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III DOMENICA DI QUARESIMA Gv 2, 13-25; Es 20, 1-17; Sal 18; 1Cor 1, 22-25 Colletta Dio misericordioso, fonte di ogni bene, tu ci hai proposto a rimedio del peccato il digiuno, la preghiera e le opere di carità fraterna; guarda a noi che riconosciamo la nostra miseria e, poiché ci opprime il peso delle nostre colpe, ci sollevi la tua misericordia. Per il nostro Signore Gesù Cristo... Nella prima domenica di Quaresima ci siamo incamminati dal deserto verso il monte, luoghi dell incontro con Dio. Questa domenica si parla del tempio di Gerusalemme, il grande luogo, per molti l unico luogo del vero incontro con Dio. Gesù amava quel luogo e vi si recava spesso; così gli apostoli con lui e anche dopo di lui. Gesù si sdegna per un uso profano del tempio (Vangelo). Gesù frequentava il tempio e la sinagoga, rispettava il culto, non voleva distruggere nulla della Legge. Voleva però l autenticità, la verità, nel rispetto della vera Tradizione. Chiedeva ai credenti qualcosa di più vero e autentico. Alla donna samaritana aveva detto chiaramente: si adora Dio in spirito e verità; non importa il luogo, sia esso Gerusalemme o in altre parti (Gv 4). Così di fronte alla Legge afferma chiaramente di non essere venuto ad abolirla ma a viverla in pienezza. La sua missione è quella di purificare l osservanza, di ricentrare la verità. Egli ricordava alla gente del suo tempo, e oggi a noi, che il tempio e la Legge, il culto e la Tradizione, sono solo strumenti per vivere la fedeltà a Dio e all uomo. Cristo è la nuova legge, anzi l unica vera legge. Cristo è il nuovo tempio, il vero e unico luogo di incontro con Dio. La Legge, tutta la Legge, compresi i dieci comandamenti (I lettura), è la Parola di Dio, è Cristo, il Verbo fatto carne. Il tempio, sempre considerato come il luogo dell incontro con Dio, ora è Cristo. Questo luogo, questo ambito di comunione con Dio si realizza in pienezza e per sempre in Cristo crocifisso, scandalo per gli uni, stoltezza per gli altri, ma in realtà potenza e sapienza di Dio (II lettura). Guardando a Cristo, il battezzato e il tentato, il trasfigurato e il crocifisso, riconosciamo in lui il Figlio di Dio, che fa esperienza del male fino alla morte di croce: in lui divinità e umanità si incontrano, egli è il vero tempio in cui ci incontriamo con Dio. La Pasqua rivelerà in pienezza la verità del tempio del suo corpo, offerto e donato, squarciato e innalzato, risorto e trasfigurato. Cristo è al centro del rapporto tra Dio e l uomo, tra l uomo e Dio. Un luogo, un tempio, una chiesa, possono anche aiutarci a in contrare Dio, ma è nel Cristo che si rende possibile la vera e piena comunione con Dio, con il Padre e lo Spirito Santo. La legge è ormai nel nostro cuore perché in noi abita lo Spirito Santo, che Gesù ci ha donato. Per questo siamo e possiamo chiamarci tempio dello Spirito Santo. Quindi noi stessi siamo tempio di Dio, luogo in cui Dio abita. L umanità del nostro tempo incontra Dio non tanto nelle chiese, negli edifici e nei templi, ma in noi cristiani, persone vive, nella Chiesa viva, che è la comunità cristiana, il popolo di Dio. È la grande verità che sperimentiamo nell Eucaristia: Cristo con la sua Parola, con il suo Corpo e il suo Sangue abita in noi, come nel vero tempio della nuova ed eterna alleanza. La Quaresima ci ripropone questa verità come esperienza da riscoprire nel ricordo del nostro Battesimo.

PRIMA LETTURA Dal libro dell Èsodo (20, 1-17) In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti. Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano. Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato. Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà. Non ucciderai. Non commetterai adulterio. Non ruberai. Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». Parola di Dio. 2

Decalogo Es 20,1-17 Il libro dell Esodo si divide in due parti, la prima (cc. 1-18) narra l uscita degli israeliti dall Egitto, la seconda (cc. 19-40) l alleanza sinaitica. Quest ultima abbraccia due sezioni narrative (cc. 19-24 e 32-34) a ciascuna delle quali fa seguito un complesso di norme riguardanti il culto. La prima di queste due sezioni inizia con un brano introduttivo nel quale Dio appare a Mosè e per mezzo suo manifesta agli israeliti la decisione di stringere un alleanza con loro (Es 19,1-8). Ad esso fa seguito il racconto della manifestazione di Dio (teofania) (Es 18,9-20,21). A un certo punto però questo si interrompe per fare spazio al decalogo (20,1-17), che ne costituisce la parte centrale, presentato come «parole» pronunciate da Dio stesso (v. 1). Subito dopo viene concluso il racconto della teofania (20,18-21). La sezione prosegue con un codice legislativo (20,22 23,33) e con il racconto della conclusione dell alleanza (c. 24). Un altra versione del decalogo si trova in Dt 5,6-22. Le due versioni si differenziano solo in alcuni punti secondari. Il decalogo è formato da una serie di prescrizioni formulate in stile conciso e categorico, alcune delle quali sono seguite da spiegazioni più o meno lunghe. Due precetti (riposo sabbatico e onore da prestare ai genitori) sono espressi in forma positiva, mentre gli altri si presentano come secche proibizioni. Nulla è detto circa la pena riservata ai trasgressori, ma si può pensare che consistesse nella morte (cfr. 21,12-17). Il fatto che i comandamenti siano dieci è attestato dalla tradizione. In realtà, però, i precetti sono undici e il numero dieci può essere raggiunto solo unificando gli ultimi due (desiderio dei beni e della moglie del prossimo) o i primi due (esclusione degli altri dèi e delle immagini). Secondo un antica consuetudine, i comandamenti sono divisi in due gruppi, che riguardano rispettivamente i doveri verso Dio (i primi tre) e verso il prossimo (tutti gli altri). Questa divisione però non è corretta. In realtà vi è un prologo storico a cui fa riscontro una clausola fondamentale, il primo comandamento («Non avrai altri dèi di fronte a me»), che a sua volta rappresenta il principio ispiratore da cui tutti gli altri comandamenti traggono il loro significato e che ne mettono in luce le implicazioni in campo sociale. Prologo storico e clausola fondamentale (vv. 2-6) Il decalogo si apre con una frase che contiene un succinto prologo storico, nel quale Dio presenta se stesso e al tempo stesso fa un riassunto degli eventi passati (v. 2). Egli si presenta non con titoli di potenza ma semplicemente come il Dio di Israele, non in forza di una decisione arbitraria, ma perché ha liberato il popolo dalla schiavitù a cui era stato sottoposto in Egitto. In questa frase sono espressi la motivazione e il significato di tutti i precetti che saranno successivamente elencati: se Dio ordina qualcosa agli israeliti, lo fa solo perché lui stesso per primo ha dato loro gratuitamente ciò che vi è di più essenziale, la libertà; si può quindi supporre che egli non esigerà se non ciò che è in funzione di questa stessa libertà e contribuisce alla sua piena attuazione. In questo prologo sta dunque la chiave di volta per comprendere lo spirito dei comandamenti. Il primo comandamento, che fa seguito immediatamente al prologo storico, contiene la clausola fondamentale dell alleanza, che è così formulata: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (v. 3). Israele ha accettato di legarsi al solo JHWH, di conseguenza dovrà adorare lui solo, senza porgli accanto nessun altra divinità. Il primo comandamento non richiede particolari atti di culto, ma solo una fedeltà totale ed esclusiva nei confronti di JHWH. Non si tratta però di una fedeltà cieca: siccome si è presentato come il Dio che li ha liberati dalla schiavitù dell Egitto, gli israeliti potranno 3

essergli fedeli solo lasciandosi coinvolgere fino in fondo nella liberazione da lui attuata. Se finora Dio ha operato da solo, d ora in poi conta sulla collaborazione di tutto il popolo, che con lui deve diventare artefice della propria liberazione. Il primo comandamento è seguito da un secondo che letteralmente suona: «Non ti farai immagine scolpita» (v. 4a). Siccome gli altri dèi, e quindi le loro immagini, sono già esclusi dal culto, il comandamento non può riguardare se non le immagini di JHWH. Nell antico Oriente l immagine era considerata come il luogo privilegiato in cui la divinità è presente e si manifesta; attraverso di essa si pensava quindi di poter catturare la potenza divina, utilizzandola a proprio uso e consumo. Se a Israele è proibito farsi immagini di JHWH, ciò non è dunque dovuto a una spiritualizzazione della divinità (che non cessa di essere rappresentata in modo antropomorfico), ma al fatto che Israele, liberato e guidato da Dio, non può pensare di esercitare un potere su di lui. A ciò si aggiunge il fatto che i simboli religiosi del loro mondo culturale avrebbero automaticamente indotto gli israeliti ad adottare, come di fatto è avvenuto, una religiosità di tipo pagano. Il divieto delle immagini è illustrato mediante un aggiunta nella quale si specifica che sono proibite tutte le immagini ricavate da uno qualsiasi dei tre piani in cui è diviso l universo (cielo, terra, mondo sotterraneo). Per l ebraismo l unica immagine di Dio è l uomo vivente. Segue poi una seconda aggiunta esplicativa in cui si dice di non «prostrarsi davanti a loro e di non servirli» (v. 5a): sintatticamente questi due verbi si riferiscono non all immagine di JHWH, bensì agli dèi il cui culto è stato proibito dal primo precetto. Il commentatore ignora dunque la proibizione delle immagini, o meglio ritiene che la statua, anche se nell intenzione di chi la venera rappresenta JHWH, in realtà è l immagine di una falsa divinità. Questa idea trova conferma nell episodio di Geroboamo, primo re di Israele: questi aveva introdotto il culto del vitello d oro presentandolo come un immagine di JHWH, ma in seguito è accusato di aver seguito divinità straniere. All origine i due primi comandamenti erano dunque distinti, ma nella versione attuale del decalogo sono considerati come diverse formulazioni dello stesso precetto (clausola fondamentale). In seguito a ciò, per raggiungere il numero dieci, l ultimo precetto ha dovuto essere sdoppiato. Al primo e secondo comandamento, ormai fusi in un unico precetto, è dato un ulteriore commento (vv. 5b-6): JHWH è «geloso» e la sua gelosia ha come effetto la punizione del suo popolo quando questi si allontana da lui. La pena colpisce quattro generazioni, cioè tutti coloro che convivono nella famiglia patriarcale (padri, figli, nipoti e pronipoti). La «bontà» divina raggiunge invece migliaia di generazioni. In altre parole, il castigo è nulla in confronto alla bontà che da sola rappresenta la caratteristica costante dell agire di JHWH nel mondo. Inoltre sia la punizione sia la bontà riguardano non tutti indiscriminatamente, ma solo rispettivamente coloro che lo «odiano» e coloro che lo «amano». Appare qui per la prima volta il concetto di «amore», che non è puro sentimento, ma si manifesta nell osservanza dei comandamenti. Gli altri nove comandamenti (vv. 7-17) Il secondo comandamento proibisce di pronunciare invano il nome di JHWH (v. 7). Nella cultura semitica il nome in qualche modo definisce la persona e ne contiene le potenzialità. Perciò il nome viene spesso interpretato, mentre l assegnazione di un nuovo nome implica il conferimento di un compito particolare. Anche il Dio di Israele ha un nome proprio, che è debitamente spiegato (cfr. Es 3,14; 34,6-7). Il nome divino era pronunciato specialmente nel culto, ma veniva utilizzato anche nel tribunale, allo scopo 4

di chiamare Dio come testimone della propria innocenza: in caso di giuramento falso spettava quindi a Dio punire il colpevole. Su questo sfondo appare che originariamente il secondo comandamento aveva una profonda valenza sociale in quanto proibiva di appropriarsi del nome divino per un giuramento falso. Si comprende perciò l aggiunta esplicativa: colui che ha chiamato Dio come testimone di una cosa non vera potrà forse evitare il castigo umano, ma non quello di Dio. Con l andare del tempo sono stati visti in questo comandamento nuovi significati, come la proibizione della bestemmia, della magia, della divinazione; alla fine, per eliminare in radice qualsiasi possibilità di abuso, il nome divino non è stato più pronunciato e al suo posto si è introdotto l appellativo di «Signore». Nel terzo comandamento (vv. 8-11) è dato l ordine di lavorare sei giorni e il settimo riposare. Questa formula è preceduta da un introduzione in cui si dice di ricordare il giorno di sabato per santificarlo. L origine del termine shabbat, «sabato» è oscura: esso non deriva infatti dal verbo corrispondente (shabat, cessare, riposare), viceversa, è il verbo che deriva dal nome («fare sabato»). Nel decalogo lo scopo del riposo in giorno di sabato è anzitutto di carattere umanitario: con il capofamiglia devono riposare i figli, gli schiavi, i forestieri e persino gli animali. A questa è aggiunta un ulteriore motivazione che riflette il pensiero della tradizione sacerdotale: riposando in giorno di sabato Israele imita il riposo di Dio e si appropria della santità che egli ha riservato al settimo giorno. Per questo motivo si prescrive non di «osservare» (come in Dt 5,12) ma di «ricordare» il sabato per santificarlo (v. 8): esso è dunque, come la Pasqua, un memoriale, cioè un gesto con cui Israele ricorda il riposo di Dio e lo rende presente, entrando così nella sfera della santità stessa di Dio e diventando a sua volta un popolo santo. Il quarto comandamento riguarda i rapporti con i genitori (v. 12): anch esso è formulato in modo positivo. Il verbo «onorare» è lo stesso che indica la venerazione verso Dio. Il comandamento esige il rispetto, l obbedienza e l assistenza verso i propri genitori. Data la struttura patriarcale della famiglia ebraica, sono tenuti a osservarlo non solo i fanciulli ma anche i figli adulti che vivono nella casa paterna; il comandamento riguarda altresì il fratello maggiore al quale è ormai passata la guida del clan. Degno di nota è il fatto che l onore sia richiesto non solo verso il padre ma anche verso la madre. A chi onora i genitori è promessa lunga vita sulla terra che Dio ha dato al suo popolo: la fedeltà alla propria famiglia e alle tradizioni di cui è portatrice è infatti condizione perché si realizzino le benedizioni connesse con l alleanza, fra le quali la prima è proprio quella riguardante il possesso della terra promessa. Il quinto comandamento impone di «non uccidere» (v. 13). Questo termine traduce il verbo rzh che indica l uccisione sia volontaria sia involontaria di una persona innocente. Il verbo non è usato invece per l uccisione in guerra, la vendetta del sangue (la legge del taglione), la sentenza capitale e il suicidio: queste azioni non rientrano dunque sotto questo precetto. Il rispetto della vita rappresenta il fondamento della convivenza umana, e come tale era già stato inculcato nel contesto dell alleanza con Noè. Il sesto comandamento proibisce l adulterio (v. 14). Con questo termine viene indicato il rapporto che un uomo ha con una donna sposata o fidanzata, e non quello che ha con una donna ancora libera, indipendentemente dal fatto che egli sia sposato o no. L adulterio, di cui solitamente era l uomo ad avere l iniziativa, è visto quindi soprattutto come un attentato alla famiglia del proprio prossimo: questo crimine è punito con la morte del colpevole e della donna consenziente (cfr. Dt 22,22). Il settimo comandamento impone di «non rubare» (v. 15). Esso aveva forse originariamente come oggetto il sequestro di persona, mentre il furto era regolato dal 5

precetto che proibisce il desiderio dei beni del prossimo (cfr. v. 17). Solo in un secondo tempo, quando cioè il desiderio è stato considerato come un atto semplicemente interno, la proibizione del settimo precetto è stata estesa anche ai beni materiali. L ottavo comandamento proibisce la falsa testimonianza (v. 16): esso ha come oggetto specifico la verità nella prassi giudiziaria. È quindi parallelo al terzo comandamento, con la differenza che, mentre quello colpisce direttamente l uso indebito del nome di JHWH in proprio favore (giuramento falso), qui si prende di mira la falsa testimonianza usata per incolpare un innocente o per proteggere il colpevole. Il nono comandamento proibisce il desiderio della casa del prossimo (v. 17a). Il suo oggetto era originariamente il furto vero e proprio: è accertato infatti che in ebraico il verbo «desiderare» indica tutto il processo che va dalla decisione fino all appropriazione indebita. Solo in secondo tempo il precetto è stato limitato al puro atto interiore. Il decimo comandamento proibisce il desiderio della moglie del prossimo (v. 17b). In un primo momento esso formava un tutt uno con il precedente, in quanto la casa del prossimo, di cui si proibisce il desiderio, abbracciava tutti i beni in essa contenuti, compresa la moglie, gli schiavi e gli animali. In seguito, quando la proibizione di farsi immagini di JHWH è stata inclusa nel primo comandamento e il settimo è passato a significare il furto in generale, il decimo comandamento è stato separato dal nono e il verbo desiderare (ripetuto due volte) è venuto a designare non più tutto il processo di appropriazione, ma il semplice atto interno, considerato sempre però come decisione vera e propria che porta inevitabilmente all azione. Di conseguenza anche il desiderio della donna è stato considerato come un atto interno, corrispondente a quello esterno dell adulterio. Si riportava così nuovamente a dieci il numero dei comandamenti. La lettura del decalogo alla luce del formulario dell alleanza mostra che Dio esige per sé il dono totale del suo popolo, perché solo rapportandosi a lui gli israeliti entrano nella dinamica della liberazione da lui gratuitamente offerta e di conseguenza garantiscono ciascuno la libertà dell altro. Di riflesso appare che la liberazione conferita da JHWH, pur attuandosi sul piano sociale e politico, consiste in radice nella vittoria sul proprio egoismo e, in ultima analisi, sul peccato. È tipico del decalogo, e più in generale della religione ebraica, l aver così collegato strettamente l ossequio dovuto a Dio con le norme fondamentali della giustizia sociale, a cui ogni essere umano può accedere mediante la propria coscienza (legge naturale). Il castigo in caso di trasgressione è attribuito a Dio in senso metaforico: in realtà, chi si ribella a lui cade inevitabilmente nella trasgressione di tutti gli altri comandamenti che riguardano la giustizia sociale e priva gli altri (e di riflesso se stesso) del bene più grande, cioè della libertà che Dio ha conferito al suo popolo. Il male da lui provocato è considerato come castigo divino in quanto è Dio che lo permette: se così non facesse, Dio toglierebbe all essere umano ogni responsabilità, diventando egli stesso connivente con il suo peccato. Il male però, con quanto ne consegue, è permesso da Dio solo a scopo medicinale: vedendo le tragiche conseguenze del suo operare l uomo può rendersi conto di ciò che ha fatto e ritornare a Dio che è sempre disposto ad accoglierlo e a rinnovargli il suo favore. I comandamenti non pretendono di fissare una volta per tutte, in modo esauriente e definitivo, ciò che bisogna fare o evitare per far piacere a JHWH, ma piuttosto intendono delimitare un campo di azione nel quale ciascuno deve operare per il bene di tutti in modo responsabile, ma con la massima libertà e creatività. 6

SALMO RESPONSORIALE (dal Salmo 18) (19) Signore, tu hai parole di vita eterna. La legge del Signore è perfetta, rinfranca l anima; la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice. R/. I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi. R/. Il timore del Signore è puro, rimane per sempre; i giudizi del Signore sono fedeli, sono tutti giusti. R/. Più preziosi dell oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante. R/. 7

SALMO 18 (19) La legge di JHWH Il Sal 18(19) rientra nella categoria degli inni, cioè dei canti di lode a JHWH. La lode che Israele gli rivolge sgorga spontanea dall esperienza delle opere meravigliose da lui compiute nella storia della salvezza. Il salmo si divide in tre strofe: nella prima il salmista celebra la grandezza di Dio che si rivela nella creazione (vv. 2-7); nella seconda si esalta la legge che egli ha dato a Israele (vv. 8-11). Nella terza strofa (vv. 12-14) il salmista, di fronte alla grandezza di JHWH, si rende cosciente delle sue colpe e chiede di esserne purificato. Al termine del salmo (v. 15) egli chiede a JHWH di essergli gradito nelle parole e nei pensieri. Il testo liturgico riprende la seconda strofa. Nella prima parte del testo (vv. 8-9) il salmista presenta la volontà di Dio mediante una serie di sinonimi, qualificando ciascuno di essi con un aggettivo che ne indica l importanza e mostrando i suoi effetti nel credente. Anzitutto essa si identifica con la «legge» di JHWH, la quale è perfetta, cioè contiene una sapienza superiore a quella di ogni altro codice e, in quanto tale, rinfranca, cioè ristora, sostiene l anima; la «testimonianza», cioè la tavola dei comandamenti conservata nell arca dell alleanza, quindi soprattutto il decalogo, di JHWH è stabile e di conseguenza dà saggezza al semplice. I «precetti» di JHWH sono giusti, e di conseguenza fanno gioire il cuore; il «comando» del Signore è limpido e come tale dà luce agli occhi. La lista si interrompe per dare spazio alla reazione che JHWH si attende da parte del popolo: il «timore» del Signore è puro, dura sempre. E infine i «giudizi» di JHWH sono tutti fedeli e giusti, più preziosi dell oro. Questo salmo mette in luce con forza qual era l atteggiamento del pio israelita di fronte alla volontà di JHWH. Egli non la sentiva come un imposizione gravosa, ma come un dono meraviglioso con il quale JHWH guidava tutta la sua vita. Perciò di fronte a essa non sentiva un senso di paura per le conseguenze che poteva portare la trasgressione da parte sua, ma un senso di grande venerazione e di gioia. 8

SECONDA LETTURA Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1, 22-25) Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. Parola di Dio. CANTO AL VANGELO (Gv 3,16) Lode e onore a te, Signore Gesù! Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito; chiunque crede in lui ha la vita eterna. Lode e onore a te, Signore Gesù! 9

Sapienza e croce di Cristo 1 Cor 1,22-25 Questo testo si situa nella prima sezione della lettera in cui Paolo affronta il tema della divisione della comunità in partiti, e più precisamente nella prima parte in cui presenta loro la vera sapienza, che si identifica con Cristo, l unica capace di ridare unità alla loro comunità (1,18-3,4). Sullo sfondo di questa sezione vi è la concezione biblica della sapienza di Dio, per mezzo della quale Dio ha creato il mondo; essa è nascosta all uomo, che cerca la sapienza mediante le sue capacità umane; Dio però, volendo chiamare a sé l umanità e inserirla armonicamente nell ordine del cosmo, ha inviato nel mondo la sua sapienza ed essa ha preso forma nella legge di Mosè. I corinzi hanno cercato una sapienza umana, quella rappresentata dagli insegnamenti dei singoli predicatori, che li ha portati alla divisione. A questa sapienza si contrappone la croce di Cristo, che può apparire come stoltezza agli occhi di coloro che si perdono, ma per quelli che si salvano si dimostra talmente forte da distruggere ogni sapienza umana, mostrando che in realtà questa non è vera sapienza, ma stoltezza (cfr. vv. 18-20). Infatti il mondo, (creato) mediante la sapienza di Dio, volendo far ricorso alla (propria) sapienza, non ha conosciuto Dio, perciò Dio decise di salvare i credenti mediante la predicazione (della croce) che (agli occhi degli uomini) è una stoltezza (v. 21). Alla descrizione di questa sapienza di Dio, che è stoltezza per gli uomini, Paolo dedica il brano proposto dalla liturgia. La decisione divina di manifestare la vera sapienza deve fare i conti con aspettative diametralmente opposte: da una parte i giudei «chiedono segni», dall altra i greci «cercano sapienza» (v. 22). I primi si appellano a un Dio potente in senso umano, capace di compiere opere straordinarie, e da lui si aspettano «segni» analoghi a quelli compiuti in favore degli israeliti quando erano schiavi in Egitto, capaci cioè di procurare loro una salvezza di carattere terreno e politico. I greci invece vorrebbero possedere una sapienza che consiste nella conoscenza delle leggi che reggono il mondo, per possederlo e dominarlo. In modi diversi sia gli uni che gli altri vogliono acquistare potere e dominio sulla realtà: ma così si precludono la possibilità di scoprire la sapienza di Dio. In contrasto con queste aspettative umane Paolo annuncia Cristo crocifisso, che anche dopo la risurrezione resta per sempre il crocifisso, con tutto ciò che questa prerogativa comporta come rinuncia a qualsiasi forma di potere. Proprio il Crocifisso rappresenta per i giudei, con la sua debolezza, un motivo di «scandalo», cioè un inciampo sul loro cammino religioso; per i greci invece egli è «stoltezza», ossia la negazione della sapienza che essi cercano (v. 23). Cristo va quindi incontro a un rifiuto generalizzato. Non si tratta però di un rifiuto totale: per i «chiamati», cioè per coloro che, avendo ricevuto l annuncio evangelico, lo hanno accettato con fede, siano essi giudei o greci, il Cristo annunciato da Paolo è «potenza di Dio» e «sapienza di Dio» (v. 24). Con queste parole egli indica in un uomo condannato al più terribile supplizio la manifestazione più grande della potenza di Dio e della sua sapienza, cioè di quegli attributi che Dio manifesta nella creazione e nella salvezza dell umanità: infatti proprio di quest uomo crocifisso Dio si è servito come strumento per portare a termine la sua creazione e per chiamare a sé efficacemente tutta l umanità. Paolo conclude affermando che «la stoltezza di Dio», cioè quanto in Dio appare come stolto agli occhi di chi cerca una sapienza semplicemente umana, «è più sapiente degli uomini», cioè di quanto gli uomini considerano come sapienza, e «la debolezza di Dio», ossia ciò che in lui appare come debole, «è più forte degli uomini», cioè di quanto gli uomini intendono come espressione di potere (v. 25). Ai giudei che si aspettano segni straordinari Dio propone un uomo che è il simbolo stesso della debolezza, ai greci che 10

cercano la sapienza egli propone ciò che umanamente è la massima stoltezza. Tuttavia proprio in quest uomo appare la vera potenza e la sapienza di Dio, che consistono non nel dominare l uomo, ma nel coinvolgerlo in un cammino di liberazione. La croce di Cristo capovolge tutti i criteri e le aspettative umane e manifesta un Dio che per salvare l umanità non ha scelto la forza, ma l amore. I corinzi hanno cercato nei loro predicatori la sapienza come fenomeno legato alla cultura, mettendo in secondo piano il nucleo centrale del vangelo: ciò li ha portati alla divisione. Ma è proprio questa sapienza umana, nella quale i corinzi fanno risiedere la loro forza, che viene messa in crisi dal messaggio evangelico, nel cui centro vi è il Cristo crocifisso. A persone attratte dalle qualità culturali dei loro predicatori, la centralità di Cristo viene illustrata proiettando su di lui i risultati della riflessione sapienziale del giudaismo ellenistico. In questo contesto la sapienza era presentata come la sintesi di tutto ciò che nel corso dei secoli Dio aveva fatto per la salvezza dell umanità, al punto tale che la stessa Torah era identificata con essa. A maggior ragione era possibile vederla all opera nella persona del Cristo, inviato da Dio per salvare una volta per tutte il mondo dal peccato mediante la sua morte in croce. La rilettura sapienziale della persona di Gesù ha diversi risvolti importanti. Anzitutto essa colloca la persona e l opera di Gesù in un ambito più ampio, che è quello della creazione. Ciò che Gesù ha manifestato non è qualche cosa di totalmente nuovo, ma è l espressione più piena di quanto è avvenuto nella creazione stessa, di cui è ancora artefice la sapienza. In altre parole, la salvezza per mezzo della croce è un mistero nascosto solo a coloro che vogliono affermare la propria potenza, ma non può non essere noto a quanti sanno accettare il proprio limite di creature, inchinandosi di fronte a una Realtà superiore e aprendosi all amore per i propri simili. La percezione della sapienza manifestata nella persona di Gesù è riservata ai «credenti», cioè a tutti coloro che sanno accettare e far proprio il dono di Dio, ottenendo così la salvezza. Se uno pretende di acquistare la salvezza con le sue forze, sulla linea dei miracoli o di una filosofia umana, commette la stoltezza più grande, perché finisce per porre un ostacolo all opera di Dio, proprio come ora stanno facendo i corinzi. La salvezza dipende dunque da due fattori: l intervento di Dio, presente nel cuore umano e annunciato mediante la predicazione, e la risposta dell uomo, che si manifesta nella fede. 11

VANGELO Dal vangelo secondo Giovanni (2, 13-25) Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull uomo. Egli infatti conosceva quello che c è nell uomo Parola del Signore. 12

Gesù e il tempio Gv 2,13-25 La prima parte del IV vangelo, chiamata Libro dei segni, ha inizio dopo il Prologo (1,1-18) e termina con il c. 12. Essa si apre con una specie di settimana inaugurale, che comprende la testimonianza di Giovanni Battista (1,19-34), la chiamata dei primi discepoli (1,35-51) e infine il primo segno compiuto da Gesù, il cambiamento dell acqua in vino a Cana di Galilea (2,1-12). Subito dopo si situa a Gerusalemme, in occasione della Pasqua, l intervento di Gesù nei confronti del tempio (2,13-25). Gesù si oppone al modo in cui il tempio era utilizzato e di riflesso si presenta come colui che ne porta a compimento il simbolismo. Dopo una breve introduzione (v. 13), il racconto si divide in due parti: l intervento di Gesù (vv. 14-17) e il dialogo con i giudei (vv. 18-22). Chiude il racconto una riflessione dell evangelista (vv. 23-25). L intervento di Gesù (vv. 14-17) Il brano si apre con una indicazione cronologica: Gesù sale a Gerusalemme in quanto «Si avvicinava la Pasqua» (v. 13): egli si adegua dunque alle feste liturgiche di Israele, cogliendo però l occasione per dare loro un significato nuovo. Gesù entra nel tempio, dove trova «gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete» (v. 14). Il termine «tempio» non indica il luogo santo, considerato come la dimora di Dio, ma i cortili esterni, e in modo specifico quello che, essendo accessibile anche ai non giudei, veniva chiamato «cortile dei gentili». Gli animali venivano venduti perché i pellegrini, specialmente quelli venuti da lontano, potessero disporre di vittime per i sacrifici; i cambiamonete invece trasformavano il denaro profano nell unica moneta ammessa nel tempio. Si trattava quindi di un attività non solo lecita, ma anche indispensabile per il funzionamento del tempio, che però ne denotava il carattere materiale e terreno. Posto di fronte a questa realtà Gesù reagisce in modo molto duro (vv. 15-16). Secondo Giovanni Gesù rimprovera i giudei non perché, pur offrendo sacrifici a Dio, rifiutano il suo inviato, ma perché servendosene per usi commerciali, profanano il tempio, rendendolo inadatto al culto sacrificale. Giovanni aggiunge che i discepoli si ricordarono una frase della Scrittura che dice: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà» (v 17; cfr. Sal 69,10). Questo testo fa parte di una preghiera di supplica, nella quale un salmista si lamenta con Dio per la persecuzione che subisce da parte dei suoi avversari; nel v. 10 egli sottolinea come sia pieno di un amore senza confini per il tempio di Dio, cioè per Dio stesso, e lascia intendere che proprio per questo è stato perseguitato. In Giovanni il verbo «divorare» è al futuro, e allude alla morte a cui Gesù va incontro proprio in forza del rapporto speciale che lo unisce a Dio: è proprio l amore per la casa di Dio che lo porterà sulla croce. Il dialogo con i giudei (vv. 18-22) Finora i giudei sono stati muti testimoni di quanto Gesù aveva fatto. Ora essi intervengono chiedendo a Gesù: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?» (v. 18). Gesù risponde: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (v. 19). Questa volta il termine «tempio» indica il luogo santo in cui era localizzata la presenza di Dio. La frase pronunciata da Gesù richiama stranamente quella che i falsi testimoni gli attribuiscono nel corso del processo davanti al sommo sacerdote. Secondo Giovanni però Gesù non dice «distruggerò», ma «distruggete»: ciò non vuol dire che Gesù abbia dato loro l ordine di distruggere il tempio, ma che si è limitato a dire che, se essi 13

effettivamente lo distruggeranno a causa dell uso improprio che ne fanno, egli lo riedificherà in tre giorni. Così dicendo Gesù lascia intendere che esiste un rapporto di continuità tra il tempio di pietra e il proprio corpo: in altre parole già prima della sua morte e risurrezione il suo corpo è il vero tempio di Dio, prefigurato nel tempio di pietra. I giudei ribattono: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?» (v. 20). Essi si riferiscono ai lavori fatti da Erode il grande per la restaurazione del tempio. Come capita spesso nel IV vangelo gli ascoltatori fraintendono le parole di Gesù, in quanto non pensano al tempio escatologico, ma a una ricostruzione materiale del tempio storico, dopo una sua eventuale distruzione, e si meravigliano che ciò possa avvenire nel breve periodo di tre giorni. L evangelista non riporta alcuna risposta di Gesù, limitandosi a dire che «egli parlava del tempio del suo corpo» (v. 21). Non si tratta quindi del tempio materiale, ma della persona di Gesù, intesa come il luogo in cui Dio abita. Gesù è dunque il vero segno della presenza di Dio nel mondo, non in opposizione al vecchio tempio, che sarà distrutto per il peccato dei suoi frequentatori, ma come adempimento della promessa di Dio. L evangelista conclude con una riflessione: «Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù (v. 22). È chiaro quindi che secondo Giovanni Gesù parlava della sua risurrezione, e che in forza di essa il suo corpo sarebbe diventato il vero tempio in cui Dio abita in mezzo al suo popolo. Ma questo neppure i discepoli l hanno capito durante la sua vita terrena. È lo Spirito infatti che, dopo la Pasqua, rende presenti alla memoria dei discepoli le parole e i gesti di Gesù, illuminando il loro significato e permettendo di attualizzarli nel presente: solo dopo la sua risurrezione lo Spirito avrebbe aperto i loro occhi, dando loro la possibilità di credere da una parte alla Scrittura, e dall altra alla parola di Gesù, che aveva preannunciato la sua morte e risurrezione. Al termine del racconto l evangelista fa alcune osservazioni (vv. 23-25). Gesù ha compiuto numerosi miracoli nel corso del suo ministero. Qualificandoli come «segni», Giovanni conferisce loro il compito di suscitare la fede in Gesù. A Gerusalemme i segni da lui operati suscitano l entusiasmo. Essi però sono essenzialmente ambigui: vedendoli si inizia a credere in Gesù e grazie ad essi si può andare incontro al Maestro, al Profeta, anche al Messia; ma questo primo movimento di simpatia testimonia una fede ancora imperfetta, perché porta ad ammirare il taumaturgo senza raggiungere il figlio di Dio. Il tempio di Gerusalemme è l unica istituzione religiosa del popolo ebraico che sia sorta non per comando divino, ma per l iniziativa di una persona, il re Davide. L idea di un Dio che abita personalmente in mezzo al suo popolo ha segnato profondamente la vita religiosa di Israele, facendo di Gerusalemme e del tempio, con i suoi riti e pellegrinaggi, il cuore della vita religiosa e sociale del giudaismo. Di fronte a questa realtà così importante il Gesù giovanneo si colloca in modo bivalente: da una parte si presenta come colui che porta a compimento nel suo corpo l esperienza religiosa di cui il tempio era il segno, al punto tale che il tempio stesso e il suo corpo giungono quasi a identificarsi; dall altra egli mostra come sia il tempio che il suo corpo devono essere distrutti per dar vita al tempio escatologico che è il suo corpo risorto. Secondo Giovanni i discepoli di Gesù non dovrebbero più avere bisogno di un tempio (cfr. 4,21-23). Essi dovrebbero ritrovare la presenza di Dio nella loro comunità, che è il corpo di Cristo grazie al quale continua ad essere presente nel mondo. Diversamente dal tempio di Gerusalemme, le chiese cristiane sono il luogo non della presenza di Dio, ma dell assemblea comunitaria, che in esse ritrova la sua compattezza intorno alla cena eucaristica, nella quale si ricorda la morte e risurrezione del Signore e si anticipa il banchetto finale del regno. 14