune tematiche che Giovanni Pascoli affronta nelle sue poesie evocano ritmi interni e provocano suggestioni, perché sono scritte con una musicalità sorprendente. Mi è piaciuta in particolare la poesia Scalpitìo, che è anche una delle tante poesie in cui l'autore affronta il tema della morte. Scalpitio (dalle Myricae) Si sente un galoppo lontano (è là...?), che viene, che corre nel piano con tremula rapidità. Un piano deserto, infinito; tutto ampio, tutt'arido, uguale: qualche ombra d'uccello smarrito, che scivola simile a strale: non altro. Essi fuggono via da qualche remoto sfacelo;
ma quale, ma dove egli sia, non sa né la terra né il cielo. si sente un galoppo lontano più forte, che viene, che corre nel piano: la Morte! la Morte! la Morte! Nell'Antologia della Letteratura Italiana (parte seconda) degli autori A.Gianni, M.Balestrieri, A.Pasquali, troviamo scritto: «La "vertigine" pascoliana è aggravata dal senso della Morte, che si pone come il rombo di un galoppo lontano, in una pianura squallida, deserta; anzi dalla coscienza che solo l'uomo, tra tutti i viventi, è consapevole del morire, e perciò "muore veramente ad ogni tremito anche lontano di quel galoppo"». da Canti di Castelvecchio (1903-1912) L'ora di Barga Al mio cantuccio donde non sento se non le reste brusir del grano, il suon dell'ore viene col vento dal non veduto borgo montano: suono che uguale, che blando cade, come una voce che persuade. Tu dici, E` l'ora; tu dici, E` tardi, voce che cadi blanda dal cielo. Ma un poco ancora lascia che guardi l'albero, il ragno, l'ape, lo stelo, cose ch'han molti secoli o un anno o un ora, e quelle nubi che vanno. Lasciami immoto qui rimanere fra tanto moto d'ale e di fronde; e udire il gallo che da un podere chiama, e da un altro l'altro risponde, e, quando altrove l'anima é fissa, gli strilli d'una cincia che rissa. E suona ancora l'ora, e mi manda prima un suo grido di meraviglia tinnulo, e quindi con la sua blanda voce di prima parla e consiglia, e grave grave grave m'incuora: mi dice, E` tardi; mi dice, E` l'ora.
Tu vuoi che pensi dunque al ritorno, voce che cadi blanda dal cielo! Ma bello è questo poco di giorno che mi traluce come da un velo! Lo so ch'è l'ora, lo so ch'è tardi; ma un poco ancora lascia che guardi. Lascia che guardi dentro il mio cuore, lascia ch'io viva del mio passato; se c'è sul bronco sempre quel fiore, s'io trovi un bacio che non ho dato! Nel mio cantuccio d'ombra romita lascia ch'io pianga su la mia vita! E suona ancora l'ora, e mi squilla due volte un grido quasi di cruccio, e poi, tornata blanda e tranquilla, mi persuade nel mio cantuccio: è tardi! è l'ora! Sì!, ritorniamo dove son quelli ch'amano ed amo. "L'ora di Barga" appartiene alla raccolta dei "Canti di Castelvecchio". Tutta la poesia, a cominciare dal titolo, parla di campane annunciatrici di morte. «... il suon dell'ore viene col vento...», con il vento che rappresenta la realtà mutevole e fuggente il Pascoli introduce un richiamo lieve e forte insieme («...come una voce che persuade.»). C'é un richiamo a ritornare; sembra il richiamo dell'eternità a cui lui apparteneva prima della vita e a cui deve ritornare. I versi del poeta fanno pensare che non sia possibile sottrarsi poiché è una «...voce che cadi blanda dal cielo». Il Pascoli, tuttavia, chiede di restare ancora a guardare dapprima l'albero, il ragno, l'ape, lo stelo e, poi, anche dentro se stesso. C'è un viaggio, dentro, da terminare, un soffio di vita che proviene dalla memoria, dal passato in cui cercar e le cose non fatte e quelle su cui piangere. Il richiamo dell'aldilà, però, è forte, poiché là stanno «...quelli ch'amano ed amo.». Il gelsomino notturno E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari. Sono apparse in mezzo ai viburni le farfalle crepuscolari. Da un pezzo si tacquero i gridi: là solo una casa bisbiglia. Sotto l'ali dormono i nidi, come gli occhi sotto le ciglia. Dai calici aperti si esala l'odore di fragole rosse. Splende un lume là nella sala. Nasce l'erba sopra le fosse. Un'ape tardiva sussurra trovando già prese le celle. La Chioccetta per l'aia azzurra va col suo pigolìo di stelle. Per tutta la notte s'esala l'odore che passa col vento. Passa il lume su per la scala; brilla al primo piano: s'è spento... E` l'alba: si chiudono i petali un poco gualciti; si cova, dentro l'urna molle e segreta, non so che felicità nuova. Questa poesia inizia con versi che associano alla sera l'apertura dei fiori, continua con immagini lievi di luci, movimenti e profumi e termina con i versi che associano all'alba la chiusura dei fiori, i quali nascondono qualche magica novità. Il Pascoli, in questa poesia, si stacca dall'idea che vede le tenebre come la morte di tutte le cose e fa trasparire in pochi versi tutta l'eleganza della vita notturna: sbocciano i fiori, volano le farfalle, nasce l'erba. L'unico bisbiglio sembra essere quello di un'ape tardiva che potrebbe essere l'autore stesso che ormai si sente troppo vecchio per sposarsi e allo stesso tempo tutti i suoi amici l'hanno già fatto. Sono belli i versi che paragonano i nidi che dormono protetti dalle ali genitoriali agli occhi protetti dalle palpebre. E` di grande effetto l'immagine del tremolare degli astri notturni espresso come «... pigolìo di stelle...». In questo caso il poeta richiama nell'immagine più grande, che è quella degli astri, il suono lievissimo dell'essere più tenero e indifeso.
All'alba la vita notturna muore rapidamente come era nata, quasi in un sussulto. Con l'ultimo verso l'autore termina augurando dei figli alla coppia di amici a cui aveva dedicato la poesia in onore del loro matrimonio («...si cova, dentro l'urna molle e segreta, non so che felicità nuova.»). I figli sono la felicità di un matrimonio, felicità che il poeta dichiara di non aver conosciuto.