ROTARY CLUB GOLFO DI GENOVA



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Notiziario del 1 febbraio 2012 Riunione conviviale Visita alla mostra di Palazzo Ducale: Van Gogh e il viaggio di Gauguin Resoconto della conviviale Di Patrizia Targani Iachino Un incontro interessante quello che si è svolto mercoledì 1 Febbraio insieme agli amici rotariani, sfidando il gelo siberiano e trovando un insperato calore nella solarità delle tele di Van Gogh.. Le basse temperature riscontrate in questi giorni non hanno impedito ai soci del club Golfo di Genova di partecipare numerosi all importante mostra, composta da 80 capolavori della pittura europea e americana del XIX e del XX secolo provenienti dai musei di tutto il mondo. Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, questo il titolo del celeberrimo quadro di Gauguin, quale gemma assoluta di una mostra già di per sé straordinaria. Il museo di Boston, presso il quale è conservato, lo concede in prestito per la quarta volta soltanto nella sua storia, e solo per la seconda volta in Europa, dopo Parigi una decina di anni fa. Pertanto, abbiamo potuto fare nostra l esperienza di questo quadro, preziosa rarità a livello mondiale. Nessun altra opera potrebbe tra

l altro significare meglio il senso che del viaggio la mostra genovese intende dare: viaggio comeesplorazione geografica, viaggio comespostamento fisico e viaggio nella propria interiorità.. Brava! Vedi che quando vuoi sai scrivere come Dio comanda?, esordisce il mio topo, illuminandosi come un presepe la notte di Natale. Ma vaaaaaa, non lo vedi che l ho copiato da internet? Spegni pure la luce che hai in viso, che Monti ci aumenta pure la bolletta spirituale e mettiti comodo, visto che si parla di viaggio Allacciatevi le cinture! SI PARTEEEEEEEEEEEEE!!!! L appuntamento era stato segnato per le 16.30. Naturalmente siamo in ritardo di un quarto d ora, appena quindici minuti, una sciocchezza di novecento secondi, che volete che siano rispetto all infinità di ore, giorni, anni che avremo ancora da vivere? Mica tanti se inizi già a sparare cavolate. Procedi!, mi esorta il topo. Ok, arriviamo all ingresso di Palazzo Ducale alle 16.45. L aria è davvero gelida. Sembra che qualcuno abbia lasciato una finestra aperta quella con l affaccio diretto sulla Siberia! Nonostante il ritardo, noto che un piccolo gruppo di amici sta chiacchierando amabilmente e non sembra minimamente preoccupato. Ansimando come avessi fatto l ultimo tratto della maratona di New York, mi avvicino, salutando tutti, pronta a sparare la prima cosa venuta in mente come giustificazione, ma il nostro Presidente, Mario Viano, mi tranquillizza dicendo che il primo gruppo è già in viaggio. Meglio: non ho bisogno di inventarmi alcuna scusa, come succedeva a scuola.

Nel giro di poco arrivano altri amici, sono le 17.30. Possiamo entrare. Il primo step è un colpo al cuore, un diretto sulle gengive, un fastidioso obbligo rivolto alle sole donne, irritante come un filo di rucola fra i denti: Prego, signore, lasciate i cappotti e le borse. Di fronte alla gentile richiesta, vedo materializzarsi il panico fra le amiche ed è davvero orripilante, mostruosamente tangibile. Un rapido incrocio di sguardi, tra lo sbigottito e l incredulo, attraversa la sala d ingresso, rimbalzando da una signora all altra come la palla in una partita di calcio. Cosa ha detto?, di lasciare la borsa?, ma sta scherzando, vero?. Chiedere a una donna di separarsi dalla propria borsa è come imporle d estirparsi un organo vitale. Alla domanda: o la borsa o la vita, chiunque di noi darebbe la propria vita, piuttosto che lasciare ad un estraneo una cosa tanto intima come la borsa. Provo a balbettare: Ma il cellulare, il portafoglio, sa, non per mancanza di fiducia ma.. i documenti. c è anche il mio codice fiscale e pure la data di nascita ma questo sarebbe il meno. Ci sono le foto dei miei bambini, il primo dentino e le loro prime unghie tagliate e conservate in un pezzo di plastica e poi la pinzetta, quella che strappa bene le sopracciglia, se la perdo divento pazza per ritrovarne una simile. Lo sguardo severo della signorina mi fa capire di non essere riuscita neppure per un attimo a intaccare la sua professionalità, né a commuoverla con la storia della pinzetta. Svuoto per come posso la borsa di quanto penso mi possa servire per un ora e, con le tasche della pelliccia colme come le guance di un criceto, cedo alla prepotenza, indignata per l assurda richiesta.

Ma cosa pensano, che possa infilarmi nella borsa: la tela dell autoritratto di Van Gogh? Non c è tempo per cercare una risposta, Valentina, la nostra guida, è già pronta e noi pure, armati di sofisticatissime cuffie che ci permettono di ascoltare le spiegazioni individualmente. Eccoci dunque in un viaggio che non solo oltrepassa il tempo trasportandoci da un luogo all altro, ma c insegna a guardare dentro noi stessi. Valentina ci spiega come Van Gogh, attraverso le sue tele, sia stato in grado d esprimerli entrambi. Trentacinque sue opere fondamentali (venticinque dipinti e dieci disegni), quasi interamente prestate dal Van Gogh Museum di Amsterdam e dal Kröller-Müller Museum di Otterlo, sono il cuore e il nucleo di questa eccezionale esposizione genovese, nel passaggio dal buio degli interni olandesi alla lucentezza quasi insopportabile del sole del Sud. Un viaggio che inizia con la riproduzione della stanza di Van Gogh ad Arles (1888 1889), dalla quale l artista esprimeva il suo desiderio di spaziare oltre le pareti, dipingendo i paesaggi di fronte a lui, entrando lentamente alla ricerca di quei colori che tanto l avevano colpito, fino all esaurimento mentale.

«Ho fatto, sempre come decorazione, un quadro della mia camera da letto, con i mobili in legno bianco, come sapete. Ebbene, mi ha molto divertito fare questo interno senza niente, di una semplicità alla Seurat; a tinte piatte, ma date grossolanamente senza sciogliere il colore; i muri lilla pallido; il pavimento di un rosso qua e là rotto e sfumato; le sedie e il letto giallo cromo; i guanciali e le lenzuola verde limone molto pallido; la coperta rosso sangue, il tavolo da toilette arancione; la catinella blu; la finestra verde. Avrei voluto esprimere il riposo assoluto attraverso tutti questi toni così diversi e tra i quali non vi è che una piccola nota di bianco nello specchio incorniciato di nero, per mettere anche là dentro la quarta coppia di complementari» (lettera all amico Gauguin). Siamo davanti alla riproduzione del quadro in 3D: un letto, una sedia, un tavolino e una ciotola con una caraffa a fianco per lavarsi. Sono questi gli elementi sufficienti per immaginarmi Van Gogh chiuso fra le quattro mura nella sua iniziale

depressione. L unico squarcio è la finestra oltre la quale l artista immagina, sogna, colora le sue tele così come vorrebbe, vede, vive. Non mi sento molto diversa da lui: anch io coloro la mia vita, usando tinte vivaci, forti, allegre, nascondendo sotto di esse il buio di qualche dolore. Forse ognuno di noi dipinge la sua vita irreale e ognuno in modo differente: chi con la sua professione, chi imbrattando pagine come faccio io e chi depositando su una tela bianca le proprie emozioni. Fissare quella stanza mi trasmette mille sensazioni e la prima è l immensa solitudine. E una camera spoglia, senza orpelli, una stanza vuota forse come la sua mente e come le notti tormentate senza sonno, corrose dal delirio che lo stava invadendo. Rappresenta una sorta di staticità, quasi un abbandono, come se l artista avesse voluto fermare l attimo prima di una partenza o della morte. Traspare un emozione di quiete, una calma apparente, però, senza speranza. I colori sono brillanti e puri, senza ombre, ma non suggeriscono gioia, anzi soltanto tristezza. Così i colori rivelano l'animo dell'artista a sua insaputa. Una sorta di maschera usata, come spesso accade a molti, che nasconde, ripara, protegge ma che, ad uno studio più attento, rivela la più reale intimità. Inizio a commuovermi, avvertendo quasi lo spirito di Van Gogh e la sua incompresa follia. Ricaccio le lacrime, siamo appena all inizio del viaggio: non oso pensare a come mi ridurrò al termine. Sulle pareti, due quadri di Morandi che, come Van Gogh, quarant anni dopo dipinge dalla finestra come attraverso un cannocchiale. Ma nessun viaggio può iniziare senza prima indossare un paio di scarpe: un allegoria rappresentata da una delle otto tele che Van Gogh dipinse, suscitando diverse ipotesi d interpretazione.

Questo dipinto è stato preso come esempio da Martin Heidegger nel suo saggio, L'origine dell'opera d'arte, creando in seguito una vivace polemica con lo storico dell'arte ed esperto dell'opera di Van Gogh, Meyer Schapiro. Heidegger afferma che le scarpe riprodotte da Van Gogh non sono altro che scarpe da contadina ed esprimono il mezzo attraverso le quali ella lavora nei campi. Non è possibile stabilire dove si trovino quelle scarpe. Intorno non c'è nulla se non grumi di terra dei solchi. Un paio di scarpe da contadino e null'altro. Lo storico dell'arte americano Schapiro, dopo aver esaminato le otto tele, replicò nel 1968 osservando che quelle erano le scarpe dell'artista, tipiche di un uomo che allora viveva in città. Si può vedere nel dipinto delle scarpe di Van Gogh la rappresentazione di un oggetto vissuto dall'artista come una parte importante di se stesso, un oggetto nel quale il pittore si osserva come in uno specchio, considerandolo evidentemente come una sorta di autoritratto. Nel 1978 fu pubblicato lo scritto di Jacques Derrida. La verità in pittura, nel quale il filosofo francese valutava le posizioni di Heidegger e Schapiro. In fondo, osserva ironicamente, ciascuno dei contendenti,

attribuendo le scarpe a una contadina l'uno e a Van Gogh l'altro, intende appropriarsene per se stesso: Schapiro, rivendicando la propria competenza dei fatti pittorici e Heidegger, portando alla luce la propria capacità di interpretare. «Io mi accontenterei di poter dire alla fine: molto semplicemente, queste scarpe non appartengono a nessuno, non sono né presenti né assenti, ci sono delle scarpe, punto e basta». Sinceramente concordo con il filosofo e credo che se Van Gogh potesse oggi dire la sua, prima di una gran risata, concorderebbe con tutti: Ho dipinto delle scarpe, quelle che mi sono capitate sotto gli occhi. Punto. Che fossero della contadina, le proprie o quelle dell amante della contadina poco importava all artista: lui dipingeva tutto ciò che quelle scarpe rappresentavano e se erano della contadina, dovevano trasmettere la fatica del passo affondato nel terreno, la solitudine del cammino nei campi, il sudore della fatica..e la gioia di levarsele ste scarpe puzzolenti, vero, topo? Per fortuna ho le cuffie e quindi non ho potuto sentire ciò che mi ha detto il mio piccipicci (P.C.P), ma unendo lo sguardo al labiale come i puntini di scopri la figura nella Settimana Enigmistica, ho intuito il messaggio minatorio. Svicolo dalla sua vista e m infilo dietro al gruppo: siamo nella seconda stanza. Qui inizia il vero e proprio viaggio, attraversando lo sviluppo di due sezioni: l una dedicata alla pittura americana e l altra alla pittura europea. Dapprima dunque la pittura americana del XIX secolo, pittura che è anche vera e propria esplorazione di territori sconosciuti. Due pittori soltanto a rappresentare questo anelito, questo pathos, questa forza primordiale che autorizza

il viaggio verso l ignoto di un luogo che si desidera incontrare e quasi abbracciare, se questo abbraccio non fosse quasi esagerato per la sua dimensione. Edwin Church, il pittore dell Est, della valle del Hudson, della costa del Maine, e poi Albert Bierstadt, il pittore dell Ovest, della scoperta di Yellowstone e di Yosemite. Frederich Edwin Church Isola di Mount Desert Albert Bierstadt Tra le montagne E con un salto di qualche anno, il viaggio sulle rive dell Oceano Atlantico, e precisamente a Prout s Neck lungo la stessa costa del Maine, di Winslow Homer.. A cavallo dei due secoli, Homer conclude il suo viaggio nella solitudine di acque tempestose, nel buio di un gorgo che si specchia contro la nera nuvolaglia del cielo.

Winslow Homer Cape Trinity chiaro di luna sul fiume Saguenay Quella stessa costa del Maine che anche uno straordinario pittore come Andrew Wyeth Andrew Wyeth Figura sulla riva del mare racconterà per tutta la seconda metà del XX secolo, raccogliendo la tradizione figurativa oltre che di Homer anche di Edward Hopper, colui che ha saputo isolare il senso del viaggio nella provincia americana all interno di una muta sillaba, di un

impressionante silenzio; che ha saputo altresì isolare il senso del viaggio interiore in alcune sue celeberrime figure pensose e mute. Edward Hopper Sole del mattino Sarà anche pensosa, ma a me sembra che se ne stia tranquilla a godersi il sole e poi, ovvio che sono mute: hai mai visto un quadro parlante, topo? A parte l Urlo di Munch non mi viene in mente altro! Ah, questi critici d arte cosa non direbbero per fare sfoggio del loro pensiero! Da queste anse di buio e notte di Hopper, continuiamo a seguire le spiegazioni di Valentina che ci indica le superfici quasi monocrome di Mark Rothko, percorrendo uno dei viaggi nell interiorità più straordinari che la storia della pittura ricordi. E chi se lo dimentica è tutto scuro e non ci capisco un tubo!

Mark Rothko Senza titolo Per fortuna si intitola così, in modo tale da evitare ulteriori commenti, ma io sento la necessità di commentare lo stesso: Hai sentito, topo? Valentina dice che questi colori trasmettono il sentimento E posso immaginare che razza di sentimenti avesse quando l ha dipinto, tanto che alla fine si è suicidato! Un occhio è sulle tele, l altro sulle pagine bianche. Una mano scrive, l altra sostiene il quaderno. Un orecchio ascolta la guida, l altro il cuore. Una parte del cervello riassume le informazioni fino a qui raccolte: artisti depressi, ossessionati dalla ricerca del colore e dell emozione ricevuta dal paesaggio, genetica compromessa da disturbi mentali familiari o provocati dalla propria follia del genio; alla fine, chi in un modo o chi in un altro, finiscono suicidati, poveri, incompresi, isolati, criticati da tutti. L altra parte del cervello, quella creativa, mi suggerisce di smettere di scrivere prima di fare la loro stessa fine! La tranquillizzo immediatamente: Tranzolla, come dice il mio oxfordiano figlio, più che creativa, io sono cre(a)tina, non corro alcun pericolo!

Il tema del viaggio continua, sente le profondità del territorio e delle acque e tutto trasforma in lividi accenni d onda, ma vive anche nell esaltante confronto, fianco a fianco sulla parete, tra i neri e le terre di Rothko stesso e le marine quasi identiche di Turner un secolo e mezzo prima. E poi mareggiate che Richard Diebenkorn rovescia nei suoi fulminanti Ocean Parks, guardando da una finestra alta sul Pacifico il trafficato scorrere dei fili dell elettricità. Richard Diebenkorn Richard Diebenkorn Ragazza che guarda il paesaggio Ocean Park Mi avvicino al grande dipinto azzurro, cercando di capire dove sia la mareggiata. A parte il colore, nulla mi ricorda il mare, ma non sono la sola a pensarlo: gli sguardi distratti degli amici accarezzano di sfuggita la grande tela e come tanti bucaneve vedo far capolino dalla testa di ognuno un quesito universale: Boh?, e a qualcuno sboccia pure un dubbioso Mah!

E se qui si chiude la sezione americana, quella dedicata alla pittura europea parte dal viaggio della mente davanti all infinito di Caspar David Friedrich, una piccola barca ovattata dalla nebbia. Caspar David Friedrich Barca sull erba nella nebbia del primo mattino La guida ci suggerisce di notare la cura con cui è stato dipinto ogni singolo filo d erba, mentre lo sfondo è lasciato all immaginazione. In effetti, affondando rapidamente il muso nel colore, mi pare quasi di avvertire l umidità della foschia, constatando la precisione del tratto di ogni filo d erba, ognuno con sfumature leggermente diverse ma che, come un orchestra, regala un unica armonia d insieme. Mentre William Turner si confonde materia nella materia, colore nel colore, cenere nella cenere, acqua nell acqua, fuoco nel fuoco, pittura nella pittura nel gorgo di un viaggio che sposa la potenza degli elementi, un altro artista, Andrew Weyeth,affronta il tema della luce. Il quadro che stiamo ammirando ha un sapore leggermente dark, inquietante, ma di certo rappresenta al meglio il simbolo del viaggio sì, nell aldilà!

Certo che sti artisti mi sembrano un pochino fuori di melone! Se pensi, topo, che quel Turner, per cogliere al meglio le sensazioni che si provano durante una tempesta e trasportarle su tela, si è fatto legare all albero maestro di una barca in pieno oceano in subbuglio, capisci che non stava neppure lui tanto a posto con la testa. D altra parte, già la madre soffriva di disturbi mentali, pare scatenati dalla morte della sorella minore di Turner, anche lei ricoverata in manicomio. Poveraccio, il DNA famigliare lo aveva già segnato. Comunque, a pensarci bene, non era mica male l idea che aveva avuto. E come se tu, per capire cosa prova un tuo paziente e per meglio interpretare il suo livello di dolore, ti operassi da solo, magari senza anestesia, vero topo? Mia nonna, con la sua saggezza napoletana diceva sempre: Chiedi a chi ha sofferto, non al medico! In questo caso, se ti fossi comportato come Turner, avresti potuto rispondere: Chiedi pure a me, che ho esperienza! Non seguo neppure il suo labiale, ma avverto una stretta al braccio sempre più forte, come se avesse voluto strangolarmi il polso per evitare di scrivere certe

cavolate. Scivolo come un anguilla dalla morsa e trotterello dietro al gruppo, prima di perdermi ma dove caspita siamo?, è tutto buio le pareti sono interamente foderate di paglia, rinforzate da travi di legno e in fondo alla stanza troneggia un grande dipinto illuminato da una luce un pochino troppo debole per visualizzarlo al meglio. Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? sento come un eco senza capire chi si ponesse domande tanto profonde. Ma che caspita ne so! Ti pare il momento di entrare in questo stato di trance filosofico proprio ora stai zitto, che non capisco un tubo!, rispondo al mio topo, immaginandolo perennemente dietro a me come un ombra. Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, capto ancora. Senti, topo, se in questo preciso momento sei stato colpito da un attacco acuto di Alzheimer e vuoi essere tranquillizzato ti rispondo brevemente, così la fai finita. Amore, ricordi? Siamo venuti da casa nostra, a Genova, siamo genovesi, vabbè, io lo sono, tu sei rivierasco, ma è lo stesso, stiamo andando verso quel grande dipinto e se ti calmi un attimo, andremo da una stanza all altra fino all uscita poi ti ricovero. Ora, mettiti questo Bostick sulle labbra e lasciami avvicinare a Valentina: mi hai già fatto perdere metà delle spiegazioni!

Sgomito, creando un varco tra le persone, rapite dal grande dipinto di Gauguin. Dalle luci, alla cura nei dettagli, la sala è stata ricostruita come una capanna di Tahiti, curata da Marco Goldin una perfetta continuità spazio-temporale. La storia del celebre pittore è un lungo viaggio, non solo fisico ma emozionale, drammatico, toccante. Da questo doloroso percorso nascono opere di grande pregio, e il culmine è la grande tela arrivata in Italia per la prima volta. Nell aprile del 1897 Paul Gauguin è tornato a Tahiti da quasi due anni. Le sue condizioni di salute non sono buone e dipinge poco nella natura lussureggiante e davanti all oceano, e invece molto di più nel suo studio. In quel mese riceve dalla moglie Mette la notizia che la figlia Aline, a poco più di vent anni, è morta a Copenaghen in gennaio per le complicazioni derivanti da una malattia polmonare. Gauguin è straziato da questa notizia e poco per volta, nei mesi successivi, matura in lui l idea di togliersi la vita. La malattia e la lontananza pesano in maniera insopportabile, ma decide che lascerà il mondo dopo avere dipinto il suo capolavoro, un ultimo grande quadro che riassuma il senso del suo viaggio nel mondo e dentro le luci della pittura. Ordina così a Parigi molti nuovi colori e molti pennelli, anche di ampie dimensioni. A Tahiti si fa cucire una tela enorme, quattro metri di lunghezza e uno e mezzo di altezza. Ricoverato per dei problemi cardiaci nell ospedale francese di Tahiti il secondo giorno di dicembre del 1897, ne esce subito e pone mano al quadro epocale, uno dei dipinti più celebri dell intera storia dell arte. Alla fine di dicembre è terminato e il giorno prima della conclusione dell anno sale sulle montagne con un vaso di arsenico deciso a suicidarsi. La quantità ingurgitata è talmente alta che immediatamente rigetta il veleno e in preda

alle convulsioni e a dolori atroci resta tra le montagne per un intera giornata, fino a che barcollando scende verso il suo villaggio per essere curato. Rimane di tutta questa esperienza il quadro celeberrimo, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, un vero e proprio testamento spirituale che racconta la storia di un viaggio esotico e al contempo trascendente alla ricerca di una mitica e perduta età dell oro. Verrebbe da dire che senza questo quadro la mostra non si sarebbe potuta fare e che con quest unico quadro tutta la mostra si potrebbe fare. Ho il cuore stretto per sto poveraccio e il tempo trascorre rapidamente, così come le parole della nostra guida; le mie capacità intellettive e mnemoniche sono sempre più ridotte, non posso permettermi di pensare, figuriamoci di rispondere agli interrogativi che s incastrano nelle tele di ragnatela del mio cervellino. Tento di seguire le spiegazioni di Valentina, annotando un quarto delle informazioni. L'opera va letta da destra a sinistra (appunto all'orientale) come un ciclo vitale disposto ad arco: non a caso, all'estrema destra è raffigurato un neonato, che già dal momento della nascita è lasciato nell'indifferenza di chi lo circonda. Al centro un giovane (l'unico personaggio maschile) sta cogliendo un frutto e può essere interpretato in due modi: 1.Come richiamo al peccato originale 2.Come simbolo della gioventù che coglie la parte migliore dell'esistenza. Alle spalle del ragazzo, una figura con il gomito in alto contribuisce a definire la struttura triangolare della prima metà, al cui vertice sono messe in risalto le due figure rosse sullo sfondo, emblematiche e con l'aria di chi ordisce trame nell'ombra: esse sono simbolo dei tormenti e delle domande che giacciono nel profondo di ogni animo, che peraltro danno il titolo al quadro.

Occorrerebbe un intera giornata solo per osservare le figure del dipinto e capirne la disposizione non casuale, così come la scelta dei colori. Le rapide informazioni tolgono al quadro l intensità che sprigiona da ogni particolare. Al vertice troviamo la divinità, anch'essa col suo significato simbolico: l'inutilità e la falsità della bugia religiosa, magra consolazione e senso provvisorio di una vita in realtà vana. All'estrema sinistra, una vecchia raggomitolata su di sé (identica ad una mummia peruviana vista dal pittore in gioventù) in attesa della morte, trasfigurata in un urlo quasi munchiano dinnanzi alla vacuità dell esistenza. Infine, uno strano uccello bianco con una lucertola tra le zampe, simbolo della vanità delle parole, chiude la lettura del dipinto. Lo sfondo rappresenta la vegetazione in maniera sintetica: i rami si trasformano in arabeschi (decorazione doppia); i colori sono antinaturalistici: infatti gli alberi sono blu. Le due figure di giovani accovacciate su entrambi i lati e l'idolo blu della dea Hina sul fondo compaiono in molte opere dello stesso periodo. La lettura del quadro è, in definitiva, il ciclo vitale. A destra: D où venons nous la nascita del bambino tra l indifferenza della donna che gli volge le spalle. Al centro: Que sommes nous : rappresentato dalla figura del giovane con le mani alzate mentre coglie un frutto da un albero. Un atteggiamento emblematico: Adamo e il paradiso terrestre? A sinistra: Où allons nous la morte con la figura di donna in colore scuro, in una posa, la testa tra le mani, simile a quella che dipingerà, nell Urlo, Munch, che è il pittore dell angoscia.

Il tutto su uno sfondo inquietante: un atmosfera da angoscia esistenziale, come nel film di Ingmar Bergman Il settimo sigillo. Come rispondere ai quesiti che Gauguin si pone in modo così perentorio da scriverli sul quadro stesso? Tre le possibili risposte: ateismo, creazionismo e agnosticismo. Da dove veniamo?da un evoluzione casuale Che cosa siamo? Unità biologiche pensanti Dove andiamo?verso la morte ed il nulla. ------------------------Da dove veniamo?da un Creatore Che cosa siamo? creature di spirito e materia Dove andiamo?verso il Creatore La terza ipotesi e consequenziale risposta è: ma che caspita ne sappiamo? Con questo interrogativo esistenziale che si aggiunge alle angosce che ormai sto assorbendo di questi pittori tanto celeberrimi, quanto sfigati, abbandoniamo Gauguin e proseguiamo il nostro viaggio, entrando nel cuore delle tele di Van Gogh, iniziando dalla tematica del tessitore. Alcune opere riproducono figure al lavoro, usando diverse tecniche: dal disegno, agli acquarelli, all olio. Le tele sono scure e il viaggio nel colore non è ancora iniziato.

Dall Olanda, Van Gogh si recherà a Parigi e lì inizierà a conoscere gli impressionisti e con essi il colore. A giugno cominciò a dipingere cipressi: «il cipresso è bello come legno e come proporzioni, è come un obelisco egiziano. E il verde è di una qualità così particolare. È una macchia nera in un paesaggio assolato, ma è una delle note più interessanti, la più difficile a essere dipinta che io conosca» e spedì al fratello un gruppo di tele, che gli vennero lodate. Autunno, paesaggio al crepuscolo

Sentiero di pioppi

Continuo il disegno dei cipressi, un albero così caratteristico nel paesaggio provenzale, anche se ancora non riesco a renderli come li sento: le emozioni che mi assalgono davanti alla natura vanno in me fino allo svenimento, e dopo per quindici giorni sono incapace di lavorare. Pioppi al tramonto Per ora siamo appena a un debole accenno di quel colore che tanto colpirà e segnerà le opere di Van Gogh, ma appena percorriamo un corridoio, iniziamo a gustare un piccolo assaggio. Ho studiato nuovamente la musica perché già sentivo un matrimonio tra essa e il colore, così come amo il Giappone. Ma se studi l arte giapponese, puoi imparare la saggezza, la filosofia e molto di più. A che serve tanta intelligenza? A studiare la distanza della Terra dalla Luna? No, serve a studiare un filo d erba, un unico stelo

che porta a disegnare tutte le piante e le stagioni, e i grandi paesaggi, gli animali e infine la figura umana. E così trascorre la vita, troppo breve per fare tutto. La semplicità dei giapponesi è la loro religione che vivono nella natura, come fossero essi stessi dei fiori. Il loro lavoro è facile come respirare, riescono a fare una figura con pochi tratti sicuri e con la stessa disinvoltura come abbottonarsi un panciotto. Come vorrei poter disegnare in questo modo, invece i miei quadri sono brutti e grossolani, non so rendere ciò che dipingo, mentre la natura mi sembra perfetta. Campo di grano con allodola Van Gogh si reca ad Arles e dipinge la primavera, evidenziandola con un albero che ricorda i ciliegi in fiore del Giappone, paese molto amato dall artista.

Le pennellate materiche sono molto evidenti, soprattutto sui fiori degli alberi. Mi avvicino alla tela. Sono muso a muso con i petali bianchi. Ho quasi la sensazione di sentirne il profumo e un onda di calore attraversa il mio corpo. Non seguo alcun sistema di pennellatura: picchio sulla tela a colpi irregolari che lascio tali e quali. Impasti, pezzi di tela lasciati qua e là, angoli totalmente incompiuti, ripensamenti, brutalità: insomma, il risultato è, sono portato a crederlo, piuttosto inquietante e irritante, per non fare la felicità delle persone con idee preconcette in fatto di tecnica (da una lettera inviata da Vincent al fratello Theo). Alla faccia del sentimentalismo!, bisbiglio al mio piccipicci che continua a farmi notare un particolare di una tela da una parete all altra.

Ma vai a vangoggholare da qualche altra parte, please, che sono in bilico tra la paranoia e la follia dello scriptoriraptur!, gli sibilo. Veduta di Saintes Maries de la Mer In questa tela i colori ricordano un po Cezanne che Van Gogh incontrerà in seguito.

Il viaggio prosegue e come in tutti i viaggi, anche il paesaggio cambia. Dai campi si passa alla marina. Vincent Van Gogh prosegue nel suo percorso alla ricerca del colore, impastando follia, depressione e ossessione, senza sapere che il suo sarà un viaggio senza ritorno: un biglietto di sola andata e neppure senza godersi quel viaggio tanto disperato! Ma cavolo, topo, hai sentito che dice Valentina di quel povero disgraziato? E proprio vero che l abito non fa il monaco. Avresti mai immaginato tanta disperazione in queste tele così colorate? E la solita storia della maschera da clown, mi sto commuovendo. Dovresti leggere le sue lettere, la maggioranza delle quali scritte al fratello Theo. Un opera letteraria di 900 lettere che spiega i suoi deliri, le sue follie, la sua sensibilità riportate nelle sue tele. Probabilmente è uno dei pochi artisti ad avere accompagnato ogni dipinto con le proprie reali impressioni, tanto da non sapere se il suo talento fosse più letterario che pittorico. Barche di pescatori sulla spiaggia di Saintes Maries de la Mer

Adesso che ho visto il mare, capisco tutta l importanza di stare nel mezzogiorno e di sentire che devo rendere il colore ancora più violento con l Africa così vicina. Vedo con occhio più giapponese: lui disegna in fretta, come un lampo, perché il suo sentimento è più semplice. Sono qui solo da qualche mese, ma vediamo un po se a Parigi avrei eseguito in una sola ora il disegno delle barche! E l emozione, la sincerità del sentimento che mi spingono a lavorare tanto in fretta da non accorgermene, così come le parole scorrono fluide in un discorso o in una lettera : Asciugo una lacrimuccia, le sue lettere al fratello Theo riescono a colpirmi quasi più dei suoi dipinti. Siamo di fronte ad un altro famosissimo quadro. Il seminatore. Qui scoppia un tripudio di colori: il giallo in alto della tela nelle spighe, poi l azzurro e l arancio nelle zolle. Inizialmente, l intera tela era stata dipinta di giallo e solo in seguito Van Gogh ha aggiunto gli altri colori, evidenziando la figura del seminatore che nel gesto viene quasi paragonato a Dio. So talmente tanto quello che voglio che nella vita e nella pittura posso fare benissimo a meno del buon Dio, ma non posso, nella mia sofferenza, fare a meno di qualcosa più grande di me e che è la mia vita: la potenza del creare. (Arles, agosto 1888) Van Gogh è frustrato da questa potenza, ma cerca di creare pensieri anziché figli. Beh, io ho fatto l uno e l altro, pondero fra me e me. Ho creato due meravigliosi figli che mi hanno regalato numerosissimi pensieri!

Il seminatore Van Gogh produsse in quel periodo una tela dopo l'altra, come temesse che la sua ispirazione, esaltata dalla novità del nuovo modello del mondo provenzale, potesse abbandonarlo. Si sentiva trascinato dall'emozione, che egli identificava con la sincerità dei suoi sentimenti verso la natura: le emozioni che provava di fronte alla natura provenzale potevano essere così forti da costringerlo a lavorare senza sosta, allo stesso modo per il quale non si possono fermare i pensieri, quando questi si sviluppano in una coerente sequenza nella propria mente. D'altra parte, affermava di mettere sulla tela non impressioni momentanee, ma immagini studiate a lungo e assimilate nel suo spirito attraverso una lunga e precedente osservazione del modello.

Qui ad Arles mi sembra d essere in Giappone: non ho che da aprire gli occhi e dipingere quello che mi colpisce. Ho dipinto per tre notti consecutive, dormendo di giorno. Mi sembra che la notte sia più viva e colorata del giorno. Qui la natura è straordinariamente bella e mai ho avuto tale possibilità di riportare su tela l azzurro mirabile, la radiosità di zolfo pallido del sole e quella dolce combinazione del celeste e dei gialli. Non riesco a dipingere altrettanto bene, ma ho deciso di non seguire nessuna regola, attacco la tela direttamente con il colore, senza tracciare il quadro con il carboncino. Passiamo in un altra stanza, soffermandoci di fronte al dipinto del vigneto. Non avendo segnato sul mio quaderno di che colore fosse e andando a cercare la foto su internet, ho trovato due versioni: una verde e una rossa. Che fosse daltonico? In ogni caso ve li propongo ambedue. Vigneto verde

Vigneto rosso Fu nell ottobre del 1888 che Gauguin giunse ad Arles. All'opposto di Van Gogh, rimase subito deluso di Arles, «il luogo più sporco del Mezzogiorno», e della Provenza: «Trovo tutto piccolo, meschino, i paesaggi e le persone», disse. Il sogno di Van Gogh di fondare un'associazione di pittori che perseguissero un'arte nuova lo lasciava scettico; quanto a sé, egli contava soltanto di trasferirsi, non appena ne avesse avuto la possibilità, ai tropici; lo irritavano anche le abitudini disordinate di Vincent e la sua scarsa oculatezza nell'amministrare il denaro che avevano messo in comune. Invece Van Gogh manifestava un'aperta ammirazione per Gauguin, che considerava un artista superiore: riteneva che le proprie teorie artistiche fossero molto banali se confrontate con le sue e la propria resa pittorica sempre inferiore,

persino grossolana, rispetto al modello naturale. Nelle sue memorie, Gauguin volle attribuirsi, generalmente a torto, il merito di aver corretto la tavolozza di Van Gogh. Nei primi giorni del dicembre 1888 Gauguin fece il ritratto di Van Gogh, rappresentandolo nell'atto di dipingere girasoli. Vincent commentò: «Sono certamente io, ma io divenuto pazzo». Nelle sue memorie Gauguin scrive che quella sera stessa, al caffè, i due pittori bevvero molto e improvvisamente Vincent scagliò il suo bicchiere contro la sua testa, che Gauguin riuscì appena a evitare: da quel momento Gauguin prese la decisione di partire da Arles. Seguirono giorni di tensione. L'episodio più grave accadde il pomeriggio del 23 dicembre. Van Gogh avrebbe rincorso per strada Gauguin con un rasoio, rinunciando ad aggredirlo quando Gauguin si voltò, affrontandolo. Tornato a casa, mentre Gauguin andò ad alloggiare in albergo, preparandosi a lasciare Arles, Van Gogh, in preda ad allucinazioni, si tagliò metà dell'orecchio sinistro, lo incartò, lo consegnò a Rachele, una prostituta del bordello che i due pittori erano soliti frequentare, e tornò a dormire a casa sua. La mattina seguente venne fatto ricoverare dalla polizia in ospedale: ne uscì il 7 gennaio 1889. Tuttavia, due storici di Amburgo, Hans Kaufmann e Rita Wildegans sostengono nel libro "L'orecchio di Van Gogh, Paul Gauguin e il patto del silenzio" che fu Gauguin a mutilare l'amico dopo la lite, mentre l'esperto francese Pascal Bonafoux sostiene che questa teoria è clamorosamente errata. In ogni caso, qualunque fosse la reale versione, è evidente che l artista non stava un granché bene, tanto che, rendendosene conto, chiese al fratello Theo d essere ricoverato in un ospedale psichiatrico.

L'8 maggio 1889 Van Gogh, accompagnato dal pastore Salles, entrò volontariamente nella Maison de santé di Saint-Paul-de-Mausole, un vecchio convento adibito a ospedale psichiatrico, a Saint Rémy -de - Provence a venti chilometri da Arles. La diagnosi del direttore della clinica, il dottor Peyron, fu di epilessia. Oggi si ritiene che Van Gogh soffrisse di psicosi epilettica o "latente epilessia mentale": preceduti dallo "stadio crepuscolare", egli subiva attacchi di panico e allucinazioni ai quali reagiva con atti di violenza e tentativi di suicidio, seguiti da uno stato di torpore. Nei lunghi intervalli della malattia era in grado di comportarsi in modo del tutto normale. Proprio dalle finestre dell ospedale, Van Gogh dipinse una delle tele più conosciute, dove le pennellate a virgola sembrano lingue di fuoco.

Alberi davanti all ospizio di Saint Paul A fianco, un'altra tela che ritrae una giornata di neve. I colori sono i suoi preferiti: giallo, arancio, verde. Van Gogh propone la neve bianca con i colori del cielo in contrasto. Ed ancora i pini, riprodotti con quella tecnica singolare nell arrotolare le fronde.

Pini al tramonto Proseguiamo il viaggio, entrando in una stanza dove è esposto un enorme plastico. Negli stessi anni in cui Gauguin dipinge il grande quadro Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, Claude Monet porta a compimento il suo viaggio, molto diverso, nel grande giardino di Giverny.. Il plastico, realizzato da Arianna Soccini, riproduce l immenso giardino dal quale Monet non uscirà più se non per recarsi, di tanto in tanto e con fastidio, a Parigi. La sua costruzione è durata dieci anni. Non serve andare lontano, sembra dire Monet, per trovare il centro profondo della manifestazione di tutto. Nel suo giardino trova il piacere della solitudine, il suo essere eremita attorniato da ortensie, rose, glicini, siepi con tutte le loro sfumature e profumi.

Riesco a malapena vedere un bacino d acqua con le ninfee, fiori che saranno fonte d ispirazione dell artista, così come i tralicci e i ponti dal gusto orientale. Non c è tempo per osservare i numerosi particolari e il tentativo di captare un immagine d insieme è vanificato: Valentina procede come un soldato tedesco. Chi la ama, la segua! Lo stagno delle ninfee e il ponte giapponese Monet -1900 I colori qui sono più cupi. Per gli impressionisti il grigio e il verde sono non colori. E allora perché li usavano?, chiedo al mio topo che non mi fila neppure un po. Mah, le mie domande continuano a stagnare nel lago ormai prosciugato del mio cervellino, proprio come le ninfee grigiastre di Monet. Mi accontento di scorgere di

sfuggita l altra famosa tela dell artista, rammaricandomi di non avere avuto il tempo di cogliere quello che lui avrebbe voluto, ma riuscendo, almeno con la fantasia, a immergere un piedino in quel lago incantato. Ninfee Il viaggio prosegue e da Monet si passa a Vassilij Kandinskj. L impatto è forte, come uno sbalzo di temperatura, un escursione termica dal caldo del deserto al gelo della Russia.

Improvvisazione con forme fredde E come fare il cambio degli armadi in un secondo: dalle forme morbide, romantiche e malinconiche di Monet si passa a quelle geometriche e caciarose di Kandinskj. Sembra quasi di sentire una banda che suona in modo fragoroso. I colori sono vivaci, il movimento pare seguire delle note roboanti e, difatti, Valentina ci spiega che per l artista il giallo era come una fanfara e il blu come un flauto. Niente da dire: l esperimento è riuscito! Decisamente questo artista russo sprigiona un euforia che mi coinvolge, adattandosi completamente alla mia personalità sempre che non nasconda, come Van Gogh, delle turbe psicologiche. Ma anche tu le hai, in fondo!, mi ricorda il mio adorato consorte. Già, è perché anch io, a modo mio, sono un artista. Tu tieni tutte le minchiatelle che scrivo, magari quando non ci sarò più varranno na cifra! Senti, la cifra te la do io subito, basta che la pianti di sparare cavolate!

Io lo so che mi ami, ma certo hai un modo molto stravagante di dimostramelo, topo! Ti bastano cinquanta euro? Intasco e procedo: basta poco, che ce vo? Improvvisazione 7 Tirramo innanzi Ohhh, finalmente siamo davanti all autoritratto di Van Gogh. Me lo ricordavo diverso, a dire la verità. Ma sarai proprio scema, né, mi risponde il mio adorato. Hai idea di quanti autoritratti abbia dipinto? Ne esistono diversi: con e senza cappello, di un

tipo piuttosto che di un altro, di fronte, con il profilo destro e pure il sinistro, addirittura con la benda a coprire l orecchio tagliato. Pensi che li abbia dipinti tutti nell ultimo giorno della sua vita? Ma ovvio, qui era giovane! Ma non mi sembra che fosse proprio in forma neppure allora! Beh, con i suoi trascorsi, non poteva essere diversamente! Autoritratto L aspetto non è un granché. Il viso pare sofferente, grigiastro, non ha una bella cera, a dire la verità, ma ha tutte le ragioni del mondo. E a Parigi, non ha venduto neppure una tela, se non una piccola opera data alla sua vicina per pochi centesimi. E molto demoralizzato, depresso, combattuto. E chi non lo sarebbe?

Incompreso dai suoi stessi amici, giudicato dai colleghi: un pazzo che più volte ha tentato di suicidarsi ingurgitando pitture e petrolio. In questo autoritratto, l artista ha solo 35 anni, ma pare più vecchio. Si dipinse così come sentiva di essere. Oltrepassiamo un altra stanza dalle pareti affrescate, ma intoccabile, fino ad a giungere di fronte a tele dai colori più chiari, gli alberi più delineati, la pittura più pulita. Case ad Auvers Continuo a dipingere, mi sfamo sempre della natura. A volte esagero, ma di fondo non invento mai l intero quadro: lo trovo già fatto. Si può fare poesia solo disponendo sapientemente i colori, così come si possono dire cose consolanti in musica. E la stessa cosa accade mentre disegno un giardino. Alcune linee bizzarre,

scelte e moltiplicate, serpeggianti in tutto il quadro possono dare l idea del giardino, non come reale, ma come visto in sogno e nello stesso reale, più strano che nella realtà. Uliveto Sono felice di non aver mai imparato a dipingere perché ora so esattamente cosa voglio. Mi sono sistemato con un foglio bianco davanti al punto che colpisce la mia attenzione, guardo quello che ho davanti agli occhi e mi dico: questa pagina bianca deve diventare qualcosa; torno a casa insoddisfatto, lo metto da parte e quando mi sono un po riposato vado a guardarlo in preda a un angoscia indefinibile. Sono sempre insoddisfatto perché ho ancora nitido nella mente il

ricordo di quello stupendo angolo di natura che mi aveva detto qualcosa, mi ha parlato ed io ho trasferito in stenografia le sue parole. E se pur la mia stenografia sia indecifrabile e con errori o lacune, resta qualcosa che la foresta, la spiaggia, le figure mi hanno detto. So di avere la pittura nel sangue e di possedere il senso del colore. Non so quanto ci vorrà per ricompensarti del tuo aiuto generoso e disinteressato, ma prima o poi dipingerò qualcosa di buono. Ho intenzione di seguire la mia strada, dipingendo ciò che è assolutamente semplice e soprattutto le cose più comuni. Ciò che ho scoperto è che una delle cose che più mi ha affascinato è la pittura dell ombrache è ancora colore. Il burrone Van Gogh ritorna a Parigi in cura da un bravo psichiatra. Nonostante la costante presenza del fratello Theo, litiga con lui perché non è più in grado di sostenerlo economicamente. Il mondo sembra cadergli addosso e dipinge una tela che rappresenta la fine del suo viaggio.

Ahia, qui si comincia a piangere: è meglio che mi procuri un fazzoletto, prima di acquarellare tutta la mostra! Tieni, mi dice il mio attento piccipicci, passandomi un pezzo di carta. Ma cos è?, un foglio del tuo ex ricettario? Ma porca paletta, vabbé che sei in pensione, ma non hai nemmeno un fazzoletto?, gli rispondo allibita. No, luce dei miei occhi, Monti dice che siamo in periodo di crisi e, grazie a lui anch io. Acchiappa sto pezzo di carta, altrimenti lo uso io!

Covone sotto un cielo nuvoloso Nonostante i colori preferiti: il giallo e l azzurro, il covone è simbolo di morte. Con questa tela, l artista firma la sua fine. Aveva un unico desiderio: quello di farsi capire e non è stato in grado di attuarlo. «Mi sono rimesso al lavoro, anche se il pennello mi casca quasi di mano e, sapendo perfettamente ciò che volevo, ho ancora dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la mia tristezza, l'estrema solitudine. Sono talmente preso da questa infinita distesa di campi di grano su uno sfondo di colline grandi come il mare, dai colori delicati, gialli, verdi, viola pallido di un terreno sarchiato e arato, chiazzato dal verde delle pianticelle di patate in fiore: tutto sotto un cielo nei toni azzurro, bianco, rosa, violetto. Sono completamente colmo, fin troppo: proprio lo stato ideale per dipingere tutto ciò». È certo che Van Gogh non faceva nulla per alleviare la sua solitudine nonostante ne fosse oppresso: non frequentò mai i non pochi pittori che soggiornavano a Auvers - uno di essi, l'olandese Anton Hirschig, alloggiava nel suo stesso albergo - anche se forse loro stessi, spaventati, lo evitavano, a causa della sua malattia. Per lo stesso Hirschig, egli «aveva un'espressione assolutamente folle, con gli occhi infuocati, che non osavo guardare». La sera del 27 luglio 1890, una domenica, dopo essere uscito per dipingere i suoi quadri come al solito nelle campagne che circondavano il paese, rientrò sofferente nella locanda e si rifugiò subito nella sua camera: al Ravoux che, non

vedendolo presentarsi per il pranzo, salì per accertarsi della sua salute e lo trovò sdraiato sul letto, confessò di essersi sparato un colpo di rivoltella al petto in un campo vicino. Al dottor Gachet che, non potendo estrargli il proiettile, si limitò a fasciarlo ma gli esprimeva, per rincuorarlo, la sua speranza di salvarlo, rispose che egli aveva tentato coscientemente il suicidio e che, se fosse sopravvissuto, avrebbe dovuto «riprovarci» - «volevo uccidermi, ma ho fatto cilecca» - esclamò; rifiutò di dare spiegazioni del suo gesto ai gendarmi e, con il fratello Théo che, avvertito, era accorso la mattina dopo. Vincent passò tutto il 28 luglio, fumando la pipa e chiacchierando seduto sul letto: gli confidò ancora che la sua «tristezza non avrà mai fine». Sembra che le sue ultime parole fossero: «ora vorrei ritornare». Poco dopo ebbe un accesso di soffocamento, poi perse conoscenza e morì quella notte stessa, verso l'1:30 del 29 luglio. In tasca gli trovarono una lettera non spedita a Théo, dove aveva scritto, tra l'altro: «Vorrei scriverti molte cose ma ne sento l'inutilità... per il mio lavoro io rischio la vita e ho compromesso a metà la mia ragione...». In quanto suicida, il parroco di Auvers si rifiutò di benedire la salma e il carro funebre fu fornito da un municipio vicino. Il 30 luglio la bara, rivestita da un drappo bianco e ricoperta di fiori gialli, fu calata in una fossa accanto al muro del piccolo cimitero di Auvers: assistevano Théo, che non smetteva di piangere, il dottor Gachet e i pochi amici giunti da Parigi: Lucien Pissarro, figlio di Camille, Emile Bernard, père Tanguy.

Pochi mesi dopo anche Théo Van Gogh venne ricoverato in una clinica parigina per malattie mentali. Dopo un apparente miglioramento, si trasferì a Utrecht, dove morì il 25 gennaio 1891, a sei mesi di distanza dal fratello. Nel 1914 le sue spoglie, per volontà della vedova, furono trasferite ad Auvers e tumulate accanto a quelle di Vincent. Ragazzi, che storia! Altro che Beautiful, qui c è da portarsi un intera scatola di kleenex. Devo dirlo a chi mi chiederà cosa penso della mostra. D altra

parte tutti i più grandi artisti lo sono diventati proprio per le tragedie vissute. Chi era pazzo, chi deforme, chi cieco o addirittura sordo. Ognuno trasformava le proprie disgrazie e sofferenze in opere d arte: quasi tutti sono morti giovani, disperati e poveri in canna. Che fossero letterati o artisti, furono riconosciuti tali solo dopo la loro morte che tristezza! Meno male che il viaggio è finito, perché mi sento spossata, sia fisicamente che, soprattutto, psicologicamente, come avessi attraversato l America. Ho il fuso orario sballato, la testa colma di interrogativi e la pancia vuota. Ma non c era l aperitivo? Ma claro que sì! Riprendo vigore, mi ricongiungo con il mio piccipicci, levando cuffie e brutti pensieri dalla capoccina. All uscita, incontro il primo gruppo che aveva già terminato il tour. Mi avvicino, incuriosita dalla mimica facciale di Antonella (Vassallo) che sembra dire qualcosa d interessante. Oh, cappero, che notizia! Pare che quando sono entrati, qualcuno si è raccomandato con loro esclamando: E non fate le pecore! Antonella, giustamente indignata, dice di aver chiesto nome e cognome del maleducato di turno, ma non so mica se lo abbia fatto davvero. Oh, mamma, che mi sono persa! Meno male che non ero presente, perché probabilmente gli avrei belato qualcosina ed allora sarebbe stato lui a chiedere il mio nome e cognome! Superata la piccola questione, mi allontano per una classica boccata d aria, mentre vedo i gruppi mescolarsi come un mazzo di carte. Chi taglia? Già, perché il mazzo si divide nuovamente e alcune carte preferiscono tornare a casa. Io no: figuriamoci se rinuncio. Per una volta che non sono ai fornelli!

Apperò l aperitivo rinforzato pare essere un vero e proprio buffet nel quale mi butto a capofitto, senza neppure nascondere più di tanto il mio entusiasmo. D'altronde, dopo un simile viaggio che ha nutrito le nostre menti, mi pare doveroso bilanciare, con un altrettanto ricco nutrimento, anche il nostro stomaco! Prima di terminare, vorrei ringraziare il nostro Presidente Mario Viano per la sua infinita pazienza nei miei confronti, sopportando i tempi d attesa decisamente fuori termine nella stesura di questa squinternata relazione. Ma, a mia scusante, essendo la sottoscritta fuori di testa fin dalla nascita ed avendo nel DNA l incrocio di una napoletana e di un messicano, i miei tempi sono particolarmente relativi! Grazie anche a tutti gli impavidi rotariani che sono arrivati fin qui a leggermi, pur sapendo d averli sulla coscienza, oltre che nel cuore. Ed ora, permettetemi di dedicare un pensiero alla nostra carissima amica che ha intrapreso un viaggio prima di noi. Le voglio regalare il mio sorriso, che è quello che mi ha lasciato dentro in modo indelebile. Ti vedo ancora nel nostro viaggio a Sorrento, invidiandoti l eleganza, la semplicità, la spontaneità, la gioia che avevi in quella piccola trolley, mentre il mio Carlétto trascinava due ingombranti valigie colme delle mie fragilità. Ciao, Maria Elvira!

Riunione del 1 febbraio 2012 Presiede: Mario Viano Presenti: Michele Bellin, Pier Lorenzo Benedetti, Marco Bonini, Carlo Camisetti, Roberto Firpo, Edmondo Fresia, Francesca Gazzano, Enrico Gotelli, Giovanni Grimaldi, Carlo Iachino, Lorenzo La Terra, Andrea Lovisolo, Rosanna Muratori, Paola Piana, Antonella Ricci, Emma Tommaselli, Tiziana Traversa, Michele Troilo, Pietro Vassallo. Visitatori Rotariani: Dott. Paolo Lastrico (RC Alessandria, consorte di Tiziana Traversa). Ospiti dei soci: Dott. Gazzina Giorgio, Sig.ra Minetti Loredana, le Sigg.ra Clara Bellin, Mely Benedetti, Clara Bruni, Elda Camisetti, Daria Firpo, Franca Fresia, Patrizia Iachino, Lucia La Terra, Barbara Lovisolo, Ida Troilo, Antonella Vassallo, Gina Viano.